martedì 27 febbraio 2007

Maurice Blanchot: Michel Foucault come io l'immagino

Maurice Blanchot
Michel Foucault come io l’immagino, Genova, Costa & Nolan 1988 [Michel Foucault tel que je l’imagine, Montpellier, Fata Morgana 1986]  
 
1. L’immagine non è, in Blanchot, confortata dalla credenza nel “profondo di un sogno felice che l’arte troppo spesso autorizza”.
“Vivere un avvenimento in immagine – citiamo ancora, e necessariamente a lungo, da Lo spazio letterario – non vuol dire disimpegnarsi da questo avvenimento, disinteressarsene, come vorrebbero la versione estetica dell’immagine e l’ideale sereno dell’arte classica, ma vuol dire non più impegnarvisi con una decisione libera: vuoi dire lasciarsi prendere, passare dalla regione del reale, in cui ci teniamo a distanza dalle cose per meglio disporne, a quest’altra regione in cui la distanza ci tiene, questa distanza è allora profondità non viva, indisponibile, lontananza inapprezzabile divenuta come la potenza suprema e ultima delle cose ... Vivere un avvenimento in immagine, non vuol dire avere di questo avvenimento una immagine, e neppure conferirgli la gratuità dell’immaginano. L’avvenimento, in questo caso, avviene veramente; e tuttavia avviene ‘veramente’? Ciò che accade ci afferra, come ci afferrerebbe l’immagine, vale a dire ci priva, di esso e di noi, ci tiene al di fuori, fa di questo di fuori una presenza in cui ‘Io’ non ‘si’ riconosce”.
L’evocazione straniante dell’incontro anonimo e aleatorio con Foucault nel ’68, che apre Michel Foucault come io l'immagino, presenta quel carattere di esteriorità irriducibile dell’avvenimento, che costituisce un luogo cruciale dell’opera (sia “critica”, sia letteraria”) di Blanchot. “Non è una
finzione benché non sia capace di pronunciare a proposito di tutto ciò la parola verità. Gli è successo qualcosa, e non può dire che sia vero, né il contrario. Più tardi, pensò che l’avvenimento consistesse in questa maniera di non essere né vero, né falso” (L'attesa, l’oblio). E ancora, ne La comunità inconfessabile (a proposito di Acéphale): “Coloro che vi hanno partecipato non sono sicuri di avervi avuto parte”.

2. “Esprimere soltanto quello che non può esserlo. Lasciarlo inespresso” (L‘attesa, l’oblio).
La comunità inconfessabile: ogni volta che si è parlato della sua maniera di essere non se ne è colto se non ciò che la fa esistere soltanto per difetto. Il troppo celebre e troppo ripetuto detto di Wittgenstein,Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere’, indica bene che, poiché non ha potuto egli nell’enunciarlo imporre a se stesso il silenzio, si deve parlare. Ma con che sorta di parole? Ecco una delle questioni che questo libretto affida ad altri, meno perché vi rispondano che perché consentano ad assumerla e a prolungarla. Si troverà così che essa ha ancora un senso politico vincolante, e che non ci permette di disinteressarci del tempo presente, il quale, aprendo spazi di libertà sconosciuta, ci rende responsabili di rapporti nuovi, sempre minacciati, sempre sperati, tra ciò che chiamiamo opera e ciò che chiamiamo inoperosità”.
Questione intensificata nella morte di Foucault: “con che sorta di parole?
 
3. “Due parole di carattere personale. Per essere precisi, con Michel Foucault non mi è accaduto di avere un rapporto personale. Non l’ho mai incontrato tranne una volta ...”.
Esordio negativo. Immediatamente spiazzato, immediatamente rovesciato – “nell’imprevisto di un incontro felice”, l’accadere di un rapporto impersonale. È il Maggio Sessantotto, è la comunicazione esplosiva, “l’apertura che permetteva a ciascuno, senza distinzione di classe, di età, di sesso o di cultura,di frequentare il primo venuto, come un essere già amato, precisamente perché egli era il familiare-sconosciuto” (La comunità inconfessabile); ripetizione ora variata nel contegno di un gesto che allontana i corvi: “checché ne dicano i detrattori del Maggio, fu un bel momento quello in cui ciascuno poteva parlare all’altro, anonimo, impersonale, uomo tra gli uomini, accolto senz’altra giustificazione che quella proprio di essere un uomo”.


