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lunedì 11 gennaio 2010

Berlino: per Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht

ieri, 10 gennaio 2010, cimitero di Friedrichsfelde, Berlino



per Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht


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vedi anche: Senza Soste
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martedì 22 settembre 2009

Tre giorni dedicati a Ivan Della Mea: Internazionale del canto sociale II (BO, 25-27 settembre '09)



L'HARD CORO DE’ MARCHI/SCUOLA POPOLARE DI MUSICA IVAN ILLICH
in collaborazione con
ASS. PRIMO MORONI e
CIRCOLO ANARCHICO CAMILLO BERNERI
presentano:
Internazionale del canto sociale
II edizione
Tre giorni dedicati a Ivan Della Mea


Venerdì 25, ore 20,00
C/O Scuola di musica popolare Ivan Illic - via Giuriolo 7 , Bologna

Proiezione de
"I DISCHI DEL SOLE" documentario di Luca Pastore (2004)
a seguire musica e parole per ricordare Ivan Della Mea con:
PAOLO CIARCHI (musicista)
STEFANO ARRIGHETTI (presidente dell'istituto E. de Martino),
CLAUDIO CORMIO (musicista/videomaker)
CANZONIERE BRESCIANO e altri.


Sabato 26 dalle 18 in poi
C/O Scuola di musica popolare Ivan Illic - Bologna
“LA PICCOLA RAGIONE D’ALLEGRIA”
grande festa conviviale nel parco con i cori:
SI BÉMOLE ET 14 DEMIS
LA BARRICADE
COULOR DE MAI (Marsiglia)
CORO DOMINGUERO "QUE NOS QUITEN LO CANTAO"
LE VOCI DI MEZZO
CANZONIERE BRESCIANO
CORO DI MICENE
LE CENCE ALLEGRE
CANTATORRI DI CASELLINA
HARD CORO DE’ MARCHI


DOM 27 dalle 15,00
C/O La Casona - Ponticelli di Malalbergo
“IL CANTO DEL LAVORO”
con:
CORO DEI MINATORI DEL MONTE AMIATA
MONDINE DI BENTIVOGLIO
MONDINE DI PORPORANA
LEGA DELLA CULTURA DI PIADENA



Info: segreteria scuola di musica popolare Ivan Illich
051.357753 (dalle 17,30 alle 20,30) • info@spmii.it


_______________________________Post correlati:
Ivan Della Mea
L'Internazionale di Franco Fortini

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giovedì 3 settembre 2009

Egidio Monferdin, il sorriso tenace della rivolta di classe


Il primo settembre Egidio Monferdin ci ha lasciati. È morto a Bologna, circondato dall’amore di Monica e dall’affetto di molte compagne e di molti compagni. Era nato in Istria nel 1946. Poco dopo la sua nascita, la sua famiglia si ritrovò esule in campo profughi nei pressi di Cremona. E a Cremona frequentò l’alta e informale scuola politica di Danilo Montaldi, dal cui metodo di lavoro imparò la straordinaria arte di ascoltare quelle che allora si chiamavano le classi subalterne.


Iscritto alla facoltà di medicina a Padova, si mise in contatto con Potere operaio, di cui divenne militante. Dopo la crisi di Potere operai, verso la metà degli anni ’70 fu attivo nell’Assemblea autonoma di Porto Marghera e nel giornale operaio «Lavoro Zero». Intanto, a Mestre, dedicava molto del suo tempo al centro di sostegno per adolescenti mentalmente disturbati, nonostante il magro salario. Erano gli anni in cui più si concedeva un po’ di tempo per le immersioni in apnea, sovente spinte al limite della temerarietà, nel suo mare Adriatico.


Arrestato il 21 dicembre 1979 nell’ambito dell’inchiesta 7 aprile, ha trascorso più di 7 anni in varie carceri della Penisola, pagando di persona la rivolta politica di una generazione e di una classe: in prigione però economizza l’investimento nella propria difesa legale per cercare di aiutare i comuni nella loro pratiche legali e nel loro desiderio di leggere e di apprendere.


