sabato 27 gennaio 2007

Un revisionismo normale

Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo "come propriamente è stato". Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell'istante di un pericolo.
(Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia)

Premessa
 Il titolo di un libro di Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, non costituisce soltanto un'adeguata designazione dei negazionisti, araldi della "dottrina secondo la quale il genocidio praticato dalla Germania nazista nei confronti degli ebrei e degli zingari non è esistito, ma appartiene al mito, alla diceria, alla truffa"[1][1].   
Dice anche che la memoria può morire, e non di morte naturale.
Affrontare la questione della memoria a partire dalla sua estremità negativa, la cancellazione, può far emergere la sua materialità. Pensata a fronte della sua possibile sparizione, la memoria si rivela non come una sedimentazione continua, ma come una formazione storica; non una "facoltà" ma un'attività, non un patrimonio pacificamente ricevuto e posseduto ma un compito, un'arma e una posta in gioco.

1. Strategie
Nel composito schieramento revisionista, il negazionismo sembra occupare, a prima vista, una posizione marginale[2].
Focalizzando l'attenzione sul punto cruciale dello sterminio perpetrato dai nazionalsocialisti (e collaboratori) si distinguono due principali correnti: da un lato un revisionismo relativizzatore, accademicamente e mediaticamente presentabile e sovente - ma non senza contestazioni - accettato che, senza ricusare la realtà storica del genocidio, tende a eluderne o eliderne la specificità; dall'altro, il sedicente "revisionismo olocaustico", il negazionismo, più o meno emarginato, che fonda il suo carsico attivismo sull'obiettivo di "confutare" questa realtà.
Assunta in modo rigido - come disgiunzione assoluta di due sfere indipendenti, non comunicanti, reciprocamente estranee - questa distinzione diviene fuorviante, precludendo l'accesso alla dimensione strategica di questi fenomeni.
In un intervento sulla rivista fondata da Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir - «Les Temps Modernes», che mantiene alta e viva l'attenzione critica su questi problemi - Robert Redeker respinge
l'ingannevole distinzione tra revisionismo e negazionismo, essa non ha nessuna pertinenza, il fine perseguito in entrambi i casi si rivela lo stesso, andando il negazionismo direttamente allo scopo, mentre il revisionismo prende per raggiungerlo la via traversa e più paziente della minimizzazione. Il revisionismo in senso stretto, relativizzando ciò che dopo di lui il negazionismo verrà a cancellare, appare come una propedeutica del negazionismo. C'è coalescenza del revisionismo e del negazionismo.[3]
Dal fatto che il negazionismo non sia così isolato come potrebbe sembrare, o piacere, derivano alcune conseguenze. La prima è che la strategia del silenzio, l'idea che sia sufficiente e utile non parlarne, evitando di fornirgli una senz'altro immeritata pubblicità, è ormai da tempo, nella migliore delle ipotesi, una compensazione illusoria. La seconda è che l'analisi dei contesti e delle sinergie che presiedono al suo funzionamento e alla sua riproduzione diviene indispensabile. E urgente.
Natacha Michel sottolinea che il negazionismo non potrebbe incedere senza l'autorizzazione fornitagli da una varietà di revisionismi circostanti:

quello di Furet a proposito della rivoluzione francese, quello che procede alla criminalizzazione delle rivoluzioni del secolo, quello che destituisce il militante come soggetto a profitto della marionetta, quello che abbassa il repubblicanesimo anti-vichyista, ecc. La sola questione che pone il negazionismo è di sapere come è compatibile, rovinato ogni dispositivo di pensiero, e in una volontà di rifare la storia, con le categorie ambienti [4].[4]

