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mercoledì 11 dicembre 2013

FN & CaPa: «Il giorno della rivoluzione» - di: Guido Caldiron

«Il giorno della rivoluzione», con Forza Nuova e Casa Pound

   il movimento. Militanti neri, produttori e "padroncini" 

   da il manifesto  -  10/12/2013


 «Saremo noi per primi a difen­derci da even­tuali infil­trati. Io per primo ho paura per­ché le infil­tra­zioni (…) non ci fanno bene, fanno un favore al sistema. Pur­troppo, però, ci sono». Era stato lo stesso lea­der del Movi­mento sici­liano dei For­coni, Mariano Ferro, ad ammet­tere che la mobi­li­ta­zione del 9 dicem­bre cor­reva il rischio di tra­sfor­marsi in una straor­di­na­ria vetrina per chi volesse cer­care visi­bi­lità. Come l’estrema destra che cerca oggi di spe­cu­lare sul males­sere ali­men­tato dalla crisi, nel ten­ta­tivo di ripo­si­zio­narsi in forme più radi­cali dopo il lungo flirt con la destra di governo berlusconiana.
Per­ciò, non deve sor­pren­dere più di tanto se tra gli esiti delle mani­fe­sta­zioni che si sono svolte ieri in molte città, dalla Sici­lia fino al Nor­dest, vi è anche quello di una rin­no­vata presenza dei neo­fa­sci­sti. Un dato da non enfa­tiz­zare, ma pur sem­pre reale.
Ultrà «neri» del cal­cio orga­niz­zati mili­tar­mente a Torino — anche se dai micro­foni di Radio Black Out, vicina ai cen­tri sociali, si invi­tava a una let­tura più arti­co­lata della com­po­si­zione della piazza -, mili­tanti di Casa Pound e Forza Nuova a Roma e in altre città del centro-sud, atti­vi­sti del Movi­mento Sociale Euro­peo, sigla di comodo in realtà legata ad alcuni diri­genti del par­tito La Destra di Sto­race a bloc­care qual­che strada sem­pre nella Capi­tale, men­tre qui e là si è visto anche qual­che espo­nente di Fra­telli d’Italia. Estre­mi­sti di destra con­fusi tra i mani­fe­stanti: una situa­zione resa pos­si­bile anche dal pro­filo poli­ti­ca­mente inde­fi­nito dell’iniziativa.

mercoledì 4 dicembre 2013

CaPa & Alba Dorata



 Casa Pound, dal Cavaliere ad Alba Dorata

    di  Guido Caldiron e Giacomo Russo Spena 

                                                                        da MicroMega online
                                                                             (4 dicembre 2013)                                                                                  


Venerdì scorso i Fascisti del Terzo Millennio hanno ospitato nel loro quartier generale i neonazisti greci, un'evidente svolta a destra: l'intento è unire tutti i movimenti nazionalisti europei. Il guru di tale svolta pare l'evergreen Adinolfi il quale contro la crisi economica propone da tempo una "nuova alchimia movimentista peronista".
  
                      
                              

Né svastiche né celtiche. Nessuna testa rasata. L’immaginario naziskin assente. Come i saluti romani: i camerati tra loro si limitano a stringersi l’avambraccio destro nel saluto del legionario. Tanti giovani di Blocco Studentesco, ben vestiti e più figli di una borghesia annoiata che fascisti di borgata. Pochi giornalisti, Casa Pound non è più sulla cresta dell’onda. Le ultime batoste subite in diverse tornate elettorali ne hanno sancito un’evidente marginalità politica. Eppure venerdì scorso ospitavano i greci più temuti del Continente: i rappresentanti del movimento di estrema destra, ma la stampa ellenica non esita a chiamarli esplicitamente neonazisti, di Alba Dorata, venuti appositamente in Italia per confrontarsi con i “fascisti del Terzo Millennio”. Un evento annunciato da migliaia di manifesti su tutti i muri della Capitale.

Centocinquanta le persone accorse nel cuore del quartiere multietnico dell’Esquilino per l’iniziativa. Lo staff comunicazione del gruppo neofascista ad accogliere i cronisti e ad accompagnarli al sesto piano del palazzone, luogo del dibattito. Ovunque camerati impettiti a controllare e scrutare facce non conosciute: disciplina e ordine, di stampo militarista, la fanno da padroni. L’ambiente è ripulito. Sui muri decine di fanzine incorniciate di Casa Pound raccontano anni di iniziative. Nulla è lasciato al caso.

Apostolos Gkletsos, ex-deputato e componente del comitato centrale di Alba Dorata, e Konstantinos Boviatsos, Radio Bandiera Nera Hellas, entrano in sala accompagnati da uno scrosciante applauso. Andrea Antonini, vicepresidente di Casa Pound Italia, introduce il dibattito. Le sue parole suonano inequivocabili: «Condividiamo il programma politico di Alba Dorata, è un’unione anche umana contro la repressione giudiziaria e di sangue». Il riferimento è agli ultimi fatti accaduti in Grecia: la magistratura conduce un’inchiesta per specifici reati criminali che ha già portato in carcere diversi esponenti di primo piano del movimento, mentre due giovani militanti sono stati uccisi da un commando rimasto senza nome, anche se è arrivata una rivendicazione firmata da uno sconosciuto gruppo di estrema sinistra.

Si ha la sensazione di assistere ad un cambio di paradigma importante per Casa Pound che implica una svolta. A destra. Estrema destra.
In Italia Alba Dorata finora aveva stretto rapporti soprattutto con Forza Nuova, mentre i Fascisti del Terzo Millennio – nel loro tentativo di rinnovare il “campo” con nuovi slogan e un immaginario a metà strada tra le sottoculture giovanili, il futurismo e Terza Posizione –, avevano prediletto altri movimenti ellenici di stampo più laico e non nazionalsocialista.

