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giovedì 13 giugno 2013

L'anarchia selvaggia, di Pierre Clastres - presentazione 17/6, BO


http://nogods-nomasters.com/prestashop/268-large_default/a-sociedade-contra-o-estado-pierre-clastres.jpgNel discorso comune e in quello accademico, con poche eccezioni, viene continuamente rimarcata la convinzione che una società di liber* ed eguali sia sempre più inattuabile o addirittura impossibile. L'utopia, che precisamente significa “qualcosa che non ha luogo” e non “qualcosa di irrealizzabile”, è sepolta sotto i cumuli di macerie dell'etnocentrismo.

L'idea che un gruppo umano possa vivere e convivere in assenza di istituzioni di potere appare generalmente come qualcosa di inattuale, addirittura innaturale. Ed è qui che la ricerca antropologica agisce come meccanismo di disvelamento delle credenze e dei pregiudizi. Perché il potere, inteso nella sua forma di comando/oppressione e obbedienza, non è innato nell'umanità.

Pierre Clastres, antropologo eclettico e figlio intellettuale di Claude Levi-Strauss, ci racconta di comunità che vivono in una “favola”, la cui morale piomba vigorosa e differente: i personaggi non sono il braccio dello Stato, le catene delle istituzioni, il tintinnio delle monete, ma semplici individui privi di cravatta e muniti di un concetto dell'esistente diametralmente opposto a quello della società capitalista.

La loro vita non prevede alcun Dio, Stato, servi o padroni, né l'indigenza antropomorfizzata, ma solo un benessere reale e morale partorito dal rifiuto del dominio economico e politico.


Affinché la diversità non sia vittima di stereotipi e venga incorporata all'interno di una prospettiva sociale versatile,

il Collettivo Autorganizzato Volya presenta il libro 
L'anarchia selvaggia – Le società senza Stato, senza fede, senza legge, senza re, edito da Eleuthera.


Di recentissima uscita, consiste in una raccolta di alcuni studi di Pierre Clastres che verranno presentati da Valerio Romitelli (Dipartimento di Storia, Culture, Civiltà, Unibo) e Rudy Leonelli (Dipartimento di Filosofia, Unibo), con la partecipazione
di
 Nicola Turrini, Marco Tabacchini, Elia Verzegnassi,
 che hanno presentato il libro alla Biblioteca Domaschi - spazio     culturale anarchico di Verona.

      
      Lunedì 17 giugno, ore 17,00
     Facoltà di Scienze Politiche
      Strada Maggiore 45, Bologna




Collettivo autorganizzato Volya

 

mercoledì 22 maggio 2013

Les clichés selon Alain Badiou, philosophe



pubblicato in data 24 aprile 2012   
 

«Il y a un cliché tenace qui m'insupporte , c'est que l'amour est quelque chose de magnifique à ses débuts, puis qu'une lassitude s'installe pour terminer enfin par une aigre séparation. »

Alain Badiou



Philosophe majeur de la scène intellectuelle française contemporaine, Alain Badiou a publié bon nombre d'essais, aussi bien consacrés à des questions ontologiques que politiques comme « La Théorie du sujet » ou encore « L' Etre et l'événement ».

La pensée politique de cet ancien militant maoïste s'inscrit dans un engagement à gauche, comme en témoignent plusieurs ouvrages pamphlétaires comme « De quoi Sarkozy est il le nom ? » et différentes réflexions autour de la réhabilitation du communisme dans des titres comme « L' Hypothèse communiste », paru en 2009. Ces prises de position radicales suscitent régulièrement la polémique et lui valent de recevoir de nombreuses critiques.

Intellectuel controversé, Alain Badiou n'en demeure pas moins un philosophe reconnu, écouté avec attention sur la scène internationale. Son dernier ouvrage « Le Réveil de l'Histoire ? » analyse les derniers mouvements de révolte dans le monde, d'Egypte en Syrie, d'Espagne en Angleterre dans lequel il salue « ce retour de la pensée et de l'action des politiques émancipatrices directement articulées à l'action et à l'organisation des masses populaires ».