In questa prospettiva, alcuni fenomeni altrimenti relegabili nella dimensione del bizzarro e dell'irrilevante divengono comprensibili e sensati. Per esempio il fatto che Ernst Nolte, qualche negazionista italiano ed altri inizino a convenire segnala il superamento di una soglia: dal concatenamento immanente dei discorsi "revisionisti relativizzatori" e negazionisti, sottolineato da Redeker, al coinvolgimento dei soggetti di discorso. [5][5].
Alla cerniera tra i fatti e la riflessione storico-politica si è situata una dimensione decisiva della filosofia contemporanea. È nel riferimento ai fatti, alla loro infima materialità, che Foucault individua il differenziale tra una critica improntata all'armonia prestabilita con le istituzioni e un'altra, più interessante e certo meno confortevole. La critica attiva dei revisionismi, che comporta la necessità di "abbassarsi" a registrare, tentare di decriptare e cartografare eventi non sempre grandi per risonanza e dimensioni , seguire i reticoli mobili e spesso sottili dei fatti (discorsivi e non), è destinata a urtare robusti e molteplici ostacoli. In una parola è scomoda. Essa porta così in rilievo l'esistenza di qualcosa come un interdetto ufficioso ma efficace, che getta una luce diversa sulle istituzioni, sul loro funzionamento e sui loro confini.
Un evento minore, incorporeo come un "convegno che avrebbe dovuto tenersi..."[6] [6] e al tempo stesso materiale come un testo che raccoglie relazioni non pronunciate, presuppone delle condizioni e comporta delle conseguenze.
Tra queste, la più importante è la rottura formale della separazione che sosteneva la legittimazione culturale del revisionismo relativizzatore di Nolte e il suo complemento: il posticcio alone "sovversivo" di cui si ammantava il negazionismo. Al definitivo eclissarsi di questa dicotomia, occorre ricordare che la sua presunta evidenza non è stata da tutti condivisa. Nel 1987, in pieno Historikerstreit[7],[7] Vidal-Naquet osservava con folgorante tempestività: "È grave vedere uno storico come Nolte utilizzare argomenti dell'arsenale revisionista. Come Rassinier, Faurisson o Kern" [8][8] La congiunzione tra i due filoni non è altro che il tardivo riconoscimento di una parentela più lontana: l'attenuazione del genocidio e la sua negazione occupano spazi diversi ma comunicanti e parzialmente sovrapposti.
A fronte della buona coscienza esterrefatta perché un professore emerito dell'Università di Berlino tesse l'elogio della scientificità dei metodi negazionisti, le Tesi di Benjamin balenano come un ricordo nell'istante di un pericolo:

lo stupore perché le cose che viviamo sono ancora possibili (...) è tutt'altro che filosofico. Non è l'inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l'idea di storia da cui proviene non sta più in piedi [9][9].

Uno rapido sguardo critico ad alcune delle motivazioni fornite da Nolte a sostegno della legittimazione dei negazionisti, esposte in un testo del 1993, Streitpunkte [10][10], permette di evidenziare alcune poste in  gioco decisive di questa operazione:

Nolte riduce polemicamente il rifiuto del dialogo coi negazionisti a una sola motivazione: il legame del negazionismo col "vecchio nazionalsocialismo" e col "neonazismo" (le eufemistiche virgolette su questi due termini sono dello stesso Nolte). Attraverso questa riduzione egli rimuove il nucleo della questione: un dibattito coi negazionisti presuppone che lo sterminio perpetrato per mezzo delle camere a gas venga fatto regredire dal piano della realtà storica a quello delle "opinioni" e delle "ipotesi". È l'inaccettabilità di questo presupposto a motivare l'inaccettabilità del dialogo, e proprio su questo punto Nolte è particolarmente minimizzatore.
L'immagine della collocazione politico-ideologica dei negazionisti fornita da Nolte non è altro che una sommaria riproduzione dell'immagine di sé fornita dalla propaganda negazionista. Non c'è, a questo livello, alcun distacco critico: nulla è detto dei rapporti tra "l'uomo di sinistra" Rassinier e i nazisti e fascisti europei, così come la connotazione dell'editrice negazionista Vieille Taupe è dedotta semplicisticamente dalla sua etichetta: "la vecchia talpa è la rivoluzione". Nolte non dice nulla della tortuosa (ma documentabile e documantata) storia di questa impresa "rivoluzionaria" che è giunta a partecipare ai meeting del partito di Le Pen, né dei legami della stessa con i neonazisti francesi. Limitandosi a decretare il carattere "scientifico" del negazionismo, Nolte separa artificiosamente in esso la propaganda dalla scienza, mentre non fa che riprodurre la propaganda stessa.
Nolte pretende così, in quanto storico, di sancire la scientificità di una "scienza" (qui, di una "scienza" che ha per oggetto la storia) senza porre il problema della capacità di questa "scienza" di pensare la propria storia: su questo piano, accuratamente evitato, il negazionismo è particolarmente vulnerabile, non potendo rendere conto della propria genesi e costituzione in termini altri dall'idealità.[11]