Stabilitosi a Bologna verso la metà degli anni ’90, Egidio vive la nuova e ricca stagione che inizia con la campagna No-Ocse e la «Libera Università Contropiani». Attraversa per intero il momento tumultuoso che si inaugura a Genova nel 2001 impegnandosi nel Bologna Social Forum e nello spazio pubblico di XM24 e, fino a oggi, nella militanza nel Coordinamento Migranti Bologna. Lavora però anche allo sviluppo della tipografia interna al carcere della Dozza: un progetto che parla di libertà e si chiama «Il profumo delle parole». In questo decennio Egidio mostra, ancora una volta, una chiara intelligenza dei cambiamenti e delle occasioni che il movimento offre, ma anche una notevole tensione critica verso i limiti che maturano. È stato fino in fondo convinto della novità politica rappresentata dai migranti in Italia e in Europa. Centinaia di migranti l’hanno conosciuto nelle assemblee e nelle riunioni, l’hanno ascoltato, hanno discusso con lui, hanno condiviso con lui il lavoro di organizzazione di un movimento autonomo dei migranti.


Riservato e composto, Egidio Monferdin possedeva una calma suprema nelle situazioni difficili. Forse era questa la dote che molti gli invidiavano e che gli ha permesso di affrontare, sullo sfondo di un sorriso, brevi attimi fulminanti e lunghe riunioni complicate. Questo oggi ci resta di Egidio. Questo già ci manca di lui: la capacità di esserci sempre e al presente, senza nostalgie e senza retorica.


L’appuntamento per dare l’ultimo saluto a Egidio è oggi alle 12,30 alla camera mortuaria dell’ospedale Malpighi (via Pizzardi 1) e alle 14,45 davanti all’entrata principale del Cimitero della Certosa di Bologna.


Ferruccio Gambino

e Maurizio Bergamaschi

in il manifesto, 3 settembre 2009


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[immagine da: Coordinamento migranti Bologna]

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martedì 14 luglio 2009

Leo Ferré: L'affiche rouge


Leo Ferré

24 agosto 1916 - 14 luglio 1993

L'affiche rouge
testo di Louis Aragon




Vous n'aviez réclamé la gloire ni les larmes
Ni l'orgue ni la prière aux agonisants.
Onze ans déjà que cela passe vite onze ans
Vous vous étiez servi simplement de vos armes
La mort n'éblouit pas les yeux des Partisans

Vous aviez vos portraits sur les murs de nos villes
Noirs de barbe et de nuit hirsutes menaçants
L'affiche qui semblait une tache de sang
Parce qu'à prononcer vos noms sont difficiles
Y cherchait un effet de peur sur les passants
Nul ne semblait vous voir Français de préférence
Les gens allaient sans yeux pour vous le jour durant
Mais à l'heure du couvre-feu des doigts errants
Avaient écrit sous vos photos MORTS POUR LA FRANCE
Et les mornes matins en étaient différents
Tout avait la couleur uniforme du givre
A la fin février pour vos derniers moments
Et c'est alors que l'un de vous dit calmement
Bonheur à tous Bonheur à ceux qui vont survivre
Je meurs sans haine en moi pour le peuple allemand
Adieu la peine et le plaisir Adieu les roses,
Adieu la vie adieu la lumière et le vent
Marie-toi sois heureuse et pense à moi souvent
Toi qui va demeurer dans la beauté des choses
Quand tout sera fini plus tard en Erivan
Un grand soleil d'hiver éclaire la colline
Que la nature est belle et que le coeur me fend
La justice viendra sur nos pas triomphants
Ma Mélinée ô mon amour mon orpheline
Et je te dis de vivre et d'avoir un enfant
Ils étaient vingt et trois quand les fusils fleurirent
Vingt et trois qui donnaient leur coeur avant le temps
Vingt et trois étrangers et nos frères pourtant
Vingt et trois amoureux de vivre à en mourir
Vingt et trois qui criaient La France en s'abattant