Ce film est une production de l'agence Let's Pix pour le compte de l'Atelier Recherche et Développement de France Télévisions

giovedì 4 aprile 2013

Non si nasce donna - Quaderni Viola n. 5


Percorsi, testi e contesti
 del femminismo materialista in Francia



a cura di Sara Garbagnoli e Vincenza Perilli

« Sesso, razza e sessualità sono evidenze socialmente radicate e ben fondate e, per questo, tanto efficacemente e inerzialmente riprodotte come fossero invarianti sociali, dati di natura. Lo studiare i modi con cui i rapporti sociali diventano talmente solidi da sembrare naturali permette di iscriverle nella storia, aprendo, in tal modo, uno spazio di possibilità perché le cose possano essere altrimenti. »

 vedi inoltre: Marginalia

mercoledì 8 febbraio 2012

R : Roma in giù [da]


E n c i c l o p e d i a
d e l l a
n e o l i n g u a


 
R

Roma in giù [da]



 ''La caduta della neve non è un fatto così epocale. Da Roma in giù manca la volontà e la voglia di lavorare'': così l'europarlamentare della Lega Mario Borghezio al telefono con Klaus Condicio, per il programma in onda su You Tube. Poi aggiunge: "Nei popoli del sud manca senso civico, dovrebbero venire a scuola a nord per impararne un po'. Basta lamentarsi''


venerdì 4 novembre 2011

Venezia, il jazz e gli ex sindaci-filosofi, di Franco Bergoglio



 
Cento colpi di spazzole e Cacciari

Venezia, il jazz e gli ex sindaci-filosofi


di Franco Bergoglio

Anni passati a studiare la semanticità della musica (cioè se le note abbiano un significato altro rispetto a quello acustico) e i rapporti tra il free jazz e la politica. A giudicare da quanto comparso in rete e sui giornali negli scorsi giorni, anni spesi male. Bastava leggersi una ordinanza del Comune di Venezia, vecchia di una decina d’anni -imputabile alla giunta Cacciari, come puntigliosamente nota Mario Gamba sul Manifesto del 21 settembre scorso  per rendersi conto dell’inutilità degli sforzi.
Riassumo la vicenda ad uso dei marziani capitati in Italia per diporto. Venezia notoriamente soffre dei problemi legati ad un ecosistema delicato. Il turismo di massa ne rappresenta la fonte di sopravvivenza, pur comportando una serie di disagi legati alla quotidiana invasione di orde fameliche di monumenti, di ponti, di fotografie, di gondole. Sarebbe bello avere i soldi dei turisti, risparmiandosi gli effetti collaterali: la loro presenza fisica, il vociare rumoroso, i rifiuti, i venditori ambulanti…Alt. Da quando gli effetti collaterali con i bombardamenti americani sono politically correct e Maroni ha previsto super poteri a super sindaci, tutto questo si può risolvere.

Ci teniamo i turisti ma con una ordinanza ad hoc spazziamo via quanto non sembra lucroso. Via i lavavetri da Firenze, il divieto di nomadismo ad Assisi, no al rovistare nei cassonetti a Roma. Niente ideologia: i sindaci sceriffi di destra sono più creativi, quelli del centrosinistra più burocrati, ma la fabbrica delle ordinanze gira a pieno regime (sic!). Alcune ordinanze avrebbero mosso a invidia un poeta surrealista: non si possono scavare buche nella sabbia sulla spiaggia di Eraclea o indossare zoccoli a Capri. Queste ordinanze puzzano di visione classista: i colpiti sono i migranti, i barboni, i poveri, gli artisti da strada, i giovani. Il leghista Tosi di Verona ha ordinato che agli accattoni vengano sequestrati i beni e inflitta una multa: non gli rimane che distribuire latte più e aizzargli contro la banda di Arancia Meccanica


In un paese che non riesce a mandare in galera i corrotti, a far pagare le tasse ai dentisti o a far rispettare una fila, i sindaci vorrebbero normare l’universo. Gobetti ci aveva avvertito: un po’ di fascismo ce lo portiamo nel dna; sommato a un aberrante conservatorismo straccione. Magari il vicino di casa dell’assessore di Forte dei Marmi deve fare la pennichella di sabato e spunta il veto dell’amministrazione: non si può usare il tagliaerba nei pomeriggi festivi. In uno stato dove il Presidente del Consiglio dispone di un corpus di leggi ad personam, perché negarsi una ordinanza sindacale? Il vanto occidentale della libertà individuale si sbriciola nel Lombardo-veneto leghista. Non si può mangiare il Kebab a Cittadella o giocare a cricket a Brescia.

