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domenica 9 febbraio 2014

Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno - di Étienne Balibar

Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno: che fare con la sesta tesi di Marx su Feuerbach?

marx-feuerbach
di ETIENNE BALIBAR


È in uscita per Mimesis “Il Transindividuale. Soggetti, relazioni, mutazioni”, una raccolta di studi sulla questione del transindividuale curata da Etienne Balibar e Vittorio Morfino. Qui, per gentile concessione dei curatori, anticipiamo lo stesso saggio di Balibar, in cui il filosofo francese conduce un’analisi particolareggiata del significato filosofico della Sesta Tesi di Marx su Feuerbach.

eterotopie-balibar-morfino-transindividualeLe Tesi su Feuerbach[1], un insieme di 11 aforismi a quanto pare non destinati alla pubblicazione in questa forma, sono state scritte da Marx nel corso del 1845 mentre stava lavorando al manoscritto dell’Ideologia tedesca, anch’esso non pubblicato. Sono state scoperte più tardi da Engels e da lui pubblicate con alcune correzioni (non tutte prive di significato), come appendice al suo pamphlet Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca (1886)[2]. Sono considerate largamente una delle formulazioni emblematiche della filosofia Occidentale, talvolta comparate con altri testi estremamente brevi ed enigmatici che combinano una ricchezza apparentemente inesauribile con uno stile enunciativo da manifesto, che annuncia un modo di pensare radicalmente nuovo come il Poema di Parmenide o il Trattato di Wittgenstein. Alcuni dei suoi celebri aforismi hanno guadagnato a posteriori lo stesso valore di un punto di svolta in filosofia (o, forse, nella nostra relazione con la filosofia) come, per esempio dei già citati Parmenide e Wittgenstein rispettivamente: «tauton gar esti noein te kai einai »[3], «Worüber man nicht sprechen kann, darüber muss man schweigen»[4], ma anche lo spinoziano «ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum»[5] il kantiano «Gedanken ohne Inhalt sind leer, Anschauungen ohne Begriffe sind blind»[6] etc.
In tali condizioni è ovviamente allo stesso tempo estremamente allettante e imprudente avventurarsi in un nuovo commento. Ma è anche inevitabile far ritorno alla lettera delle Tesi, esaminando la nostra comprensione della loro terminologia e proposizioni, nel momento in cui decidiamo di valutare il posto occupato da Marx (e di una interpretazione di Marx) nei nostri dibattiti contemporanei. È ciò che vorrei fare ­­­– almeno in parte – in questo testo, con riferimento ad una discussione in corso sul significato e gli usi della categoria di ‘relation’ e ‘relationship’ (entrambi possibili equivalenti del tedesco Verhältnis), le cui implicazioni vanno dalla logica all’etica, ma in particolare implicano una sottile – forse decisiva – sfumatura che separa un’‘antropologia filosofica’ da un’‘ontologia sociale’ (o, una ontologia dell’‘essere sociale’, come Lukács, tra altri, direbbe). Questo scopo conduce in modo del tutto naturale a sottolineare l’importanza della Tesi 6, che recita (nella versione originale di Marx):
Feuerbach löst das religiöse Wesen in das menschliche Wesen auf. Aber das menschliche Wesen ist kein dem einzelnen Individuum inwohnendes Abstraktum. In seiner Wirklichkeit ist es das ensemble der gesellschaftlichen Verhältnisse.
Feuerbach, der auf die Kritik dieses wirklichen Wesens nicht eingeht, ist daher gezwungen: 1. von dem geschichtlichen Verlauf zu abstrahieren und das religiöse Gemüt für sich zu fixieren, und ein abstrakt – isoliert – menschliches Individuum vorauszusetzen. 2. Das Wesen kann daher nur als ‘Gattung’, als innere, stumme, die vielen Individuen natürlich verbindende Allgemeinheit gefaßt werden.
Ed ecco una traduzione italiana classica:
Feuerbach risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana. Ma l’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti sociali.
Feuerbach, che non penetra nella critica di questa essenza reale, è perciò costretto:
1.  Ad astrarre dal corso della storia, a fissare il sentimento religioso per sé, ed a presupporre un individuo umano astratto – isolato.
2.  L’essenza può dunque essere concepita soltanto come ‘genere’, cioè come universalità interna, muta, che leghi molti individui naturalmente.
Tra i molti commentari che sono stati dedicati a queste proposizioni (e in particolare alle prime tre proposizioni), selezionerei quelli di Ernst Bloch e Louis Althusser, che mettono in luce posizioni esattamente antitetiche[7]. Per Bloch, il cui commento dettagliato, parte del suo magnum opus Das Prinzip Hoffnung, fu pubblicato in un primo tempo separatamente nel 1953[8], le Tesi includono la piena costruzione del concetto di praxis rivoluzionaria, presentata come la parola d’ordine (Losungswort), che oltrepassa l’antitesi metafisica di ‘soggetto’ e ‘oggetto’, ‘pensiero filosofico’ e ‘azione politica’. Esse esprimo l’idea cruciale che la realtà (sociale) in quanto tale è ‘mutabile’ (veränderbar) poiché la sua nozione completa non indica solo situazioni date o relazioni derivanti da un processo compiuto (cioè il presente e il passato), ma implica anche sempre già l’oggettiva possibilità di un futuro o una novità (novum), cosa che né il materialismo classico né l’idealismo hanno mai ammesso. Per Althusser, che si sofferma sulle Tesi come un sintomo di una rivoluzione teorica (o ‘rottura epistemologica’) attraverso cui Marx avrebbe lasciato cadere una lettura umanistica, fondamentalmente feuerbachiana, del comunismo, per adottare una problematica scientifica (non-ideologica) delle relazioni sociali e delle lotte di classe come motore della storia, esse meritano una lettura (alquanto controintuitiva) che mostra le ‘nuove’ idee come forzatura di un vecchio linguaggio per esprimere (o piuttosto annunciare, anticipare) una teoria che, fondamentalmente, non ha precedenti, ma le cui implicazioni sono ancora a venire (l’esempio principale di questa ermeneutica di concetti forzati, internamente inadeguati, è la lettura althusseriana della praxis come nome filosofico di «un sistema articolato di pratiche sociali»). È interessante notare che sia il commentario di Bloch che quello di Althusser implicano una forte sottolineatura dello schema temporale di un ‘futuro’ oggettivamente incluso nel presente come una possibilità dirompente – con la differenza che per Bloch questo schema caratterizza la storia, mentre per Althusser caratterizza la teoria o il discorso[9]  ...
                          
