I Paesi extraeuropei non erano la sola sede in cui emigrare: accanto ad essi, molti Italiani scelsero l’emigrazione in Francia .
La Francia, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, diviene
abituale terra di migrazioni stagionali per le popolazioni dell’arco
alpino occidentale,
le quali erano solite recarsi in Costa Azzurra per dedicarsi ad attività
di piccolo artigianato e, talvolta, per chiedere l’elemosina ai
facoltosi villeggianti
inglesi che venivano a svernare nelle lussuose località costiere. Dopo
aver valicato i confini, spesso in clandestinità, lungo quella che era
conosciuta
come “la via di Vernante” (la stessa strada fu percorsa anche dai
rifugiati politici perseguitati dal fascismo, come racconta Giorgio
Amendola in
“Lettere a Milano), un difficile sentiero che valicava le Alpi
all’Argentera, in provincia di Cuneo, gli emigranti, nella totalità dei
casi poveri contadini di
montagna malnutriti e poverissimi, si affidavano letteralmente al buon
cuore di chi li incontrava, sperando così di racimolare quel poco di
denaro in
grado di innalzare lievemente il misero tenore di vita delle vallate alpine piemontesi.
Accanto a tale migrazione per piccoli gruppi, si sviluppò ben presto
anche un’emigrazione stagionale di massa diretta sempre nel sud della
Francia,|
dove nelle cave di sale venivano impiegati moltissimi nostri
connazionali; ben presto, le tensioni fra immigrati italiani in Francia e
lavoratori francesi
aizzati dalla solita propaganda xenofoba, esplosero: gli Italiani
“portavano via il lavoro”, “erano delinquenti”, “erano per natura
semibarbari” e via di
pregiudizio in pregiudizio, tanto che nell’estate del 1893 ad Aigues
Mortes, dopo una banale lite fra lavoratori italiani e lavoratori
francesi, “grazie” ad
una bufala diffusa ad arte fra la gente, secondo la quale i lavoratori
italiani si sarebbero resi responsabili di alcuni omicidi, una folla
inferocità uccise18
nostri connazionali e ne ferì 150 (anche se le stime restano tuttora
approssimative). Nonostante ciò, le forze dell’ordine francesi
intervenirono
soltanto 18 ore dopo la strage, lasciando sostanzialmente mano libera agli xenofobi.
Un altro itinerario migratorio francese seguito dai lavoratori italiani
era quello che portava alle miniere nel nord del Paese:in alcune miniera
in
Lorena,ad esempio, gli italiani costituivano sostanzialmente il 50%
della manodopera: essi -soprattutto i sardi- erano molto richiesti in
quanto, date le
condizioni di miseria in cui vivevano, erano disponibili a ritmi di
lavoro gravosissimi. Per queste persone, lo stesso lavoro che
significava reddito
magro, equivaleva anche a morte certa anzitempo a causa di malattie polmonari come la silicosi.
Ecco qual è il «degrado» alla Stazione di Bologna. Non è quello inventato da Bignami, Bergonzoni & C. Vi sono persone che non possono viaggiare,
nonostante abbiano un regolare biglietto, nonostante ci sia una meta da
raggiungere e qualcuno che li aspetta. Ogni giorno la polizia ne tira
giù qualcuno dai treni in transito, oppure blocca chi è in partenza
impedendo di salire sui vagoni. Sono migranti e profughi a cui la
«legge» impedisce di viaggiare. Una «legge» discriminatoria e degradante
a cui sinistra e destra hanno contribuito egualmente, fianco a fianco.
Se oggi il fascismo fosse costituito solo
da esigue minoranze squadriste, il problema potrebbe porsi in termini
di autodifesa militante. Ma oggi non è più così. Vi è una stretta
normativa e autoritaria che viene da zone differenti e magari
contrapposte dello Stato e della politica istituzionale. Vi è un
disciplinamento aggressivo dei comportamenti che non riguarda soltanto
l’attivismo politico, ma l’intera società. Il modo migliore
per contrastarlo è quello che spiazza, quello che è fuori dagli schemi.
Occorre essere là dove non ci aspettano. Resistere con intelligenza è
possibile e opportuno.
È dunque vero che alla fine, come titolano molti giornali in Italia e in
Europa, Atene ha ceduto all'Eurogruppo (la Repubblica), compiendo il
primo passo verso il ritorno all'austerity (The Guardian)? È cominciata
la «ritirata» di Syriza, come sostengono molti leader della stessa
sinistra interna del partito greco?
È presto per formulare un giudizio complessivo e fondato sugli accordi
definiti all'interno della riunione dell'Eurogruppo di venerdì [ndr: 20
febbraio 2015]: molti aspetti tecnici, ma di grande importanza politica,
saranno resi noti soltanto nei prossimi giorni. Vorremmo tuttavia
provare a suggerire un diverso metodo di analisi dello scontro che non
ha soltanto contrapposto il governo greco alle istituzioni europee, ma
ha anche mostrato più di una crepa all'interno di queste ultime. Sulla
base di quali criteri dobbiamo giudicare l'azione di Tsipras e
Varoufakis, misurandone l'efficacia? È questa la domanda che ci
interessa porre.
