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venerdì 28 ottobre 2011

30 ottobre 2011: Giornata di studi su Augusto Masetti e l’invasione della Libia


Il 30 0ttobre 1911, Augusto Masetti manifestò il suo rifiuto di partecipare alla guerra contro la Turchia e all’invasione della Libia, sparando contro un ufficiale nella caserma Cialdini a Bologna.
Il tentativo da parte delle autorità militari e politiche fu di depotenziare e neutralizzare l’accaduto, trasformandolo da gesto di rivolta politica ed esistenziale a semplice manifestazione di disturbi mentali e psichici, condannando così Masetti a lunghi anni di detenzione nei manicomi criminali.
Nel centenario degli avvenimenti, vorremmo rievocare questo episodio senza nessun intento celebrativo, ma, a partire dall’approfondimento della sua vicenda, cercare di capire le ragioni e le modalità della guerra coloniale e le condizioni per un suo rifiuto.
Le rifrazioni della storia rendono attuali quelle vicenede che si ripropongono sinistre nell’attualità.


30 ottobre 2011 Sala del Baraccano via Santo Stefano 119, Bologna
Giornata di studi
su Augusto Masetti e l’invasione della Libia


giovedì 29 settembre 2011

ri - ecce Eccher

Non essendo riuscito a condurre in porto la sua proposta di eliminare dalla Costituzione la dodicesima disposizione transitoria e finale che vieta la la riorganizzazione del partito fascista, il senatore post-squadrista (oggi nel PdL, of course) Cristiano de Eccher,  ripiega provvisoriamente su una navigazione di più modesto corso:  "una crociera sul lago di Garda, su di un piroscafo dal nome evocativo, con tappa in quel di Salò", in compagnia di noti cervelli del calibro di un Maurizio Gasparri.


sabato 28 maggio 2011

P : Penso [sinceramente]



E n c i c l o p e d i a
d e l l a
n e o l i n g u a
.
P
Penso *

[sinceramente]



  
______________
* Cogito padano

venerdì 27 maggio 2011

Il "ritorno" del razzismo in Europa. Incontro - BO 27 maggio

Libreria delle Moline
Via delle Moline, 3/A
Bologna
venerdì 27 maggio
ore 18
Le forme del dominio. 
Razzismo  e  sessismo  tra  passato  e  presente

Discussione
a partire dal libro di

Alberto Burgio

Nonostante Auschwitz
Il "ritorno" del razzismo in Europa

copertina Nonostante Auschwitz - Burgio_THUMB.jpg
Roma - DeriveApprodi 2010


Intervengono

Vincenza Perilli
Mauro Raspanti

Seguirà un dibattito con
Alberto Burgio, autore del libro 
 

Il libro nasce dalla constatazione della evidente ripresa del razzismo in Europa. Il tabù del razzismo può dirsi ormai rimosso: si può ricominciare a dirsi razzisti, senza mascheramenti o pretesti. La domanda che si pone è dunque: perché ci ritroviamo in questa situazione, a soli settant’anni dai campi di sterminio nazisti?

Perché, nonostante Auschwitz, non siamo guariti dal razzismo La risposta deve coinvolgere la storia della modernità, la sua genesi, i suoi caratteri costitutivi. Tra razzismo e modernità sussiste un nesso strutturale, al punto che il razzismo deve essere considerato un ingrediente costitutivo della modernità europea. Tesi che viene documentata sul piano storico e argomentata sul piano teorico. Il libro analizza alcune tappe cruciali del processo di formazione delle ideologie razziste: il nesso con la cultura dei Lumi, l’intreccio con le ideologie nazionaliste, l’acme della violenza razzista nella distruzione degli ebrei in Europa. 