Un libro, scritto dal giornalista Dimitri Deliolanes, ripercorre la storia e l’ascesa di Alba Dorata. Per lui si tratta dell’unico partito esplicitamente neonazista presente in un parlamento nazionale dell’Unione Europea. La costruzione politico-ideologica del gruppo risale all’inizio degli anni ’80. In un editoriale del numero 5 (maggio-giugno 1981) della loro omonima rivista, si legge:

Siamo nazisti, se ciò non disturba a livello espressivo, perché nel miracolo della Rivoluzione Tedesca del 1933 abbiamo visto la Potenza che libererà l’umanità dal marciume ebraico, abbiamo visto la Potenza che ci condurrà in un nuovo rinascimento europeo, abbiamo visto la splendida rinascita degli istinti ancestrali della razza, abbiamo visto una fuga possente dall’incubo dell’uomo massa industriale verso una nuova e nello stesso tempo antica ed eterna specie d’uomo, l’uomo degli dèi e dei semidei, il puro, ingenuo e violento uomo del mito e degli istinti.

Eppure Apostolos Gkletsos precisa subito: «Non siamo nazisti, il nostro è un movimento politico e ideologico. Un movimento nazionalista e popolare». Più volte le frasi dell’ospite greco sembrano mettere in imbarazzo i militanti di Casa Pound. Come quel costante richiamo alla «razza bianca europea» o alle radici cristiane dell’Europa e alla «Grecia (che) svolge da sempre un ruolo di scudo contro l’invasione islamica: prima i persiani, ora i turchi».

martedì 19 marzo 2013

Le pape et les "années de plomb" en Argentine


"François Ier, Argentin et péroniste", sur une affiche à Buenos Aires, le 15 mars.

Le rôle de Jorge Mario Bergoglio, le pape François, pendant la dictature militaire (1976-1983) fait l'objet de controverse depuis plusieurs années à Buenos Aires. A l'origine, le directeur du quotidien progouvernemental Pagina 12, Horacio Verbitsky, avait publié, en 2005, un livre polémique, El Silencio (non traduit), où il dénonce la complicité de l'Eglise catholique argentine avec les militaires.



 Le journaliste accuse en particulier Jorge Bergoglio, qui était à l'époque responsable de la Compagnie de Jésus en Argentine, d'être impliqué dans l'enlèvement de deux jeunes prêtres jésuites qui travaillaient dans un bidonville, en 1976. Torturés pendant cinq mois, Orlando Yorio et Francisco Jalics avaient été remis en liberté et s'étaient exilés. Le premier est mort en 2000, le second vit en Allemagne. Dans un communiqué publié, vendredi 15 mars, sur le site Internet des jésuites en Allemagne, ce dernier déclare qu'il ne peut "prononcer sur le rôle du père Bergoglio dans ces événements". Il indique aussi avoir eu "l'occasion de discuter des événements avec le père Bergoglio qui était entre-temps devenu archevêque de Buenos Aires. Nous avons ensemble célébré une messe publique (...). Je considère l'histoire comme close", a-t-il précisé.

De son côté, le porte-parole du Vatican, le Père Federico Lombardi, a dénoncé "le caractère anticlérical de ces attaques, allant jusqu'à la calomnie et la diffamation des personnes". "La justice l'a entendu une fois et à simple titre de témoin et le père Bergoglio n'a jamais été suspecté ou accusé". "Dans l'élaboration de la demande de pardon, Mgr Bergoglio a déploré les défaillances de l'Eglise argentine face à la dictature", souligne le Vatican.


"TALENTS D'ACTEUR"

Dans un article publié au lendemain de l'élection du pape François, M. Verbitsky, qui est également directeur du Centre d'études légales et sociales, une organisation non gouvernementale de défense des droits de l'homme, a renouvelé ses attaques, qualifiant le nouveau pontife de "populiste conservateur", qui introduira "des changements cosmétiques" au Vatican, "avec ses talents d'acteur". Le même jour, M. Verbitsky publie un courrier électronique de Graciela Yorio dans lequel la sœur du prêtre décédé exprime "son angoisse et sa colère". Selon elle, il aurait "laissé sans protection" les deux prêtres, adeptes de la "théologie de la libération" ...


lire  l'article complet  sur Le Monde

martedì 12 marzo 2013

Casca Pound (by Anonymous)


      

        Attacco Anonymous al sito casapound.org



Firma la petizione per chiudere Casapound
su
Anonymous Italia

martedì 29 gennaio 2013

«Duce, Duce», «Silvio, Silvio»



Berlusconi, a noi!


di Guido Caldiron e Giacomo Russo Spena
da MicroMega 2/2011


Dopo la svolta ‘badogliana’ di Fini, per l’estrema destra Berlusconi è diventato l’assoluto punto di riferimento. In lui i moderni camerati vedono il nuovo Mussolini, l’atteso ‘capo carismatico’ capace di scardinare le regole democratiche e costituzionali. Il razzismo del Cavaliere, il suo revisionismo storico e la sua ‘antipolitica’ li affascinano. E oggi puntano sul Pdl.

«Duce, Duce», «Silvio, Silvio». «L’antifascismo che ha portato tante disgrazie e nefandezze dal 1945 ad oggi non potrà mai essere un nostro valore. Oggi la nuova Italia di Berlusconi-Tremonti-Alemanno sta davvero cambiando in meglio la nostra nazione». «Il nostro presidente Berlusconi ancora una volta si dimostra capo popolare e carismatico, fregandosene del “politicamente corretto” e degli antifascisti vecchi e nuovi». «Berlusconi? Mai stato antifascista». «Per chi vuole incentivare politiche nazionaliste è necessario sostenere il centro-destra che si regge intorno alla figura carismatica di Silvio Berlusconi».
In queste parole ci sono più di tre generazioni di neofascisti che, divisi su tutto, si ritrovano da tempo uniti nel considerare la figura di Berlusconi come quella di un «nuovo Duce». Come è accaduto? Cerchiamo di capirlo ripercorrendo le tappe di questa attrazione fatale.

domenica 27 gennaio 2013

Consuete facezie di Berlusconi su lager, sterminio, fascismo, etc.