Vale la pena di ripetere che lo scontro aperto dalla vittoria di Syriza
alle elezioni greche si svolge in un momento di crisi acuta e drammatica
in Europa. Le guerre che marcano a fuoco i confini dell'Unione Europea
(a est, a sud, a sudest), le stragi di migranti nel Mediterraneo non
sono che l'altra faccia dei processi in atto di scomposizione dello
spazio europeo, che la crisi economica ha accelerato in questi anni e
che destre più o meno nuove, più o meno razziste e fasciste cavalcano in
molte parti del continente. In queste condizioni, le elezioni greche e
la crescita di Podemos in Spagna hanno aperto una straordinaria
occasione, quella di reinventare e riqualificare a livello europeo una
politica radicale della libertà e dell'uguaglianza.
Forzare i limiti del capitalismo
Dietro l'apertura di questa occasione ci sono, tanto in Grecia quanto in
Spagna, le formidabili lotte di massa contro l'austerity. Ma lo
sviluppo di queste lotte, nella loro diffusione «orizzontale», si è
trovato di fronte limiti altrettanto formidabili: la posizione di
dominio del capitale finanziario all'interno del capitalismo
contemporaneo e l'assetto dei poteri europei, modificato da quella che
abbiamo definito una vera e propria «rivoluzione dall'alto» nella
gestione della crisi.
Il punto è che, non appena Syriza è riuscita a innestare
sull'orizzontalità delle lotte un asse «verticale», portandone le
rivendicazioni e il linguaggio fin dentro i palazzi europei, si è
immediatamente trovata di fronte quegli stessi limiti. Si è scontrata
con l'assetto attuale dei poteri europei e con la violenza del capitale
finanziario. Sarebbe davvero ingenuo pensare che il governo greco, che
un singolo Paese europeo (anche di maggior peso demografico ed economico
della Grecia) possa spezzare questi limiti.
Se ce ne fosse stato ancora bisogno, quanto è accaduto in questi giorni
dimostra chiaramente che non è sulla base di una semplice rivendicazione
di sovranità nazionale che una nuova politica della libertà e
dell'uguaglianza può essere costruita. I «limiti» di cui si è detto,
tuttavia, ci appaiono oggi in una luce diversa rispetto a qualche mese
fa. Se le lotte ne avevano mostrato l'insostenibilità, la vittoria di
Syriza, la crescita di Podemos e la stessa azione del governo greco
cominciano ad alludere alla realistica possibilità di superarli. Era
evidente, e lo aveva chiarito tra gli altri lo stesso Alexis Tsipras,
che non sarebbe stata sufficiente una semplice affermazione elettorale
per fare questo. Si tratta di aprire un processo politico nuovo, per
costruire e affermare materialmente una nuova combinazione, una nuova
correlazione di forze in Europa.
Diceva Lenin che ci sono situazioni in cui bisogna cedere spazio per
guadagnare tempo. Se applichiamo questo principio, opportunamente
modificato, alla valutazione degli «accordi» di venerdì scorso possiamo
forse scommettere (con l'azzardo che è costitutivo di ogni politica
radicale) sul fatto che il governo greco abbia ceduto «qualcosa» per
guadagnare tempo e per guadagnare spazio. Ovvero, per distendere nel
tempo l'occasione che si è aperta in Europa nella prospettiva, resa
possibile anche dalle prossime scadenze elettorali in Europa (a partire
dalla Spagna, ma non solo), che altri «spazi» vengano investiti e
«conquistati» dal processo politico nuovo di cui si diceva.
Questo processo politico, per avere successo nei prossimi mesi, non
potrà che articolarsi su una molteplicità di livelli, combinando lotte
sociali e forze politiche, comportamenti e pratiche diffuse, azione di
governo e costruzione di nuovi contropoteri in cui si esprima l'azione
dei cittadini europei. In particolare, nel momento in cui riconosciamo
l'importanza decisiva di un'iniziativa sul terreno istituzionale quale
quella che Syriza ha cominciato a praticare e Podemos concretamente
prefigura, dobbiamo anche essere consapevoli dei suoi limiti.
In un lungo articolo (a suo modo straordinario), pubblicato nei giorni
scorsi dal Guardian («How I became an erratic Marxist»), Yanis
Varoufakis ha mostrato di avere una consapevolezza molto precisa di
questi limiti. Fondamentalmente, ha affermato, quel che un governo può
fare oggi è cercare di «salvare il capitalismo europeo da se stesso»,
dalle tendenze auto-distruttive che lo attraversano e minacciano di
aprire le porte al fascismo. Ciò che in questo modo è possibile è
conquistare spazi per una riproduzione del lavoro, della cooperazione
sociale meno segnata dalla violenza dell'austerity e della crisi - per
una vita meno «misera, sgradevole, brutale e breve».
Non è un governo, insomma, a potersi far carico della materiale apertura
di alternative oltre il capitalismo. Leggendo a modo nostro l'articolo
di Varoufakis, possiamo concludere che quell'oltre (oltre il salvataggio
del capitalismo europeo da se stesso, in primo luogo) indica il
«continente» potenzialmente sconfinato di una lotta sociale e politica
che non può che eccedere la stessa azione di governi come quello greco e
ogni perimetrazione istituzionale. È all'interno di quel continente che
va costruita la forza collettiva da cui dipende quello che sarà
realisticamente possibile conquistare nei prossimi mesi e nei prossimi
anni. E il terreno su cui questa forza deve essere organizzata ed
esercitata non può che essere l'Europa stessa, nella prospettiva di
contribuire a determinare una rottura costituente all'interno della sua
storia.
