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giovedì 12 gennaio 2012

Riccardo Bonavita, Spettri dell'altro (recensione di Giorgio Forni)

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Riccardo Bonavita
Spettri dellaltro. 
Letteratura e razzismo nellItalia contemporanea,
a cura di Giuliana Benvenuti e Michele Nani
Bologna, il Mulino/Ricerca, 2010, 227 pp.

*     *     *

  Giorgio Forni, in “Lettere italiane”, LXIII, 2011, n. 1, pp. 163-168
 
Nel febbraio del 1992 alcune centinaia di studenti dell’Università di Bologna occupavano pacificamente l’aula in cui avrebbe dovuto parlare lo storico Ernst Nolte per protesta contro la tesi semplificante della “guerra civile europea” che equiparava nazifascismo e bolscevismo relativizzando lo sterminio ebraico e minimizzando i tratti specifici del razzismo di stato del Novecento. Quella giornata, che allora ebbe una risonanza addirittura europea, fu un piccolo evento di vita universitaria, ma alcuni fra coloro che vi presero parte con più entusiasmo vi sentirono forse un impegno ulteriore di approfondimento critico e di memoria civile. Vero è che, a uno sguardo retrospettivo, quell’atto di dissenso giovanile segna l’avvio di una pluralità di ricerche e di iniziative che hanno attraversato la cultura bolognese e italiana per quasi vent’anni: nel novembre del 1994 esordiva la mostra La menzogna della razza: documenti e immagini del razzismo e dellantisemitismo fascista, realizzata con il patrocinio dell’Istituto regionale per i Beni Culturali diretto da Ezio Raimondi; seguirono poi le attività del “Seminario permanente per la storia del razzismo italiano” coordinate da Alberto Burgio; gli studi di Rudy M. Leonelli sul revisionismo storico e sulla genealogia foucaultiana della “guerra delle razze” (ora nuovamente dibattuta negli atti del convegno Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, a cura di R.M. Leonelli, Roma, Bulzoni, 2010); il volume collettaneo Nel nome della razza. Il razzismo nella storia dItalia 1870-1945 (Bologna, il Mulino, 2000); fino ad arrivare, per esempio, alla mostra recente Lestraneo tra noi: la figura dello zingaro nellimmaginario italiano, allestita da Mauro Raspanti nel 2008. Ed è una volontà di indagare criticamente gli angoli oscuri del nostro passato cui potrebbe ascriversi, ma forse con meno limpidezza di pensiero, anche un romanzo come Asce di guerra di Wu Ming. In breve, una filologia filosofica applicata alla storia, ai detriti del rimosso, alle ombre inquietanti della nostra identità collettiva.
Non a caso in quella mattinata del 1992, con un frusciare di gentilezza sorridente, Riccardo Bonavita distribuiva un volantino in cui campeggiava un aforisma delle Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, su cui in quegli anni aveva ragionato a lezione pure il Raimondi: “In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. [...] Anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”. E di lì a poco il Bonavita avrebbe messo alla prova quel concetto alto di tradizione con i suoi studi sul primo Ottocento, sul Leopardi del Discorso giovanile e poi dei Paralipomeni, sulla poesia di Franco Fortini: dal “Proteggete i miei padri” della Cassandra foscoliana dei Sepolcri al classicismo anticonformista e ironico del Leopardi fino agli ultimi versi del Fortini di Composita solvantur uscito proprio nel 1994: “Non per l’onore degli antichi dèi, / né per il nostro ma difendeteci. / [...] / Rivolgo col bastone le foglie dei viali. / Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia. / Proteggete le nostre verità”. Nell’operazione poetica e intellettuale del Fortini il giovane Bonavita aveva trovato insieme un tramando di memoria e un’utopia critica, quella della Poesia delle rose: “Chi siamo stati / sapremo e senza dolore”. Così oggi, leggendo la raccolta postuma di saggi intitolata Spettri dellaltro. Letteratura e razzismo nellItalia contemporanea, viene da dire che nella sua generazione di universitari bolognesi il Bonavita fu colui che sentì con più passione e più rigore l’esigenza di coniugare l’impegno civile della coscienza critica con gli strumenti dell’analisi letteraria e filologica, anche e soprattutto esplorando i margini lividi e feroci della storia culturale del Novecento.

venerdì 4 febbraio 2011

«Compagno»

Dobbiamo confessare che  non siamo stati sorpresi dalla  notizia che il Paese ormai noto al grande pubblico per il  ruolo svolto dal popolare letto di Putin (repentinamente giunto al top delle cronache italiane e internazionali), "ha cancellato dal suo vocabolario il termine tovarish [compagno], la parola più pronunciata [in Russia] per quasi 80 anni ...".