Peccato che oggi il kebab si faccia anche con la carne di fassone piemontese e che il cricket, oltre a pachistani e indiani poveri piaccia anche a inglesi, sudafricani, e australiani. Torniamo a Venezia, dove una summa di divieti colpisce i “poveri” rei di voler cogliere le briciole del turismo. Divieto di elemosina, accattonaggio, portare borsoni (quelli dei venditori ambulanti) e fare pic nic. Sia il turista spartano che la famigliola borsafrigo devono farsi rapinare in un bar di Piazza San Marco.

E anche per il problema di inquinamento acustico la giunta Cacciari si era attivata. Il cruccio è reale, la soluzione trovata all’epoca una grottesca “ordinanza creativa” che regolamentava i generi musicali ammissibili in città, tanto che oggi, dopo una rivolta del web che ha rinfocolato lo sdegno per quel vecchio provvedimento mai decaduto, l’attuale assessore Tiziana Agostini ha promesso dalle pagine del settimanale La Nuova di Venezia di correggere il pasticcio: “La malattia era reale – l’inquinamento acustico – la medicina avvelenata: stiamo riscrivendo la delibera cancellando le prescrizioni di tipo culturale, figurarsi se mi sogno di proibire una musica rispetto ad un’altra”. Quali erano dunque le musiche proibite? Il rock, che non viene nominato tra i generi ammessi, cancellando con un colpo di spugna cinquant’anni di storia. Invece sotto la voce jazz/dixieland, accettato in via teorica, si legge:“E’ escluso il jazz sperimentale, quale il free jazz, che essendo dissonante potrebbe essere di disturbo” ...
 
continua:  articolo completo su Nazione indiana

venerdì 27 maggio 2011

Il "ritorno" del razzismo in Europa. Incontro - BO 27 maggio

Libreria delle Moline
Via delle Moline, 3/A
Bologna
venerdì 27 maggio
ore 18
Le forme del dominio. 
Razzismo  e  sessismo  tra  passato  e  presente

Discussione
a partire dal libro di

Alberto Burgio

Nonostante Auschwitz
Il "ritorno" del razzismo in Europa

copertina Nonostante Auschwitz - Burgio_THUMB.jpg
Roma - DeriveApprodi 2010


Intervengono

Vincenza Perilli
Mauro Raspanti

Seguirà un dibattito con
Alberto Burgio, autore del libro 
 

Il libro nasce dalla constatazione della evidente ripresa del razzismo in Europa. Il tabù del razzismo può dirsi ormai rimosso: si può ricominciare a dirsi razzisti, senza mascheramenti o pretesti. La domanda che si pone è dunque: perché ci ritroviamo in questa situazione, a soli settant’anni dai campi di sterminio nazisti?

Perché, nonostante Auschwitz, non siamo guariti dal razzismo La risposta deve coinvolgere la storia della modernità, la sua genesi, i suoi caratteri costitutivi. Tra razzismo e modernità sussiste un nesso strutturale, al punto che il razzismo deve essere considerato un ingrediente costitutivo della modernità europea. Tesi che viene documentata sul piano storico e argomentata sul piano teorico. Il libro analizza alcune tappe cruciali del processo di formazione delle ideologie razziste: il nesso con la cultura dei Lumi, l’intreccio con le ideologie nazionaliste, l’acme della violenza razzista nella distruzione degli ebrei in Europa. 

Da qui scaturisce un’analisi sul dispositivo ideologico che accomuna le diverse manifestazioni concrete del razzismo nel corso del tempo. L’invenzione dell’«altro» – nemico, infedele o deviante da escludere, perseguitare o sterminare – nasce dalla stigmatizzazione della diversità e conduce alla creazione della «razza maledetta» attraverso la naturalizzazione delle identità stereotipate.

lunedì 14 febbraio 2011

Finezze: il terzo pollo

Ma oggi non è possibile trascurare il fatto che l'uso intensivo dello spettacolo ha, come c'era da aspettarsi, reso ideologica la maggioranza dei contemporanei, per quanto solo a tratti e a sbalzi. La mancanza di logica, ossia la perdita della possibilità di riconoscere immediatamente ciò che è importante e ciò che è secondario o non pertinente; ciò che è incompatibile o che al contrario potrebbe essere complementare; tutto ciò che una data conseguenza implica e ciò che, nello stesso momento vieta; tale conseguenza è stata iniettata a dosi massicce nella popolazione dagli anestesisti-rianimatori dello spettacolo.
 Guy Debord, Commentaires, XI

"Né destra né sinistra"