Il blocco di Francoforte
La mobilitazione convocata dalla coalizione Blockupy a Francoforte per
il 18 marzo, il giorno dell'inaugurazione della nuova sede della Bce,
acquista da questo punto di vista una particolare importanza. È
un'occasione per intervenire direttamente nello scontro in atto a
livello europeo (e dunque per sostenere l'azione del governo greco),
andando oltre una generica contestazione dei simboli del capitale
finanziario, della Bce e delle tecnostrutture «post-democratiche» di cui
ha parlato Jürgen Habermas.
Ma è anche un momento di verifica delle forze che si muovono in
quell'«oltre» senza consolidare il quale (è uno dei paradossi del nostro
tempo) la stessa azione di governi e partiti che si battono contro
l'austerity è destinata all'impotenza.
Arci e Cir contro l'operazione avviata dalle polizie europee.
"Un'enorme retata razzista", "Ai superstiti dei naufragi mancava solo
questo"
Roma - 13 ottobe 2014 - É partita oggi e andrà avanti fino al 26
ottobre l'operazione “Mos Maiourum" (letteralmente: costume degli
antenati). Diciottomila agenti di polizia stanno cercando migranti irregolari in tutta Europa per raccogliere, questo lo scopo ufficiale, informazioni utili a combattere i trafficanti di uomini.
Intanto, però, molte associazioni che lavorano accanto a migranti e profughi puntano il dito contro l'operazione. Secondo l'Arci, ad esempio, avrebbe “persecutorio e razzista''.
''Dieci giorni dopo la commemorazione del drammatico naufragio al largo
di Lampedusa del 2013, e' stata lanciata una vera e propria 'caccia ai
migranti' coordinata dal Ministero dell'Interno Italiano con il sostegno
di Frontex ed Europol''.
L'Arci parla di ''enorme retata su scala Europea'' e
chiede maggiore trasparenza. ''Oltre al fatto, grave, che il Parlamento
Europeo non sembra essere stato avvertito di questo progetto, - si
aggiunge - pongono problemi sia la mancanza di chiarezza delle basi
legali di questi controlli sia la realizzazione di tutta l'operazione.
Nessuna informazione e' stata data su come saranno utilizzati i dati
raccolti con gli interrogatori e se sono previste operazioni di rimpatri
congiunti''.
“A superstiti dei naufragi mancava proprio questo” commenta invece il Consiglio Italiano per i Rifugiati.
“Non solo non possono arrivare in un modo normale e sicuro in Europa,
non solo devono pagare trafficanti e rischiare la vita per richiedere
asilo in questo continente, non solo una volta e finalmente arrivati
sulle coste di in uno dei paesi della sponda nord del Mediterraneo non
possono raggiungere in modo regolare il paese di destinazione, dove una
rete familiare e di sostegno li aspetta, no, adesso devono anche
nascondersi per fuggire dall' apparato poliziesco che oggi si è messo a
caccia di loro”.
“Purtroppo- scrive il direttore del Cir Christopher Hein - non resta
che una chiave di lettura: una parte della politica europea, quella che
comanda gli apparati di sicurezza, intende dare un segnale molto preciso di contrasto
alle dichiarazioni fatte 10 giorni fa a Lampedusa anche dal Presidente
del Parlamento Europeo, Martin Shultz e dalla Presidente della Camera
dei Deputati, Laura Boldrini sulla necessità di aprire canali umanitari
di accesso dei rifugiati in Europa, di promuovere una maggiore
solidarietà tra gli Stati Membri e di continuare l'opera di salvataggio
in mare nell'ambito di o analogamente a Mare Nostrum",
“Sulla pelle dei rifugiati e dei richiedenti asilo, - aggiunge Hein - si sta giocando una lotta politica sui futuri orientamenti dell'Unione
e dei singoli Stati Membri rispetto a temi chiave quali la protezione
internazionale, il diritto d'asilo e il rispetto dei diritti umani''.e
maschili. La speranza è che la rivoluzione arrivi anche nel mondo del
lavoro.
In Europa, in Asia,
nel Pacifico, nelle Americhe, i confini e le terre che li circondano
sono oggi scenario di forti tensioni, di lotte violente e di tragedie
umanitarie. Basta pensare alle morti, spesso senza nome, dei migranti
che vanno in cerca di un futuro sfidando le acque del Mediterraneo o il
deserto tra Messico e Stati Uniti. I moderni processi di
globalizzazione non hanno affatto creato un mondo senza barriere, e
hanno anzi generato una vera moltiplicazione di confini. Il libro ne
traccia l’intricata mappa, indagando gli effetti che tale dinamica
produce sul lavoro, sui movimenti migratori e sulla vita politica. Sullo
sfondo della crisi e della trasformazione dello Stato-nazione, sono i
concetti stessi di cittadinanza e sovranità a essere ridefiniti.
Sandro Mezzadra è professore di
Filosofia politica nell’Università di Bologna. Fra i suoi libri
ricordiamo: «La condizione postcoloniale» (Ombre Corte, 2008). Per il
Mulino ha già pubblicato «La costituzione del sociale» (1998) e «Il
pensiero politico del Novecento» (con C. Galli e E. Greblo, nuova ed.
2009).
Brett Neilson è professore all’Institute for
Culture and Society della University of Western Sydney (Australia). È
autore fra l’altro di «Free Trade in the Bermuda Triangle… and Other
Tales of Counter-Globalization» (2004).
