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venerdì 17 aprile 2015

Ecologia esistenza lavoro - Officine Filosofiche


Dopo aver lavorato sui temi dell’ecologia e della natura, il gruppo di ricerca di Officine Filosofiche ha rivolto la sua attenzione alla questione, oggi così attuale, del lavoro, ponendosi una serie di interrogativi: come si prospetta il problema del lavoro, di cui è stata dichiarata la “fine”, e che comunque, con l’avvento della rivoluzione informatica, si è così completamente trasformato, se lo consideriamo da un punto di vista “ecologico”? Che ne è oggi del rapporto sociale, della collettività, della “cooperazione” sulla base della nuova veste che ha assunto il lavoro? Qual è il profilo di una nuova soggettività lavoratrice che emerge dall’eredità di alcuni filoni portanti del pensiero novecentesco, dall’operaismo all’antropologia filosofica, da Walter Benjamin a Enrico Forni e Ferruccio Masini? Che posizione dobbiamo prendere rispetto all’idea di limite, così importante dal punto di vista ecologico? Cosa può significare applicare il paradigma ecologico di Gregory Bateson alla sociologia, sia in senso teorico che pratico, e come devono essere giudicate, da questo punto di vista, le tendenze attuali nel campo delle politiche di Welfare? Che ne è oggi del lavoro dell’artigiano, così legato alla corporeità del lavoratore, e assimilato da tutta una tradizione al lavoro dell’artista? Cosa emerge, sul rapporto fra tecnica, arte e natura, dal cinema di Jean Renoir? Come è da ripensare la politica nel nuovo mondo della tecnica globale? E cosa ne è del rapporto fra lavoro e gioco, su cui ha richiamato l’attenzione una grande tradizione, da Schiller alla Scuola di Francoforte a Huizinga?
Le ricerche di Tim Ingold, il grande antropologo scozzese, hanno investito il problema della tecnica nei suoi rapporti con la biologia evoluzionistica e l’ecologia; la sua lezione ha un’importanza decisiva per rispondere alle questioni sopra sollevate. Per questo motivo, il volume si apre con un’intervista a questo studioso intorno ai temi fondamentali delle sue indagini.
Con un'intervista a Tim Ingold a cura di Ivano Gorzanelli

Gli autori: Andrea Angelini, Stefano Berni, Rosella Corda, Ubaldo Fadini, Ivano Gorzanelli, Alfonso Maurizio Iacono, Tim Ingold, Manlio Iofrida, Francesco Marchesi, Igor Pelgreffi, Stefano Righetti, Elettra Stimilli, Matteo Villa.



lunedì 12 maggio 2014

Étienne Balibar : Du marxisme althussérien aux philosophies de Marx

Postface à l’édition allemande de "La Philosophie de Marx"

http://extranet.editis.com/it-yonixweb/IMAGES/DEC/P3/9782707133892.jpg

Etienne Balibar, Marx’s Philosophie, Mit einem Nachwort des Autors zur neuen Ausgabe, übersetzt und eingeleitet von Frieder Otto Wolf, b_books, Berlin 2013. Il s’agit de la traduction de La Philosophie de Marx, collection « Repères », Editions La Découverte, 1993 (nouvelle édition 2001). 



C’est pour moi une heureuse surprise, mais aussi un très grand plaisir, de voir paraître en allemand mon petit livre de 1993 sur « La philosophie de Marx », traduit et préfacé par mon vieil ami Frieder Wolf, dont j’admire le travail et avec qui je dialogue depuis si longtemps. Je l’avais écrit à la demande de François Gèze, Directeur des Editions La Découverte, et d’un collègue aujourd’hui disparu, Jean-Paul Piriou, économiste et syndicaliste, qui avaient fondé la collection « Repères » pour servir à la formation des étudiants en sciences humaines dans un esprit de critique des orthodoxies dominantes et d’ouverture des frontières entre les disciplines. Bien entendu, l’idée de l’éditeur était aussi que ces ouvrages, écrits autant que possible dans un style accessible, sans jargon mais sans simplification exagérée, pourraient être utiles à un lectorat plus large. Vingt ans plus tard, je crois pouvoir dire sans prétention que ces différents objectifs ont été raisonnablement atteints, aussi bien dans l’espace francophone (où le volume a été réédité plusieurs fois) qu’à l’étranger (où plusieurs traductions sont toujours en circulation). Je ne regrette donc pas l’effort que j’avais fourni en quelques semaines de travail intensif pour rassembler et résumer, dans un espace strictement limité a priori, ce que je pensais avoir appris au cours des trente années précédentes à propos des « objets » de la pensée philosophique de Marx, de ses modalités et des problèmes qu’elle recouvre. Cet effort a permis, semble-t-il, à différents groupes de lecteurs, débutants ou non, d’entrer dans l’univers intellectuel de Marx par une porte déterminée, en leur donnant les moyens d’en discuter la pertinence. Et il m’a permis à moi de formuler les clés d’interprétation que j’avais longtemps recherchées, en les confrontant à celles d’autres lecteurs de mon époque.
Mais vingt ans c’est une longue période. Le monde a changé - ce monde social que la fameuse Onzième Thèse de Marx sur Feuerbach demandait de « transformer », et pas simplement d’ « interpréter ». J’ai moi-même changé (pour ne rien dire des autres philosophes de ma génération). Est-ce que j’écrirais aujourd’hui ce petit livre de la même façon ? Telle est en somme la question que me pose Frieder Wolf au nom des lecteurs à venir de ce livre dans l’espace germanophone, en même temps qu’il propose une magistrale contextualisation de mes intentions et de mes propositions.
La réponse est évidemment non. Je ne l’écrirais plus ainsi. Mais la réponse est aussi que je ne suis pas certain d’être capable, aujourd’hui, de produire une synthèse de ce genre, alors même que, depuis les années 90, je n’ai jamais cessé de revenir aux textes de Marx : pour éprouver leur efficacité dans le traitement de diverses questions philosophiques et politiques (citons sans ordre : l’économie de la violence et l’ambivalence de ses effets, les transformations de la subjectivité et de la puissance d’agir induites par la mondialisation capitaliste, les conflits internes de l’universalisme, la fonction administrative et idéologique des frontières, les perspectives de la citoyenneté transnationale, la crise du sécularisme européen et de sa variante française, la laïcité…) ; et pour chercher, en retour, quelles virtualités ces questions d’actualité peuvent nous faire découvrir dans la pensée de l’auteur du Manifeste communiste et du Capital … Sans doute, je pourrais procéder à de nombreux enrichissements et rectifications, mais il est probable que l’effet produit serait une bien plus grande dissémination des thèmes et des problèmes, et que je ne réussirais plus aujourd’hui à inventer, comme je l’avais fait en 1993, un fil conducteur permettant de les relier entre eux au service d’une question unique ...

                                   
                                              leggi il testo completo nel sito del CIEPFC
  
                                    
                                                  

                                                              post correlati: Metamorfosi di Marx 


lunedì 3 marzo 2014

Walter Benjamin, «Segnalatore d’incendio»



L’idea che ci si fa della lotta di classe può indurre in errore. Non si tratta, in essa, di una prova di forza in cui si decida la questione di chi vince e chi perde, né di uno scontro al cui termine al vincitore andrà bene e allo sconfitto male. Pensare così significa dare ai fatti un travestimento romantico. Perché la borghesia, sia che vinca o che soccomba nella lotta, è comunque condannata a perire dalle sue interne contraddizioni che le riusciranno fatali nel corso del suo sviluppo. La questione è soltanto se essa perirà per mano propria o per mano del proletariato. Durata o fine di un’evoluzione culturale tre volte millenaria saranno decise dalla risposta a questo punto. La storia nulla sa dell’infinito di bassa lega simboleggiato dai due gladiatori eternamente in lotta. Solo per scadenze fa i suoi calcoli il vero politico. E la liquidazione della borghesia non si sarà compiuta ad un punto quasi esattamente calcolabile (lo segnalano inflazione e guerra chimica) tutto sarà perduto. Prima che la scintilla raggiunga la dinamite, la miccia va tagliata. Intervento, rischio e rapidità del politico sono una questione di tecnica, non di cavalleria.