Riemerso fresco fresco come una salma su schermi e "cartaceo", l'invadente piazzista virtuale di Arcore, con mossa a ben guardare non propriamente sorprendente..., ha riversato sui media un'appendice al repertorio delle consuete banalizzazioni del fascismo, del nazismo, dei campi di sterminio, etc., nel cui campo si diletta, come un caricaturale "specialista"...




   Avendo da qualche anno segnalato con una certa attenzione il particolare hobby del soggetto in questione, incidenze rinuncia a commentare l'ennesima rifrittura dell'abituale paccottiglia "storica" smerciata dal pupillo di Licio Gelli.

  Del resto, ormai, il gioco è stantio, come pure il suo cascante "animatore".

sabato 19 gennaio 2013

Storapace

Per ingannare il mondo, assumi il suo aspetto, abbi il benvenuto nell'occhio, nella mano, nella lingua, appari come il fiore innocente ma sii la serpe che vi si cela sotto.

                                                     Macbeth, I,1









[Lazio] Hit degli impresentabili: accordo tra Storace e Pannella


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immagine da: Giù la Testa

martedì 18 settembre 2012

Roms : la commune humanité bafouée


Rom: la comune umanità schernita

Firmare una petizione e concorrere a farla circolare  è , come ha  sottolineato realisticamente Vincenza Perilli su Marginalia, un gesto limitato, ma  in casi come questo , vale comunque la pena di associarsi all'indignazione e alla protesta di fronte alla politica di espulsione dei "Rom stranieri" perseguita in Francia dal nuovo governo che ,su questi problemi cruciali, non ha rotto la continuità con il precedente governo di destra.
A cosa può servire cambiare Presidente se non a cambiare politica adoperandosi a sradicare e neutralizzare le condizioni del razzismo, del populismo, della xenofobia ?
 
Ho firmato ed invito a diffondere e firmare la petizione:
 Roms : la commune humanité bafouée,

venerdì 11 maggio 2012

M : Marcia [per la Vita]


E n c i c l o p e d i a
d e l l a
n e o l i n g u a
.
M
Marcia
[per la Vita]




Domenica a Roma i pro-life tornano in piazza contro l’aborto, per una manifestazione che riunisce i cattolici oltranzisti e la destra radicale. Insieme a Militia Christi e Forza Nuova ci sarà anche la senatrice del Partito Democratico Maria Pia Garavaglia, che questa mattina ha partecipato alla conferenza stampa di presentazione in Senato ...

mercoledì 8 febbraio 2012

R : Roma in giù [da]


E n c i c l o p e d i a
d e l l a
n e o l i n g u a


 
R

Roma in giù [da]



 ''La caduta della neve non è un fatto così epocale. Da Roma in giù manca la volontà e la voglia di lavorare'': così l'europarlamentare della Lega Mario Borghezio al telefono con Klaus Condicio, per il programma in onda su You Tube. Poi aggiunge: "Nei popoli del sud manca senso civico, dovrebbero venire a scuola a nord per impararne un po'. Basta lamentarsi''


giovedì 29 settembre 2011

ri - ecce Eccher

Non essendo riuscito a condurre in porto la sua proposta di eliminare dalla Costituzione la dodicesima disposizione transitoria e finale che vieta la la riorganizzazione del partito fascista, il senatore post-squadrista (oggi nel PdL, of course) Cristiano de Eccher,  ripiega provvisoriamente su una navigazione di più modesto corso:  "una crociera sul lago di Garda, su di un piroscafo dal nome evocativo, con tappa in quel di Salò", in compagnia di noti cervelli del calibro di un Maurizio Gasparri.


mercoledì 20 aprile 2011

L'amore per il Führer - Die Liebe zum Führer [Bertolt Brecht]

L’amore per il Führer

L'amore del popolo per il Führer è molto grande.
Ovunque egli vada
è circondato da gente in uniformi nere
che lo ama al punto
da non distogliere l'occhio da lui.
Quando egli siede in un caffè
immediatamente gli si siedono intorno cinque giganti perché
possa godersi un po’ di svago.
Le SS specialmente lo amano con tanta passione
che quasi lo invidiano al resto del popolo e
gli stanno addosso, tanto
sono gelose. E quando una volta con alcuni generali
fece una gita di fine settimana su un incrociatore
e passò un’ intera notte solo con loro
scoppiò una rivolta fra le SA e egli dovette
farne fucilare centinaia.

[tr. it di Franco Fortini, da “Poesie di Svedebnborg”]


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Die Liebe zum Führer

Die Liebe des Volkes zum Führer ist sehr groß.
Überall wo er hingeht
Ist er umringt von Leuten in schwarzen Uniformen
Die ihn so lieben
Daß sie kein Auge von ihm lassen.
Wenn er sich in ein Kaffeehaus setzt
Setzen sich sogleich fünf Hünen zu ihm, damit er
Unterhaltung hat.
Besonders die SS liebt ihn so leidenschaftlich
Daß sie ihn dem ardern Volk kaum gönnt und ihm
Nicht von der Pelle geht, so
Eifersüchtig ist sie. Und als er einmal
Mit einigen Generälen eine Wochenendfahrt auf einem
Kreuzer machte
Und eine ganze Nacht allein mit ihnen zubrachte
Erhob sich ein Aufruhr unter der SA, und er mußte
Hunderte erschießen lassen.

lunedì 14 febbraio 2011

Finezze: il terzo pollo

Ma oggi non è possibile trascurare il fatto che l'uso intensivo dello spettacolo ha, come c'era da aspettarsi, reso ideologica la maggioranza dei contemporanei, per quanto solo a tratti e a sbalzi. La mancanza di logica, ossia la perdita della possibilità di riconoscere immediatamente ciò che è importante e ciò che è secondario o non pertinente; ciò che è incompatibile o che al contrario potrebbe essere complementare; tutto ciò che una data conseguenza implica e ciò che, nello stesso momento vieta; tale conseguenza è stata iniettata a dosi massicce nella popolazione dagli anestesisti-rianimatori dello spettacolo.
 Guy Debord, Commentaires, XI

"Né destra né sinistra"

“Senza distinzione tra Nord e Sud, tra destra e sinistra”. Parola di Gianfranco Fini  

 e, logicamente, chiarisce (?!?) :

 
Crediamo a una destra più moderna ed europea



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Finezze tratte da: LA STEFANI

giovedì 27 maggio 2010

Étienne Balibar - Europa: crisi o fine?