Gli immigrati non possono votare alle elezioni
politiche. Ma "contano" come popolazione residente, gonfiando la torta
dei seggi da spartire. Soprattutto al Nord-Ovest, dove vive più di un
terzo degli stranieri. Lampante il caso della "Ohio d'Italia", la
Lombardia
1. Una rendita elettorale che non fa notizia L’esclusione
di tutti i migranti residenti in Italia dal voto nelle elezioni
politiche del 24 febbraio 2013 è uno dei tanti atti di discriminazione
contro gli stranieri che si consumano nel mondo e che di solito passano
inosservati. Ne sono autori molti governi e organi legislativi di paesi
d’immigrazione, che negano il voto ai migranti e allo stesso tempo li
contano come parte della popolazione nazionale, gonfiando così la torta
dei seggi elettorali da spartire, una vera e propria rendita elettorale a
favore dei sistemi politici vigenti.[1] Nel
caso italiano, ormai da più un ventennio perdura l’ostilità endemica al
voto dei migranti nelle elezioni politiche, nelle quali possono votare
solo i cittadini.[2]
La legge per il difficile ottenimento della cittadinanza risale al
1992. Il ceto politico che allora non prendeva sul serio la questione
del voto dei migranti ha finito poi per non prendere sul serio neppure
il voto dei cittadini e per presentare liste bloccate di nominati dalle
segreterie dei partiti (legge elettorale cosiddetta Porcellum del 2005).[3]
A loro volta molti dei cittadini ricambiano o rifiutandosi di votare o
acconciandosi passivamente a mettere una croce su quello che passa il
convento. Dunque, in sovrimpressione sul crescente numero dei non
votanti, delle schede bianche e nulle nelle elezioni di febbraio
andrebbe stampata la quindicennale parabola ascendente del numero dei
migranti in età di voto, che non compaiono sui radar elettorali ma – in
modo intermittente – sui radar della Guardia costiera e della Nato. Non
sorprende poi che il maggiore partito nelle elezioni di febbraio è
risultato quello dei non-votanti.[4] Si aggiungano inoltre le schede bianche e nulle.[5]
In totale coloro che non se la sono sentita di mettere una croce sulla
scheda sono 13 milioni e 841mila alla Camera (27, 28%) e 12 milioni 617
mila al Senato (27,15%).[6]
A loro va premesso il numero dei migranti residenti in Italia, ossia 3
milioni e 104mila in età di voto per la Camera, due milioni e 737mila in
età di voto per il Senato. [7]
Addizionando i migranti esclusi dalle urne, gli assenteisti e le schede
bianche e nulle i non votanti sono un terzo della popolazione in età di
voto.[8]
DIEREDIEF SERIGNE TOUBA* Puoi smettere di aspettarlo tredicenne
dagli occhi ridenti e col vestitino buono
color di lillà comprato per la foto da mandare a papà con i soldi
della rimessa DIEREDIEF SERIGNE TOUBA Il padre che anelavi di
carne e ossa e respiro per 13 anni trafelato a correre con borsoni nella palestra dello stato italiano destra e sinistra ne hanno
allenati polpacci, bicipiti e polmoni ma non torna più sulle sue
gambe Ora dopo tredici anni ti rimandano “la salma” non in
barcone ma con l’aereo pagato da lacrime di coccodrillo DIEREDIEF SERIGNE TOUBA Te lo rispediscono dal pulpito dolente
politici malfattori e conniventi abituati a lanciare il sasso nascondendo la mano inguantata di odio e superiore ingordigia mentre dalla bocca cascano perle d’ipocrisia ...
________________________________________
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Accogliere lo straniero non solo come un simile o un fratello, ma come un eguale con cui costruire la casa comune dei nostri progetti. Tre buone ragioni per rilanciare l'appello di Jacques Derrida.
Nel momento in cui scrivo queste righe, le immagini imbarazzanti, insopportabili, delle barche che approdano sulle spiagge di Lampedusa con il loro carico di boat people che arrivano dalla Tunisia, dalla Libia e da ancor più lontano occupano gli schermi della televisione senza che se ne possa prevedere la fine. Giorni fa, dopo Marine Le Pen, Silvio Berlusconi si è recato a sua volta sul posto, promettendo la deportazione ai rifugiati e il premio Nobel agli abitanti, che non chiedevano tanto. I governi europei, che avevano subappaltato alle dittature dell'Africa del nord la «regolazione» brutale di questi flussi, stanno a guardare in un silenzio di piombo. Italiani, sbrogliatevela da soli. Africani, morite oppure tornate a casa con un fucile puntato alle spalle.
Un po' di onestà intellettuale proibisce di fare dei discorsi da benpensante. Posso avventurarmi allora a fare l'elogio dell'ospitalità, di quell'ospitalità senza condizioni che il mio maestro e amico, il filosofo Jacques Derrida, in saggi ormai famosi, aveva definito come la forma stessa della democrazia, e quindi della politica futura? Questa ospitalità che ci chiede di accogliere lo straniero non soltanto come un «simile» o un «fratello», ma come un eguale con il quale costruire la «casa comune» dei nostri diritti e dei nostri progetti? Lo farò, malgrado grandi difficoltà, di cui sono consapevole.
E n c i c l o p e d i a d e l l a n e o l i n g u a
.
V
Verità
[bocca della]
« I MIGRANTI? Fora de ball!
Diciamocelo con sincerità: quanti di noi, magari con parole più acconce, non la pensiamo come quell'irrefrenabile Umberto Bossi che, come un'estemporanea "bocca della verità", non manca mai al momento giusto di esprimere la sua opinione con brusca franchezza? ... »
Arrigo Petacco,
"Il Valzer dell'ipocrisia", il Resto del Carlino, 6 aprile 2011
Les vieillards aiment à donner des bons préceptes,
pour se consoler de n'être plus en état de donner des mauvais exemples.