In un paese normale.
In Italia, nel corso di questo decennio fin de siècle, il negazionismo si trova ad operare in una situazione radicalmente mutata.
Nel dopoguerra la letteratura negazionista è restata a lungo un genere minore a circolazione ridotta, relegato ai ristretti circuiti dell'estrema destra, che hanno realizzato le prime traduzioni italiane delle opere del paradossale capostipite: il pacifista Paul Rassinier .
Soltanto all'inizio degli anni Ottanta, sulla scia del "caso Faurisson"[12] [11]che offre una inedita notorietà spettacolare alle "tesi" negazioniste, iniziano a comparire in Italia i primi articoli ed opuscoli prodotti in frange minori dell'estrema sinistra ispirate al bordighismo, ad alcune correnti libertarie e/o al situazionismo, ma scarsamente rappresentative di queste tendenze. Si tratta di un fenomeno confidenziale, che non riesce a coinvolgere in modo significativo l'estrema sinistra italiana.
Negli anni Novanta il "dibattito" culturale europeo è rapidamente saturato dai revisionismi circostanti e dalle culture ambienti che hanno come effetto collaterale il disserramento del negazionismo. Di più, come ogni altro paese storicamente (cor)responsabile dell'impresa genocida, l'Italia trascina e cerca di risolvere e finalmente archiviare specifici problemi di identità nazionale. Come sottolinea Lutz Klinkhammer:

in Italia negli ultimi anni è stata fortemente auspicata una 'conciliazione nazionale', considerata un elemento fondamentale per una società 'postfascista'. Il 'superamento' del passato fascista da parte di una presunta società postfascista presuppone però l'offuscamento dei lati negativi di questo passato [12].[13]

La "grande esigenza di sottoporre determinate interpretazioni della storia nazionale a un processo di armonizzazione", che comporta operazioni di "abbellimento" del passato[14] [13] costituisce l'indispensabile articolazione sul piano storiografico del progetto di costituzione di un paese normale. Questo slogan, che il pubblico italiano ha conosciuto come parola d'ordine della sinistra di governo, ha però a sua volta una storia. La genealogia delle procedure di pacificazione della storia conduce a ridimensionare drasticamente la presunzione di originalità della cultura politica italiana. Mark Terkessidis sottolinea che, già nel 1980, Armin Mohler, precursore della Neue Rechte, sosteneva la necessità per i tedeschi di "tornare a essere una nazione normale come le altre: una nazione indivisa, non solo fisicamente vitale, ma anche abbastanza armonica interiormente"[15]. L'obiettivo di divenire una "nazione normale", che istituisce un rapporto "armonico" col proprio passato, è da tempo una posta in gioco decisiva del revisionismo storico tedesco:

La storia non deve più essere oggetto di scontro, deve essere integrata come un elemento 'normale' all'interno della nazione e deve costituire una stabile "identità nazionale" [15].[16]