Perché,  per noi (è un'altra storia), il termine compagno/a, non va perdendo  senso, ma - al contrario - riesce a ritrovarlo, a rinnovarlo:


 Mario Rigoni Stern
Perché dovete chiamarmi compagno
lettera all'Anpi, gennaio 2007


Cari Compagni,
sì, Compagni, perché è un nome bello e antico che non dobbiamo lasciare in disuso; deriva dal latino “
cum panis” che accomuna coloro che mangiano lo stesso pane.
Coloro che lo fanno condividono anche l’esistenza con tutto quello che comporta: gioia, lavoro, lotta e anche sofferenze.

È molto più bello Compagni che “Camerata” come si nominano coloro che frequentano lo stesso luogo per dormire, e anche di “Commilitone” che sono i compagni d’arme.

Ecco, noi della Resistenza siamo Compagni perché abbiamo sì diviso il pane quando si aveva fame ma anche, insieme, vissuto il pane della libertà che è il più difficile da conquistare e mantenere.

Oggi che, come diceva Primo Levi, abbiamo una casa calda e il ventre sazio, ci sembra di aver risolto il problema dell’esistere
e ci sediamo a sonnecchiare davanti alla televisione.


All’erta Compagni!

Non è il tempo di riprendere in mano un’arma ma di non disarmare il cervello sì, e l’arma della ragione è più difficile da usare che non la violenza.

Meditiamo su quello che è stato e non lasciamoci lusingare da una civiltà che propone per tutti autoveicoli sempre più belli e ragazze sempre più svestite.

Altri sono i problemi della nostra società: la pace, certo, ma anche un lavoro per tutti, la libertà di accedere allo studio, una vecchiaia serena; non solo egoisticamente per noi, ma anche per tutti i cittadini. Così nei diritti fondamentali della nostra Costituzione nata dalla Resistenza.

Vi giunga il mio saluto, Compagni dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
e Resistenza sempre.

Vostro
Mario Rigoni Stern
 
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da:  Patria indipendente (Anpi), 27 luglio 2008

lunedì 11 ottobre 2010


Vinicio Capossela

Suona Rosamunda






Suona la banda prigioniera
suona per me e per te
eppure è dolce nella sera
il suono aguzzo sul nostro cuor
cade la neve senza rumore
sulle parole cadute già

fino nel fondo della notte
che qui ci inghiotte e non tornerà
il passo d'oca che mai riposa
spinge la giostra, spinge la ruota
con i bottoni e coi maniconi
marciano i suoni vengon per noi

suona Rosamunda
suona che mi piaci
suonano i tuoi baci
nella cenere ancor
suona Rosamunda
suona che mi piaci
brucino i tuoi baci
nella cenere allor

si bruci il circo si bruci il ballo
e le divise ubriache d'amor
che non ritorni più a luce il sole
che non ritorni più luce per noi
le marionette marciano strette
dentro la notte tornan per noi

suona Rosamunda
suona che mi piaci
suonano i tuoi baci
come fuoco d'amor
brucia Rosamunda
brucia che mi piaci
brucino i tuoi baci
nella cenere ancor


* * *


«... ci mettono ancora una volta in fila, ci conducono in un vasto piazzale che occupa il centro del campo, e ci dispongono meticolosamente inquadrati. Poi non accade più nulla per un'altra ora: sembra che si aspetti qualcuno.
Una fanfara incomincia a suonare, accanto alla porta del campo: suona Rosamunda, la ben nota canzonetta sentimentale, e questo ci appare talmente strano che ci guardiamo l'un l'altro sogghignando; nasce in noi un'ombra di sollievo, forse tutte queste cerimonie non costituiscono che una colossale buffonata di gusto teutonico. Ma la fanfara, finita Rosamunda, continua a suonare altre marce, una dopo l'altra, ed ecco apparire i drappelli dei nostri compagni, che ritornano dal lavoro. Camminano in colonna per cinque: camminano con un'andatura strana, innaturale, dura, come fantocci rigidi fatti solo di ossa: ma camminano seguendo scrupolosamente il tempo della fanfara»
Primo Levi, Se questo è un uomo
.

mercoledì 19 agosto 2009

Fernanda Pivano (1917-2009) - una intervista

La pelle d’oca viene, a sentir parlare la Pivano. E capisci che il Fascismo non è solo un capitolo di un libro di storia, e la Beat generation non è solo quello di un libro di letteratura americana.



“Internet è meglio dei brutti libri che pubblicano adesso”
Fernanda Pivano è una traduttrice, nel senso letterale del termine: “colei che trasporta al di là”. Cioè qua, in Italia, dove ha fatto conoscere la letteratura americana, della prima e seconda metà del Novecento, facendocela apprezzare attraverso le sue traduzioni.

E non si è accontentata di studiarli, lei li ha voluti incontrare di persona, e si è voluta far conoscere dagli scrittori che hanno reso mitico un periodo della narrativa americana, tra i quali i leggendari esponenti della Beat generation.

Con la sua testimonianza oculare e i racconti appassionati, ha fatto respirare all'Italia la ventata di libertà che spirava oltreoceano e arrivava nel nostro Paese alimentando il sogno americano nell'Italia del dopoguerra. Ma prima dell'America, di Hemingway, dell'età del Jazz e del jukebox, c'era una studentessa un po' annoiata.