 
Louis Aragon, Le Roman Inachevé, Gallimard, Paris 1955
Musique de Léo Ferré, 1959

martedì 16 giugno 2009

Ivan Della Mea

non è un'Internazionale
che si presta
a essere cantata in coro

è
un'Internazionale
che
rimanda
a tutto un processo
di riflessione
di presa di coscienza

è
l'espressione
di una soggettività
fortemente antagonista
ma che
ne deve fare ancora
per diventare
un fatto collettivo


Ivan Della Mea







martedì 12 maggio 2009

Ricordando Giuseppe Pinelli

-


Edgar Lee Masters:
Carl Hamblin



The press of the Spoon River «Clarion» was wrecked,
And I was tarred and feathered,
For publishing this on the day the Anarchists

were hanged in Chicago:



«I saw a beautiful woman with bandaged eyes
Standing on the steps of a marble temple.
Great multitudes passed in front of her,
Lifting their faces to her imploringly.
In her left hand she held a sword.
She was brandishing the sword,
Sometimes striking a child, again a laborer,
Again a slinking woman, again a lunatic.
In her right hand she held a scale;
Into the scale pieces of gold were tossed
By those who dodged the strokes of the sword.
A man in a black gown read from a manuscript:
"She is no respecter of persons."
Then a youth wearing a red cap
Leaped to her side and snatched away the bandage.
And lo, the lashes had been eaten away
From the oozy eye-lids;
The eye-balls were seared with a milky mucus;
The madness of a dying soul
Was written on her face -
But the multitude saw why she wore the bandage.»
 
Edgar Lee Masters (1868–1950), Spoon River Anthology






trad it. Fernanda Pivano, Antologia di Spoon River,

Einaudi, Torino, 1943,1947, 1971, 1993 … 
 
La macchina del «Clarion» di Spoon River venne distrutta,
e io incatramato e impiumato,
per aver pubblicato questo, il giorno che gli Anarchici

furono impiccati a Chicago:


«Io vidi una donna bellissima, con gli occhi bendati
ritta sui gradini di un tempio marmoreo.
Una gran folla le passava dinanzi,
alzando al suo volto il volto implorante.
Nella sinistra impugnava una spada.
Brandiva questa spada,
colpendo ora un bimbo, ora un operaio,
ora una donna che tentava ritrarsi, ora un folle.
Nella destra teneva una bilancia;
nella bilancia venivano gettate monete d’oro
da coloro che schivavano i colpi di spada.
Un uomo in toga nera lesse da un manoscritto: 
“Non guarda in faccia a nessuno”.
Poi un giovane col berretto rosso
balzò al suo fianco e le strappò la benda.
Ed ecco, le ciglia eran tutte corrose
sulle palpebre marce;
le pupille bruciate da un muco latteo;
la follia di un'anima morente
le era scritta sul volto.

Ma la folla vide perché portava la benda.»


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lunedì 11 maggio 2009

"in un mondo di luci sentirsi nessuno" (Luigi Tenco)


Luigi Tenco
Ciao amore ciao
1967



La solita strada, bianca come il sale
il grano da crescere, i campi da arare.
Guardare ogni giorno
se piove o c'è il sole,
per saper se domani
si vive o si muore
e un bel giorno dire basta e andare via.
Ciao amore,
ciao amore, ciao amore ciao.
Ciao amore,
ciao amore, ciao amore ciao.
Andare via lontano
a cercare un altro mondo
dire addio al cortile,
andarsene sognando.
E poi mille strade grigie come il fumo
in un mondo di luci sentirsi nessuno.

martedì 10 marzo 2009

Immagine e città. Conversazione con Roberto Dionigi (1984)


In questi giorni, il tema del provincialismo di Bologna è nuovamente riaffiorato nelle cronache locali *.
Ed è stato per me inevitabile riandare con la mente ad una conversazione dell’84 con Roberto Dionigi **.