Da qui scaturisce un’analisi sul dispositivo ideologico che accomuna le diverse manifestazioni concrete del razzismo nel corso del tempo. L’invenzione dell’«altro» – nemico, infedele o deviante da escludere, perseguitare o sterminare – nasce dalla stigmatizzazione della diversità e conduce alla creazione della «razza maledetta» attraverso la naturalizzazione delle identità stereotipate.

mercoledì 11 maggio 2011

Il ruolo della donna nell'ideologia colonialista italiana - 11 Maggio B0

  contro-corso *
Il ruolo della donna nell'ideologia colonialista italiana

mercoledì 11 maggio - ore 21
 presso XM24



intervegono:


Nicoletta Poidimani:  Una prospettiva di genere sul colonialismo italiano

Vincenza Perilli:  Corpi coloniali e corpi per la nazione





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 *  nell'ambito del ciclo:
Contro-corsi sulla storia d'Italia 1861-20011
150 anni di rivolte e repressioni
organizzato dal Circolo Berneri

martedì 10 maggio 2011

Furio Jesi: Cultura di destra - Con tre inediti e un'intervista

Furio Jesi
Cultura di destra


 
introduzione e cura di
Andrea Cavalletti 
edizioni nottetempo 2011


“Che cosa vuol dire cultura di destra?”, chiede un intervistatore a Furio Jesi nel 1979. È “la cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare nel modo più utile, in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola”.

Originale mitologo della modernità, Jesi dedica gli studi qui raccolti a individuare le matrici sotterranee, il linguaggio e le manifestazioni delle “idee senza parole” della cultura di destra otto-novecentesca; e lo fa smascherandone i luoghi comuni, le formule e le parole d’ordine che alludono a un nucleo mitico profondo e inconoscibile, ma fondante e modellante, cui fanno riferimento i principi ricorrenti di Tradizione, Passato, Razza, Origine, Sacro.
 
Un “vuoto” da riempire di materiali mitologici, manipolati dalla propaganda politica di destra per legittimare il suo potere e gli ordinamenti sociali dominanti.

Da questa prospettiva, Jesi indaga gli apparati linguistici e iconici sottesi al fascismo e al neofascismo, al nazismo e al razzismo, penetra nelle pieghe dell’esoterismo di Julius Evola e del lusso retorico dannunziano, attraversa le pagine di Liala e Pirandello.

Questa nuova edizione di un libro ancora attualissimo è corredata da tre inediti e un’intervista.
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  a margine: 
della S-cultura di destra su  il Giornale... di famiglia

giovedì 17 marzo 2011

Bruno Lauzi, Garibaldi blues



Garibaldi fu ferito
fu ferito ad una gamba,
Garibaldi che comanda,
che comanda i suoi soldà..
Per Garibaldi Viva!
Garibaldi che si ferì…

Garibaldi aveva un socio
si chiamava Nino Bixio,
venne giù da Busto Arsizio
e nei Mille si arruolò..
Per Nino Bixio Viva!
Nino Bixio che si arruolò..

(Strofa regionale:)
Giunsero a Calatafimi
e incontrarono i francesi
che rimasero sorpresi
dal furor degl'isolan..
Per la Trinacria Viva!
La Trinacria, terra del sud…

venerdì 25 febbraio 2011

Lo stronzio del terzo millennio



CasaPound
annuncia un convegno sul ritorno all'atomo e il nucleare italiano.


Rifiutiamo l'ennesimo ritorno dello stronzio!



Questo post è frutto di una profonda meditazione di Incidenze e Marginalia

lunedì 21 febbraio 2011

La parabola di Benigni a Sanremo: "buoni" consigli - "cattivo" esempio?

Les vieillards aiment à donner des bons préceptes,
pour se consoler de n'être plus en état de  donner des mauvais exemples.
François de  La Rochefoucauld, Maximes

   *     *     *

Benigni e «Fratelli d'Italia», dubbi su una lezione di storia

Alberto Maria Banti - il manifesto, 20 gennaio 2011

Roberto Benigni a Sanremo: ma certo, quello che voleva bene a Berlinguer! Quello che - con gentile soavità - insieme a Troisi scherzava su Fratelli d'Italia ...




Che trasformazione sorprendente!


Eh sì, giacché giovedì 17 febbraio «sul palco dell'Ariston», come si dice in queste circostanze, non ha fatto solo l'esegesi dell'Inno di Mameli. Ha fatto di più. Ha fatto un'apologia appassionata dei valori politici e morali proposti dall'Inno. E - come ha detto qualcuno - ci ha anche impartito una lezione di storia. Una «memorabile» lezione di storia, se volessimo usare il lessico del comico.