La sutura della memoria, chiudere le lacerazioni aperte e latenti nella storia moderna, e quelle più specifiche della "storia patria", è ormai divenuto, anche in Italia, un programma statale. La trasmissione del sapere - della storia, certo, ma non solo - è investita da questa operazione. Ma se le relazioni di potere e sapere non passano sopra, ma attraverso di noi, ad ogni snodo della trasmissione del sapere in cui (emittenti e/o riceventi) siamo collocati, esistono resistenze possibili.
Annunciata sul piano metapolico, la "trasgressione delle vecchie appartenenze", (destra/sinistra, fascismo/antifascismo, etc.), è rapidamente e prevedibilmente divenuta normativa e il negazionismo, che in questo campo ha svolto, fin dai tempi di Rassinier, un ruolo pionieristico, si trova nella paradossale posizione del creditore che può reclamare il legittimo pagamento di un debito.
Nel 1996 le cerimonie ufficiali dello Stato italiano giungono ad accomunare retrospettivamente coloro che - in onestà d'intenti - hanno sostenuto la macchina dello sterminio o l'hanno combattuta [16].[16].[ Lo stesso anno, in tutt'altra dimensione, il moto sinistrorso, che disloca le traduzioni italiane di Rassinier dalle storiche editrici di estrema destra alla nuova edizione "di sinistra", si compie giustificandosi con analogo argomento: l'ex deportato, legandosi a (vecchi e neo) fascisti e nazisti europei, non ha fatto altro che collaborare con onest'uomini di estrema destra (o, con eufemismo supplementare, reputati tali...[17.[16]).[18] Generalmente inosservata, la formazione di un luogo comune a due spazi distanti e distinti, il discorso ufficiale e al suo preteso "altro", è indice di una nuova egemonia che non è, semplicisticamente, il risultato della decisione sovrana delle "classi dominanti", ma l'effetto di una molteplicità di trasformazioni disperse che hanno reso normale il revisionismo.
Il negazionismo non si sostiene sulla "qualità" delle proprie tecniche di "confutazione" delle prove del genocidio, ma su quelle che poteremmo chiamare, con Wittgenstein, "somiglianze di famiglia":

Non posso caratterizzare queste somiglianze meglio che con l'espressione "somiglianze di famiglia"; infatti queste somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono e s'incrociano nello stesso modo: corporatura, tratti del volto, modo di camminate, temperamento, ecc. ecc. E dirò: i 'giochi' formano una famiglia [18].[19]
Il "gioco" negazionista non è identico a nessuno dei "giochi" revisionisti normalmente ammessi, ma condivide tratti, presupposti, gruppi di enunciati e segmenti di regole con ciascuno di essi. Probabilmente è qui la forza del moto che lo trasporta insensibilmente, ma inesorabilmente, dal regno dell'inaudito verso il mondo del già-sentito. Non è nella tecnica del discorso negazionista, ma nel vuoto di memoria che lo circonda, il "segreto" che rende possibile il prodigio di un iceberg rovesciato: la negazione in senso stretto è una punta sommersa, mentre la grande massa del corpus discorsivo è già fuori, nell'aria e nella luce del tempo.