È all’inizio degli anni Ottanta che Roberto Dionigi – oggi (ri)conosciuto come filosofo, o autore filosofico,ben più ampiamente di quanto non lo sia stato in vita – ha iniziato ad essere per me un pensatore rilevante, in seguito all’uscita di un suo «piccolo» e denso libro di lunga e laboriosa gestazione: Il doppio cervello di Nietzsche, pubblicato a Bologna da Cappelli Editore, nel 1982.
Proprio in quegli anni, (a distanza ravvicinata, ma comunque ormai inesorabilmente a distanza, dal ’77) sorse la proposta di un periodico cittadino, tra politica, culture e informazione, un po’ alla ricerca e all’esplorazione di un qualche possibile «dopo». Nella primavera dell’84, nacque Metro’ (sottotitolo: «quindicinale di informazione e spettacolo»).
Come contributo al primo numero, avevo pensato ad una sorta di intervista o colloquio con Roberto Dionigi, il quale accettò, anticipando francamente che, piuttosto che una discussione di «filosofia», avrebbe preferito sviluppare qualche considerazione sul rapporto tra la città e la sua immagine, con particolare riferimento al tema del supposto «provincialismo» di Bologna, che imperversava nelle cronache locali.
Così, frustrando apparentemente il mio interesse per la sua attività filosofica, Dionigi mi (ci) affidò queste sue «considerazioni inattuali» – alle quali rispose, fin troppo prevedibilmente, l’assordante silenzio dei media locali.
Nel ritrovare e riproporre quelle considerazioni, mi limito ad osservare che quel gesto non era altro che una forma di attività filosofica, che spingeva la filosofia oltre il circolo dell’interpretazione interna, in contatto con la non filosofia, nell’esercizio di un’interrogazione critica del presente, capace di misurarsi con la molteplicità e la specificità irriducibile dei giochi linguistici, che fanno parte determinate forme di vita [Wittgenstein, Ricerche filosofiche].
E di esporsi al rischio [Il doppio cervello di Nietzsche] di una presa di posizione.


***

Immagine e città
Conversazione con
Roberto Dionigi
[1984]


Le pagine locali dei quotidiani hanno dedicato ampio spazio alla discussione a proposito (e a sproposito) della «provincialità» e della «decadenza» di Bologna. Vorrei proporti di partire da qui, per arrivare – spero – altrove.

C’è un senso comune, questo della provincialità di Bologna, che poi ha tante varianti. Si dice, che so io: «Bologna è la città del consumo culturale e non della produzione culturale». Oppure ci sono quelli che dicono: «Ah! Com’era bella la Bologna di Dozza! ah, quella sì che era una vera Bologna, poi è decaduta». Bene, su questo, proprio, io credo il contrario: che definire provinciale una città significa affermare una relazione tra com’è una città e come s’immagina che altre siano; senza però mai definire come è prodotta la differenza dalle altre città rispetto a quella di cui si parla.
Io credo che, invece, se c’è qualcosa di provinciale, come dire, la ragione del provincialismo di Bologna, è fondamentalmente il provincialismo di coloro che ne parlano. Che non è il provincialismo dei suoi abitanti. E allora dov’è, per me, l’anima, il cuore, il segreto di questo «provincialismo»? È un curioso patto, o una verità giudicata di senso comune, io la chiamo di senso volgare, che questa città è rilevante solo se politicamente rilevante. Politicamente in senso stretto, in quello, cioè, del teatro del politico. E del suo complemento – come diremmo in logica – che in questo caso è «ciò che non è politico». Ma che cos’è il «non politico» in questo quadro provinciale? Il divertissement, cioè il folklore, ciò che comunque garantisce breve durata.