Segnalatore d’incendio” da: Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1972 trad. it. in Walter Benjamin, Strada a senso unico. Scritti 1926-1927, a c. d. Giorgio Agamben,  Einaudi, Torino 1983.


lunedì 3 febbraio 2014

«Walter Benjamin. Testi e commenti» Presentazione alle Moline, 6 febbraio 2014


Giovedì 6 febbraio 2014
ore 18:30

Biblioteca “Michele Ranchetti”
Centro Furio Jesi – Scuola di Pace del Quartiere Savena
via Lombardia 36, Bologna


presenta presso
Libreria delle Moline
via delle Moline 3A, Bologna.
Tel 051262977

il terzo numero del periodico
«L’ospite ingrato»
Quodlibet, 2013


Walter Benjamin
TESTI E COMMENTI

Linguaggio, verità, storia nell’opera di Benjamin


A cura di
Gianfranco Bonola


Il volume contiene scritti di Benjamin inediti o tradotti per la prima volta in italiano


testi di Scholem, Jesi, Rosenzweig, Fortini, Ranchetti, Cases, Solmi
e saggi di Bonola, Chitussi, Härle, Peterson, Wizisla.

ne parlano:
Gianfranco Bonola (Univ. di Roma Tre, curatore del volume),
Andrea Cavalletti (Univ. IUAV, Venezia),
Barbara Chitussi (Univ. di Modena e Reggio),
Saverio Marchignoli (Univ. di Bologna).

venerdì 26 luglio 2013

Rudy Leonelli su «Classe» di Andrea Cavaletti



[abstract del  contributo al dialogo « A partire da un  libro :  Classe di A. Cavalletti »
per il 

Magione (Perugia)Sabato 27 luglio]




Classe, di Andrea Cavalletti, in virtù della forza intempestiva della sua problematica fondamentale, riassunta nettamente dalla breve parola che –  sola –  costituisce il titolo completo del libro, segna di fatto  un sensibile scarto rispetto a forme più o meno generiche di contestazione del potere, e/o  di  riemergenti espressioni di un anticapitalismo ridotto a mera protesta morale.
Ed è  probabilmente proprio per il  suo carattere  inattuale, che lo distanzia dal panorama culturale e politico corrente, che Classe  (come ha affermato,  tra altri, per es. Umanità Nova)  è stato da sùbito, un avvenimento.


Affrontando questo libro incisivo, necessariamente complesso e impegnativo (soprattutto in ragione di quello che Damiano Palano ha definito «il raffinato percorso compiuto da Cavalletti» nel tentativo di «scorgere l’elemento distintivo della classe»), vengono proposti alla discussione alcuni nodi problematici salienti:

I) un tentativo di specificazione del concetto chiave di solidarietà, concepito ed agito in termini materialisti, estraneo a supposti valori «superiori», come è stato chiarito da autori ed esperienze della scuola di Francoforte;


II) alcuni possibili approfondimenti del rapporto Foucault-Marx configurato nella chiara esposizione di Cavalletti concernente la biopolitica come forma del governo della popolazione;

 III) la conclusione sviluppa alcune considerazioni   essenziali sull’importanza dei concetto di reattivo (di ascendenza nietzscheana) magistralmente riattivato da Gilles Deleuze, che svolge un ruolo decisivo in Classe.

lunedì 14 gennaio 2013

Walter Benjamin: Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell'età del capitalismo avanzato

Walter Benjamin


 Charles Baudelaire
Un poeta lirico
nell
età del capitalismo avanzato


a cura di Giorgio Agamben, Barbara Chitussi e Clemens-Carl Härle
ed. Neri Pozza,Vicenza,   2012

 
Questo libro presenta  in prima edizione mondiale la ricostruzione   ̶­­ resa possibile dai manoscritti benjaminiani ritrovati da Giorgio Agamben nel 1981 nella Biblioteca nazionale di Parigi   ̶ del libro su Baudelaire cui Benjamin aveva lavorato negli ultimi due anni della sua vita, quando, interrompendo la stesura dei Passages di Parigi, decide di trasformare in un’opera autonoma quello che all’inizio si presentava come un capitolo del libro. Attraverso un paziente lavoro di edizione e di montaggio, che alterna testi inediti ad altri già noti (che trovano solo ora la loro collocazione e il loro senso nell’opera complessiva), il libro permette di seguire la genesi e lo sviluppo, nelle varie fasi della sua stesura, del work in progress che  costituisce la summa della tarda produzione benjaminiana. Mentre del libro su Parigi noi abbiamo poco più che lo schedario, Charles Baudelaire, un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato offre  un’immagine articolata e coerente, anche se frammentaria, del laboratorio benjaminiano e del suo metodo compositivo. Sfatando la leggenda di un autore esoterico, il libro ci presenta, nel suo stesso farsi, il modello di una scrittura materialista, in cui non soltanto la teoria illumina i processi materiali della creazione, ma anche questi ultimi gettano una nuova luce sulla teoria. 

lunedì 28 maggio 2012

Balibar, Löwy, Varikas: L'avvenire dell'Europa si gioca in Grecia



Étienne Balibar, Michael Löwy, Eleni Varikas 
 da Europe-Solidaire (traduzione di Gigi Viglino)


La situazione attuale della Grecia è senza precedenti dalla fine dell’occupazione tedesca nel 1944: riduzione brutale dei salari e delle pensioni. Disoccupazione giovanile al 50%. Imprese, piccolo commercio, giornali, case editrici in fallimento. Migliaia di mendicanti e senza tetto nelle strade. Imposte stravaganti e arbitrarie e tagli a ripetizione su salari e pensioni. Privatizzazioni in serie, distruzione dei servizi sociali (sanità, istruzione) e della sicurezza sociale. I suicidi si moltiplicano. La lista dei misfatti del «Memorandum» potrebbe continuare.
Al contrario, i banchieri, gli armatori e la Chiesa (il maggiore proprietario terriero), non sono tassati. Si decreta la riduzione di tutti i bilanci sociali ma non si tocca il gigantesco bilancio della «difesa»: si obbliga la Grecia a continuare ad acquistare materiale militare per miliardi di euro da quei fornitori europei che sono anche – pura coincidenza – quelli che esigono il pagamento del debito (Germania, Francia).
 
La Grecia è diventata un laboratorio per l’Europa. Si testano su cavie umane i metodi che saranno in seguito applicati al Portogallo, alla Spagna, all’Irlanda, all’Italia, e così via. I responsabili di questo esperimento, la Troika (Commissione europea, Banca centrale europea, FMI) e i loro associati dei governi greci non erano preoccupati: si sono mai visti porcellini d’India, topi di laboratorio protestare contro un esperimento scientifico? Miracolo! Le cavie umane si sono rivoltate: malgrado la repressione feroce condotta da una polizia largamente infiltrata dai neonazisti, reclutati nel corso degli ultimi anni, gli scioperi generali, le occupazioni delle piazze, le manifestazioni e le proteste non si sono fermate da un anno. E ora, colmo dell’insolenza, i greci hanno votato contro la continuazione dell’«esperimento», dimezzando i voti dei partiti di governo (la destra e il centrosinistra che contro il suo programma ha firmato il memorandum) e moltiplicando per quattro il sostegno a Syriza (coalizione della sinistra radicale).

giovedì 12 gennaio 2012

Riccardo Bonavita, Spettri dell'altro (recensione di Giorgio Forni)

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Riccardo Bonavita
Spettri dellaltro. 
Letteratura e razzismo nellItalia contemporanea,
a cura di Giuliana Benvenuti e Michele Nani
Bologna, il Mulino/Ricerca, 2010, 227 pp.