Negazione, navigazione.
Il negazionismo naviga in rete. Diventa una nuova e imprevedibile forma di segreto pubblico.[16].[20].[19]
Il dosaggio di escursioni esplicite e forme di implicitazione ha, per questa impresa, carattere strutturale. Le iniziative editoriali che, oltre alle tradizionali collane di estrema destra, hanno visto sorgere un'editrice che affianca alla pubblicazione di testi di estrema sinistra una serie di opere negazioniste nate, letteralmente, a destra e a manca, sono circondate da una nebulosa di episodi "minori": dalla circolazione più o meno informale di testi anonimi o pseudonimi, a varie forme di "concessione", slittamento linguistico e concettuale, reperibili nei testi prodotti da diversi aggregati. Le forme allusive, fluide, intermittenti, costituiscono un indispensabile genere di accompagnamento. La moltitudine di episodi disparati è generalmente percepita come un ammasso di casi sconnessi: volta a volta si tratterebbe di un'eccezione irrilevante e priva di significato. A questa dislessia, si può opporre una prospettiva che veda il caso particolare come indice della tendenza, così "come il cader di una goccia rappresenta la direzione della pioggia"[23].[16].[21]
Lo scandalo non è una risposta adeguata, ma un effetto previsto, calcolato, reiterato. Come se la compiuta "violazione dei tabù" potesse ripetersi indefinitamente, monotona, petulante, trascinata in un attivismo inerte dal moto della propria inflazione: utopia realizzata del perpetuo lancio pubblicitario dello stesso prodotto.
Che il negazionismo, apparentemente così arcaico, navighi nel più avanzato universo telematico è un ultimo, estremo paradosso non solo di questa corrente, ma del nostro tempo.
Il problema non concerne semplicemente la possibilità di aggirare i divieti legali[21],[22] in Italia inesistenti, ma più radicalmente la logica del mezzo e la sua ideologia: la fruibilità di oggetti avulsi dalla loro storia, la circolazione di una massa di informazioni tutte egualmente raggiungibili e quindi difficilmente selezionabili, l'apologia della deregulation comunicativa: la possibilità di dire (e all'occorrenza negare) tutto e il contrario di tutto, di cui non si sospetta la stupefacente parentela con l'assoluta impossibilità di dire qualcosa, la "libera" fluttuazione e il collage arbitrario di enunciati privi di contesto. Emmanuel Chavaneau ha osservato come il negazionismo, adattandosi con facilità all'aria del tempo, possa partecipare a giusto titolo alla "hit parade della felicità in serie" accessibile a domicilio per mezzo di Internet, nella multiforme offerta di certezze a buon mercato [22].[23]
Un problema centrale è costituito dall'articolazione dei più banalizzati motivi anti-identitari con l'interazione telematica: la trionfale apologia di una "democrazia virtuale" basata sullo scambio di messaggi tra individui e gruppi che "indossano" identità fittizie e indefinitamente cangianti[23].[24] Come ha recentemente dimostrato l'eccellente libro di Nadine Fresco sul capostipite del negazionismo, già in Rassinier la "revisione" della storia è doppiata da una costante "autorevisione": Rassinier ha ininterrottamente modificato e falsificato la propria biografia politica, costruendo un personaggio fittizio ai fini di legittimare la falsificazione negazionista della storia[24].[25] Gli epigoni hanno non soltanto riprodotto questo procedimendo, tramandando in modo acritco la (auto)biografia fittizia del Maestro, ma ne hanno rilanciato i metodi, e non a caso hanno trovato nel carnevale virtuale delle identità fittizie un ambiente particolarmente adatto alla propagazione.
C'è materia sufficiente per leggere con rinnovata attenzione le Tesi di filosofia della storia: "Nulla ha corrotto la classe operaia tedesca come l'illusione di nuotare nella corrente. Lo sviluppo tecnico era la corrente in cui credeva di nuotare". È stata questa, secondo Benjamin, una delle cause dello sfacelo successivo.[25].
 [26]
Il dinamismo cosciente della storia

Il testo di Vladimir Jankélévitch appare al nuovo senso comune come il relitto di una bizzarra civiltà scomparsa:

Ma Auschwitz, ripetiamolo, non è argomento di discussione; Auschwitz esclude i dialoghi e le conversazioni letterarie; e la sola idea di confrontare il Pro e il Contro ha qui qualcosa di vergognoso e di derisorio; questo confronto è un'indecenza nei confronti dei suppliziati. Le "tavole rotonde", come si dice, sono fatte per i giochi ai quali si dedicano ogni estate i nostri brillanti conversatori durante le loro vacanze; ma i campi della morte sono incompatibili con questo genere di dibattiti e di cicalecci filosofici, Del resto il nazismo non è un'"opinione", e non dobbiamo prendere l'abitudine di discuterne con i suoi avvocati[27][26].