Bene. E che cosa abbiamo imparato da questa lezione di storia? Che noi italiani e italiane del 2011 discendiamo addirittura dai Romani, i quali si sono distinti per aver posseduto un esercito bellissimo, che incuteva paura a tutti. Che discendiamo anche dai combattenti della Lega lombarda (1176); dai palermitani che si sono ribellati agli angioini nel Vespro del lunedì di Pasqua del 1282; da Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze; e da Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci. Interessante. Da storico, francamente non lo sapevo. Cioè non sapevo che tutte queste persone, che ritenevo avessero combattuto per tutt'altri motivi, in realtà avessero combattuto già per la costruzione della nazione italiana. Pensavo che questa fosse la versione distorta della storia nazionale offerta dai leader e dagli intellettuali nazionalisti dell'Ottocento. E che un secolo di ricerca storica avesse mostrato l'infondatezza di tale pretesa. E invece, vedi un po' che si va a scoprire in una sola serata televisiva.

Ma c'è dell'altro. Abbiamo scoperto che tutti questi «italiani» erano buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori - stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o spagnoli. E anche questa è una nozione interessante, una di quelle che cancellano in un colpo solo i sentimenti di apertura all'Europa e al mondo che hanno positivamente caratterizzato l'azione politica degli ultimi quarant'anni.

Poi abbiamo anche capito che dobbiamo sentire un brivido di emozione speciale quando, passeggiando per il Louvre o per qualche altro museo straniero, ci troviamo di fronte a un quadro, che so, di Tiziano o di Tintoretto: e questo perché quelli sono pittori «italiani» e noi, in qualche modo, discendiamo da loro. Che strano: questa mi è sembrata una nozione veramente curiosa: io mi emoziono anche di fronte alle tele di altri, di Dürer, di Goya o di Manet, per dire: che sia irriducibilmente anti-patriottico?

E infine abbiamo capito qual è il valore fondamentale che ci rende italiani e italiane, e che ci deve far amare i combattenti del Risorgimento: la mistica del sacrificio eroico, la morte data ai nemici, la morte di se stessi sull'altare della madre-patria, la militarizzazione bellicista della politica. Ecco. Da tempo sostengo che il recupero acritico del Risorgimento come mito fondativo della Repubblica italiana fa correre il rischio di rimettere in circuito valori pericolosi come sono quelli incorporati dal nazionalismo ottocentesco: l'idea della nazione come comunità di discendenza; una nazione che esiste se non ab aeterno, almeno dalla notte dei tempi; l'idea della guerra come valore fondamentale della maschilità patriottica; l'idea della comunità politica come sistema di differenze: «noi» siamo «noi» e siamo uniti, perché contrapposti a «quegli altri», gli stranieri, che sono diversi da noi, e per questo sono pericolosi per l'integrità della nostra comunità.

Ciascuna di queste idee messa nel circuito di una società com'è la nostra, attraversata da intensi processi migratori, può diventare veramente tossica: può indurre a pensare che difendere l'identità italiana implichi difendersi dagli «altri», che - in quanto diversi - sono anche pericolosi; può indurre a fantasticare di una speciale peculiarità, se non di una superiorità, della cultura italiana; invita ad avere una visione chiusa ed esclusiva della comunità politica alla quale apparteniamo; e soprattutto induce a valorizzare ideali bellici che, nel contesto attuale, mi sembrano quanto meno fuori luogo.

Ecco, con la performance di Benigni mi sembra che il rischio di una riattualizzazione del peggior nazionalismo stia diventando reale: tanto più in considerazione della reazione entusiastica che ha accolto l'esibizione del comico, quasi come se Benigni avesse detto cose che tutti avevano nel cuore da chissà quanto tempo. Ora se questi qualcuno sono i ministri La Russa o Meloni, la cosa non può sorprendere, venendo questi due politici da una militanza che ha sempre coltivato i valori nazionalisti. Ma quando a costoro si uniscono anche innumerevoli politici e commentatori di sinistra, molti dei quali anche ex comunisti, ebbene c'è da restare veramente stupefatti.

Verrebbe da chieder loro: ma che ne è stato dell'internazionalismo, del pacifismo, dell'europeismo, dell'apertura solidale che ha caratterizzato la migliore cultura democratica dei decenni passati? Perché non credo proprio che un simile bagaglio di valori sia conciliabile con queste forme di neo-nazionalismo. Con il suo lunghissimo monologo, infatti, Benigni - pur essendosi dichiarato contrario al nazionalismo - sembra in sostanza averci invitato a contrastare il nazionalismo padano rispolverando un nazionalismo italiano uguale a quello leghista nel sistema dei valori e contrario a quello solo per ciò che concerne l'area geopolitica di riferimento.