Qualcosa come l’effimero.

Sì, ma un effimero di povera lega. Non è l’effimero che viene prodotto, ma, prima ancora che si produca qualcosa di effimero, c’è uno schema di interpretazione per cui si tollera ciò che non è politico solo se, diciamo così, dà garanzie di durare abbastanza poco. Perché si ritiene che il quadro normale – e questo è il provincialismo di coloro che rappresentano la città – sia un quadro che, in fondo, ruota attorno al palazzo del governo. Con una presentazione in questo senso piatta, fino ad arrivare a dei momenti di non-informazione di ciò che accade. Perché viene giudicata irrilevante una cosa («tanto domani non c’è»), per cui: o ne parlo perché ho la certezza che domani non ci sia, o non ne parlo perché tanto so che domani non c’è più. In entrambi i casi s’è un’aspettativa di effimero, e non è altro che la riproduzione del volto politico di Bologna, il cuore di quello che viene chiamato il suo provincialismo. Ma questa non è la realtà di Bologna, questo è il modo dominante delle letture della realtà di Bologna.


Il che, se vogliamo, sottende un’idea del «politico» non solo stretta, ma addirittura legata a quadretti umanistici (la figura epica del sindaco) e a un’idea dell’amministrazione politica, e del suo contesto di problemi, come centro e rappresentazione della vita e della cultura della città. Quasi che la città potesse essere «compresa» nel suo politico, inteso in termini classici.

Forse. Non lo so. È un giudizio molto duro. Mi auguro che qualcuno non la pensi così, anche se sicuramente qualcuno la pensa così come tu dici, su questo non v’è dubbio.
Ma proprio, direi, in tono leggermente diverso dal tuo, che è non accettare che ciò che non è politico rappresenti la città. Ma soprattutto, cosa ancor più grave, è che il non politico non viene assunto come rappresentativo in senso forte della realtà di una città. Mi riferisco a quel «non politico» di cui dicevo prima, che non è divertimento, che non è il folklore, le salsicce in piazza…


Tutto ciò, in qualche modo, produce la provincialità di Bologna, in quanto disincentiva tutte le iniziative che tendono ad uscire da questo quadro, o quadretto.

È evidente. C’è un rapporto tra il reale e la sua produzione di immagine. Cioè chi dice «Bologna è provinciale» è un riproduttore del suo provincialismo, e al tempo stesso non prende in considerazione quanto questo sia un suo giudizio. E non una descrizione dei fatti.
Non voglio dire con questo che ogni cosa che accade a Bologna deve essere parlata, ci sono cose che servono solo per farsi compagnia, per carità! Però manca questo principio di attenzione a promuovere ciò che si produce, assumendosi il rischio di appoggiare un’iniziativa, e quanto meno una consapevolezza che, se non ne parli, ti assumi anche tu la tua responsabilità di occultare e di tacere. Ciò che non trovo più è il senso di questo giudizio che mi sembra venir meno ormai nei mass media, per cui non si parla più di niente, direi quasi, e non trovo più questa relazione all’interno della notizia che non sia la relazione della notizia politica o, ripeto, di vago folklore; di sociologismo da quattro soldi, di fesserie descrittive e consolatorie, per cui uno si rilegge sul giornale.


Credo che sia importante riferirsi anche alla tua esperienza diretta, come organizzatore del convegno «Teoria dei sistemi e razionalità sociale», convegno che è entrato nel circuito dell’informazione, ma in modo, a mio avviso, alquanto riduttivo.

Era stato un convegno non banale, sia per i temi che trattava; sia per le intelligenze, nazionali e non, che vi partecipavano. La stessa produzione del convegno era interessante: due dipartimenti universitari che vanno a un rapporto con l’ente locale, questo almeno poteva avere un interesse anche per chi è orientato verso la «politica». Ebbene, questo convegno si è trovato non solo al di sotto di un’informazione culturale competente, ma anche al di sotto della semplice informazione «di servizio», cioè della semplice comunicazione della «scaletta» degli interventi, con nomi, date, orari, argomento delle singole relazioni. A questo convegno è stato dato un minor rilievo di quanto non ne avrebbe avuto un torneo di briscola in una Casa del Popolo.