François de La Rochefoucauld, Maximes
* * *
Benigni e «Fratelli d'Italia», dubbi su una lezione di storia
Alberto Maria Banti - il manifesto, 20 gennaio 2011
Roberto Benigni a Sanremo: ma certo, quello che voleva bene a Berlinguer! Quello che - con gentile soavità - insieme a Troisi scherzava su Fratelli d'Italia ...
Che trasformazione sorprendente!
Eh sì, giacché giovedì 17 febbraio «sul palco dell'Ariston», come si dice in queste circostanze, non ha fatto solo l'esegesi dell'Inno di Mameli. Ha fatto di più. Ha fatto un'apologia appassionata dei valori politici e morali proposti dall'Inno. E - come ha detto qualcuno - ci ha anche impartito una lezione di storia. Una «memorabile» lezione di storia, se volessimo usare il lessico del comico.
Bene. E che cosa abbiamo imparato da questa lezione di storia? Che noi italiani e italiane del 2011 discendiamo addirittura dai Romani, i quali si sono distinti per aver posseduto un esercito bellissimo, che incuteva paura a tutti. Che discendiamo anche dai combattenti della Lega lombarda (1176); dai palermitani che si sono ribellati agli angioini nel Vespro del lunedì di Pasqua del 1282; da Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze; e da Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci. Interessante. Da storico, francamente non lo sapevo. Cioè non sapevo che tutte queste persone, che ritenevo avessero combattuto per tutt'altri motivi, in realtà avessero combattuto già per la costruzione della nazione italiana. Pensavo che questa fosse la versione distorta della storia nazionale offerta dai leader e dagli intellettuali nazionalisti dell'Ottocento. E che un secolo di ricerca storica avesse mostrato l'infondatezza di tale pretesa. E invece, vedi un po' che si va a scoprire in una sola serata televisiva.
Ma c'è dell'altro. Abbiamo scoperto che tutti questi «italiani» erano buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori - stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o spagnoli. E anche questa è una nozione interessante, una di quelle che cancellano in un colpo solo i sentimenti di apertura all'Europa e al mondo che hanno positivamente caratterizzato l'azione politica degli ultimi quarant'anni.
Poi abbiamo anche capito che dobbiamo sentire un brivido di emozione speciale quando, passeggiando per il Louvre o per qualche altro museo straniero, ci troviamo di fronte a un quadro, che so, di Tiziano o di Tintoretto: e questo perché quelli sono pittori «italiani» e noi, in qualche modo, discendiamo da loro. Che strano: questa mi è sembrata una nozione veramente curiosa: io mi emoziono anche di fronte alle tele di altri, di Dürer, di Goya o di Manet, per dire: che sia irriducibilmente anti-patriottico?
E infine abbiamo capito qual è il valore fondamentale che ci rende italiani e italiane, e che ci deve far amare i combattenti del Risorgimento: la mistica del sacrificio eroico, la morte data ai nemici, la morte di se stessi sull'altare della madre-patria, la militarizzazione bellicista della politica. Ecco. Da tempo sostengo che il recupero acritico del Risorgimento come mito fondativo della Repubblica italiana fa correre il rischio di rimettere in circuito valori pericolosi come sono quelli incorporati dal nazionalismo ottocentesco: l'idea della nazione come comunità di discendenza; una nazione che esiste se non ab aeterno, almeno dalla notte dei tempi; l'idea della guerra come valore fondamentale della maschilità patriottica; l'idea della comunità politica come sistema di differenze: «noi» siamo «noi» e siamo uniti, perché contrapposti a «quegli altri», gli stranieri, che sono diversi da noi, e per questo sono pericolosi per l'integrità della nostra comunità.
Ciascuna di queste idee messa nel circuito di una società com'è la nostra, attraversata da intensi processi migratori, può diventare veramente tossica: può indurre a pensare che difendere l'identità italiana implichi difendersi dagli «altri», che - in quanto diversi - sono anche pericolosi; può indurre a fantasticare di una speciale peculiarità, se non di una superiorità, della cultura italiana; invita ad avere una visione chiusa ed esclusiva della comunità politica alla quale apparteniamo; e soprattutto induce a valorizzare ideali bellici che, nel contesto attuale, mi sembrano quanto meno fuori luogo.
Ecco, con la performance di Benigni mi sembra che il rischio di una riattualizzazione del peggior nazionalismo stia diventando reale: tanto più in considerazione della reazione entusiastica che ha accolto l'esibizione del comico, quasi come se Benigni avesse detto cose che tutti avevano nel cuore da chissà quanto tempo. Ora se questi qualcuno sono i ministri La Russa o Meloni, la cosa non può sorprendere, venendo questi due politici da una militanza che ha sempre coltivato i valori nazionalisti. Ma quando a costoro si uniscono anche innumerevoli politici e commentatori di sinistra, molti dei quali anche ex comunisti, ebbene c'è da restare veramente stupefatti.
Verrebbe da chieder loro: ma che ne è stato dell'internazionalismo, del pacifismo, dell'europeismo, dell'apertura solidale che ha caratterizzato la migliore cultura democratica dei decenni passati? Perché non credo proprio che un simile bagaglio di valori sia conciliabile con queste forme di neo-nazionalismo. Con il suo lunghissimo monologo, infatti, Benigni - pur essendosi dichiarato contrario al nazionalismo - sembra in sostanza averci invitato a contrastare il nazionalismo padano rispolverando un nazionalismo italiano uguale a quello leghista nel sistema dei valori e contrario a quello solo per ciò che concerne l'area geopolitica di riferimento.