*     *     *

  Giorgio Forni, in “Lettere italiane”, LXIII, 2011, n. 1, pp. 163-168
 
Nel febbraio del 1992 alcune centinaia di studenti dell’Università di Bologna occupavano pacificamente l’aula in cui avrebbe dovuto parlare lo storico Ernst Nolte per protesta contro la tesi semplificante della “guerra civile europea” che equiparava nazifascismo e bolscevismo relativizzando lo sterminio ebraico e minimizzando i tratti specifici del razzismo di stato del Novecento. Quella giornata, che allora ebbe una risonanza addirittura europea, fu un piccolo evento di vita universitaria, ma alcuni fra coloro che vi presero parte con più entusiasmo vi sentirono forse un impegno ulteriore di approfondimento critico e di memoria civile. Vero è che, a uno sguardo retrospettivo, quell’atto di dissenso giovanile segna l’avvio di una pluralità di ricerche e di iniziative che hanno attraversato la cultura bolognese e italiana per quasi vent’anni: nel novembre del 1994 esordiva la mostra La menzogna della razza: documenti e immagini del razzismo e dellantisemitismo fascista, realizzata con il patrocinio dell’Istituto regionale per i Beni Culturali diretto da Ezio Raimondi; seguirono poi le attività del “Seminario permanente per la storia del razzismo italiano” coordinate da Alberto Burgio; gli studi di Rudy M. Leonelli sul revisionismo storico e sulla genealogia foucaultiana della “guerra delle razze” (ora nuovamente dibattuta negli atti del convegno Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, a cura di R.M. Leonelli, Roma, Bulzoni, 2010); il volume collettaneo Nel nome della razza. Il razzismo nella storia dItalia 1870-1945 (Bologna, il Mulino, 2000); fino ad arrivare, per esempio, alla mostra recente Lestraneo tra noi: la figura dello zingaro nellimmaginario italiano, allestita da Mauro Raspanti nel 2008. Ed è una volontà di indagare criticamente gli angoli oscuri del nostro passato cui potrebbe ascriversi, ma forse con meno limpidezza di pensiero, anche un romanzo come Asce di guerra di Wu Ming. In breve, una filologia filosofica applicata alla storia, ai detriti del rimosso, alle ombre inquietanti della nostra identità collettiva.
Non a caso in quella mattinata del 1992, con un frusciare di gentilezza sorridente, Riccardo Bonavita distribuiva un volantino in cui campeggiava un aforisma delle Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, su cui in quegli anni aveva ragionato a lezione pure il Raimondi: “In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. [...] Anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”. E di lì a poco il Bonavita avrebbe messo alla prova quel concetto alto di tradizione con i suoi studi sul primo Ottocento, sul Leopardi del Discorso giovanile e poi dei Paralipomeni, sulla poesia di Franco Fortini: dal “Proteggete i miei padri” della Cassandra foscoliana dei Sepolcri al classicismo anticonformista e ironico del Leopardi fino agli ultimi versi del Fortini di Composita solvantur uscito proprio nel 1994: “Non per l’onore degli antichi dèi, / né per il nostro ma difendeteci. / [...] / Rivolgo col bastone le foglie dei viali. / Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia. / Proteggete le nostre verità”. Nell’operazione poetica e intellettuale del Fortini il giovane Bonavita aveva trovato insieme un tramando di memoria e un’utopia critica, quella della Poesia delle rose: “Chi siamo stati / sapremo e senza dolore”. Così oggi, leggendo la raccolta postuma di saggi intitolata Spettri dellaltro. Letteratura e razzismo nellItalia contemporanea, viene da dire che nella sua generazione di universitari bolognesi il Bonavita fu colui che sentì con più passione e più rigore l’esigenza di coniugare l’impegno civile della coscienza critica con gli strumenti dell’analisi letteraria e filologica, anche e soprattutto esplorando i margini lividi e feroci della storia culturale del Novecento.

domenica 16 ottobre 2011

I veri moderati - Roma 15 ottobre 2011

La tradizione degli oppressi ci insegna che lo «stato di emergenza » in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza …
Walter Benjamin





mercoledì 1 dicembre 2010

Mario Monicelli ... l'immagine che balena una volta per tutte ...


La tradizione degli oppressi ci insegna che lo «stato di emergenza » in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza .… Lo stupore che le cose che viviamo sono «ancora» possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è l’inizio di alcuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.


Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, § 8




Mario Monicelli
1973:
VOGLIAMO I COLONNELLI
Cronaca di un colpo di Stato






lunedì 7 settembre 2009

Mussolini, per ipotesi: «Incidere nella toponomastica». Piazzale Loreto: « una occasione irripetibile», forse impossibile


anche i morti
non saranno al si
curo dal nemico,
se egli vince.

Walter Benjamin





Ho letto con fastidio, ma senza sorpresa, le agenzie di domenica 6 settembre, che riferivano:
 

«penso che sia una occasione irripetibile per modificare la denominazione di Piazzale Loreto a Milano in Piazza dell'Unità d'Italia'. Alessandra Mussolini, deputata del Pdl, «suggerisce di dare il nome di Piazza Unità d'Italia a Piazzale Loreto a Milano. La proposta è stata avanzata a seguito dell'ipotesi del cambio della denominazione di Piazza Venezia a Roma. "Se per il 150° anniversario dell'Unità d'Italia si è deciso di incidere nella toponomastica" - afferma ».

L' «ipotesi di Mussolini » (junior) non brilla per originalità: di fatto non è altro che la riedizione, riadattata , in occasione delle celebrazioni dell'unità d'Italia, di una «idea » lanciata senza esito, nella tarda primavera del 2005 da Stefano Zecchi , assessore
alla Cultura di Milano, il quale  aveva proposto di cambiare il nome di Piazzale Loreto in Piazza della Concordia:

venerdì 17 luglio 2009

La mitica ambiguità delle leggi che non possono essere "trasgredite" (Walter Benjamin)



Dove si stabiliscono confini, l'avversario non viene semplicemente distrutto; anzi, anche se il vincitore dispone della massima superiorità, gli vengono riconosciuti certi diritti. E cioè, in modo demonicamente ambiguo, pari diritti: è la stessa linea che non deve essere superata dai due contraenti. Dove appare, nella sua forma più temibile e originaria la stessa mitica ambiguità delle leggi che non possono essere "trasgredite", e di cui Anatole France dice satiricamente che vietano del pari ai ricchi e ai poveri di pernottare sotto i ponti.


Walter Benjamin, Zur Kritik der Gewalt (1920-1921),
trad. it. Per la critica della violenza
in Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, Torino, Einaudi, 1962.




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immagine da Sucardrom

domenica 25 maggio 2008

Almirante, per esempio

Da Milano...