Étienne Balibar

Europa: crisi o fine?

In poche settimane, abbiamo assistito alla rivelazione da parte del primo ministro Papandreu del debito «reale» della Grecia, manipolato dal suo predecessore con l'aiuto di Goldmann Sachs; all'annuncio della possibilità che il suo Paese non ce la faccia a pagare i nuovi interessi sul debito, brutalmente moltiplicati; all'imposizione alla Grecia di un piano di austerità selvaggio, come contropartita del prestito europeo. Poi l'«abbassamento del voto» della Spagna e del Portogallo, la minaccia dell'implosione dell'euro, la creazione di un fondo di aiuto europeo di 750 miliardi (su richiesta, in particolare, degli Stati uniti). Infine, la decisione della Bce, in contraddizione con il suo statuto, di acquisire delle obbligazioni statali, e l'adozione di politiche di rigore in una decina di paesi. Ce n'est qu'un début, non è che l'inizio, poiché questi nuovi episodi di una crisi apertasi due anni fa con il crollo dei crediti immobiliari statunitensi ne prefigurano altri. Dimostrano che il rischio di crac persiste o addirittura aumenta, alimentato da una massa enorme di titoli «spazzatura», accumulata nel corso del decennio precedente grazie ai consumi a credito, alla trasformazione dei titoli dubbiosi e dei credit default swaps in prodotti finanziari, oggetto di speculazione a breve. Il tormentone dei crediti dubbiosi continua, e gli stati sono in affanno. La speculazione investe ormai le monete e il debito pubblico. L'euro rappresenta oggi l'anello debole di questa catena, e trascina l'Europa. Le conseguenze saranno devastanti.


I greci hanno ragione a rivoltarsi

Prima conseguenza della crisi e della «medicina» che le è stata applicata: la rabbia della popolazione greca. Hanno torto a rifiutare di assumersi le proprie responsabilità? Hanno ragione a denunciare una «punizione collettiva»? Indipendentemente dalle provocazioni criminali che l'hanno viziata, questa rabbia si giustifica per almeno tre motivi. L'imposizione dell'austerità è stata accompagnata da una stigmatizzazione delirante del popolo greco, considerato colpevole per la corruzione e le menzogne della sua classe politica, di cui (qui come altrove) approfittano ampiamente i più ricchi (in particolare sotto la forma dell'evasione fiscale). L'austerità, ancora una volta, è stata imposta rovesciando gli impegni elettorali del governo, al di fuori di qualsiasi dibattito democratico. Infine, abbiamo visto l'Europa applicare al suo interno non delle procedure di solidarietà, ma le regole leonine del Fondo monetario internazionale, che mirano a proteggere i crediti delle banche, mentre annunciano una prevedibile recessione senza fine per il paese. Gli economisti, su queste basi, concordano nel pronosticare un default certo del tesoro greco, un contagio della crisi e un'esplosione del tasso di disoccupazione, soprattutto se le stesse regole verranno applicate ad altri paesi virtualmente in fallimento stando alle «notazioni» del mercato, come reclamano ad alta voce i difensori dell'«ortodossia».


Una politica che occulta il suo volto

Nel «salvataggio» della moneta comune, di cui i greci sono stati le prime vittime (ma non saranno gli ultimi), le modalità che hanno prevalso finora (imposte, in particolare, dalla Germania) hanno messo in primo piano, come priorità, la generalizzazione del «rigore» di bilancio (inscritto nei trattati fondatori, ma nei fatti mai veramente applicato) e, ma solo in secondo luogo,la necessità di una «regolazione» - molto moderata - della speculazione e della libertà degli hedge funds (già evocata dopo la crisi dei subprimes e dei fallimenti bancari del 2008). Gli economisti neo-keynesiani aggiungono a queste esigenze dei passi avanti verso il «governo economico» europeo (in particolare l'unificazione delle politiche fiscali), o dei piani di investimento elaborati in comune: senza questo, affermano, l'esistenza stessa della moneta unica si rivelerà impossibile.

Si tratta, evidentemente, di proposte assolutamente politiche (e non tecniche). Sono alternative che i cittadini dovrebbero dibattere, poiché le conseguenze di queste scelte saranno irreversibili per la collettività. Ma il dibattito è falsato dalla dissimulazione di tre dati essenziali:

- la difesa di una moneta e la sua utilizzazione congiunturale (sostegno, svalutazione) comportano sia un assoggettamento delle politiche economiche e sociali all'onnipotenza dei mercati finanziari (con le loro «notazioni» che si auto-realizzano e i loro «verdetti» che non lasciano spazio a nessun appello), sia una crescita della capacità degli stati (e, più in generale, della potenza pubblica) a limitarne l'instabilità e a privilegiare gli interessi a lungo termine sui profitti speculativi. Una strada o un'altra, tertium non datur.

- con la scusa di una relativa armonizzazione delle istituzioni e di una garanzia di alcuni diritti fondamentali, la costruzione europea, nella sua forma attuale, con le forze che l'orientano, non ha smesso di favorire la divergenza delle economie nazionali, che in teoria avrebbe invece dovuto ravvicinare all'interno di una zona di prosperità condivisa: alcune economie ne dominano altre, sia in termini di parti di mercato, sia in termini di concentrazione bancaria, sia trasformandole in fornitori in subappalto. Gli interessi delle nazioni, se non quelli dei popoli, diventano contraddittori.

- il terzo pilastro di una politica keynesiana generatrice di fiducia, oltre la moneta e il fisco, cioè la politica sociale, la ricerca della piena occupazione e la crescita della domanda attraverso il consumo popolare, viene sistematicamente passato sotto silenzio, anche dai riformatori. E sicuramente viene fatto apposta.