Beh, speriamo che il successo di Benigni sia il successo di una sera. Perché abbracciare la soluzione di un neo-nazionalismo italiano vorrebbe dire infilarsi dritti dritti nella più perniciosa delle culture politiche che hanno popolato la storia dell'Italia dal Risorgimento al fascismo.
In questi giorni il popolo tunisino e algerinosi stanno ribellando contro i propri regimi. In Tunisia, come in Algeria, ci si ribella contro l'aumento dei prezzi degli alimentari, la mancanza di case e la disoccupazione; una povertà che è il frutto dell'espropriazione e dello sfruttamento dell'imperialismo e delle borghesie asservite di quei paesi. Non a caso UE ed Usa sostengono questi regimi spacciandoli per "stati democratici".
Questo è evidenziato - oltre che dalla reazione stragista del regime - dalla preoccupazione con cui seguono lo sviluppo degli avvenimenti le potenze occidentali; in primo luogo l’Italia di cui Ben Alì è stato storicamente uno strumento e partner economico, a partire dalla sua presa del potere nel 1987 con un colpo di stato, organizzato in diretto collegamento con i servizi segreti italiani e l’allora Primo ministro Craxi morto latitante in Tunisia per sfuggire alle condanne emesse contro di lui dalla magistratura italiana.
Lo scontro, in Tunisia, ha ormai raggiunto drammatici livelli: circa 70 morti tra i manifestanti, arresti selezionati di comunisti e sindacalisti. Il criminale regime fantoccio del sanguinario Ben Alì sta mostrando il suo vero volto..
Dopo anni di emigrazione da quei paesi l’Europa chiude le porte della speranza per migliaia di giovani negandogli un futuro diverso. Affamati dai propri governi, schiavi nei paesi di immigrazione, il popolo ha deciso che è giunta l’ora di cambiare.
La lotta dei giovani, dei disoccupati, dei lavoratori maghrebini, le loro rivendicazioni sono le nostre, in Maghreb cosi come in Italia.
Presidio ore 15.00 Sabato 15 gennaio Piazza Nettuno Bologna
Aderiscono:
Bologna Prende Casa Coordinamento Migranti di Castel Maggiore Giovani Comunisti il popolo viola Partito della RifondazioneComunista Rete dei Comunisti Sinistra Critica USB-Immigrati
Alberto Burgio La radice profonda del razzismo in Europa il manifesto, 1 ottobre 2010
È una buona cosa che, sullo sfondo della persecuzione razzista dei rom in Francia, si sia aperta una riflessione teorica sul razzismo. È tutt'altro che scontato che se ne sappia abbastanza (su ciò che lo produce e lo alimenta e, prima ancora, su ciò che il razzismo è) per reagire all'altezza dei suoi devastanti effetti attuali e potenziali. Gli interventi di Étienne Balibar e Jacques Rancière sul manifesto hanno fatto luce su aspetti rilevanti. Il primo si è incentrato sul nesso tra cittadinanza ed esclusione, mettendo in risalto come esso operi anche nel quadro dell'Europa comunitaria; il secondo ha insistito sulla natura artificiale (non spontanea) di un razzismo frutto dell'iniziativa di «imprenditori politici».
Entrambi condividono una prospettiva politico-centrica e meriterebbero un approfondimento: in particolare Rancière sembra sbarazzarsi troppo precipitosamente della scaturigine sociale della paura (e del risentimento) che l'intervento politico alimenta e incanala contro gruppi umani rappresentati come pericolosi. Ma lo spazio è tiranno e, piuttosto che dedicarlo a un confronto interno, conviene utilizzarlo per ampliare lo spettro della discussione, prospettando un'ipotesi differente e complementare, incentrata sulle dinamiche sociali responsabili della produzione di stereotipi inferiorizzanti: un'ipotesi per dir così socio-centrica.
Quando parliamo di razzismo siamo soliti pensare ai margini della società o a popolazioni straniere. Il razzismo appare al senso comune una faccenda riguardante gli «altri», i «diversi» (o i «devianti»), insomma non-persone abitanti la periferia (fisica o morale) delle nostre metropoli. Naturalmente questo modo di pensare ha le sue buone ragioni. Oggi le «razze» (poco importa se rinominate con termini meno impresentabili come «etnie» o «culture») sono in primo luogo i migranti, variamente considerati invasori, nemici, delinquenti naturali, terroristi potenziali, barbari e così via connotando. Oppure sono i rom (e i sinti), cioè gli «zingari». O ancora gli ebrei (checché se ne dica, resiste il pregiudizio che li configura come una «razza»). In una parola, minoranze a vario titolo percepite come estranee al corpo (sano) della collettività. Come eccezioni (patologiche) rispetto alla norma e alla normalità. Tuttavia, se non vogliamo rimanere prigionieri del razzismo, non possiamo limitarci a sfogliare il catalogo dei gruppi umani trasformati in «razze», dobbiamo anche chiederci a che scopo il razzismo li «razzizza».