La protesta dell'Aned [*] :

AN celebra Almirante:

"Un esempio da seguire"

I muri di Milano sono tappezzati di manifesti firmati Alleanza Nazionale con la faccia di Giorgio Almirante. "Un grande italiano. Un esempio da seguire", si legge sul manifesto, facendo riferimento al ventesimo anniversario della morte del fondatore dell'MSI, e a una messa che sarà celebrata in una chiesa del centro.
A nome della sezione milanese dell'ANED esprimo la più sdegnata condanna di questo manifesto. Giorgio Almirante fece parte per 5 anni, dal primo all'ultimo numero, della redazione della rivista fascista La difesa della razza, principale veicolo nel nostro paese di quella politica razzista che sfociò tra il '43 e il '45 nella deportazione e nello sterminio di migliaia di uomini, donne e bambini ebrei. E fu altissimo esponente della RSI, arrivando a firmare il famoso manifesto in cui si prometteva la "fucilazione nella schiena" degli "sbandati ed appartenenti a bande" che non si fossero piegati alla leva della repubblica di Mussolini, al soldo dell'alleato nazista.
Il manifesto milanese ci parla della cultura politica di forze che oggi occupano altissime cariche istituzionali. Le lacrime di fronte al museo Yad Vashem di Gerusalemme sono archiviate; le critiche al fascismo, come "male assoluto", pure: oggi è cambiato il vento, e AN rivendica con orgoglio una storia fatta anche di disonore.
I superstiti dei lager e i familiari dei Caduti esprimono la loro protesta per una iniziativa che riporta indietro di decenni il dibattito politico nel nostro paese.
Dario Venegoni
presidente dell'ANED di Milano

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... a Roma:

dal sito aldo dice 26 x 1 [24/o5/08]:

fascisti: roma avrà via almirante

[24/08] A vent’anni dalla scomparsa, il sindaco di Roma Gianni Alemanno - l’uomo con la celtica al collo, primo sindaco di destra nella capitale - vuole intitolare una via al leader storico dell’Msi Giorgio Almirante, redattore della rivista La difesa della razza e mai pentito repubblichino di Salò. Motivo: «E’ stato il precursore della moderna destra democratica in anni tormentati in cui era difficile superare il ghetto in cui era rinchiuso l’Msi». No della sinistra romana. Agnostico il Pd: per Nicola Zingaretti «la scelta riguarda il Consiglio comunale». Di Almirante, il 28 maggio, Luciano Violante e Gianfranco Fini presenteranno alla camera la raccolta dei discorsi parlamentari.


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Ma ripensando a Grosseto...

".... impadronirsi di un ricordo come esso balena nell'istante di un pericolo"
[**]


La rapida sequenza tra il manifesto milanese di AN, inneggiante ad Almirante: "Un grande italiano. Un esempio da seguire", e l'annuncio del neo sindaco di Roma di voler dedicare una strada a questo personaggio, ha sollecitato la memoria.
E, scavando qua e là, ho ritrovato un precedente in cui la proposta di intitolare una via ad Almirante, nel 2005, veniva duramente criticata con questa motivazione: "... appare assolutamente inesistente nel caso di Giorgio Almirante quella condizione di personaggio da proporre come esempio per le nuove generazioni ..."

Avendo alla mente questa frase tratta dal documento dell'Istituto storico grossetano della Resistenza e dell'età contemporanea, che riproduco integralmente di seguito, è difficile non leggere nelle attuali "grandi manovre" di AN (celebrazione dell'esempio - intitolazione di una strada, tendenzialmente in ogni città) un preciso disegno di violenta revisione della storia teso rovesciare e liquidare la cultura storica e politica che ha animato questo lucido documento, che contestava l'intitolazione di una strada rifiutando l' "esempio":




PERCHÉ NO AD UN INSERIMENTO DI GIORGIO ALMIRANTE NELLA TOPONOMASTICA GROSSETANA
.
La proposta di intitolazione di una strada della città di Grosseto a Giorgio Almirante torna all’ordine del giorno delle scelte del Comune di Grosseto. Fu sostenuta dal vicesindaco Andrea Agresti, già nel 2002, nel quadro di una proposta generica giustificata con la necessità di assicurare una memoria attraverso la toponomastica cittadina a vari politici italiani (si propose anche il nome di Enrico Berlinguer, nel quadro di una supposta “par condicio”). Seguì una discussione pubblica, interrottasi nel momento in cui il silenzio dell’Amministrazione fece supporre un abbandono del proposito. Ritenevamo che le argomentazioni che molti cittadini grossetani avevano opposto a quel progetto avessero dissuaso l’Amministrazione comunale. Non è così.
Ci sembra allora indispensabile dare di nuovo diffusione ad argomenti e documenti, che dovrebbero suggerire a chiunque abbia rispetto per la Costituzione e la prassi democratica di abbandonare ogni incertezza sulla legittimità e opportunità di una scelta, che a nostro giudizio oltrepassa i limiti del decoro per questa città.
La vicenda politica di Giorgio Almirante si sviluppa attraverso tre fasi: gli anni del regime fascista, la breve stagione della Repubblica Sociale Italiana, il lungo periodo dell’Italia repubblicana.
Fuori da ogni intento di ricostruzione biografica completa, è opportuno segnalare alcune tappe significative, documentabili attraverso fonti d’archivio o scritti comparsi sulla stampa:
1. L’impegno nella campagna razziale negli anni del regime
2. Le responsabilità sempre in materia di discriminazione e persecuzione razziale e le manifestazioni di intransigenza e durezza nello svolgimento di un ruolo dirigente nella RSI
3. La sostanziale continuità tra l’impegno politico fascista e quello successivo alla nascita dell’Italia repubblicana e democratica

1.
Giorgio Almirante fu dal 20 settembre 1938 segretario di redazione della rivista “Difesa della razza”, quindicinale che vive tra 1938 e 1943 ed è l’espressione più diretta del razzismo del regime ( i redattori sono tutti firmatari del “Manifesto della razza”, che apre la strada alla legislazione razziale del regime fascista ). Fu anche caporedattore del “Tevere”, periodico distintosi per una campagna antiebraica “estremista, sfrenata, azzardosa”(A. Lyttelton) già prima delle leggi razziali.

sabato 27 gennaio 2007

Un revisionismo normale

Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo "come propriamente è stato". Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell'istante di un pericolo.
(Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia)

Premessa
 Il titolo di un libro di Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, non costituisce soltanto un'adeguata designazione dei negazionisti, araldi della "dottrina secondo la quale il genocidio praticato dalla Germania nazista nei confronti degli ebrei e degli zingari non è esistito, ma appartiene al mito, alla diceria, alla truffa"[1][1].   
Dice anche che la memoria può morire, e non di morte naturale.
Affrontare la questione della memoria a partire dalla sua estremità negativa, la cancellazione, può far emergere la sua materialità. Pensata a fronte della sua possibile sparizione, la memoria si rivela non come una sedimentazione continua, ma come una formazione storica; non una "facoltà" ma un'attività, non un patrimonio pacificamente ricevuto e posseduto ma un compito, un'arma e una posta in gioco.