                                                           ...Leggi tutto su «Il rasoio di Occam»

giovedì 14 novembre 2013

Metamorfosi di Marx (1994)






                                          Rudy M. Leonelli
 
        in altreragioni, n.3, 1994
        su:

Étienne Balibar,
 La philosophie de Marx
La Découverte, Paris 1993


Con questo “piccolo” libro, Étienne Balibar si propone di «comprendere e far comprendere perché si leggerà ancora Marx nel XXI secolo: non soltanto come un momento del passato, ma come un autore ancora attuale, per le questioni che pone alla filosofia e per i concetti che le propone» 1, e di fornire al contempo uno strumento per orientarsi nei testi di Marx e nei dibattiti che suscitano. La formulazione del primo (principale) obiettivo non è semplicemente un pronostico, ma un performativo, essendo l’eventuale sparizione di una teoria non «un destino, ma l’effetto di un rapporto di forze»2.
  «Molto nuova e così antica – scrive Derrida – la congiura sembra al tempo stesso potente e, come sempre, inquieta, fragile, angosciata. Il nemico da scongiurare (conjurer), per i congiurati (conjurés) si chiama certo il marxismo. Ma si ha ormai paura di non riconoscerlo più. Si trema di fronte all’ipotesi che grazie a una di queste metamorfosi di cui Marx ha tanto parlato (“metamorfosi” fu per tutta la sua vita una delle sue parole preferite) un nuovo “marxismo” non abbia più la figura sotto la quale sotto la quale ci si era abituati a identificarlo e a metterlo in rotta. Non si ha forse più paura dei marxisti, ma si ha paura di certi non-marxisti che non hanno rinunciato all’eredità di Marx, paura dei cripto-marxisti, degli pesudo- o dei para- marxisti che sarebbero pronti a dare il cambio sotto dei tratti o delle virgolette che gli esperti angosciati dell’anticomunismo non sono allenati a smascherare»3.
 Credo – è il compito che vorrei assegnate a queste note – che sia possibile rilevare l’apertura di un nuovo spazio per la filosofia: un rientro esplicito di Marx (in nessun caso un semplice “ritorno a”) che, fuori e contro la sempre più insicura “euforia trionfante” della democrazia liberale, permetterà di pensare altrimenti: il tempo, i conflitti, le possibilità di resistenza e di trasformazione. La scrittura dovrebbe, in questa congiuntura, avvicinarsi al movimento di un sismografo: registrare, con un tratto minimo, uno spostamento più grande. E segnare alcune rilevazioni provvisorie: i sintomi, ancora dispersi, delle modificazioni di territori non uniformi, ma interessati da un generale processo di cambiamento.
 Per Balibar, la chiusura del ciclo storico in cui il marxismo ha funzionato come dottrina d’organizzazione apre inedite possibilità di leggere Marx: «Liberati da un’impostura, guadagniamo un universo teorico» 4. La negazione dell’esistenza di una “dottrina” filosofica marxista non dissolve le determinazioni né sfocia su un pensiero “debole”; consente al contrario di delimitare i concetti, di sottolinearne le tensioni e gli spostamenti interni, di costruire un diagramma delle biforcazioni e delle “rettifiche”, dei possibili luoghi di dissidio e linee di fuga.: una prospettiva ai limiti del marxismo che cerca di cogliere, insieme, ciò che nel pensare – non solo “con”, ma anche eventualmente “contro” Marx – è ancora marxiano 5.
  Leggendo Marx nella congiuntura, notiamo che Marx stesso «ha scritto nella congiuntura»; i suoi concetti solo ad un tempo rigorosi e «incompatibili con la stabilità delle conclusioni». La possibilità di un approccio di questo tipo è evidentemente data dal fatto che nel marxismo, e in particolare nel marxismo degli anni Sessanta e Settanta, di sono prodotti avvenimenti, aperture, spostamenti che, retroagendo sui testi di Marx, hanno irreversibilmente modificato il modo in cui possiamo leggerli. C’è un rapporto forte tra questo Marx «filosofo dell’eterno ricominciamento» 6 e «una caratteristica significativa dei concetti “althusseriani”: questi concetti sono sempre già “autocritici”. Contengono sempre già un elemento di negazione che li mette in pericolo, che fa vacillare il loro senso nel momento stesso in cui pretendono al più grande rigore. Contengono dunque in anticipo, un elemento che si oppone al fatto che il loro uso, il loro sviluppo, sfoci nell’univocità di una teoria “infine trovata”. Sono così sin dalla loro origine, un modo discorsivo di porsi essi stessi in disequilibrio, di assicurarsi contro la sicurezza di una “tesi” nel momento in cui la si sostiene» 7. In modo più specifico: la precedente problematizzazione, da parte di Balibar, del concetto di rottura epistemologica in Althusser, tesa a sottolinearne il carattere di rottura continuata, al tempo stesso irreversibile e incompiuta 8, presiede direttamente a questo attraversamento della «totalità aperta» 9 degli scritti di Marx, come tracciato costellato da ripetute oscillazioni, punti di crisi, focolai di instabilità. Questo andamento sismico o scismatico della teoria non è semplicemente uno “svolgimento” interno ad essa, ma l’effetto della sua costante messa in tensione con altre pratiche, della sua “programmatica” implicazione in congiunture storiche.
  Quanto alla congiuntura attuale, – in cui il libro si iscrive – il marxismo «è oggi una filosofia improbabile. Ciò attiene al fatto che la filosofia di Marx è nel corso del lungo e difficile processo di separazione dal “marxismo storico”, che deve attraversare tutti gli ostacoli accumulati da un secolo di utilizzazione ideologica. Ora, non si tratta per essa di ritornare al suo punto di partenza, ma al contrario di imparare dalla sua propria storia e  di trasformarsi nel corso della traversata. Chi vuole filosofare oggi in Marx non viene soltanto dopo di lui, ma dopo il marxismo: non può accontentarsi di registrare la cesura provocata da Marx, ma deve anche riflettere sull’ambivalenza degli effetti che essa ha prodotto – sui suoi sostenitori come sui suoi avversari»10.
  Ma, se l’impossibilità di «funzionare come impresa di legittimazione» è indicata come «una condizione quanto meno negativa» della vitalità del marxismo, sarà la condizione positiva a decidere della rilevanza presente e a venire di Marx. Essa «dipende dalla parte che i concetti di Marx giocheranno nella critica di altre impresa di legittimazione»11.