Più in generale esiste un problema di moduli della comunicazione, di un linguaggio che, anche quando parla di qualcosa che folklore non è, ne parla come se fosse folklore, banalizzandolo, appiattendone la radicalità.

Su questo sono, almeno nei miei termini, d’accordo. C’è una perdita della molteplicità di criteri della rilevanza di ciò che accade. Ciò che sento che manca, che mi piacerebbe chiamare con questa parola «borghese», è un rispetto per il rischio che l’altro corre quando fa qualcosa. Rispetto non vuol dire condividere, ma – relativamente all’ambito di volta in volta diverso in cui qualcosa accade – misurarsi con il rischio di quel gesto, per promuoverlo o anche per aggredirlo. Certo, sono d’accordo con te, non per trattarlo con sufficienza o con bonomia, o per appiattirne la sua stessa capacità d’urto. Ma questo forse è chiedere troppo. Ma comunque c’è un dato di fondo: che c’è qualcosa che precede il consenso e il dissenso, vecchi valori: è questa forma di rispetto che non soffoca il rischio di ciò che l’altro fa a partire dal fatto che l’ambito in cui questo accade viene giudicato «banale». Io parto dall’idea che non vi sono ambiti di vita «banali». Non vi è nessuna forma di vita banale.

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NOTE


  - Il tema del provincialismo di Bologna è riemerso con l’intervista a Fausto Anderlini: «Alla scoperta di “Bolokistan” dove i partiti si autodissolvono», il Bologna, 6 marzo 2009, p. 27.
[*]- Su Roberto Dionigi e le sue opere vedi Quodlibet.

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«Immagine e città. Conversazione con Roberto Dionigi», a cura di Rudy M. Leonelli, in Metro’, anno I, n. 1, 3 febbraio 1984.

martedì 27 gennaio 2009

À la mémoire de Desnos


Alena Kaluskova Tesarova:

À la mémoire de Desnos
Alla memoria di Desnos

Terezin è uno dei nomi che nessuno, nel nostro paese, saprebbe pronunciare con indifferenza. Durante l’Occupazione, la Gestapo, che affollava ancora troppo le prigioni della capitale, aveva fatto della fortezza una prigione, mentre la città veniva trasformata in ghetto. E migliaia di esseri umani continuavano il loro viaggio verso i tribunali del Reich, verso i campi di concentramento o, più semplicemente, verso la morte se un prode nazi aveva voglia di provare la sua giberna nuova. Verso la fine della guerra, man mano che avanzava il fronte occidentale, lunghe file di prigionieri sfilavano in marce della morte verso le prigioni più a est e anche verso Terezin.
Robert Desnos era tra questi.

Dopo la Rivoluzione di maggio, la città e la fortezza furono trasformati in un immenso ospedale. In ciascuna delle sue baracche sud in cui lavoravo, c’arano quatto file di letti primitivi. All’inizio, il numero degli scheletri, vivi o morti, che combattevano o no contro il tifo, la dissenteria, la tubercolosi ed altre malattie oltrepassava il centinaio in ogni baracca. Si conversava in yiddish francese, polacco, ungherese, romeno, greco. Eravamo in numero insufficiente per apportare loro le nostre cure e il lavoro non era né semplice né facile. Arrivavamo a dimenticare che esisteva un’altra vita da quella fatta dei giorni e delle notti trascorsi al capezzale dei malati e di qualche ora di sonno su un materasso di carta. Il quattro giugno, verso le cinque del mattino, un nome mi catapultò nell’anteguerra: il mio collega che quella notte lavorava per la prima volta nella baracca vicina alla nostra, venne ad annunciarmi che esisteva, tra i malati, un certo Desnos. Quando gli chiedemmo se conosceva il poeta francese Robert Desnos, rispose: «Sì, sì! Robert Desnos, poeta francese, sono io!».