1. Strategie
Nel composito schieramento revisionista, il negazionismo sembra occupare, a prima vista, una posizione marginale[2].
Focalizzando l'attenzione sul punto cruciale dello sterminio perpetrato dai nazionalsocialisti (e collaboratori) si distinguono due principali correnti: da un lato un revisionismo relativizzatore, accademicamente e mediaticamente presentabile e sovente - ma non senza contestazioni - accettato che, senza ricusare la realtà storica del genocidio, tende a eluderne o eliderne la specificità; dall'altro, il sedicente "revisionismo olocaustico", il negazionismo, più o meno emarginato, che fonda il suo carsico attivismo sull'obiettivo di "confutare" questa realtà.
Assunta in modo rigido - come disgiunzione assoluta di due sfere indipendenti, non comunicanti, reciprocamente estranee - questa distinzione diviene fuorviante, precludendo l'accesso alla dimensione strategica di questi fenomeni.
In un intervento sulla rivista fondata da Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir - «Les Temps Modernes», che mantiene alta e viva l'attenzione critica su questi problemi - Robert Redeker respinge
l'ingannevole distinzione tra revisionismo e negazionismo, essa non ha nessuna pertinenza, il fine perseguito in entrambi i casi si rivela lo stesso, andando il negazionismo direttamente allo scopo, mentre il revisionismo prende per raggiungerlo la via traversa e più paziente della minimizzazione. Il revisionismo in senso stretto, relativizzando ciò che dopo di lui il negazionismo verrà a cancellare, appare come una propedeutica del negazionismo. C'è coalescenza del revisionismo e del negazionismo.[3]
Dal fatto che il negazionismo non sia così isolato come potrebbe sembrare, o piacere, derivano alcune conseguenze. La prima è che la strategia del silenzio, l'idea che sia sufficiente e utile non parlarne, evitando di fornirgli una senz'altro immeritata pubblicità, è ormai da tempo, nella migliore delle ipotesi, una compensazione illusoria. La seconda è che l'analisi dei contesti e delle sinergie che presiedono al suo funzionamento e alla sua riproduzione diviene indispensabile. E urgente.
Natacha Michel sottolinea che il negazionismo non potrebbe incedere senza l'autorizzazione fornitagli da una varietà di revisionismi circostanti:

quello di Furet a proposito della rivoluzione francese, quello che procede alla criminalizzazione delle rivoluzioni del secolo, quello che destituisce il militante come soggetto a profitto della marionetta, quello che abbassa il repubblicanesimo anti-vichyista, ecc. La sola questione che pone il negazionismo è di sapere come è compatibile, rovinato ogni dispositivo di pensiero, e in una volontà di rifare la storia, con le categorie ambienti [4].[4]

In questa prospettiva, alcuni fenomeni altrimenti relegabili nella dimensione del bizzarro e dell'irrilevante divengono comprensibili e sensati. Per esempio il fatto che Ernst Nolte, qualche negazionista italiano ed altri inizino a convenire segnala il superamento di una soglia: dal concatenamento immanente dei discorsi "revisionisti relativizzatori" e negazionisti, sottolineato da Redeker, al coinvolgimento dei soggetti di discorso. [5][5].
Alla cerniera tra i fatti e la riflessione storico-politica si è situata una dimensione decisiva della filosofia contemporanea. È nel riferimento ai fatti, alla loro infima materialità, che Foucault individua il differenziale tra una critica improntata all'armonia prestabilita con le istituzioni e un'altra, più interessante e certo meno confortevole. La critica attiva dei revisionismi, che comporta la necessità di "abbassarsi" a registrare, tentare di decriptare e cartografare eventi non sempre grandi per risonanza e dimensioni , seguire i reticoli mobili e spesso sottili dei fatti (discorsivi e non), è destinata a urtare robusti e molteplici ostacoli. In una parola è scomoda. Essa porta così in rilievo l'esistenza di qualcosa come un interdetto ufficioso ma efficace, che getta una luce diversa sulle istituzioni, sul loro funzionamento e sui loro confini.
Un evento minore, incorporeo come un "convegno che avrebbe dovuto tenersi..."[6] [6] e al tempo stesso materiale come un testo che raccoglie relazioni non pronunciate, presuppone delle condizioni e comporta delle conseguenze.
Tra queste, la più importante è la rottura formale della separazione che sosteneva la legittimazione culturale del revisionismo relativizzatore di Nolte e il suo complemento: il posticcio alone "sovversivo" di cui si ammantava il negazionismo. Al definitivo eclissarsi di questa dicotomia, occorre ricordare che la sua presunta evidenza non è stata da tutti condivisa. Nel 1987, in pieno Historikerstreit[7],[7] Vidal-Naquet osservava con folgorante tempestività: "È grave vedere uno storico come Nolte utilizzare argomenti dell'arsenale revisionista. Come Rassinier, Faurisson o Kern" [8][8] La congiunzione tra i due filoni non è altro che il tardivo riconoscimento di una parentela più lontana: l'attenuazione del genocidio e la sua negazione occupano spazi diversi ma comunicanti e parzialmente sovrapposti.
A fronte della buona coscienza esterrefatta perché un professore emerito dell'Università di Berlino tesse l'elogio della scientificità dei metodi negazionisti, le Tesi di Benjamin balenano come un ricordo nell'istante di un pericolo:

lo stupore perché le cose che viviamo sono ancora possibili (...) è tutt'altro che filosofico. Non è l'inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l'idea di storia da cui proviene non sta più in piedi [9][9].

Uno rapido sguardo critico ad alcune delle motivazioni fornite da Nolte a sostegno della legittimazione dei negazionisti, esposte in un testo del 1993, Streitpunkte [10][10], permette di evidenziare alcune poste in  gioco decisive di questa operazione:

Nolte riduce polemicamente il rifiuto del dialogo coi negazionisti a una sola motivazione: il legame del negazionismo col "vecchio nazionalsocialismo" e col "neonazismo" (le eufemistiche virgolette su questi due termini sono dello stesso Nolte). Attraverso questa riduzione egli rimuove il nucleo della questione: un dibattito coi negazionisti presuppone che lo sterminio perpetrato per mezzo delle camere a gas venga fatto regredire dal piano della realtà storica a quello delle "opinioni" e delle "ipotesi". È l'inaccettabilità di questo presupposto a motivare l'inaccettabilità del dialogo, e proprio su questo punto Nolte è particolarmente minimizzatore.
L'immagine della collocazione politico-ideologica dei negazionisti fornita da Nolte non è altro che una sommaria riproduzione dell'immagine di sé fornita dalla propaganda negazionista. Non c'è, a questo livello, alcun distacco critico: nulla è detto dei rapporti tra "l'uomo di sinistra" Rassinier e i nazisti e fascisti europei, così come la connotazione dell'editrice negazionista Vieille Taupe è dedotta semplicisticamente dalla sua etichetta: "la vecchia talpa è la rivoluzione". Nolte non dice nulla della tortuosa (ma documentabile e documantata) storia di questa impresa "rivoluzionaria" che è giunta a partecipare ai meeting del partito di Le Pen, né dei legami della stessa con i neonazisti francesi. Limitandosi a decretare il carattere "scientifico" del negazionismo, Nolte separa artificiosamente in esso la propaganda dalla scienza, mentre non fa che riprodurre la propaganda stessa.
Nolte pretende così, in quanto storico, di sancire la scientificità di una "scienza" (qui, di una "scienza" che ha per oggetto la storia) senza porre il problema della capacità di questa "scienza" di pensare la propria storia: su questo piano, accuratamente evitato, il negazionismo è particolarmente vulnerabile, non potendo rendere conto della propria genesi e costituzione in termini altri dall'idealità.[11]