4. Michel Foucault tel que je l’imagine esce, in Francia, nel 1986. Nello stesso anno P. A. Rovatti (nella nota introduttiva a Effetto Foucault, Milano, Feltrinelli, 1986) saluta la generale e pacifica accoglienza del pensiero di Foucault nel panorama culturale italiano, facendosi interprete della “delicata fase di passaggio” in cui all’“effetto politico assopito” viene sostituito “un interesse più critico e meno applicativo”.
Inevitabile cogliere il divario di prospettive: mentre voci significative della cultura italiana (e, in particolare, del “pensiero debole”) hanno indicato nel sonno dell’interesse politico le condizioni del risveglio della filosofia, il libro di Blanchot apre l’interrogazione filosofica nel quadro della domanda sul presente, del suo senso politico vincolante.

5. L’essersi “mancati”, l’inesistenza di un rapporto personale, divengono punto di forza, condizione di possibilità di una lettura che lascia programmaticamente inappagato il “bisogno di cercare il vero solo a livello dell’aneddoto e nella falsità del pittoresco” (riprendiamo questa definizione dal saggio che, ne L’infinto intrattenimento, affrontava la scomparsa di Georges Bataille, richiamo non casuale, in quanto la presenza silenziosa di quest’altra assenza sembra intimamente iscritta nel tono del testo dedicato a Foucault, riserva muta del suo stesso riserbo): “ognuno di noi – aveva scritto Blanchot – è minacciato dal suo Golem, grossolana immagine d’argilla, doppio d’errore che ci rende visibili; se da vivi abbiamo la possibilità di contestarlo con la discrezione della nostra vita, dopo la morte esso ci perpetua; come impedire che trasformi la nostra sparizione, anche la più silenziosa, nel momento in cui, citati in giudizio, dobbiamo affannosamente rispondere di ciò che non fummo? Può accadere che proprio gli amici più cari, con la loro lodevole intenzione di parlare in vece nostra e di non abbandonarci troppo presto all’assenza, diano il loro contributo al travestimento benevolo o malevolo col quale d’allora in poi compariremo sempre. No, non c’è scampo per i morti che muoiono dopo aver scritto ...”.
Questo problema è al centro di un’interrogazione ripetuta, ripresa ne L’amitié (Paris, Gallimard, 1971), nel capitolo finale (ancora su Bataille, sulla sua assenza) che dà il titolo al libro. “De cet ami, comment accepter de parler? Ni pour l’éloge, ni dans l’intérêt de quelque vérité. Les traits de son caractère, les formes de son existence, les épisodes de sa vie, même en accord avec la recherche dont il s’est senti responsable jusqu’à l’irresponsabilité, n’appartiennent à personne. Il n’y a pas de témoin. Les plus proches ne disent que ce qui leur fut proche, non le lointain qui s’affirma en cette proximité, et le lointain cesse dès que cesse la présence”.
Michel Foucault come io l’immagino si iscrive nel solco di questa interrogazione, ma per riformularla in una situazione estrema, nella quale i termini sono rovesciati, e dunque radicalizzati: qui il lontano è l’assolutamente lontano, l’amicizia non è prima della morte, e del testo, ma si schiude, come “dono postumo” – in un’affermazione che si spinge verso la propria cancellazione – al termine del libro. Di qui, forse, la vertigine moltiplicata di questo breve testo, la sua ingannevole e suprema semplicità.

6. Di questo libro, che sarebbe abbastanza vano riassumere o “commentare”, e la cui lettura è continuamente presupposta-evocata da queste note, mi interessa sottolineare un ultimo elemento.
Gilles Deleuze (nel suo Foucault, Milano, Feltrinelli, 1987), ha posto in evidenza due punti di incontro forte tra Foucault e Blanchot (incontro che non può non rinviare alla “comunità di scrittura”): l’eterogeneità del visibile e dell’enunciabile. il pensiero del di fuori.
Blanchot. non tenendo la contabilità delle “influenze” che lo riguardano, non tematizza questi termini, li attualizza: nello scarto tra il testo e le immagini, nel restituire Foucault alla distanza che ci invita e ci permette di leggerlo nuovamente.


 
Rudy M. Leonelli, 1989
in
Invarianti. Per descrivere le trasformazioni
anno III, n. 9-10, primavera-estate 1989

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