Robert Desnos era come gli altri, smagrito, sfinito, i grandi occhi languidi nelle orbite profondamente infossate, le mani, lunghe e belle, straniere, e già morte sulla coperta. Ma gli occhi brillavano d’altro che di febbre e la sua bocca stupita sorrideva, sorrideva…
Chiamava quest’alba grigiastra il suo «mattino più mattinale», esprimeva la sua gioia di sentire il mio francese non molto meraviglioso, e di smettere di essere un animale numerato per ridiventare il poeta Robert Desnos. Cosa tanto più curiosa in quanto accadeva in un paese straniero, in cui non pensava di incontrare lettori ed amici al di fuori del mondo letterario. Non si lamentava, chiedeva soltanto più da bere.

La conversazione volse alla letteratura, ci raccontava quel che sapeva dei suoi amici, ci interrogava sulla letteratura ceca e si divertiva a immaginare l’uomo e l’opera in base alle risonanze dei nomi dei nostri poeti. Dopo il suo ritorno in Francia, di cui non dubitava,voleva andare in campagna e compiere un lavoro piuttosto fisico. E non è che più tardi, «quando tutto quel che egli avrà visto e vissuto sarà ben maturo in lui», che avrebbe cominciato a considerare di iniziare a scrivere una nuova opera. Ma prima di tutto, bisognava vivere e ci prometteva di essere un altro Desnos «quando verremo a vederlo, un giorno». Del suo lavoro nella Resistenza, non ci parlò che una sola volta, ci confidò che i nazisti non erano venuti a sapere il suo più importante «crimine».

I giorni successivi, facemmo tutto quel che era in nostro potere per alleviare le sue sofferenze fisiche e morali. Cercammo di distrarlo: il più delle volte mi chiedeva di «raccontargli delle storie». E io rievocai i miei ricordi, inventai al bisogno, tentai di evocare un mondo di bellezza, dove è normale essere vivi oggi e domani, dove una parola, un’armonia, un colore possono diventare dei problemi importanti perché il vostro stomaco non vi costringe a pensare alla fame, il vostro dolore alle piaghe, il passo dei nazisti alla morte.
Ascoltava e sorrideva di tempo in tempo, voltava coraggiosamente, e con quella nobiltà che gli è peculiare, la schiena alla miseria. Si mostrava degno, fiero, grande.

Un giorno, gli portai una povera piccola rosa, unica testimonianza della bellezza che avevo potuto scoprire dietro il filo spinato. Amava quel fiore con tutta la sua speranza. Non voleva che la portassi via, benché essa l’indomani fosse avvizzita. Fu incenerita col suo corpo…
Perché tutto era vano. La dissenteria era troppo forte per il suo corpo stremato. Dopo una lunga agonia, l’alba dell’otto giugno sentiva l’ultimo battito del suo cuore.


In Signes du temps, n. 5, 1950. Rieditato in Robert Desnos, Œuvres, a cura di Mairie-Claire Dumas, Paris, Gallimard 1999
[traduzione italiana di Rudy M. Leonelli, per il giorno della memoria, 2009]

lunedì 12 gennaio 2009

Bertolt Brecht: A mia madre - Meiner Mutter




[A mia madre]


Quando non ci fu più, la misero nella terra.
Sopra di lei crescono i fiori, celiano le farfalle…
Lei era leggera, premeva la terra appena.
Quanto dolore ci volle per farla così leggera!




[Meiner Mutter]


Als sie nun aus war, ließ man in Erde sie
Blumen wachsen, Falter gaukeln darüber hin...
Sie, die Leichte, drückte die Erde kaum
Wieviel Schmerz brauchte es, bis sie so leicht ward!