Quest'etica - che segnala l'esistenza di un limite all'indiscriminata proliferazione del "dialogo" - ci lascia responsabili della sua traduzione in un tempo che non è più quello della sua enunciazione. Nel 1974, Foucault, partecipando a una discussione critica della moda rétro, caratterizzata dal successo di film come Cognome e nome Lacombe Lucien, di Louis Malle,[28] aveva fatto alcune osservazioni importanti sulla memoria e sui conflitti che la investono:

È in atto un vero e proprio scontro. E qual è la posta in gioco? Ciò che si potrebbe chiamare grosso modo memoria popolare (...) La storia popolare era, fino ad un certo punto, più viva, più chiaramente formulata, ancora nel XIX secolo, in cui esisteva per esempio, tutta una tradizione di lotte che venivano riportate sia oralmente, sia con dei testi, delle canzoni, ecc. Dunque, una serie di meccanismi è stata messa in moto (la "letteratura popolare", la letteratura a buon mercato, ma anche l'insegnamento scolastico) per bloccare questo dinamismo della memoria popolare e si può dire che il successo dell'impresa sia stato relativamente grande (...) Ora, la letteratura a buon mercato non basta più. Ci sono dei mezzi molto più efficaci: la televisione e il cinema. E credo che fosse un modo di ricodificare la memoria popolare, che esiste, ma che non ha alcun mezzo per esprimersi. Allora, si mostra alla gente non quello che sono stati, ma quello che devono ricordare di essere stati. Poiché la memoria è comunque un grosso fattore di lotta (in effetti è proprio in una sorta di dinamismo cosciente della storia che le lotte si sviluppano) si tiene in pugno la memoria della gente, il suo dinamismo, e anche la sua esperienza, la conoscenza delle lotte precedenti. Bisogna non si sappia più cos'è la resistenza...[29][27].

Queste considerazioni, senza dubbio datate, si situano in un punto critico che partecipa di un processo più ampio e, a distanza di un quarto di secolo, hanno soltanto valore indicativo per una possibile analisi critica della cultura attualmente egemone. Ma assegnano alla memoria una valenza storica non contingente: la genealogia non è l'opposizione della storia alla memoria , ma l'accoppiamento delle conoscenze erudite e della memorie "locali" (estranee al sapere comune e al buon senso) delle lotte e dei luoghi "speciali" come il carcere, il manicomio ecc. La memoria non ha in questa prospettiva una funzione di pacificazione, ma di rottura: si insedia nella distanza e nel conflitto, riattivandoli.[30][28].
Nel caso estremo dei campi di sterminio non sorprende che il buon senso, per il quale il genocidio è "assurdo" e "incredibile", sia uno dei ritornelli argomentativi preferiti dalla pseudo (Nolte permettendo)-scienza negazionista nella sua guerra di annientamento della memoria dei deportati e della memoria storica.[31][31].
Dalla Scuola di Francoforte a Foucault e oltre, non senza considerevoli spostamenti e radicali riformulazioni, l'attività filosofica è stata sfigurata dallo sterminio. Il tracciato di "una filosofia presente, inquieta, mobile lungo tutta la sua linea di contatto con la non-filosofia",[32] l'ha incontrato come un luogo inevitabile, che le ha imposto un'inquietudine permanente.
In un tempo in cui "il razzismo non è in regressione, ma in progresso",[33][31] emerge da La volontà di sapere, come da una sorta di pagine postume pubblicate in vita, una linea di problematizzazione che conduce al modo in cui il mito nazista del sangue si è trasformato "nel più grande massacro di cui gli uomini possano, a tutt'oggi, avere memoria"[32].[34]  Da oltre mezzo secolo, la riflessione sulla storicità della ragione ha come condizione di esistenza e come problema irrinunciabile la memoria di questa lacerazione.
In questo spazio, i "problemi" che il negazionismo pretende di porre sono irricevibili. Esso può costituire un problema come oggetto, eventualmente come minaccia, non come interlocutore. Nessuna problematizzazione degna di questo nome può prendere sul serio la caricaturale deduzione "marxista" secondo la quale i campi di sterminio non possono essere esistiti in quanto non compatibili con le esigenze di sfruttamento capitalistico della forza-lavoro. Così come l'interpretazione del nazismo come irruzione metafisica del Male - che costituisce il bersaglio polemico (e il modello rovesciato) del negazionismo - ha molto a che vedere con il l'enorme lavoro storico e filosofico contemporaneo che non configura il nazismo come l'assolutamente Altro della nostra normalità. Strategicamente offensivo e tatticamente trasgressivo, il negazionismo è da questo punto di vista ideologicamente sedativo: la sua tendenza a eliminare o rendere evanescente la storia mira a ristabilire una pace terrificante laddove l'analisi delle forme storiche della razionalità moderna nei loro complessi rapporti con il razzismo e le sue trasformazioni hanno introdotto un'inesauribile tensione critica e autocritica nel nostro pensiero e nelle nostre pratiche.
Mantenere viva questa tensione non è mai semplicemente, questione di difesa della memoria, ma di una sua riattivazione. Non possiamo affermare  la consapevolezza critica del  passato senza turbare il presente.