Beh, speriamo che il successo di Benigni sia il successo di una sera. Perché abbracciare la soluzione di un neo-nazionalismo italiano vorrebbe dire infilarsi dritti dritti nella più perniciosa delle culture politiche che hanno popolato la storia dell'Italia dal Risorgimento al fascismo.

martedì 11 gennaio 2011

Deplorevoli Eccessi di Spinelli


False analogie e ingannevoli pseudo-affinità
tra francese e italiano


L'incresciosa confusione
tra
clavier [tastiera] e clava:



«... Pur avendo compiuto la rivoluzione e chiamato ogni uomo allo stesso modo - citoyen - lo spirito di casta è tenace. Se sei un intellettuale hai speciali immunità, anche se hai ammazzato tua moglie come il filosofo Althusser ...»


Barbara Spinelli, Battisti e la Francia - l'ignoranza militante
la Repubblica, 5 gennaio 2011


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mercoledì 22 dicembre 2010

Guy Debord: Commentaires, XXV


XXV

Con le nuove condizioni attualmente predominanti nella società schiacciata sotto il tallone di ferro dello spettacolo, notiamo ad esempio che un assassinio politico è visto in una luce diversa; in un certo nodo smorzata. Ci sono molti più dementi di prima dappertutto,ma ciò che è infinitamente più comodo è che se ne può parlare in modo demenziale. E tali spiegazioni mediali non sono imposte da un qualsiasi terrore regnante. Al contrario, è l'esistenza pacifica di tali spiegazioni che deve suscitare terrore.
Quando nel 1914, poco prima dello scoppio della guerra, Villain assassinò Jaurès, nessuno dubitò che Villain, individuo probabilmente un po' squilibrato, aveva ritenuto di dover uccidere Jaurès è perché agli occhi degli estremisti della destra patriottica, che avevano influenzato profondamente Villain, Jaurès appariva un uomo che sarebbe stato sicuramente nocivo per la difesa del paese. Qugli estremisti avevano però sottovalutato l'immensa forza del consenso patriottico nel partito socialista, che l'avrebbe spinto rapidamente all'«unione sacra»; e questo sia nel caso che Jaurès fosse assassinato,sia nel caso che gli si lasciasse l'opportunità di perseverare nella sua posizione internazionalista di rifiuto della guerra. Oggi, di fronte a un simile avvenimento, i giornalisti-poliziotti, noti esperti di «fatti sociali» e di «terrorismo», direbbero subito che Villain era conosciuto per i suoi reiterati tentativi di omicidio, spinto da una pulsione indirizzata ogni volta verso uomini che potevano professare opinioni politiche disparate,ma che casualmente presentavano tutti una somiglianza fisica o di abbigliamento con Jaurès. Diversi psichiatri lo confermerebbero, e i mass media, attestando semplicemente la loro competenza e la loro imparzialità di esperti incomparabilmente auorizzati. In seguitol'nchiesta ufficiale della polizia potrebbe portare, fin dal giorno successivo, alla scoperta di di varie persone rispettabili, pronte a testimoniare che Villain, ritenendo un giorno di essere stato mal servito alla «Chope du Croissant», aveva minacciato ripetutamente in loro presenza di vendicarsi entro breve tempo del gestore del caffè, abbattendo davanti a tutti e sul posto uno dei suoi migliori clienti.


Ciò non significa che in passato la verità si imponesse con frequenza e rapidità: perché alla fine Villain fu assolto dalla Giustizia francese. Fu fucilato solo nel 1936, quando scoppiò la rivoluzione spagnola, perché aveva commesso l'imprudenza di risiedere alle Baleari..