Con ogni probabilità, l'obiettivo è legittimare trattamenti discriminatori e persecutori che possono arrivare sino allo sterminio. La violenza che difficilmente la società accetterebbe di subire, appare tollerabile (motivata e giusta) se colpisce un gruppo raffigurato come portatore «per natura» di uno stigma morale. Quella violenza è percepita come legittima difesa poiché è messa in relazione alle caratteristiche perverse attribuite a quel gruppo. In una parola, il razzismo è la fabbrica delle identità negative, un operoso cantiere antropologico che, producendo stereotipi (cioè letteralmente creando le «razze»), sforna ininterrottamente argomenti utili a giustificare la violenza che una parte della società scarica su altre componenti più deboli e a vario titolo subordinate.
Se le cose stanno così, lo sguardo dovrebbe disinteressarsi del dito (gli argomenti specifici - tutti, indistintamente, pretestuosi - addotti dal razzista di turno) e rivolgersi alla luna che esso indica, cioè alla radice profonda di questa violenza. Dovrebbe cercare la fonte «strutturale» dell'insaziabile fame di discriminazione che ossessiona la nostra società, poiché soltanto così è possibile capire perché da due o tre secoli a questa parte l'occidente capitalistico non può fare a meno di inventare «razze» inferiori, parti infette dei corpi sociali che meritano di essere cauterizzate o addirittura amputate. E soltanto adottando questa prospettiva si può capire perché il razzismo torna sistematicamente in auge nelle fasi acute di crisi economica e sociale, quando le dinamiche riproduttive esasperano la propria connotazione gerarchica, mobilitando un surplus di violenza e di brutalità.
Il punto è che la «razza inferiore» (quella di chi - stando alle mitologie razziste - ruba o stupra per incoercibili propensioni «naturali» o è «per natura» refrattario alla civilizzazione) incarna e mette in scena non soltanto le ragioni della propria discriminazione, ma anche, soprattutto, la legittimità del discriminare come meccanismo generale della relazione sociale. Certo, la violenza che si scatena contro i rom cacciati via da una palude infestata dai topi all'altra, evitati come appestati sugli autobus e sui treni e finalmente deportati oltre confine nel nome della sicurezza e sanità del corpo sociale, è diversa da quella che gli italiani (o i francesi) doc - quanti tra loro lavorano sotto padrone o nemmeno riescono a trovare un lavoro - sono costretti a subire. Questi ultimi sono (ancora) protetti da qualche diritto. Ma un denominatore comune c'è, e consiste nel dipendere dall'arbitrio altrui. Per questo è importante che assistano alla cacciata dei rom, spettacolo estremamente istruttivo che rammenta (e rappresenta come una condizione inemendabile) la loro radicale subalternità.
Che cosa imparano, a guardar bene, da questo spettacolo che colpisce ai margini della società ma si rivolge al grosso della popolazione, alle «genti meccaniche» cui non è toccata la buona sorte di illustri natali? Apprendono la terribile lezione della modernità: la loro condizione di homines œconomici, di individui soli, costretti a combattere, a proprio rischio e pericolo, la guerra quotidiana degli egoismi individuali. Ciò che il razzismo si incarica di portare a termine mettendo in scena il destino degli ultimi è, in altre parole, l'atomismo sociale e lo sradicamento della solidarietà, fattore antimoderno per antonomasia, incompatibile con lo scatenamento degli «spiriti animali» del capitalismo.
In questo senso - per quanto paradossale ciò possa apparire - se vogliamo capire quale ruolo il razzismo giochi sulla scena europea (e perché esso svolga ancora una funzione così importante), è indispensabile leggere correttamente vicende come quelle di Pomigliano e di Melfi, nelle quali il padrone dichiara in modo esplicito di voler negare qualsiasi diritto a chi per sopravvivere è costretto a vendere il proprio tempo di vita. Gli operai debbono tornare ad essere cose, levarsi dalla testa di essere persone e, soprattutto, membri di un soggetto collettivo. E affinché intendano la musica, niente è più utile del mostrare loro che fine fanno quelli con i quali la buona società si arrabbia per davvero.
Ma se la sorte riservata ai margini serve a educare il centro, allora il problema è la reazione del centro. Non si tratta di stabilire se il razzismo sia o meno spontaneo, certo che non lo è. Il punto è che il razzismo sarà senso comune, benché inculcato dall'alto, finché i corpi sociali assimileranno docilmente la lezione che esso impartisce: la fondatezza delle gerarchie sociali, la legittimità della violenza che esse decretano, la moralità della riduzione a cose dei subordinati. Oggi, esattamente come nel secolo scorso, il problema chiama dunque in causa proprio gli «uomini comuni», spesso complici, più o meno inconsapevoli, della violenza razzista.
Il dibattito vuole affrontare gli effetti delle politiche razziste sui movimenti di liberazione delle donne e delle minoranze sessuali. Sesso e razza sono stati sempre due discorsi intrecciati alle politiche di dominio. La costruzione del soggetto coloniale da parte dei colonizzatori si è sempre avvalsa di retoriche che attingevano a un repertorio di significati relativi alla sessualità, ora esotizzata, ora, al contrario, degradata. Quanto è avvenuto negli ultimi anni in relazione alle politiche securitarie dimostra che le retoriche coloniali sopravvivono ai processi di decolonizzazione mettendosi in circolo nelle metropoli dell’occidente. In un mondo multiculturale le politiche sessuali si articolano ancora una volta come discorso di dominio sui soggetti migranti e i soggetti minoritari (donne, lesbiche, trans, gay) sono chiamati a sostenere questi programmi politici razzisti Se da una parte questi programmi politici razzisti hanno tentato strenuamente di “arruolare” le donne, che ne è stato di lesbiche gay e trans, in un paese in cui non si è neppure compiuto il processo di riconoscimento dei diritti civili? Ci sono segnali che anche le lesbiche, i gay e i/le trans possano fare la loro parte dentro il paradigma securitario razzista? Possiamo dire che anche in Italia si è assistito a un effettivo spostamento a destra dei movimenti di liberazione delle donne e delle minoranze sessuali così come è successo in altre parti d’Europa? A questo proposito vorremmo analizzare in che modo il movimento delle donne da una parte il movimento LGBTQ dall’altra e ha risposto e sta rispondendo a questo tentativo di strumentalizzazione razzista contro i/le migranti.