giovedì 12 settembre 2013

Intervista ad Anselm Jappe: Che cosa rimane di Guy Debord



a cura di Riccardo Antonucci

A margine del convegno dal titolo “I situazionisti: teoria, arte e politica”, tenutosi all’Università di Roma 3 lo scorso 30 maggio, abbiamo intervistato Anselm Jappe, tra i relatori di questa giornata insieme, tra gli altri, a Mario Perniola (1). Si è parlato della recente mostra degli archivi Debord alla Bibliothèque Nationale de France e dell’attualità, o meglio della feconda inattualità, dell’opera del pensatore francese.



Dopo aver partecipato al collettivo tedesco Krisis, Anselm Jappe insegna attualmente estetica all’EHESS di Parigi, e all’Accademie d’Arte di Frosinone e di Tours. Ha studiato a fondo la corrente situazionista, ed è autore di numerosi articoli e volumi, in francese, tedesco e italiano, tra cui spiccano: Crédit à mort (Paris 2011), Contro il denaro (Milano 2012) e i due importanti volumi Guy Debord (Paris 2001, ried. Roma 2013) e L’avant garde inacceptable (Paris 2004).
La prima domanda è d’obbligo: non si può parlare di Guy Debord oggi senza menzionare la grande mostra a lui dedicata alla BNF (“Guy Debord, un art de la guerre”), in cui sono esposti i suoi archivi recentemente dichiarati “tesoro nazionale”. All’annuncio dell’evento, si è subito sviluppato un dibattito tra i lettori di Debord, divisi tra chi ha salutato positivamente la scelta e chi, invece, ha denunciato come reazionaria la scelta di mettere Debord “in mostra”, in contraddizione con il principio di marginalità dell’opera debordiana. Lei come si colloca rispetto a questo evento?