[trad. it. di E. Castellani]

venerdì 16 maggio 2008

"Sappiamo ciò che non siamo, ciò che saremo dobbiamo inventarlo" - Verona 17 maggio


Comunicato dell'Assemblea aperta cittadina. Verona:


Si lotta e si crea anche per ricordare chi ci è stato affine.


Non ha importanza se Nicola si dichiarasse antifascista o meno.

In questi anni di ripensamenti e ricombinazioni
sociali, culturali, politiche, esistenziali,
abbiamo imparato a definirci
non per quello che siamo
ma per ciò che non siamo.

A differenza dei suoi assassini
Nicola non era nazista,
non era fascista,
non era razzista,
non era leghista,
non era un reazionario.

Sappiamo ciò che non siamo,
ciò che saremo dobbiamo inventarlo.

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Feedback: Kilombo, Wikio
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giovedì 15 novembre 2007

Onore alla memoria di Bartolo Nigrisoli. Un inedito di Enzo Biagi

PREMESSA: Questa mattina, in Piazza dell’Unità a Bologna, è stato commemorato il 63° anniversario della battaglia della Bolognina. Un’iniziativa vivificata, in particolare, dell’incontro tra un protagonista di quella battaglia, il partigiano Renato Romagnoli, “Italiano”, e studenti e insegnanti del quartiere Navile.
Nel corso del suo intervento, Armando Sarti, presidente dell’ANPI Bolognina, ha letto il testo che gli fu trasmesso da Enzo Biagi nel 2000, in risposta alla sua richiesta di scrivere un brano destinato a trasmettere la memoria storica agli studenti delle scuole bolognesi.
Ringrazio Armando Sarti per avermi autorizzato a pubblicare qui questincisivo testo di Biagi che, circolato sinora in fotocopie o in opuscoli a diffusione limitata, possiamo considerare inedito:

Tempo fa una vecchia lettera del giovane professor Norberto Bobbio al duce ha suscitato uno scambio di idee ed insulti. Una supplica giovanile, per poter sopravvivere. Poi una vita anche politicamente esemplare.
È vero che i nostri atti ci seguono, ma va detto che in quei tempi anche gli intellettuali, come scrisse Alvaro, indossavano una livrea.
Il duce allora non ha molti oppositori, quando, nel 1934, si vota, dieci milioni di schede sono a favore,e soltanto quindicimila le contrarie.
Quando, ai professori universitari, viene chiesto l’impegno di “formare cittadini operosi e devoti alla patria e al regime fascista” su milleduecentonovantacinque solo tredici rispondono di no.
Tra questi, Francesco Ruffini ed Edoardo Ruffini-Avondo, Giorgio Levi Dalla Vida, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Vito Volterra. Restano invece in cattedra Jemolo, Calogero, Calamandrei, Einaudi, De Ruggiero, Marchesi, Chabod, Omodeo, anche se quel gesto, come scrive A. Galante-Garrone, “fu sentito da loro come un cedimenti, un compromesso mortificante”.
Tra quelli che dissero “no” dunque, un grande chirurgo romagnolo, Nigrisoli, il cui nome tornò molti anni dopo nelle cronache, ahimè, giudiziarie, perché ebbe per protagonista di una vicenda amorosa un suo nipote, anche lui medico.
Nigrisoli, si direbbe oggi, era un laico, e diceva: “Se guariscono è merito del Signore, e se muoiono è colpa del professore”.
Quando decise di non consentire alle richieste del fascismo, e venne costretto a lasciare la cattedra e l’ospedale, decine di malati lo scongiurarono di operarli: lavorò giorno e notte.
Spesso non voleva compensi, e a un giovanotto, dimesso un giorno d’inverno, che doveva affrontare una lunga convalescenza, e non aveva il cappotto, diede il suo e alla madre dei soldi: “Ha bisogno di bistecche” disse.
È giusto onorare la sua memoria.
Enzo Biagi