La recessione cominciata due anni fa è una crisi di sistema e non una semplice battuta di arresto di un ciclo tendente alla normalità.
Per trovare un disastro simile occorre guardare alla Grande Depressione del 1929-38. E’ facile esagerare l’importanza degli avvenimenti correnti rispetto a quelli del passato, ma questo rovescio è colossale, comunque lo si misuri. Non basterà qualche rettifica per mettere in sesto un quadro sociale – prima ancora che economico – sconquassato.
Molti ammettono che questa crisi è sì di sistema, ma poi la spiegano a piccole dosi ansiolitiche. In realtà è crisi di sistema perché tocca in profondità i rapporti sociali in tutti i paesi investiti dalla globalizzazione. Per coloro che sono dalla parte delle lavoratrici e dei lavoratori, il dato saliente è la crisi dei rapporti sociali, ben prima di qualsiasi sboom finanziario. Già all’inizio degli anni ‘70, Stan Weir, un protagonista e osservatore delle relazioni lavorative negli Usa avvertiva la diffusa resistenza a condizioni di lavoro in via di deterioramento: “…grandi numeri di operai industriali non sono più disposti a tollerare le condizioni nelle quali si vuole che producano i beni e i servizi che… mantengono in vita questa società”.
A tutti i firmatari della petizione per i diritti dei migranti in Libia.
Martedì 10 novembre 2009.
Nel giorno in cui il Ministro Maroni torna a Tripoli per festeggiare il disumano successo del trattato con il dittatore libico, annunciando che presto altre 3 motonavi italiane saranno fornite alla polizia di Gheddafi per rinforzare controlli e respingimenti. Nel giorno in cui un'altra barca di esseri umani rischia di essere lasciata in balia del mare o restituita alla violenza e all'arbitrio della polizia libica. Noi non rinunciamo alla necessità della denuncia e consegniamo agli uffici di rappresentanza in Italia di Parlamento Europeo e Commissione Europea, con la presenza di UNHCR,le 18.000 firme raccolte per chiedere: - un' inchiesta internazionale sulle modalità di controllo dei flussi migratori in Libia in seguito agli accordi bilaterali con il Governo Italiano - una missione umanitaria in Libia per verificare la condizione delle persone detenute nelle carceri e nei centri di detenzione per stranieri
Lo faremo insieme ai protagonisti del film nel pomeriggio di martedi 10 novembre 2009. Filmeremo e fotograferemo l'incontro e pubblicheremo le immagini sul sito. Poi alle 18.00 vi invitiamo tutti al CINEMA AQUILA a Roma per la PRESENTAZIONE del dvd+libro di "COME UN UOMO SULLA TERRA" con proiezione speciale del film.
In attesa che prima o poi anche i destinatari italiani dellapetizione, i Presidenti di Camera e Senato, accettino di accogliere la nostra delegazione in rappresentanza dei 18.000 firmatari che chiedono il rispetto e la tutela di miglaia di esseri umani.
To all the signatories of the petition for the rights of migrants in Lybia
Tuesday 10th of November 2009
While the Italian Ministry Maroni goes again to Tripoli to celebrate the inhuman success of the alliance with the Lybian dictator. While he is announcing that other 3 italian militar ships will be furnished to the Lybian police to stop the migrants trips. While another boat is risking to be abandoned in the middle of the sea or to be forced to return into the Lybian violence. We don't give up the necessity of the denounce: we will deliver to the Representative Office in Italy of European Parliament and European Commission, with the presence of UNHCR the 18.000 signatures of the petition which asks: - to promote the establishment of an independent, international committee of enquiry to investigate the procedure for the control of migratory flows in Libya, under the terms of the bilateral agreement with the Italian Government. - to rapidly send an international humanitarian mission to Libya to verify the conditions of detainees in the prisons and the detention centres for foreigners ... Thanks to everybody.
cVenerdì 9 ottobre h 19.30 Circolo anarchico Camillo Berneri Piazza di Porta Santo Stefano, 1
h 19.30Aperitivo h 21.00Proiezione di: “Come un uomo sulla terra” di Riccardo Biadene, Andrea Segre, Dagmawi Ymer
Un film sulle brutalità con cui la Libia controlla i flussi migratori su richiesta e grazie ai finanziamenti e alla connivenza di Italia ed Europa. “Respingere i migranti in Libia è come se i pompieri riportassero dentro ad un incendio le vittime dell’incendio stesso” La deriva razzista del Governo Italiano che prosegue con la politica disumana dei respingimenti in Libia, che applica le norme autoritarie del Pacchetto sicurezza, che rinchiude in gabbia esseri umani “irregolari”, che fomenta la paura e l’insicurezza economica, non dovrebbe lasciarci indifferenti. Cosa fa realmente la polizia libica? Cosa subiscono migliaia di uomini e donne africane? E perché tutti fingono di non saperlo?