Anselm Jappe – Mi sembra una grande opportunità il fatto che gli archivi di Debord siano ora a disposizione del pubblico. Molto peggio se fossero stati dispersi tra diverse mani, o venduti a un collezionista privato: solo in questo modo si poteva garantire una reale disponibilità di questo fondo. Inoltre, penso sia un bene che lo Stato francese, invece di finanziare un altro carro armato, abbia usato i suoi soldi per acquisire questi archivi. Per questo mi risulta difficile comprendere il dibattito sulla cosiddetta récupération di Debord, dal momento che ormai oggi, a vent’anni dalla sua morte, egli è senz’altro diventato un classico, e sarebbe molto artificiale volerlo tenere ancora in una zona di marginalità. Quel che conta sono i contenuti della sua opera, non il modo in cui essa viene proposta.
Del resto, Debord stesso ha sempre ricordato quanto sia stato importante per lui, da giovane, leggere certi autori, come Baudelaire, Apollinaire o Lautréamont. Anche questi autori erano ormai dei classici, negli anni ’50. Non è certo questo statuto a impedire un eventuale effetto sovversivo di un’opera.
Quale interesse può avere la mostra alla BNF per un ricercatore o per lo studioso dell’opera di Debord? Si aprono nuove prospettive di studio o spunti per l’attualizzazione del suo pensiero?
A. J. –
La mostra offre molto materiale già noto, ma anche molte cose inedite e nuove per il ricercatore. Per esempio, una buona parte delle migliaia di schede di lettura di Debord, che ho consultato. Queste schede confermano, intanto, un dato già noto, e cioè che Debord fosse un accanito lettore, ma mostrano anche un vero e proprio lavoro certosino di ricopiatura di lunghi estratti dei libri letti, che francamente si ignorava. Inoltre, si possono trovare negli archivi molti cartoncini con note e osservazioni di vario tipo, dall’Internazionale Situazionista alla sua vita privata.
L’interesse principale per il ricercatore è senz’altro costituito da questa miriade di schede di lettura, in quanto esse permettono di sapere con certezza che cosa ha letto Debord e a che cosa si è interessato nei vari periodi della sua vita. A volte le schede sono commentate, soprattutto quelle stilate in vista della redazione de La società dello spettacolo, l’opera principale di Debord, uscita nel 1967. Per esempio, per me è stata una sorpresa scoprire che Debord lesse con molta attenzione Il dispotismo orientale di Karl August Wittfogel, sinologo e storico tedesco-americano. Su questo libro Debord aveva effettivamente scritto una breve nota di lettura nella rivista «Internationale Situationniste», ma soltanto leggendo le schede di lettura mi sono potuto rendere conto di quanto l’opera di Wittfogel abbia inciso nell’elaborazione del concetto di “spettacolo”. In particolare per quanto riguarda l’identificazione degli amministratori cibernetici e burocratici della società dello spettacolo con l’antica casta di ingegneri e preti che governavano l’Egitto e la Mesopotamia. E penso che ci saranno molte alte sorprese in questo archivio, di cui ho soltanto cominciato il lavoro di vagliatura.

lunedì 12 agosto 2013

della ripresa degli studi marxiani nel mondo

Una geografia cangiante per il filosofo di Treviri




RIVISTE · L'ultimo numero del Ponte dedicato alla ripresa degli studi marxiani nel mond


Da Pechino a Parigi, da Brasilia a Mosca. Una raccolta di saggi sul rinnovato interesse per Marx «Il Ponte», una delle poche riviste militanti ancora esistenti nel nostro paese, ha dato alle stampe un numero speciale dedicato all'attualità di Marx, curato da Roberto Fineschi, Tommaso Redolfi Riva e Giovanni Sgro'.
Karl Marx 2013 - questo il titolo della raccolta (Il Ponte editore, pp. 288, euro 20) - si segnala come uno strumento importantissimo per comprendere l'odierna ricezione del pensiero marxiano. Il volume restituisce una mappa orientativa del marxismo globale, ripartita per aree geografiche, alcune di queste sconosciute a gran parte del dibattito italiano: possiamo leggervi, a titolo d'esempio, una sintesi dello stato degli studi marxiani in Russia (a firma di Alekcandr V. Buzgalin e Andrei I. Kolganov), una ricognizione interessante delle posizioni in campo nel marxismo accademico in Cina e del loro rapporto con la politica governativa (redatta da Hu Daping), un resoconto della riflessione su Marx prodotta in Brasile (secondo l'ottica di Joao Quartim Moraes). Non mancano le ricostruzioni del marxismo occidentale, con analisi relative alla situazione del marxismo in Giappone, Francia, Germania, Inghilterra e Italia, scritte da Sergio Cámara Izquierdo e Abelardo Mariña Flres, Guglielmo Carchedi, Frank Engster e Jan Hoff, Stéphane Haber, Reyuji Sasaki e Kohei Saito, oltre che dai tre curatori.