rudy m. leonelli,
Un revisionsmo normale”
in Luca Verri (a c. d.),
Santarcangelo di Romagna,
Fara editore, 1999







NOTE:


[1]1. Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1993 (ed. or. 1987), p. 77.
[2]2. Per un primo e articolato orientamento bibliografico sulle differenti tendenze revisioniste e la relativa letteratura critica rinvio alla bibliografia essenziale curata da Cesare Bermani in appendice a C. Bermani, S. Corvisieri, C. Del Bello, S. Portelli, Guerra civile e stato. Per una revisione da sinistra, Roma, Odradek, 1998, pp. 82-100.
[3]3. R. Redeker, "La toile d'araignée du révisionnisme", «Les Temps Modernes», (1996) 589, p. 1.
[4]4. "Le négationnisme: histoire ou politique?", in N. Michel (a c. d.), S. Lindeperg, M. Chaillou, D. Daeninckx, P. Lartigue, J. C. Milner, S. Lazarius, F. Dominique, Ph. Beck, F. Regnault, N. Fresco, J.-P. Faye, M. Deguy, A. Badiou, Paroles à la bouche du présent,        Marseille, Al Dante, 1997, p. 10.
[5]5. Mi riferisco a F. Abbà, R. Gobbi, E. Nolte, F. Berardi (Bifo), F. Coppellotti, C, Saletta, Revisionismo e revisionismi, Genova, Graphos, 1996; presentato dall'editrice negazionista quale raccolta delle "relazioni di un convegno che si sarebbe dovuto svolgere a Trieste nei giorni 8 e 9 marzo 1996".
[6]6. Vedi nota precedente.
[7]7. I più importanti documenti della "disputa tra gli storici" (Historikerstreit) intorno al passato nazionalsocialista che, nel 1986-87, ha visto la contrapposizione all'offensiva da parte di storici revisionisti come Nolte, A. Hillgruber, K. Hildebrand, M. Srtürmer    da parte di J. Habermas e storici come M. Broszat e W. Mommsen, sono raccolti in traduzione italiana in G. E. Rusconi (a cura di), Germania: un passato che non passa. I crimini nazisti e l'identità tedesca, Torino, Einaudi, 1987. Per un resoconto critico è di particolare interesse A.-H. Wehler, Le mani sulla storia. Germania: riscrivere il passato?, trad. it. Firenze, Ponte alle Grazie, 1989.
[8]8. P. Vidal-Naquet,Gli assassini della memoria, cit., p. 122.
[9]9. W. Benjamin"Tesi di filosofia della storia", tr. it. in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1962 (ed or. 1955), p. 79.
[10]10. E. Nolte, Controversie. Nazionalsocialismo, bolscevismo, questione ebraica nella storia del Novecento, tr. it. parziale, Milano, Il Corbaccio, 1999.
[12]11. Per una cronologia del cosiddetto "affaire Faurisson", che ha portato alla ribalta l'ideologo negazionista a partire dalla pubblicazione del suo testo Le problème des chambres à gaz' ou 'La rumeur d'Auschwitz'" su «Le Monde» del 29.12 1978, p. 8
 1978, p. 8, vedi V. Pisanty, L'irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo, Milano, Bompiani, 1998, pp. 15-17.
[13]13. L. Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Roma, Donzelli, 1997, p. VII.
[14]14. Ivi, pp. VII-VIII.
[15]15. A. Mohler, Vergangenheitbewältigung, Krefeld, 1980, p. 88 ss., cit. in M. Terkessidis, Kuturkampf. L'Occidente e la Nuova Destra, tr. it., Milano, Marco  Tropea editore, 1996, p.149.
[16]16. M. Terkessidis, op. cit., p. 156.