Dove va la globalizzazione?

A cosa serve, d'altronde, riflettere e discutere sull'avvenire dell'Europa e della sua moneta (dalla quale alcuni grandi paesi si tengono alla larga: Gran Bretagna, Polonia, Svezia), se non si tiene conto delle tendenze reali della globalizzazione? Se la gestione politica della crisi finanziaria resta fuori portata per le popolazioni e i governi implicati, l'effetto sarà una formidabile accelerazione dei processi in corso. Di che cosa si tratta? In primo luogo, del passaggio da una forma di concorrenza a un'altra: dai capitalismi produttivi ai territori nazionali, dove ognuno, a colpi di esenzioni fiscali e di abbassamento del valore lavoro, tenta di attirare più capitali fluttuanti del vicino. E' più che evidente che l'avvenire politico, sociale e culturale dell'Europa in generale - e di ogni paese in particolare - dipende dal fatto di sapere se l'Europa costituisce un meccanismo di solidarietà e di difesa collettiva delle popolazioni contro il «rischio sistemico», oppure se, al contrario (con l'appoggio di alcuni stati, momentaneamente dominanti, e delle loro opinioni pubbliche) si tratta di un quadro giuridico per intensificare la concorrenza tra gli stati membri e tra i cittadini.

Inoltre, si tratta, più generalmente, del modo in cui la mondializzazione sta sconvolgendo la divisione del lavoro e la ripartizione dell'occupazione nel mondo: in questa ristrutturazione che sovverte nord e sud, ovest e est, una nuova crescita delle ineguaglianze e dell'esclusione in Europa, l'annientamento della classe media, la diminuzione dei lavori qualificati e delle attività produttive «non protette», dei diritti sociali, delle industrie culturali e dei servizi pubblici universali, sono per così dire già programmati. Le resistenze all'integrazione politica, con la scusa di difendere la sovranità nazionale, non possono che aggravare gli effetti nella maggior parte delle nazioni e precipitare il ritorno (già ben avviato) degli antagonismi etnici che l'Europa aveva preteso di oltrepassare definitivamente al suo interno. Ma inversamente è chiaro che non ci sarà un'integrazione europea «dall'alto», in virtù di un'ingiunzione burocratica, senza un progresso democratico in ogni paese e in tutto il continente.


Populismo: pericolo o risorsa?

E' la fine dell'Unione europea, di questa costruzione la cui storia era cominciata 50 anni fa sulla base di una vecchia utopia, ma le cui promesse non sarebbero state mantenute? Non bisogna aver paura di dirlo: sì, ineluttabilmente, a una più o meno breve scadenza e non senza qualche prevedibile violenta scossa, l'Europa è morta come progetto politico, a meno che non riesca a rifondarsi su nuove basi. Un'implosione abbandonerebbe ancora di più i popoli che la compongono oggi alle incertezze della globalizzazione, come sugheri in un torrente. Una rifondazione non garantisce nulla, ma dà qualche possibilità di esercitare una forza geopolitica, a proprio vantaggio e per quello degli altri, a condizione di osare affrontare le immense sfide di un federalismo di nuovo tipo. Si tratta della potenza pubblica comunitaria (distinta sia dallo stato che da una semplice «governance» di politici ed esperti), di eguaglianza tra le nazioni (il contrario dei nazionalismi reattivi, sia quello dei «forti» che quello dei «deboli») e di rinnovamento della democrazia nello spazio europeo (il contrario della «de-democratizzazione» attuale, favorita dal neo-liberismo e dallo «statalismo senza stato» delle amministrazioni europee, colonizzate dalla casta burocratica, che sono anche per buona parte all'origine della corruzione pubblica).

Da tempo avremmo dovuto ammettere questo fatto evidente: non ci saranno passi avanti verso il federalismo, in effetti oggi auspicabile, senza un passo avanti della democrazia al di là delle forme esistenti, in particolare con una intensificazione dell'intervento popolare nelle istituzioni sovranazionali. Significa che, per rovesciare il corso della storia, scuotere le abitudini di una costruzione ormai senza fiato, ci sia bisogno oggi di qualcosa che può essere definito un populismo europeo, un movimento convergente delle masse o un'insurrezione pacifica, attraverso la quale venga espressa contemporaneamente la rabbia delle vittime della crisi contro coloro che ne approfittano (o la alimentano) e l'esigenza di un controllo «dal basso» sugli scambi tra finanza, mercati e politica degli stati? Sì, senza dubbio, perché non c'è altro nome per definire la politicizzazione del popolo, ma a condizione - se si vogliono scongiurare altre catastrofi - che vengano istituiti seri controlli costituzionali e che rinascano delle forze politiche su scala europea, in grado di far prevalere all'interno di questo populismo «post-nazionale» una cultura, un immaginario e degli ideali democratici intransigenti. C'è un rischio, ma è minore di quello di lasciare libero corso ai diversi nazionalismi.


Dov'è la sinistra europea?

Queste forze costituiscono ciò che tradizionalmente, nel continente, era chiamata la sinistra. Ma anch'essa è in stato di fallimento politico: a livello nazionale e internazionale. Nello spazio che ormai conta, che attraversa le frontiere, ha perso qualsiasi capacità di rappresentazione delle lotte sociali o di organizzazione di movimenti di emancipazione, in maggioranza si è allineata ai dogmi e ai ragionamenti del neo-liberismo. Di conseguenza, si è disintegrata dal punto di vista ideologico. Coloro che la incarnano sono soltanto gli spettatori e, in mancanza di seguito popolare, i commentatori impotenti di una crisi contro la quale non propongono nessuna risposta collettiva: niente dopo lo choc finanziario del 2008, niente dopo l'imposizione alla Grecia delle ricette dell'Fmi (peraltro vigorosamente denunciate in altri luoghi e in altri tempi), niente per «salvare l'euro» altrimenti che pesando sulle spalle dei lavoratori e dei consumatori, niente per rilanciare il dibattito sulle possibilità e gli obiettivi dell'Europa solidale.