Tutti gli scritti, come nota Fineschi nelle pagine introduttive, dimostrano un interesse vivo per l'opera di Marx, specie in un momento storico contrassegnato dalla crisi del capitalismo e dall'inasprirsi delle lotte sociali. Alcuni motivi della tradizione marxista sembrano aver ritrovato cittadinanza nel dibattito odierno. All'interesse specificamente culturale per Marx non sembra però, almeno per il momento, accompagnarsi «un uso più esplicitamente politico del suo pensiero». E, in effetti, rileggendo le diverse ricognizioni proposte dal volume, è facile constatare come i diversi marxismi in campo risentano - come è giusto che sia - della propria appartenenza nazionale, che ovviamente ha conformato, secondo limitati aspetti e interessi, il dibattito e la discussione. Così, pare evidente constatare che almeno nei paesi europei la riflessione resta in qualche modo bloccata sul doppio crinale, spesso non convergente, di una considerazione storicistica dell'esperienza teorica-politica di Marx e di un'analisi logico-categoriale dei concetti messi in campo dalla sua opera; oppure risulta ferma allo scontro tra un marxismo dialettico, dunque sensibile a una logica della continuità tra Hegel e Marx, e un marxismo di stampo postoperaista, legato in qualche modo alle esperienze filosofiche franco-italiane.

Diverso, forse, il caso di paesi come la Cina, dove il perenne confronto con l'ortodossia ideologica del Partito si accompagna a una curiosità evidente per le sorti del marxismo occidentale più recente, che produce di certo curiose sinergie e letture inaspettate (la piega ontologico-esistenziale di certo marxismo cinese, ad esempio). E tutto ciò si colloca - nota ancora Fineschi - in un quadro storico che non può tener conto di una novità rilevante per gli studi marxiani: la pubblicazione della nuova edizione storico-critica delle opere di Marx ed Engels, la cosiddetta seconda Mega , che ha, in alcuni casi, ribaltato molte delle acquisizioni consolidatesi in decenni di interpretazione e commento. Si pensi all'Ideologia tedesca - di cui, nel nostro poco informato paese, continuano a stamparsi edizioni «unitarie», anche di recente -, che «si è dimostrata non essere altro che una serie di articoli raccolti per un progetto di rivista poi mai realizzato e rimasti insieme, non una «opera».

La disomogeneità geografica delle ricezioni di Marx nel mondo riflette ovviamente la crisi del marxismo come strumento politico. Se ne restituisce la vitalità nei termini di approfondimento filologico e scientifico, il volume segnala però quest'inefficienza sul piano della pratica. C'è da chiedersi dunque se, in tempi di diffusione radicale della testualità e della cultura in tutti gli ambiti della realtà - con evidente svalutazione dell'una e dell'altra -, anche Marx e il marxismo siano diventati beni culturali da far rivivere solo nelle pagine di un'accademia separata dal mondo.

Esiste, forse, una deriva culturalista che rischia di rendere sterile il portato politico del marxismo, ed essa rappresenta una pericolosa forma d'integrazione nel sistema culturale del tardo capitalismo. È auspicabile, anche grazie ai nuovi strumenti bibliografici a nostra disposizione, che all'aggiornamento della teoria marxista si leghi un'autocoscienza critica della propria posizione e presenza nel mondo capitalistico: e ciò potrà essere possibile in un'ottica capace di tenere assieme le diverse realtà del marxismo, senza che queste si riducano a una sorta di corpo in frammenti incapace di ricostruire la sua originaria unità.
Marco Gatto, il manifesto, 10 agosto 2013  

lunedì 27 maggio 2013

I «Quaderni» al microscopio






L’opera di Gramsci all’esame dell’Istituto per il restauro

Al centro dell’indagine la questione della numerazione dei volumi e le incongruenze rilevate dagli storici


di Eleonora Lattanzi, l'Unità, 27.05.2013


 Il 13 maggio 2013 l’Istituto per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico e librario (Icprcpal) ha concluso le analisi svolte sui manoscritti di 4 dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. Le indagini, riguardanti i quaderni 12 (XXIX), D 13 (XXXI) e 29 (XXI), erano state richieste dalla Fondazione Istituto Gramsci nel luglio 2012 allo scopo di chiarire le incongruenze presenti nella numerazione data ai Quaderni dalla cognata Tatiana Schucht.
   In seguito alla morte del dirigente comunista nell’aprile del 1937, Tatiana, prima di inviare i quaderni a Mosca, li numerò apponendovi delle etichette. Non tutti i quaderni risultano però etichettati, mentre su alcuni furono applicate etichette di fattura diversa. Inoltre, sulla copertina di 3 quaderni, dal XXIX al XXXI, le etichette attualmente visibili furono sovrapposte da Tatiana a etichette applicate da lei stessa.
   Anche in ragione di queste incongruenze, nel volume I due carceri di Gramsci (Donzelli 2011), il prof. Lo Piparo ha avanzato dei dubbi circa la reale consistenza del lascito gramsciano, ipotizzando l’esistenza di un ulteriore quaderno oltre ai 33 conosciuti, occultato dopo la consegna a Togliatti, avvenuta nell’aprile 1945, forse a causa di un suo contenuto «scomodo». Nel giugno 2012 egli quindi propose dalle pagine del Corriere della sera l’istituzione di una commissione di studiosi finalizzata ad analizzare i manoscritti e la documentazione relativa alla trasmissione dei Quaderni.
    La proposta venne accolta da dalla Fondazione Istituto Gramsci che chiamò a far parte del gruppo di lavoro Luciano Canfora, Giuseppe Cospito, Gianni Francioni, Fabio Frosini, Franco Lo Piparo e Giuseppe Vacca. In una prima riunione furono esposti i termini della questione e vennero fornite ai membri del gruppo di lavoro alcune lettere delle sorelle Schucht; ad essa fece seguito una seconda riunione, svoltasi il 20 settembre 2012, nella quale furono esaminati gli originali dei Quaderni.
   Nel corso degli incontri e in un nuovo volume (L’enigma del quaderno, Donzelli, 2013), il prof. Lo Piparo ha avanzato l’ipotesi che la presenza di doppie etichette su alcuni quaderni fosse dovuta all’intenzione di Tatiana di «lasciare traccia» del quaderno mancante. A tal proposito, ha sostenuto che «le etichette in chiaro usate da Tatiana si fermano a XXXI. Sotto l’etichetta XXIX si legge l’etichetta XXXII»; pertanto, ha aggiunto: «non mi stupirei se sotto l’etichetta in chiaro XXX ci fosse l’etichetta XXXIIII e, coperta dall’etichetta XXXI trovassimo l’etichetta XXXIV» (pag. 124).