“Senza distinzione tra Nord e Sud, tra destra e sinistra”. Parola di Gianfranco Fini  

 e, logicamente, chiarisce (?!?) :

 
Crediamo a una destra più moderna ed europea



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Finezze tratte da: LA STEFANI

venerdì 1 ottobre 2010

Alberto Burgio: La radice profonda del razzismo in Europa


Alberto Burgio
La radice profonda del razzismo in Europa
il manifesto, 1 ottobre 2010
È una buona cosa che, sullo sfondo della persecuzione razzista dei rom in Francia, si sia aperta una riflessione teorica sul razzismo. È tutt'altro che scontato che se ne sappia abbastanza (su ciò che lo produce e lo alimenta e, prima ancora, su ciò che il razzismo è) per reagire all'altezza dei suoi devastanti effetti attuali e potenziali. Gli interventi di Étienne Balibar e Jacques Rancière sul manifesto hanno fatto luce su aspetti rilevanti. Il primo si è incentrato sul nesso tra cittadinanza ed esclusione, mettendo in risalto come esso operi anche nel quadro dell'Europa comunitaria; il secondo ha insistito sulla natura artificiale (non spontanea) di un razzismo frutto dell'iniziativa di «imprenditori politici».

Entrambi condividono una prospettiva politico-centrica e meriterebbero un approfondimento: in particolare Rancière sembra sbarazzarsi troppo precipitosamente della scaturigine sociale della paura (e del risentimento) che l'intervento politico alimenta e incanala contro gruppi umani rappresentati come pericolosi. Ma lo spazio è tiranno e, piuttosto che dedicarlo a un confronto interno, conviene utilizzarlo per ampliare lo spettro della discussione, prospettando un'ipotesi differente e complementare, incentrata sulle dinamiche sociali responsabili della produzione di stereotipi inferiorizzanti: un'ipotesi per dir così socio-centrica.

Quando parliamo di razzismo siamo soliti pensare ai margini della società o a popolazioni straniere. Il razzismo appare al senso comune una faccenda riguardante gli «altri», i «diversi» (o i «devianti»), insomma non-persone abitanti la periferia (fisica o morale) delle nostre metropoli. Naturalmente questo modo di pensare ha le sue buone ragioni. Oggi le «razze» (poco importa se rinominate con termini meno impresentabili come «etnie» o «culture») sono in primo luogo i migranti, variamente considerati invasori, nemici, delinquenti naturali, terroristi potenziali, barbari e così via connotando. Oppure sono i rom (e i sinti), cioè gli «zingari». O ancora gli ebrei (checché se ne dica, resiste il pregiudizio che li configura come una «razza»). In una parola, minoranze a vario titolo percepite come estranee al corpo (sano) della collettività. Come eccezioni (patologiche) rispetto alla norma e alla normalità. Tuttavia, se non vogliamo rimanere prigionieri del razzismo, non possiamo limitarci a sfogliare il catalogo dei gruppi umani trasformati in «razze», dobbiamo anche chiederci a che scopo il razzismo li «razzizza».

Con ogni probabilità, l'obiettivo è legittimare trattamenti discriminatori e persecutori che possono arrivare sino allo sterminio. La violenza che difficilmente la società accetterebbe di subire, appare tollerabile (motivata e giusta) se colpisce un gruppo raffigurato come portatore «per natura» di uno stigma morale. Quella violenza è percepita come legittima difesa poiché è messa in relazione alle caratteristiche perverse attribuite a quel gruppo. In una parola, il razzismo è la fabbrica delle identità negative, un operoso cantiere antropologico che, producendo stereotipi (cioè letteralmente creando le «razze»), sforna ininterrottamente argomenti utili a giustificare la violenza che una parte della società scarica su altre componenti più deboli e a vario titolo subordinate.

Se le cose stanno così, lo sguardo dovrebbe disinteressarsi del dito (gli argomenti specifici - tutti, indistintamente, pretestuosi - addotti dal razzista di turno) e rivolgersi alla luna che esso indica, cioè alla radice profonda di questa violenza. Dovrebbe cercare la fonte «strutturale» dell'insaziabile fame di discriminazione che ossessiona la nostra società, poiché soltanto così è possibile capire perché da due o tre secoli a questa parte l'occidente capitalistico non può fare a meno di inventare «razze» inferiori, parti infette dei corpi sociali che meritano di essere cauterizzate o addirittura amputate. E soltanto adottando questa prospettiva si può capire perché il razzismo torna sistematicamente in auge nelle fasi acute di crisi economica e sociale, quando le dinamiche riproduttive esasperano la propria connotazione gerarchica, mobilitando un surplus di violenza e di brutalità.