Cosa succederà, in queste condizioni, quando entreremo nelle nuove fasi della crisi, che devono ancora intervenire? Quando le politiche nazionali sempre più securitarie si svuoteranno del loro contenuto (o del loro alibi) sociale? Ci saranno dei movimenti di protesta, senza dubbio, ma isolati, che potranno venire deviati verso la violenza o recuperati dalla xenofobia e il razzismo già galoppanti, destinati a produrre ancora maggiore impotenza e più disperazione. Tuttavia, la destra capitalista e nazionalista, benché non resti inattiva, è potenzialmente divisa tra strategie contraddittorie: lo si è visto a proposito dei deficit e dei piani di rilancio economico, lo vedremo ancora di più quando l'esistenza delle istituzioni europee sarà in gioco (come prefigura, probabilmente, l'evoluzione britannica). Ci sarebbe qui un'occasione da sfruttare, la possibilità di agire. Delineare e dibattere su ciò che potrebbe essere, su ciò che dovrebbe essere una politica anti-crisi su scala europea, democraticamente definita, che cammini sulle due gambe (del governo economico e della politica sociale), capace di eliminare la corruzione e di ridurre le ineguaglianze che l'alimentano, di ristrutturare il debito e di promuovere gli obiettivi comuni che giustificano i trasferimenti tra nazioni solidali le une con le altre. Sarebbe questa la funzione degli intellettuali progressisti europei, sia che si definiscano rivoluzionari o progressisti. Non ci sono scuse per tirarsi indietro.

[trad; it. di Anna Maria Merlo, in il manifesto, 27 maggio 2010]

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lunedì 24 maggio 2010

Étienne Balibar - Europe: crise et fin?


Étienne Balibar
Europe: crise et fin ?



  1. La crise ne fait que commencer.
En quelques semaines, on aura donc vu la déclaration de faillite du gouvernement Papandreou, l’imposition à la Grèce d’un plan d’austérité sauvage en contrepartie du prêt européen, puis la « baisse de notation » de l’Espagne et du Portugal, la menace d’éclatement de l’euro, la création du fonds de secours européen de 750 milliards (à la demande, notamment, des Etats-Unis), la décision contraire à ses statuts par la BCE de racheter des obligations souveraines, et l’adoption des politiques de rigueur dans une dizaine de pays. Ce n’est qu’un début, car ces nouveaux épisodes d’une crise ouverte il y a deux ans par l’effondrement du crédit immobilier américain en préfigurent d’autres. Ils démontrent que le risque de krach persiste ou même s’accroît, alimenté par l’existence d’une masse énorme de titres « pourris », accumulée au cours de la décennie précédente par la consommation à crédit et la titrisation des default swaps et autres produits dérivés. Le « mistigri » des créances douteuses court toujours, et les Etats courent derrière lui. La spéculation se porte désormais sur les monnaies et les dettes publiques. Or l’euro constitue aujourd’hui le maillon faible de cette chaîne, et avec lui l’Europe. Les conséquences en seront dévastatrices.

  1. Les Grecs ont raison de se révolter.
Premier effet de la crise et du « remède » qui lui a été appliqué : la colère de la population grecque. Ont-ils donc tort de refuser leurs « responsabilités » ? Ont-ils raison de dénoncer une « punition collective » ? Indépendamment des provocations criminelles qui l’ont entachée, cette colère est justifiée pour trois raisons au moins. L’imposition de l’austérité s’est accompagnée d’une stigmatisation délirante du peuple grec, tenu pour coupable de la corruption et des mensonges de sa classe politique dont (comme ailleurs) profitent largement les plus riches (en particulier sous forme d’évasion fiscale). Elle est passée, une fois de plus (une fois de trop ?), par le renversement des engagements électoraux du gouvernement, hors de tout débat démocratique. Enfin, elle a vu l’Europe appliquer en son propre sein, non des procédures de solidarité, mais les règles léonines du FMI, qui visent à protéger les créances des banques, mais annoncent une récession sans fin prévisible du pays. Les économistes s’accordent à pronostiquer sur ces bases un « défaut » assuré du Trésor grec, une contagion de la crise, et une explosion du taux de chômage, surtout si les mêmes règles s’appliquent à d’autres pays virtuellement en faillite au gré des « notations » du marché, comme le réclament bruyamment les partisans de « l’orthodoxie ».


  1. La politique qui ne dit pas son nom.
Dans le « sauvetage » de la monnaie commune, dont les Grecs auront été les premières victimes (mais ne seront pas les dernières), les modalités prévalant à ce jour (imposées notamment par l’Allemagne) mettent en avant, prioritairement, la généralisation de la « rigueur » budgétaire (inscrite dans les traités fondateurs, mais jamais véritablement appliquée), et secondairement la nécessité d’une « régulation » - très modérée - de la spéculation et de la liberté des hedge funds (déjà évoquée après la crise des subprimes et les faillites bancaires de 2008). Les économistes néo-keynésiens ajoutent à ces exigences celle d’une avancée vers le « gouvernement économique » européen (notamment l’unification des politiques fiscales), voire des plans d’investissements élaborés en commun : faute de quoi le maintien d’une monnaie unique s’avérera impossible.

Ce sont là, à l’évidence, des propositions intégralement politiques (et non pas techniques). Elles s’inscrivent dans des alternatives à débattre par les citoyens, car leurs conséquences seront irréversibles pour la collectivité. Or le débat est biaisé par la dissimulation de trois données essentielles :

- la défense d’une monnaie et son utilisation conjoncturelle (soutien, dévalorisation) entraînent soit un assujettissement des politiques économiques et sociales à la toute-puissance des marchés financiers (avec leurs « notations » autoréalisatrices et leurs « verdicts » prétendument sans appel), soit un accroissement de la capacité des Etats (et plus généralement de la puissance publique) à limiter leur instabilité et à privilégier les intérêts à long terme sur les profits spéculatifs. C’est l’un ou c’est l’autre.