In un paese normale.
In Italia, nel corso di questo decennio fin de siècle, il negazionismo si trova ad operare in una situazione radicalmente mutata.
Nel dopoguerra la letteratura negazionista è restata a lungo un genere minore a circolazione ridotta, relegato ai ristretti circuiti dell'estrema destra, che hanno realizzato le prime traduzioni italiane delle opere del paradossale capostipite: il pacifista Paul Rassinier .
Soltanto all'inizio degli anni Ottanta, sulla scia del "caso Faurisson"[12] [11]che offre una inedita notorietà spettacolare alle "tesi" negazioniste, iniziano a comparire in Italia i primi articoli ed opuscoli prodotti in frange minori dell'estrema sinistra ispirate al bordighismo, ad alcune correnti libertarie e/o al situazionismo, ma scarsamente rappresentative di queste tendenze. Si tratta di un fenomeno confidenziale, che non riesce a coinvolgere in modo significativo l'estrema sinistra italiana.
Negli anni Novanta il "dibattito" culturale europeo è rapidamente saturato dai revisionismi circostanti e dalle culture ambienti che hanno come effetto collaterale il disserramento del negazionismo. Di più, come ogni altro paese storicamente (cor)responsabile dell'impresa genocida, l'Italia trascina e cerca di risolvere e finalmente archiviare specifici problemi di identità nazionale. Come sottolinea Lutz Klinkhammer:

in Italia negli ultimi anni è stata fortemente auspicata una 'conciliazione nazionale', considerata un elemento fondamentale per una società 'postfascista'. Il 'superamento' del passato fascista da parte di una presunta società postfascista presuppone però l'offuscamento dei lati negativi di questo passato [12].[13]

La "grande esigenza di sottoporre determinate interpretazioni della storia nazionale a un processo di armonizzazione", che comporta operazioni di "abbellimento" del passato[14] [13] costituisce l'indispensabile articolazione sul piano storiografico del progetto di costituzione di un paese normale. Questo slogan, che il pubblico italiano ha conosciuto come parola d'ordine della sinistra di governo, ha però a sua volta una storia. La genealogia delle procedure di pacificazione della storia conduce a ridimensionare drasticamente la presunzione di originalità della cultura politica italiana. Mark Terkessidis sottolinea che, già nel 1980, Armin Mohler, precursore della Neue Rechte, sosteneva la necessità per i tedeschi di "tornare a essere una nazione normale come le altre: una nazione indivisa, non solo fisicamente vitale, ma anche abbastanza armonica interiormente"[15]. L'obiettivo di divenire una "nazione normale", che istituisce un rapporto "armonico" col proprio passato, è da tempo una posta in gioco decisiva del revisionismo storico tedesco:

La storia non deve più essere oggetto di scontro, deve essere integrata come un elemento 'normale' all'interno della nazione e deve costituire una stabile "identità nazionale" [15].[16]

La sutura della memoria, chiudere le lacerazioni aperte e latenti nella storia moderna, e quelle più specifiche della "storia patria", è ormai divenuto, anche in Italia, un programma statale. La trasmissione del sapere - della storia, certo, ma non solo - è investita da questa operazione. Ma se le relazioni di potere e sapere non passano sopra, ma attraverso di noi, ad ogni snodo della trasmissione del sapere in cui (emittenti e/o riceventi) siamo collocati, esistono resistenze possibili.
Annunciata sul piano metapolico, la "trasgressione delle vecchie appartenenze", (destra/sinistra, fascismo/antifascismo, etc.), è rapidamente e prevedibilmente divenuta normativa e il negazionismo, che in questo campo ha svolto, fin dai tempi di Rassinier, un ruolo pionieristico, si trova nella paradossale posizione del creditore che può reclamare il legittimo pagamento di un debito.
Nel 1996 le cerimonie ufficiali dello Stato italiano giungono ad accomunare retrospettivamente coloro che - in onestà d'intenti - hanno sostenuto la macchina dello sterminio o l'hanno combattuta [16].[16].[ Lo stesso anno, in tutt'altra dimensione, il moto sinistrorso, che disloca le traduzioni italiane di Rassinier dalle storiche editrici di estrema destra alla nuova edizione "di sinistra", si compie giustificandosi con analogo argomento: l'ex deportato, legandosi a (vecchi e neo) fascisti e nazisti europei, non ha fatto altro che collaborare con onest'uomini di estrema destra (o, con eufemismo supplementare, reputati tali...[17.[16]).[18] Generalmente inosservata, la formazione di un luogo comune a due spazi distanti e distinti, il discorso ufficiale e al suo preteso "altro", è indice di una nuova egemonia che non è, semplicisticamente, il risultato della decisione sovrana delle "classi dominanti", ma l'effetto di una molteplicità di trasformazioni disperse che hanno reso normale il revisionismo.
Il negazionismo non si sostiene sulla "qualità" delle proprie tecniche di "confutazione" delle prove del genocidio, ma su quelle che poteremmo chiamare, con Wittgenstein, "somiglianze di famiglia":

Non posso caratterizzare queste somiglianze meglio che con l'espressione "somiglianze di famiglia"; infatti queste somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono e s'incrociano nello stesso modo: corporatura, tratti del volto, modo di camminate, temperamento, ecc. ecc. E dirò: i 'giochi' formano una famiglia [18].[19]
Il "gioco" negazionista non è identico a nessuno dei "giochi" revisionisti normalmente ammessi, ma condivide tratti, presupposti, gruppi di enunciati e segmenti di regole con ciascuno di essi. Probabilmente è qui la forza del moto che lo trasporta insensibilmente, ma inesorabilmente, dal regno dell'inaudito verso il mondo del già-sentito. Non è nella tecnica del discorso negazionista, ma nel vuoto di memoria che lo circonda, il "segreto" che rende possibile il prodigio di un iceberg rovesciato: la negazione in senso stretto è una punta sommersa, mentre la grande massa del corpus discorsivo è già fuori, nell'aria e nella luce del tempo.

Negazione, navigazione.
Il negazionismo naviga in rete. Diventa una nuova e imprevedibile forma di segreto pubblico.[16].[20].[19]
Il dosaggio di escursioni esplicite e forme di implicitazione ha, per questa impresa, carattere strutturale. Le iniziative editoriali che, oltre alle tradizionali collane di estrema destra, hanno visto sorgere un'editrice che affianca alla pubblicazione di testi di estrema sinistra una serie di opere negazioniste nate, letteralmente, a destra e a manca, sono circondate da una nebulosa di episodi "minori": dalla circolazione più o meno informale di testi anonimi o pseudonimi, a varie forme di "concessione", slittamento linguistico e concettuale, reperibili nei testi prodotti da diversi aggregati. Le forme allusive, fluide, intermittenti, costituiscono un indispensabile genere di accompagnamento. La moltitudine di episodi disparati è generalmente percepita come un ammasso di casi sconnessi: volta a volta si tratterebbe di un'eccezione irrilevante e priva di significato. A questa dislessia, si può opporre una prospettiva che veda il caso particolare come indice della tendenza, così "come il cader di una goccia rappresenta la direzione della pioggia"[23].[16].[21]
Lo scandalo non è una risposta adeguata, ma un effetto previsto, calcolato, reiterato. Come se la compiuta "violazione dei tabù" potesse ripetersi indefinitamente, monotona, petulante, trascinata in un attivismo inerte dal moto della propria inflazione: utopia realizzata del perpetuo lancio pubblicitario dello stesso prodotto.
Che il negazionismo, apparentemente così arcaico, navighi nel più avanzato universo telematico è un ultimo, estremo paradosso non solo di questa corrente, ma del nostro tempo.
Il problema non concerne semplicemente la possibilità di aggirare i divieti legali[21],[22] in Italia inesistenti, ma più radicalmente la logica del mezzo e la sua ideologia: la fruibilità di oggetti avulsi dalla loro storia, la circolazione di una massa di informazioni tutte egualmente raggiungibili e quindi difficilmente selezionabili, l'apologia della deregulation comunicativa: la possibilità di dire (e all'occorrenza negare) tutto e il contrario di tutto, di cui non si sospetta la stupefacente parentela con l'assoluta impossibilità di dire qualcosa, la "libera" fluttuazione e il collage arbitrario di enunciati privi di contesto. Emmanuel Chavaneau ha osservato come il negazionismo, adattandosi con facilità all'aria del tempo, possa partecipare a giusto titolo alla "hit parade della felicità in serie" accessibile a domicilio per mezzo di Internet, nella multiforme offerta di certezze a buon mercato [22].[23]
Un problema centrale è costituito dall'articolazione dei più banalizzati motivi anti-identitari con l'interazione telematica: la trionfale apologia di una "democrazia virtuale" basata sullo scambio di messaggi tra individui e gruppi che "indossano" identità fittizie e indefinitamente cangianti[23].[24] Come ha recentemente dimostrato l'eccellente libro di Nadine Fresco sul capostipite del negazionismo, già in Rassinier la "revisione" della storia è doppiata da una costante "autorevisione": Rassinier ha ininterrottamente modificato e falsificato la propria biografia politica, costruendo un personaggio fittizio ai fini di legittimare la falsificazione negazionista della storia[24].[25] Gli epigoni hanno non soltanto riprodotto questo procedimendo, tramandando in modo acritco la (auto)biografia fittizia del Maestro, ma ne hanno rilanciato i metodi, e non a caso hanno trovato nel carnevale virtuale delle identità fittizie un ambiente particolarmente adatto alla propagazione.
C'è materia sufficiente per leggere con rinnovata attenzione le Tesi di filosofia della storia: "Nulla ha corrotto la classe operaia tedesca come l'illusione di nuotare nella corrente. Lo sviluppo tecnico era la corrente in cui credeva di nuotare". È stata questa, secondo Benjamin, una delle cause dello sfacelo successivo.[25].
 [26]
Il dinamismo cosciente della storia