Il punto è che la «razza inferiore» (quella di chi - stando alle mitologie razziste - ruba o stupra per incoercibili propensioni «naturali» o è «per natura» refrattario alla civilizzazione) incarna e mette in scena non soltanto le ragioni della propria discriminazione, ma anche, soprattutto, la legittimità del discriminare come meccanismo generale della relazione sociale. Certo, la violenza che si scatena contro i rom cacciati via da una palude infestata dai topi all'altra, evitati come appestati sugli autobus e sui treni e finalmente deportati oltre confine nel nome della sicurezza e sanità del corpo sociale, è diversa da quella che gli italiani (o i francesi) doc - quanti tra loro lavorano sotto padrone o nemmeno riescono a trovare un lavoro - sono costretti a subire. Questi ultimi sono (ancora) protetti da qualche diritto. Ma un denominatore comune c'è, e consiste nel dipendere dall'arbitrio altrui. Per questo è importante che assistano alla cacciata dei rom, spettacolo estremamente istruttivo che rammenta (e rappresenta come una condizione inemendabile) la loro radicale subalternità.

Che cosa imparano, a guardar bene, da questo spettacolo che colpisce ai margini della società ma si rivolge al grosso della popolazione, alle «genti meccaniche» cui non è toccata la buona sorte di illustri natali? Apprendono la terribile lezione della modernità: la loro condizione di homines œconomici, di individui soli, costretti a combattere, a proprio rischio e pericolo, la guerra quotidiana degli egoismi individuali. Ciò che il razzismo si incarica di portare a termine mettendo in scena il destino degli ultimi è, in altre parole, l'atomismo sociale e lo sradicamento della solidarietà, fattore antimoderno per antonomasia, incompatibile con lo scatenamento degli «spiriti animali» del capitalismo.

In questo senso - per quanto paradossale ciò possa apparire - se vogliamo capire quale ruolo il razzismo giochi sulla scena europea (e perché esso svolga ancora una funzione così importante), è indispensabile leggere correttamente vicende come quelle di Pomigliano e di Melfi, nelle quali il padrone dichiara in modo esplicito di voler negare qualsiasi diritto a chi per sopravvivere è costretto a vendere il proprio tempo di vita. Gli operai debbono tornare ad essere cose, levarsi dalla testa di essere persone e, soprattutto, membri di un soggetto collettivo. E affinché intendano la musica, niente è più utile del mostrare loro che fine fanno quelli con i quali la buona società si arrabbia per davvero.

Ma se la sorte riservata ai margini serve a educare il centro, allora il problema è la reazione del centro. Non si tratta di stabilire se il razzismo sia o meno spontaneo, certo che non lo è. Il punto è che il razzismo sarà senso comune, benché inculcato dall'alto, finché i corpi sociali assimileranno docilmente la lezione che esso impartisce: la fondatezza delle gerarchie sociali, la legittimità della violenza che esse decretano, la moralità della riduzione a cose dei subordinati. Oggi, esattamente come nel secolo scorso, il problema chiama dunque in causa proprio gli «uomini comuni», spesso complici, più o meno inconsapevoli, della violenza razzista.

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sabato 8 maggio 2010

D: [va] da sé, dunque ...


E n c i c l o p e d i a
d e l l a
n e o l i n g u a

D

[va] da sé, dunque ...





«Sono fascisti, fascisti sociali che credono nella Carta di Verona. Sono fascisti del nuovo millennio, come Gianfranco Fini definiva se stesso una ventina di anni fa. Va da sé che se devono menar le mani le menano. Ultimamente è successo spesso, anche se a Napoli il 1° maggio è stato uno di loro a rischiare la vita. Menano dunque. Ma sempre controvoglia. Il dettaglio è tutt’altro che secondario».