- sous couvert d’une harmonisation relative des institutions et d’une garantie de certains droits fondamentaux, la construction européenne dans sa forme actuelle, avec les forces qui l’orientent, n’a cessé de favoriser la divergence des économies nationales, qu’elle devait théoriquement rapprocher au sein d’une zone de prospérité partagée : certaines dominent les autres, soit en termes de parts de marché, soit en termes de concentration bancaire, soit en les transformant en sous-traitants. Les intérêts des nations, sinon des peuples, deviennent contradictoires.

- le troisième pilier d’une politique keynésienne génératrice de confiance, en plus de la monnaie et de la fiscalité, à savoir la politique sociale, la recherche du plein emploi et l’élargissement de la demande par la consommation populaire, est systématiquement passé sous silence, même par les réformateurs. Sans doute à dessein.


  1. A quoi tend la mondialisation ?
A quoi bon, au demeurant, réfléchir et débattre de l’avenir de l’Europe ou de sa monnaie (dont plusieurs grands pays se tiennent à l’écart : la Grande Bretagne, la Pologne, la Suède), si on ne prend pas en compte les tendances réelles de la mondialisation ? La crise financière, si sa gestion politique demeure hors d’atteinte des peuples et des gouvernements concernés, va leur apporter une formidable accélération. De quoi s’agit-il ? D’abord, du passage d’une forme de concurrence à une autre : des capitalismes productifs aux territoires nationaux dont chacun, à coup d’exemptions fiscales et d’abaissement de la valeur du travail, tente d’attirer plus de capitaux flottants que son voisin. Il est bien évident que l’avenir politique, social et culturel de l’Europe, et de chaque pays en particulier, dépend de la question de savoir si elle constitue un mécanisme de solidarité et de défense collective de ses populations contre le « risque systémique », ou bien au contraire (avec l’appui de certains Etats, momentanément dominants, et de leurs opinions publiques) un cadre juridique pour intensifier la concurrence entre ses membres et entre leurs citoyens. Mais il s’agit aussi, plus généralement, de la façon dont la mondialisation est en train de bouleverser la division du travail et la répartition des emplois dans le monde : dans cette restructuration qui intervertit le Nord et le Sud, l’Ouest et l’Est, un nouvel accroissement des inégalités et des exclusions en Europe, le laminage des classes moyennes, la diminution des emplois qualifiés et des activités productives « non protégées », celle des droits sociaux comme des industries culturelles et des services publics universels, sont pour ainsi dire déjà programmés. Les résistances à l’intégration politique sous couvert de défense de la souveraineté nationale ne peuvent qu’en aggraver les conséquences pour la plupart des nations et précipiter le retour (déjà bien avancé) des antagonismes ethniques que l’Europe prétendait dépasser définitivement en son sein. Mais inversement, il est clair qu’il n’y aura pas d’intégration européenne « par en haut », en vertu d’une injonction bureaucratique, sans progrès démocratique dans chaque pays et dans tout le continent.

  1. Nationalisme, populisme, démocratie : où le danger ? où le recours ?
Est-ce donc la fin de l’union européenne, cette construction dont l’histoire avait commencé il y a 50 ans sur la base d’une vieille utopie, et dont les promesses n’auront pas été tenues ? N’ayons pas peur de le dire : oui, inéluctablement, à plus ou moins brève échéance et non sans quelques violentes secousses prévisibles, l’Europe est morte comme projet politique, à moins qu’elle ne réussisse à se refonder sur de nouvelles bases. Son éclatement livrerait plus encore les peuples qui la composent aujourd’hui aux aléas de la mondialisation, comme chiens crevés au fil de l’eau. Sa refondation ne garantit rien, mais lui donne quelques chances d’exercer une force géopolitique, pour son bénéfice et celui des autres, à condition d’oser affronter les immenses défis d’un fédéralisme de type nouveau. Ils ont nom puissance publique communautaire (distincte à la fois d’un Etat et d’une simple « gouvernance » des politiciens et des experts), égalité entre les nations (à l’encontre des nationalismes réactifs, celui du « fort » aussi bien que celui du « faible ») et renouveau de la démocratie dans l’espace européen (à l’encontre de la « dé-démocratisation » actuelle, favorisée par le néolibéralisme et par « l’étatisme sans Etat » des administrations européennes, colonisées par la caste bureaucratique, qui sont aussi pour une bonne part à la source de la corruption publique).

Depuis longtemps, on aurait du admettre cette évidence : il n’y aura pas d’avancée vers le fédéralisme qu’on nous réclame aujourd’hui et qui est en effet souhaitable, sans une avancée de la démocratie au-delà de ses formes existantes, et notamment une intensification de l’intervention populaire dans les institutions supranationales. Est-ce à dire que, pour renverser le cours de l’histoire, secouer les habitudes d’une construction à bout de souffle, il faille maintenant quelque chose comme un populisme européen, un mouvement convergent des masses ou une insurrection pacifique, où s’exprime à la fois la colère des victimes de la crise contre ceux qui en profitent (voire l’entretiennent), et l’exigence d’un contrôle « par en bas » des tractations entre finance, marchés, et politique des États ? Oui sans doute, car il n’y a pas d’autre nom pour la politisation du peuple, mais à la condition – si l’on veut conjurer d’autres catastrophes - que de sérieux contrôles constitutionnels soient institués, et que des forces politiques renaissent à l’échelon européen, qui fassent prévaloir au sein de ce populisme « post-national » une culture, un imaginaire et des idéaux démocratiques intransigeants. Il y a un risque, mais il est moindre que celui du libre cours laissé aux divers nationalismes.