martedì 19 febbraio 2013

Althusser, Foucault e la crisi del marxismo. BO 28/02/2013





 Seminario a partire dai libri di Cristian Lo Iacono, Althusser in Italia. Saggio bibliografico (1959-2009), Milano, Mimesis, 2012 e di Fabio Raimondi, Il custode del vuoto. Contingenza e ideologia nel materialismo radicale di Louis Althusser, Verona, Ombre Corte, 2011



  Introduce Manlio Iofrida


Parteciperanno Rudy Leonelli, Cristian Lo Iacono,
Diego Melegari, Fabio Raimondi, Valerio Romitelli.

domenica 3 febbraio 2013

Maria Turchetto: sulla a nuova edizione de «Il capitale finanziario»


Maria Turchetto:
Il valore sonante del potere

 Nuova edizione per Mimesis di un classico del pensiero critico novecentesco, «Il capitale finanziario» di Rudolf Hilferding. Un volume ancora utile alla conoscenza della realtà per poi trasformarla. (da il manifesto, 2012.01.13)




La nuova edizione di Il capitale finanziario di Rudolf Hilferding è una vera strenna, di cui sono grata alla casa editrice Mimesis (pp. 544, euro 28). Non certo per il gusto erudito e nostalgico di riavere un classico del marxismo ormai introvabile e citato di seconda e terza mano, ma perché la poderosa opera di Rudolf Hilferding merita davvero, più che una rilettura, una nuova lettura, come suggeriscono nell’introduzione Emiliano Brancaccio e Luigi Cavallaro, curatori di questa edizione. Una lettura - scrivono - che aiuti «a produrre un altro testo che (…) sposti di piano quello immediatamente pervenutoci da Hilferding, facendo apparire nuovi oggetti teorici su cui lavorare»
L’indicazione richiama esplicitamente la lezione di Louis Althusser (non a caso del resto il titolo dell’introduzione è «Leggere Il capitale finanziario»), cui i curatori si rifanno anche quando sostengono che il «nucleo del paradigma marxista», da cui oggi si può ben ripartire anche se non è in voga tra i bocconiani, consiste «nel titanico risultato di aver gettato le basi per una teoria scientifica della storia: una teoria che, si badi bene, non ha nulla a che vedere con la visione teleologica e destinale che afflisse certe sue volgarizzazioni dottrinali».
Per dirla tutta, la «visione teleologica e destinale» della storia è stata ben più che una vulgata ad uso delle accademie sovietiche e delle scuole di partito. Era lo «spirito del tempo» dell’Ottocento e di buona parte del Novecento, che Marx aveva faticosamente trasceso ma attraverso il quale veniva (e viene ancora) interpretato. L’idea che il destino del capitalismo sia predicibile permea perciò anche l’opera di Hilferding e ne costituisce la principale debolezza: è la sua predizione di un percorso spontaneo dall’anarchia all’organizzazione pianificata dell’accumulazione sotto la direzione di un «capitale unificato», preludio della transizione al socialismo. La stessa idea destinale permea anche le coeve teorie del crollo e la stessa visione di Lenin dello stadio monopolistico e finanziario come «fase suprema» - cioè ultima - di un capitalismo divenuto incapace di promuovere lo sviluppo delle forze produttive e perciò morto per la storia, anzi ormai «putrefatto». In Lenin la storia del capitalismo descrive una parabola di tipo organico (nascita, crescita, decadenza e morte) anziché un’evoluzione progressiva; lo schema teleologico prevede comunque la fine prossima e certa (nella forma del crollo, dell’abbattimento rivoluzionario o della metamorfosi riformista), indispensabile a conseguire il fine del comunismo.