Il testo di Vladimir Jankélévitch appare al nuovo senso comune come il relitto di una bizzarra civiltà scomparsa:

Ma Auschwitz, ripetiamolo, non è argomento di discussione; Auschwitz esclude i dialoghi e le conversazioni letterarie; e la sola idea di confrontare il Pro e il Contro ha qui qualcosa di vergognoso e di derisorio; questo confronto è un'indecenza nei confronti dei suppliziati. Le "tavole rotonde", come si dice, sono fatte per i giochi ai quali si dedicano ogni estate i nostri brillanti conversatori durante le loro vacanze; ma i campi della morte sono incompatibili con questo genere di dibattiti e di cicalecci filosofici, Del resto il nazismo non è un'"opinione", e non dobbiamo prendere l'abitudine di discuterne con i suoi avvocati[27][26].

Quest'etica - che segnala l'esistenza di un limite all'indiscriminata proliferazione del "dialogo" - ci lascia responsabili della sua traduzione in un tempo che non è più quello della sua enunciazione. Nel 1974, Foucault, partecipando a una discussione critica della moda rétro, caratterizzata dal successo di film come Cognome e nome Lacombe Lucien, di Louis Malle,[28] aveva fatto alcune osservazioni importanti sulla memoria e sui conflitti che la investono:

È in atto un vero e proprio scontro. E qual è la posta in gioco? Ciò che si potrebbe chiamare grosso modo memoria popolare (...) La storia popolare era, fino ad un certo punto, più viva, più chiaramente formulata, ancora nel XIX secolo, in cui esisteva per esempio, tutta una tradizione di lotte che venivano riportate sia oralmente, sia con dei testi, delle canzoni, ecc. Dunque, una serie di meccanismi è stata messa in moto (la "letteratura popolare", la letteratura a buon mercato, ma anche l'insegnamento scolastico) per bloccare questo dinamismo della memoria popolare e si può dire che il successo dell'impresa sia stato relativamente grande (...) Ora, la letteratura a buon mercato non basta più. Ci sono dei mezzi molto più efficaci: la televisione e il cinema. E credo che fosse un modo di ricodificare la memoria popolare, che esiste, ma che non ha alcun mezzo per esprimersi. Allora, si mostra alla gente non quello che sono stati, ma quello che devono ricordare di essere stati. Poiché la memoria è comunque un grosso fattore di lotta (in effetti è proprio in una sorta di dinamismo cosciente della storia che le lotte si sviluppano) si tiene in pugno la memoria della gente, il suo dinamismo, e anche la sua esperienza, la conoscenza delle lotte precedenti. Bisogna non si sappia più cos'è la resistenza...[29][27].

Queste considerazioni, senza dubbio datate, si situano in un punto critico che partecipa di un processo più ampio e, a distanza di un quarto di secolo, hanno soltanto valore indicativo per una possibile analisi critica della cultura attualmente egemone. Ma assegnano alla memoria una valenza storica non contingente: la genealogia non è l'opposizione della storia alla memoria , ma l'accoppiamento delle conoscenze erudite e della memorie "locali" (estranee al sapere comune e al buon senso) delle lotte e dei luoghi "speciali" come il carcere, il manicomio ecc. La memoria non ha in questa prospettiva una funzione di pacificazione, ma di rottura: si insedia nella distanza e nel conflitto, riattivandoli.[30][28].
Nel caso estremo dei campi di sterminio non sorprende che il buon senso, per il quale il genocidio è "assurdo" e "incredibile", sia uno dei ritornelli argomentativi preferiti dalla pseudo (Nolte permettendo)-scienza negazionista nella sua guerra di annientamento della memoria dei deportati e della memoria storica.[31][31].
Dalla Scuola di Francoforte a Foucault e oltre, non senza considerevoli spostamenti e radicali riformulazioni, l'attività filosofica è stata sfigurata dallo sterminio. Il tracciato di "una filosofia presente, inquieta, mobile lungo tutta la sua linea di contatto con la non-filosofia",[32] l'ha incontrato come un luogo inevitabile, che le ha imposto un'inquietudine permanente.
In un tempo in cui "il razzismo non è in regressione, ma in progresso",[33][31] emerge da La volontà di sapere, come da una sorta di pagine postume pubblicate in vita, una linea di problematizzazione che conduce al modo in cui il mito nazista del sangue si è trasformato "nel più grande massacro di cui gli uomini possano, a tutt'oggi, avere memoria"[32].[34]  Da oltre mezzo secolo, la riflessione sulla storicità della ragione ha come condizione di esistenza e come problema irrinunciabile la memoria di questa lacerazione.
In questo spazio, i "problemi" che il negazionismo pretende di porre sono irricevibili. Esso può costituire un problema come oggetto, eventualmente come minaccia, non come interlocutore. Nessuna problematizzazione degna di questo nome può prendere sul serio la caricaturale deduzione "marxista" secondo la quale i campi di sterminio non possono essere esistiti in quanto non compatibili con le esigenze di sfruttamento capitalistico della forza-lavoro. Così come l'interpretazione del nazismo come irruzione metafisica del Male - che costituisce il bersaglio polemico (e il modello rovesciato) del negazionismo - ha molto a che vedere con il l'enorme lavoro storico e filosofico contemporaneo che non configura il nazismo come l'assolutamente Altro della nostra normalità. Strategicamente offensivo e tatticamente trasgressivo, il negazionismo è da questo punto di vista ideologicamente sedativo: la sua tendenza a eliminare o rendere evanescente la storia mira a ristabilire una pace terrificante laddove l'analisi delle forme storiche della razionalità moderna nei loro complessi rapporti con il razzismo e le sue trasformazioni hanno introdotto un'inesauribile tensione critica e autocritica nel nostro pensiero e nelle nostre pratiche.
Mantenere viva questa tensione non è mai semplicemente, questione di difesa della memoria, ma di una sua riattivazione. Non possiamo affermare  la consapevolezza critica del  passato senza turbare il presente.