  1. La Gauche en Europe ? quelle « gauche » ?
De telles forces constituent ce que traditionnellement, sur ce continent, on appelait la Gauche. Or elle aussi est en état de faillite politique : nationalement, internationalement. Dans l’espace qui compte désormais, traversant les frontières, elle a perdu toute capacité de représentation de luttes sociales ou d’organisation de mouvements d’émancipation, elle s’est majoritairement ralliée aux dogmes et aux raisonnements du néo-libéralisme. En conséquence elle s’est désintégrée idéologiquement. Ceux qui l’incarnent nominalement ne sont plus que les spectateurs et, faute d’audience populaire, les commentateurs impuissants d’une crise à laquelle ils ne proposent aucune réponse propre collective: rien après le choc financier de 2008, rien après l’application à la Grèce des recettes du FMI (pourtant vigoureusement dénoncées en d’autres lieux et d’autres temps), rien pour « sauver l’euro » autrement que sur le dos des travailleurs et des consommateurs, rien pour relancer le débat sur la possibilité et les objectifs d’une Europe solidaire…

Que se passera-t-il, dans ces conditions, lorsqu’on entrera dans les nouvelles phases de la crise, encore à venir ? Lorsque les politiques nationales de plus en plus sécuritaires se videront de leur contenu (ou de leur alibi) social ? Des mouvements de protestation, sans doute, mais isolés, éventuellement déviés vers la violence ou récupérés par la xénophobie et le racisme déjà galopants, au bout du compte producteurs de plus d’impuissance et de plus de désespoir. Et pourtant la droite capitaliste et nationaliste, si elle ne reste pas inactive, est potentiellement divisée entre des stratégies contradictoires : on l’a vu à propos des déficits publics et des plans de relance, on le verra plus encore lorsque l’existence des institutions européennes sera en jeu (comme le préfigure peut-être l’évolution britannique). Il y aurait là une occasion à saisir, un coin à enfoncer. Esquisser et débattre de ce que pourrait être, de ce que devrait être une politique anticrise à l’échelle de l’Europe, démocratiquement définie, marchant sur ses deux jambes (le gouvernement économique, la politique sociale), capable d’éliminer la corruption et de réduire les inégalités qui l’entretiennent, de restructurer les dettes et de promouvoir les objectifs communs qui justifient les transferts entre nations solidaires les unes des autres, telle est en tout cas la fonction des intellectuels progressistes européens, qu’ils se veuillent révolutionnaires ou réformistes. Et rien ne peut les excuser de s’y dérober.


(21 mai 2010)


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trad. it. : Europa. crisi o fine?

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domenica 21 febbraio 2010

"un paese più normale": il revisionismo incoronato a Sanremo


L'obiettivo di divenire una "nazione normale", che istituisce un rapporto "armonico" col proprio passato, è da tempo una posta in gioco decisiva del revisionismo storico tedesco:
 
La storia non deve più essere oggetto di scontro, deve essere integrata come un elemento 'normale' all'interno della nazione e deve costituire una stabile "identità nazionale".[16]

La sutura della memoria, chiudere le lacerazioni aperte e latenti nella storia moderna, e quelle più specifiche della "storia patria", è ormai divenuto, anche in Italia, un programma statale.






E. Filiberto: Io credo nella mia cultura e nella mia religione, per questo io non ho paura, di esprimere la mia opinione. Io sento battere più forte, il cuore di un’Italia sola, che oggi più serenamente, si specchia in tutta la sua storia.
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Pupo: Io credo ancora nel rispetto, nell’onestà di un ideale, nel sogno chiuso in un cassetto e in un paese più normale

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video da Liberazione
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giovedì 24 settembre 2009

Ascanio Celestini - Lanciano il sasso e mostrano la mano



Lo squallido "attacco murale" orchestrato a Viterbo da Casapound contro la presentazione dello spettacolo di Ascanio Celestini, Il razzismo è una brutta storia - che l'autore-interprete ha messo a disposizione della campagna nazionale contro il razzismo promossa dall'Arci -, meriterebbe molte considerazioni.
Ma, nell'urgenza, preferisco limitarmi a qualche osservazione (temporalmente) "a caldo", e a mente fredda.

Nella notte prima dello spettacolo - riferisce Carta - "Casapound ha strappato tutti i manifesti della prima e ha imbrattato i muri della città con insulti contro l’Arci e Ascanio Celestini". La prosa murale [scritte nere, quasi tutte firmate CPI (Casapound Italia ) o CPVT (Casapound Viterbo)] toccano l'apice della volgarità e della demagogia), con "perle" di questo genere: "Celestini fa li sordi sull'immigrato", "Ascanio Celestini bamboccio", "Tutto esaurito per la prima di un fallito", "Celestini boia", e via imbrattando...

Tanta e tale rozzezza dei neri writers notturni, non è che l'elemento più eclatante di un'operazione mirata, che non è, e non va, ridotta a mero episodio locale : mettere in scena (anche grazie allo "scalpore" suscitato delle offese), l'esistenza di una "contro-campagna" nazionale - organizzata e avallata dal "centro" (i volantini affissi a Viterbo di Casapound, a firma e con l'indirizzo della centrale romana), il cui nucleo "teorico" è il ribaltamento dell'imputazione di "razzismo" su chi difende i diritti degli immigrati. E' il classico procedimento di ritorsione, da tempo collaudato nei laboratori della Nouvelle droite. E, nella palude del paradigma bipartisan,imperante da anni in Italia, la presentazione di due "pareri" speculari tesa a suscitare un'improbabile impressione di equivalenza tra un parere pro e uno contro l'immigrazione, che si pretendono entrambi antirazzisti, potrebbe servire a estendere le tenebre di questa lunga notte in cui tutte le vacche sono nere.

Ma torniamo ad Ascanio Celestini: penso che quel che i fascisti odiano e vorrebbero boicottare (oltre, ovviamente, alla campagna contro il razzismo) è la straordinaria lucidità di questo regista-interprete, capace di diagnosticare con precisione, e spesso con anticipazione, i pericoli e i conflitti del presente.

Al punto che, una provocazione come quella di Viterbo, in cui fascisti del terzo millennio lanciano il sasso e rivendicano, mostrano la mano, non può sorprendere Celestini e chi conosce e apprezza il suo lavoro che, al riguardo, ha fatto anticipatamente chiarezza.


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co-incidenze: ANPI Barona
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