Lanfranco Pace:
"Ecco perché ho firmato l'appello in favore dei fascisti solari di CasaPound"
da Il Foglio, 7 maggio 2010

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L'immagine è tratta da: Indymedia Italia

lunedì 19 febbraio 2007

E. Balibar - I. Wallertsein: Razza nazione classe

Étienne Balibar – Immanuel WallersteinRazza nazione classe. Le identità ambigue, Roma, Edizioni Associate, 1991
[
Race nation classe. Les identités ambiguës, Paris, La Découverte, 1988]

Nell’ambito dei movimenti italiani l’attenzione per questo lavoro è antecedente alla traduzione integrale del libro: nel 1989 il n. 3/4 di
Notebook aveva proposto due saggi di Balibar compresi in questo volume di confronto incontro con Wallerstein.
È di indubbia rilevanza il fatto che questa discussione di portata internazionale sui nessi tra alcuni nuclei problematici di dirompente attualità venga a prodursi all’incrocio tra due distinte, e correlate, esperienze critiche del marxismo, il cui carattere “non ortodosso” ha specifiche connotazioni: tensione permanente, in Balibar, a dissociare “gli elementi di analisi teorica e quelli di ideologia millenarista amalgamati nell’unità contraddittoria del marxismo” (p. 187); distinzione, in Wallerstein, di un Marx studioso di differenti sistemi storici, in rottura con i presupposti antropologici del pensiero liberale borghese, da un Marx universalista, implicato in una lettura “progressiva” del ruolo storico del capitalismo, nel quadro di un modello evolutivo-lineare di “crescita” dei modi di produzione (pp. 137-139).

Etienne Balibar, nell’intervento alla presentazione dell’edizione italiana del libro [“Identità ambigue”, in
Autonomia, n. 49, maggio 1991, da cui citiamo ampiamente] ha sottolineato i due “sensi complementari” in cui è proposta la nozione di identità ambigua.
Il primo – “più sociologico, o meglio strutturale” – è relativo al permanente processo di costruzione e distruzione delle identità di razza, nazione e classe nel quadro dei rapporti gerarchici che definiscono l’economia mondo capitalistica e che comportano “una tensione obiettiva permanente tra universalismo e particolarismo, vale a dire che nessuna di queste identità, fra di loro opposte, può esser considerata naturale [...] Tutte sono per necessità delle identità incompiute”; e “gli apparati, le istituzioni che lavorano a fissare l’una o l’altra di queste identità [...] devono operare in permanenza, produrre un effetto di riduzione della complessità, che non può essere che provvisorio, anche se in certi casi dura a lungo, ma che naturalmente deve rappresentarsi come eterno in termini naturalisti e naturaleggianti”.
Il secondo senso — “più politico” — concerne “l’ambivalenza intrinseca di ogni affermazione discorsiva o pratica dell’identità”. In ragione di questa ambiguità, la valenza di rottura o di integrazione sistemica di ogni specifica “spinta identitaria” è decisa congiunturalmente. “Ma sulla congiuntura pesa sempre il posto definito dalla struttura mondiale”.
In un contesto internazionale investito da radicali mutazioni, che ribaltano posizioni storicamente consolidate — “Mentre l’Europa ha esportato per tre secoli nel mondo intero i suoi modelli politici e le conseguenze degli affrontamenti tra le sue nazioni e i suoi ‘blocchi’, essa diviene ora il luogo in cui si cristallizzano i problemi sociali del mondo intero” [Balibar, “La Communauté européenne vue du dessous”, in
Le monde diplomatique, febbraio 1991] – un compito maggiore della nostra epoca sarà quello di “sviluppare delle categorie teoriche e politiche per analizzare, diagnosticare e trattare collettivamente l’ambivalenza dei movimenti culturali di oggi” [in Autonomia, cit.].