Che cosa sognava Fernanda Pivano seduta tra i banchi del Liceo Classico D'Azeglio di Torino?

Allora ero una ragazzina di una famiglia ancora ricca, non rovinata dai fascisti. Non facevo sogni per il mio futuro, a quei tempi per le donne il futuro era sposarsi e avere dei bambini. Ma io non volevo né sposarmi, né avere figli. Da giovane ero carina, non pensi che ero come ora, e mi facevano la corte. Ma quando ero giovane io ero soprattutto disperata della mia ignoranza.

Un giorno arrivò un supplente...
Nel mio liceo venne a insegnare Cesare Pavese. Era un allievo del professor Augusto Monti, che oltre a lui designò come supplente Norberto Bobbio.

Che cosa voleva dire avere come professore Cesare Pavese?
Era diverso dagli altri: lui ci faceva leggere i canti di Dante e ce li spiegava, gli altri insegnanti ce li facevano solo imparare a memoria. Ricordo, come se fosse ieri, le lezioni su Guinizelli. Lui era talmente innamorato della trasformazione artistica di questo autore che spiegandocelo ci lasciava senza fiato. E io mi sono appassionata, in modo forse sproporzionato, agli autori che Pavese leggeva. Li leggeva ad alta voce, in modo incantevole, fino a farli entrare nel cuore.

È vero che all'esame di maturità non passò lo scritto?
Sì, io e il mio compagno di scuola Primo Levi. Era venuto un professore di provincia, tutto vestito di bianco con un grosso stemma fascista appuntato sulla giacca. I nostri temi avevano un contenuto antifascista.

Questo fatto mi creò una profonda crisi perché io come una scema credevo nella scuola. In quell'occasione imparai a conoscere veramente la scuola italiana.

Dopo la laurea in Lettere con tesi su Moby Dick, lei tradusse l'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, pubblicata da Einaudi nel 1943. Cosa la spinse a farlo?
La passione. Pavese mi aveva dato quattro libri per farmi capire la differenza tra la letteratura americana e la letteratura inglese. Questi libri erano: Addio alle armi di Ernest Hemingway e l'antologia di poesie di Masters, e altri due libri che è inutile citare solo per riempire la pagina di corsivi. A innamorarmi di Hemingway ci ho messo mezzo minuto. Un autore che i nostri professori non seppero accettare. Adesso lei mi dovrebbe chiedere perché mi sono innamorata dell'Antologia di Spoon River. Facciamo finta che me lo abbia chiesto.

Perché nel cinismo che attraversava l'America materialistica di quel tempo offriva fiducia e serenità nell'amore, nella lealtà e nella vita vera. Una fiducia che la situazione di quel periodo ci aveva tolto dalle mani, non dal cuore. Quella non era la vera America.

Cosa possiamo scoprire in quel libro?
Si può scoprire ciò che può aiutare l'anima dei giovani a cavarsela nelle traversie della vita.

Lei una volta ha detto che fu colpita dalla «rivoluzionaria tenerezza» dei versi di Masters. Si può fare una rivoluzione con la tenerezza?
Certo! È una rivoluzione moderna. Io nella violenza non ho mai creduto, seguo il suggerimento buddista.

Signora Pivano, lei non si è accontentata di tradurli. Li ha conosciuti, si è fatta conoscere a loro e ci usciva pure insieme ai mitici Hemingway, Kerouac, Bukowski...
E Fitzgerald! E Fitzgerald!

Era divertente passare il tempo con questi scrittori?
Parlare di divertimento per scrittori impastati di tragedia è difficile. Ci si divertiva poco. Ci si diverte con i padroni di un'osteria, io non ho mai avuto tempo di divertirmi. (A dispetto di ciò, nelle foto che la ritraggono, Fernanda Pivano mostra sempre un volto solare e un sorriso radioso). Ho studiato, studiato, studiato.

Una curiosità: durante la presentazione dell'ultimo libro di Gore Vidal a Milano, lei ha sorseggiato Coca-Cola per tutto il tempo. È una bevanda che le piace particolarmente?
No, è una scelta casuale, per bere qualcosa. È un simbolo dell'America, io ne ho conosciuti di più importanti.

Uno sguardo sulla società di oggi. Oggi i ragazzi non leggono molto nel tempo libero, lei come spiega questo disinteresse?
Quei brutti libri che pubblicano adesso! I ragazzi preferiscono guardare Internet che è fatto molto bene. E quello che i professori fanno a scuola non interessa.

Ma come si fa, allora, a iniziarli alla letteratura?
Guarderei insieme a loro Internet, mi farei guidare da loro, cercando di capire cosa gli interessa. E poi cercherei un autore classico in rete. Internet come fonte d'informazione è straordinario.

[Al momento di salutarsi] Sa, io studio Lettere.

Vivrà senza guadagnare una lira. A meno che non incontri un Pavese.

intervista a cura di A. A., gennaio 2008

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[testo e immagine da gingergeneration.it]