Il virtuoso e il parassita
Ma non vorrei qui limitarmi a ribadire l’indicazione althusseriana di abbandonare le storie teleologiche (in quanto tali ideologiche, non scientifiche) orientate al/alla fine; quanto proporre una breve riflessione sul perché, a cavallo tra Ottocento e Novecento, la fine del capitalismo venga declinata nelle forme antitetiche della decadenza e del crollo, da un lato, e dell’evoluzione virtuosa, dall’altro. In L’imperialismo, fase suprema del capitalismo Lenin impone una convivenza forzata a due rappresentanti delle declinazioni antitetiche in questione, Hilferding e Hobson. Riprende infatti, com’è noto, la definizione di Hilferding del «capitale finanziario» come «capitale unificato» («Capitale finanziario significa capitale unificato. I settori del capitale industriale, commerciale e bancario, un tempo divisi, vengono posti sotto la direzione comune dell’alta finanza»), associandovi tuttavia il giudizio negativo espresso da Hobson sulla finanza «parassitaria». Di fatto tradisce, in tal modo, il pensiero di entrambi gli autori: per Hilferding, in realtà, l’unificazione di capitale bancario, commerciale e industriale è un processo sostanzialmente virtuoso, foriero di crescita economica e di potenzialità regolatrici; in Hobson, per contro, il capitale finanziario non rappresenta affatto una forma unificata del capitale, ma una sua frangia degenerata che svolge il ruolo perverso di spostare altrove «la ricchezza della nazione» a scapito dello stesso capitale commerciale e produttivo (per inciso, Hobson non è l’unico, all’epoca, a teorizzare una contrapposizione forte tra industria e finanza: penso, ad esempio, a Thoestein Veblen). La convivenza forzata che Lenin impone alle tesi di Hilferding e di Hobson si basa, ancora una volta, su una metafora organica: il capitale cresce (diventa «più grosso» attraverso i processi di concentrazione e centralizzazione in cui il capitale finanziario ha un ruolo chiave, proprio come dice Hilferding), si espande (invade completamente il mondo, come sostengono entrambi gli autori), ma inesorabilmente invecchia (decade dalla sua funzione propulsiva dello sviluppo per diventare «parassitario», proprio come dice Hobson) ...

 leggi tutto su: CONTROLACRISI

lunedì 14 gennaio 2013

Walter Benjamin: Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell'età del capitalismo avanzato

Walter Benjamin


 Charles Baudelaire
Un poeta lirico
nell
età del capitalismo avanzato


a cura di Giorgio Agamben, Barbara Chitussi e Clemens-Carl Härle
ed. Neri Pozza,Vicenza,   2012

 
Questo libro presenta  in prima edizione mondiale la ricostruzione   ̶­­ resa possibile dai manoscritti benjaminiani ritrovati da Giorgio Agamben nel 1981 nella Biblioteca nazionale di Parigi   ̶ del libro su Baudelaire cui Benjamin aveva lavorato negli ultimi due anni della sua vita, quando, interrompendo la stesura dei Passages di Parigi, decide di trasformare in un’opera autonoma quello che all’inizio si presentava come un capitolo del libro. Attraverso un paziente lavoro di edizione e di montaggio, che alterna testi inediti ad altri già noti (che trovano solo ora la loro collocazione e il loro senso nell’opera complessiva), il libro permette di seguire la genesi e lo sviluppo, nelle varie fasi della sua stesura, del work in progress che  costituisce la summa della tarda produzione benjaminiana. Mentre del libro su Parigi noi abbiamo poco più che lo schedario, Charles Baudelaire, un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato offre  un’immagine articolata e coerente, anche se frammentaria, del laboratorio benjaminiano e del suo metodo compositivo. Sfatando la leggenda di un autore esoterico, il libro ci presenta, nel suo stesso farsi, il modello di una scrittura materialista, in cui non soltanto la teoria illumina i processi materiali della creazione, ma anche questi ultimi gettano una nuova luce sulla teoria. 

giovedì 30 giugno 2011

Andrea Angelini: Foucault-Marx: una fedele trasgressione


 

Andrea Angelini

Foucault-Marx: una fedele trasgressione 

 Recensione :          
Rudy M. Leonelli (a cura di)
Foucault-Marx. Paralleli e paradossi,
Bulzoni Editore, Roma 2010


L’ossimoro del titolo sta ad indicare la difficoltà di tracciare in modo univoco e lineare le caratteristiche del rapporto tra Foucault e Marx, il modo singolare in cui prossimità e distanza si intrecciano nella loro produzione intellettuale. Ciò rende molto arduo il tentativo di definire la posizione del primo verso il secondo: continuità, rottura, fedeltà, rifiuto; sono aspetti che si sovrappongono agli occhi del lettore. Per questo motivo affrontare il parallelo tra i due grandi autori richiede cautela, la messa da parte di facili schematismi e pregiudizi, e la pazienza di confrontarsi con una impegnativa massa di scritti, sia pubblicati che d’occasione, eterogenei, alcuni a un primo sguardo contraddittori, comunque difficili da legare in un insieme coerente e unitario.