Il libro, che ha il suo fulcro nella “questione scottante:
qual è la peculiarità del razzismo contemporaneo?” (p. 13), su cui è concentrata l’attenzione di queste rapide note, ha come punto di attacco quello che Taguieff ha chiamato l’effetto di ritorsione del nuovo razzismo differenzialista, che non procede più dal postulato di una differenza biologica tra le “razze”, ma prende alla lettera le premesse del culturalismo antropologico – che era stato uno dei pilastri della critica al colonialismo, al razzismo e all’etnocentrismo europei – in un investimento politico di segno inverso, incentrato sulla difesa delle “identità” culturali nella loro supposta intangibilità (ciò che non esclude la possibilità di riprendere e “spostare di un gradino il biologismo”.
L’analisi estremamente complessa e puntuale di Balibar, oltre a questo primo effetto di ritorsione (operante una “destabilizzazione delle difese dell’antirazzismo tradizionale”), focalizza un secondo effetto “più subdolo e quindi più efficace”: in modo circolare, il differenzialismo si propone come “spiegazione” dei comportamenti razzisti, “
naturalizza non l’appartenenza ad una razza, ma il comportamento razzista”. Questo “metarazzismo”, o “razzismo di seconda posizione”, può così “presentarsi come vero antirazzismo e quindi come vero umanesimo” (pp. 33-37.
Si coglie bene, in questa prospettiva — oltre alla ragione principale della difficoltà di criticare il nuovo razzismo culturalista [cfr. pp. 31 e 70] — l’importanza della discussione sull'universalismo.
“L’universalismo e il razzismo possono sembrare a prima vista strani compagni, se non addirittura concetti praticamente antitetici: l’uno aperto, l’altro chiuso; l’uno tendente all’eguaglianza, l’altro alla polarizzazione; l’uno votato al discorso razionale, l’altro intriso di pregiudizio. Tuttavia, il fatto che abbiano camminato tenendosi per mano, che si siano diffusi e abbiano prevalso in concomitanza con l’evoluzione del capitalismo storico, dovrebbe suggerirci di guardare più da vicino ai modi con cui queste due dottrine hanno potuto convivere”. Questo brano de
Il capitalismo storico [(1983), Einaudi, 1985, p. 71] di Immanuel Wallerstein pone il problema, in prossimità del paragrafo dedicato a “L’ambivalenza dei movimenti antisistemici” che, nella sua stessa formulazione, sembra preludere a questa discussione delle identità ambigue.

Nel secondo capitolo di
Razza nazione classe, Wallerstein considera la coppia terminologica in base alla sua funzionalità all’economia mondo capitalistica: universalismo (tendenza alla mercificazione illimitata, meritocrazia) e razzismo (“etnicizzazione” della forza-lavoro, minimizzazione dei costi politici ed economici del suo sfruttamento), intrattengono un rapporto complementare, e di reciproca compensazione contro la tendenza agli estremi del termine opposto (il quadro è naturalmente più complesso di questa telegrafica sintesi, e occorre in ogni caso ricordare che l’autore non prefigura un equilibrio statico, ma un andamento “a zig-zag” di crescente ampiezza e instabilità).
Raccogliendo la sfida dell’attuale “razzismo universalistico” Balibar cerca invece di “pensare a un’unità ancora più profonda tra i due lati”: “Ciò di cui si tratta è il ‘legame interno’ che si è stabilito tra le nozioni di umanità, di specie umana, di progresso culturale dell’umanità, e i ‘pregiudizi’ antropologici riguardanti le razze o le basi naturali della schiavitù. È la nozione stessa di razza, il cui significato moderno comincia a delinearsi nel periodo dei Lumi – questa grande fioritura dell’universalismo – e la modifica non accidentalmente, esteriormente alla sua ‘essenza’, ma intrinsecamente» [“Razzismo: un altro universalismo” in
Problemi del socialismo, n. 2, 1991, pp. 39 e 37].
Da un lato, “l’universalismo, quando cessa di essere una semplice parola, una filosofia possibile, per diventare un sistema di concetti espliciti, non può non includere al centro di se stesso il suo contrario. Impossibile definire il logos senza farlo dipendere da una gerarchia antropologica e ontologica, anche nel filosofo più ‘laico’” (ivi, p. 38).
Dall’altro “qualsiasi razzismo teorico si riferisce ad
universali antropologici [...] In tutti questi universali scopriamo l’insistenza di un’unica ‘questione’: quella della differenza tra umanità e animalità, il cui carattere problematico è riutilizzato per interpretare i conflitti della società e della storia” (Razza nazione classe, p. 68).
Suggerendo di pensare la relazione di razzismo e universalismo nei termini degli hegeliani contrari determinati – “il che fa sì appunto che ciascuno di essi modifichi l’altro ‘dall’interno’” [in
Problemi..., cit. p. 39] – Balibar turberà probabilmente le anime belle della cultura europea; ma la posta in gioco di questa provocazione è la costituzione di un’intelligenza collettiva adeguata alla provocazione del tempo.
Un tempo in cui, comunque, questa ricerca rimarrà un passaggio decisivo per le esperienze e i percorsi di un
effettivo antirazzismo.




rudy m. leonelli, 1991

in:
Invarianti. Per descrivere le trasformazioni,
anno V, n, 17-18, Estate-Autunno 1991.

Testo selezionato dalla rubrica "Recensioni" del sito di Edizioni Associate
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