[17]17. Cfr. C. Bermani, Il nemico interno. Guerra civile e lotta di classe in Italia (1943-1976), Roma, Odradek, 1997, pp. 74-80.
[18]18. Cfr. il mio "La fabbrica della negazione", art. cit.
[19]19. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, tr. it., Torino, Einaudi, 1974 (ed. or. 1953), § 67, p. 47.
[20]20. In un caso liminare ma sintomatico, all'inizio degli anni Novanta la propaganda negazionista ha rinnovato in ambito telematico la vecchia tattica degli pseudonimi, creando personaggi fittizi, in seguito dissimulati e qua e là riaffioranti tra le parodistiche notti e nebbie del no name. Cfr. R. Leonelli, L. Muscatello, V. Perilli, L. Tomasetta, "Negazionismo vituale: prove tecniche di trasmissione", altreragioni, (1998) 7, pp. 175-181.
[21]21. I. Nievo, Le confessioni d'un italiano, Milano, Mondadori, 1981, pp. 4-5.
[22]22. Questo aspetto importante, ma a mio avviso non esaustivo, è l'unico evidenziato nel breve paragrafo dedicato a "La propaganda su Internet" del libro di Valentina Pisanty, L'irritante questione delle camere a gas, cit., p. 23: "Il canale informatico si rivela un'ottima soluzione contro la censura che, in alcuni paesi europei, colpisce gli scritti dei negazionisti. Come si sa, infatti, lo spazio informatico è aperto a tutti e, anche se si decidesse di rifiutare l'accesso alla rete a un sito ritenuto ideologicamente pernicioso, esistono molti modi per aggirare il divieto".
[23]23. "L'illusion d'une vie sans histoire", in A. Bihr, G. Caldiron, E. Chavaneau, D. Daeninckx, G. Fontenis, V. Igounet, T. Maricourt, R. Martin, P, Piras, C. Terras, Ph. Videlier, Négationnistes: les chiffoniers de l'histroire, Villeurbanne - Paris, Golias -Syllepse, 1997, p. 210.
[24]24. Per una critica degli effetti di questa pratica e della sua ideologia nell'ambito della comunicazione politica vedi Thomás Maldonado, Critica della ragione informatica, Milano, Feltrinelli, 1998. Per una critica dei profeti dell'era digitale vedi anche F. Graziani, ""Virtuale e reale", «Altreragioni», (1998) 7, pp. 157-161.
[25] 25. N. Fresco, Fabrication d'un antisémite, Paris, Seuil, 1999.
[26] 26. W. Benjamin, "Tesi di filosofia della storia", cit., p.81.
[27] 27. V. Jankélévitch, Perdonare?, Firenze, La Giuntina, 1987 (ed. or. 1971), pp. 25-26.
[29] 28. "Anti-rétro Conversazione con Michel Foucault", trad. it., AAVV. Passato ridotto, a cura di G. Gori, Firenze, La casa Usher, 1982, p. 19.
[30] 29. Cfr. M. Foucault, "Corso del 7 gennaio 1976", in "Bisogna difendere la società", Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 11-25.
[31] 30. Non avendo interesse a replicare agli argomenti "tecnici" dei negazionisti, risparmio esempi che chiunque sia in grado di sopportarne la lettura può facilmente rinvenire nella prosa "scientifica" di questi esperti.
[32]31.  M. Foucault, L'ordine del discorso, tr. it., Milano, Feltrinelli, 1972, p. 57.
[33]32. E. Balibar, "Prefazione" a E. Balibar - I. Wallerstein, Razza nazione classe. Le identità ambigue, trad. it., Roma, Edizioni associate, 1990, p. 20.
[3433. M. Foucault, La volontà di sapere, tr. it., Milano, Feltrinelli, 1978, p. 133.