rudy m. leonelli,
Un revisionsmo normale”
in Luca Verri (a c. d.),
Santarcangelo di Romagna,
Fara editore, 1999







NOTE:


[1]1. Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1993 (ed. or. 1987), p. 77.
[2]2. Per un primo e articolato orientamento bibliografico sulle differenti tendenze revisioniste e la relativa letteratura critica rinvio alla bibliografia essenziale curata da Cesare Bermani in appendice a C. Bermani, S. Corvisieri, C. Del Bello, S. Portelli, Guerra civile e stato. Per una revisione da sinistra, Roma, Odradek, 1998, pp. 82-100.
[3]3. R. Redeker, "La toile d'araignée du révisionnisme", «Les Temps Modernes», (1996) 589, p. 1.
[4]4. "Le négationnisme: histoire ou politique?", in N. Michel (a c. d.), S. Lindeperg, M. Chaillou, D. Daeninckx, P. Lartigue, J. C. Milner, S. Lazarius, F. Dominique, Ph. Beck, F. Regnault, N. Fresco, J.-P. Faye, M. Deguy, A. Badiou, Paroles à la bouche du présent,        Marseille, Al Dante, 1997, p. 10.
[5]5. Mi riferisco a F. Abbà, R. Gobbi, E. Nolte, F. Berardi (Bifo), F. Coppellotti, C, Saletta, Revisionismo e revisionismi, Genova, Graphos, 1996; presentato dall'editrice negazionista quale raccolta delle "relazioni di un convegno che si sarebbe dovuto svolgere a Trieste nei giorni 8 e 9 marzo 1996".
[6]6. Vedi nota precedente.
[7]7. I più importanti documenti della "disputa tra gli storici" (Historikerstreit) intorno al passato nazionalsocialista che, nel 1986-87, ha visto la contrapposizione all'offensiva da parte di storici revisionisti come Nolte, A. Hillgruber, K. Hildebrand, M. Srtürmer    da parte di J. Habermas e storici come M. Broszat e W. Mommsen, sono raccolti in traduzione italiana in G. E. Rusconi (a cura di), Germania: un passato che non passa. I crimini nazisti e l'identità tedesca, Torino, Einaudi, 1987. Per un resoconto critico è di particolare interesse A.-H. Wehler, Le mani sulla storia. Germania: riscrivere il passato?, trad. it. Firenze, Ponte alle Grazie, 1989.
[8]8. P. Vidal-Naquet,Gli assassini della memoria, cit., p. 122.
[9]9. W. Benjamin"Tesi di filosofia della storia", tr. it. in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1962 (ed or. 1955), p. 79.
[10]10. E. Nolte, Controversie. Nazionalsocialismo, bolscevismo, questione ebraica nella storia del Novecento, tr. it. parziale, Milano, Il Corbaccio, 1999.
[12]11. Per una cronologia del cosiddetto "affaire Faurisson", che ha portato alla ribalta l'ideologo negazionista a partire dalla pubblicazione del suo testo Le problème des chambres à gaz' ou 'La rumeur d'Auschwitz'" su «Le Monde» del 29.12 1978, p. 8
 1978, p. 8, vedi V. Pisanty, L'irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo, Milano, Bompiani, 1998, pp. 15-17.
[13]13. L. Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Roma, Donzelli, 1997, p. VII.
[14]14. Ivi, pp. VII-VIII.
[15]15. A. Mohler, Vergangenheitbewältigung, Krefeld, 1980, p. 88 ss., cit. in M. Terkessidis, Kuturkampf. L'Occidente e la Nuova Destra, tr. it., Milano, Marco  Tropea editore, 1996, p.149.
[16]16. M. Terkessidis, op. cit., p. 156.
[17]17. Cfr. C. Bermani, Il nemico interno. Guerra civile e lotta di classe in Italia (1943-1976), Roma, Odradek, 1997, pp. 74-80.
[18]18. Cfr. il mio "La fabbrica della negazione", art. cit.
[19]19. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, tr. it., Torino, Einaudi, 1974 (ed. or. 1953), § 67, p. 47.
[20]20. In un caso liminare ma sintomatico, all'inizio degli anni Novanta la propaganda negazionista ha rinnovato in ambito telematico la vecchia tattica degli pseudonimi, creando personaggi fittizi, in seguito dissimulati e qua e là riaffioranti tra le parodistiche notti e nebbie del no name. Cfr. R. Leonelli, L. Muscatello, V. Perilli, L. Tomasetta, "Negazionismo vituale: prove tecniche di trasmissione", altreragioni, (1998) 7, pp. 175-181.
[21]21. I. Nievo, Le confessioni d'un italiano, Milano, Mondadori, 1981, pp. 4-5.
[22]22. Questo aspetto importante, ma a mio avviso non esaustivo, è l'unico evidenziato nel breve paragrafo dedicato a "La propaganda su Internet" del libro di Valentina Pisanty, L'irritante questione delle camere a gas, cit., p. 23: "Il canale informatico si rivela un'ottima soluzione contro la censura che, in alcuni paesi europei, colpisce gli scritti dei negazionisti. Come si sa, infatti, lo spazio informatico è aperto a tutti e, anche se si decidesse di rifiutare l'accesso alla rete a un sito ritenuto ideologicamente pernicioso, esistono molti modi per aggirare il divieto".
[23]23. "L'illusion d'une vie sans histoire", in A. Bihr, G. Caldiron, E. Chavaneau, D. Daeninckx, G. Fontenis, V. Igounet, T. Maricourt, R. Martin, P, Piras, C. Terras, Ph. Videlier, Négationnistes: les chiffoniers de l'histroire, Villeurbanne - Paris, Golias -Syllepse, 1997, p. 210.
[24]24. Per una critica degli effetti di questa pratica e della sua ideologia nell'ambito della comunicazione politica vedi Thomás Maldonado, Critica della ragione informatica, Milano, Feltrinelli, 1998. Per una critica dei profeti dell'era digitale vedi anche F. Graziani, ""Virtuale e reale", «Altreragioni», (1998) 7, pp. 157-161.
[25] 25. N. Fresco, Fabrication d'un antisémite, Paris, Seuil, 1999.
[26] 26. W. Benjamin, "Tesi di filosofia della storia", cit., p.81.
[27] 27. V. Jankélévitch, Perdonare?, Firenze, La Giuntina, 1987 (ed. or. 1971), pp. 25-26.
[29] 28. "Anti-rétro Conversazione con Michel Foucault", trad. it., AAVV. Passato ridotto, a cura di G. Gori, Firenze, La casa Usher, 1982, p. 19.
[30] 29. Cfr. M. Foucault, "Corso del 7 gennaio 1976", in "Bisogna difendere la società", Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 11-25.
[31] 30. Non avendo interesse a replicare agli argomenti "tecnici" dei negazionisti, risparmio esempi che chiunque sia in grado di sopportarne la lettura può facilmente rinvenire nella prosa "scientifica" di questi esperti.
[32]31.  M. Foucault, L'ordine del discorso, tr. it., Milano, Feltrinelli, 1972, p. 57.
[33]32. E. Balibar, "Prefazione" a E. Balibar - I. Wallerstein, Razza nazione classe. Le identità ambigue, trad. it., Roma, Edizioni associate, 1990, p. 20.
[3433. M. Foucault, La volontà di sapere, tr. it., Milano, Feltrinelli, 1978, p. 133.