Si riscontra in modo diffuso l’ostilità verso la scolastica di partito che ha preteso monopolizzare la lettura di Marx e stabilirne la legittima e corretta applicazione, e dunque l’esigenza, da parte di Foucault, di non accorpare immediatamente Marx, marxismo e socialismo storico: «Lo stalinismo e il leninismo inorridirebbero Marx»[1]. Ma per altro verso più d’una volta Foucault esprime diffidenza verso la teoria che vorrebbe Marx o Lenin totalmente estranei alle storture, ai fraintendimenti o tradimenti che avrebbero subito nel corso del movimento storico-politico che a essi si richiamava:

[…] rifiutare di interrogare il Gulag a partire dai testi di Marx o di Lenin, domandandosi per quale errore, deviazione, mistificazione, distorsione speculativa o pratica, la teoria è potuta essere tradita a tal punto. Al contrario, interrogare tutti questi discorsi, per quanto siano datati, a partire dalla realtà del Gulag. Invece di cercare in questi testi ciò che potrebbe condannare a priori il Gulag, si tratta di chiedersi ciò che in essi l’ha permesso, che continua a giustificarlo, ciò che permette oggi di accettarne sempre l’intollerabile verità.[2]
 
Foucault fa queste affermazioni negli anni in cui in Urss si va sempre più consolidando il potere del maresciallo Brežnev, il regime della Ddr vanta il più efficiente e capillare corpo di polizia della storia, e si va facendo sempre più forte l’insofferenza del popolo polacco; cioè quando, nonostante lo strappo libertario del ’68 avesse già scosso l’Europa, vanno ancora perpetuandosi i prodotti dello stalinismo. Su di esso Foucault si sofferma continuamente negli anni ’70, manifestando quanto indispensabile gli fosse comprendere quali interrogativi, tanto politici che teorici, esso rendeva imprescindibili, dal cosa siano nel profondo, al di là di stereotipi ossificati, il potere, la resistenza, la lotta, al quesito dubbioso riguardo la «desiderabilità stessa della rivoluzione» (nella sua accezione storico-dialettica)[3].

Era ai suoi occhi divenuto ineludibile il problema della proliferazione di strutture gerarchiche, di profili governativi e modelli istituzionali in vario modo marchiati dalla violenza, cui il movimento rivoluzionario era andato incontro (persino dopo la “destalinizzazione”), in quanto non supportato da un’adeguata analisi della polimorfia del potere, delle sue incerte provenienze storiche, dei suoi complessi legami con le forme del sapere[4].

Credo che l’esperienza dello stalinismo e della stessa Cina di questi ultimi venti o trent’anni abbia reso inutilizzabili, almeno in molti dei loro aspetti, le analisi tradizionali del marxismo. In tal senso credo che non bisognerebbe affatto abbandonare il marxismo come una specie di vecchio arnese da mandare in soffitta, ma occorrerebbe essere meno fedeli alla lettera della teoria e tentare di ricollocare le analisi politiche della società attuale, più che nel quadro di una teoria coerente, sullo sfondo di una storia reale.[5]
 
Questa è una delle espressioni più pacate della seconda metà degli anni ’70 circa il marxismo in generale. Ma se nel ’78, ad esempio, Foucault si riferiva al marxismo come ad una «causa dell’impoverimento, dell’inaridimento dell’immaginazione politica» e come a «nient’altro che una modalità di potere»[6], ancora nel ’71, pur tra numerose riserve e prese di distanza, si esprimeva così: «Marx è arrivato a proporre un’analisi storica delle società capitalistiche che conserva ancora una sua validità. Ed è riuscito a fondare un movimento rivoluzionario che è, ancor oggi, il più vitale»[7].

Foucault incitava a rendersi «completamente liberi rispetto a Marx»[8], intendendo con ciò il poter interrogare senza restrizioni e inibizioni «l’insieme dei rapporti di potere […] inevitabilmente connessi» con «le tre dimensioni del marxismo, vale a dire il marxismo in quanto discorso scientifico, il marxismo in quanto profezia ed il marxismo in quanto filosofia di Stato, o ideologia di classe»[9], ma ben sapendo quanto «sia necessario distinguere Marx, da un lato, e il marxismo, dall’altro»: «Non mi pare sia assolutamente in questione il fatto di farla finita con Marx stesso»[10].

Foucault ha poi sempre rifiutato l’idea di potersi o doversi rifare ad un «vero e autentico Marx», l’ostinazione a riconoscervi «un depositario fondamentale di verità»[11]. Ha riservato anche a lui quel “saccheggio interessato” finalizzato a far propri certi concetti, certi potenziali critici e analitici, al di fuori di una lettura storiografica volta a ricostruire il profilo complessivo dell’autore (ciò che sappiamo essere per Foucault al tempo stesso una funzione e una finzione). Una lettura dunque molteplice e mirata, destinata al riutilizzo e all’impiego spostato più che al commento.

A distanza di cinque anni dal convegno svoltosi a Bologna il 24 novembre 2005, “Foucault, Marx, marxismi”, diviene disponibile il contributo di insigni studiosi – arricchito inoltre da un’interessante intervista a Étienne Balibar, da cui il volume mutua il titolo – su questo tema molto delicato. Nel passato dibattito filosofico-politico, tanto francese quanto italiano, esso era stato spesso affrontato attraverso accese polemiche e prese di posizione nette, dunque impedendo un confronto sereno e misurato come quello che questa breve raccolta di interventi ha invece il merito di presentare.

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