Guy Debord
Commentaires sur la Société du spectacle, 1988
tr. it. a c. d. F. Vasarri, 1990

giovedì 4 novembre 2010

M. Foucault : Gaston Bachelard


Michel Foucault

Piéger sa propre culture




Ce qui me frappe beaucoup chez Bachelard, c’est en quelque sorte qu’il joue contre sa propre culture, avec sa propre culture. Dans l’enseignement traditionnel – et pas seulement, dans l’enseignement traditionnel, dans la culture que nous recevons –, il y a un certain nombre de valeurs établies, des choses qu’il faut dire et d’autres qu’il ne faut pas dire, d’œuvres qui sont estimables et puis d’autres qui sont négligeables, il y a les grands et les petits, il y a la hiérarchie enfin, tout ce monde céleste avec les Trônes, les Dominations, les Anges et les Archanges !... Tout ça est très hiérarchisé. Eh bien, Bachelard fait se déprendre en lisant tout cet ensemble de valeurs, et il fait s’en déprendre en lisant tout et en faisant jouer tout contre tout.

Il fait penser, si vous voulez, à ces joueurs d’échecs habiles qui arrivent à prendre les gros pièces avec des petits pions. Bachelard n’hésite pas à opposer à Descartes un philosophe mineur ou un savant… un savant, ma foi, un peu… un peu imparfait ou fantaisiste du xviiie siècle. Il n’hésite pas à mettre dans la même analyse les plus grands poètes et puis un petit mineur qu’il aura découvert comme ça au hasard d’un bouquiniste… En faisant cela, il ne s’agit pas du tout pour lui de reconstituer la grande culture globale qui est celle de l’Occident, ou de l’Europe, ou de la France. Il ne s’agit pas de montrer qui c’est toujours le même grand esprit qui vit, fourmille partout, qui se retrouve le même ; j’ai l’impression, au contraire, qu’il essaie de piéger sa propre culture avec ses interstices, ses déviances, ses phénomènes mineurs, ses petits couacs, ses fausses notes.

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Michel Foucault, «Piéger sa propre culture»

- in «Gaston Bachelard, le philosophe et son ombre», Le Figaro littéraire, n° 1376, 30 septembre 1972, p. 16.

- M. Foucault, Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994, vol. II, texte n° 111, p. 382

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Vidéo : « Foucault : Gaston Bachelard » (02/10/1972)
Producteur : Office national de radiodiffusion télévision française
Réalisateur : Jean-Claude Bringuier


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post correlati:
Gaston Bachelard - Portrait d'un philosophe

venerdì 22 ottobre 2010

Zapruder 23: sul colonialismo italiano

Brava gente.
Memoria e rappresentazioni del colonialismo italiano


è uscito il numero 23 della rivista
Zapruder


a cura di Elena Petricola e Andrea Tappi

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giovedì 27 maggio 2010

Étienne Balibar - Europa: crisi o fine?


Étienne Balibar

Europa: crisi o fine?

In poche settimane, abbiamo assistito alla rivelazione da parte del primo ministro Papandreu del debito «reale» della Grecia, manipolato dal suo predecessore con l'aiuto di Goldmann Sachs; all'annuncio della possibilità che il suo Paese non ce la faccia a pagare i nuovi interessi sul debito, brutalmente moltiplicati; all'imposizione alla Grecia di un piano di austerità selvaggio, come contropartita del prestito europeo. Poi l'«abbassamento del voto» della Spagna e del Portogallo, la minaccia dell'implosione dell'euro, la creazione di un fondo di aiuto europeo di 750 miliardi (su richiesta, in particolare, degli Stati uniti). Infine, la decisione della Bce, in contraddizione con il suo statuto, di acquisire delle obbligazioni statali, e l'adozione di politiche di rigore in una decina di paesi. Ce n'est qu'un début, non è che l'inizio, poiché questi nuovi episodi di una crisi apertasi due anni fa con il crollo dei crediti immobiliari statunitensi ne prefigurano altri. Dimostrano che il rischio di crac persiste o addirittura aumenta, alimentato da una massa enorme di titoli «spazzatura», accumulata nel corso del decennio precedente grazie ai consumi a credito, alla trasformazione dei titoli dubbiosi e dei credit default swaps in prodotti finanziari, oggetto di speculazione a breve. Il tormentone dei crediti dubbiosi continua, e gli stati sono in affanno. La speculazione investe ormai le monete e il debito pubblico. L'euro rappresenta oggi l'anello debole di questa catena, e trascina l'Europa. Le conseguenze saranno devastanti.


I greci hanno ragione a rivoltarsi

Prima conseguenza della crisi e della «medicina» che le è stata applicata: la rabbia della popolazione greca. Hanno torto a rifiutare di assumersi le proprie responsabilità? Hanno ragione a denunciare una «punizione collettiva»? Indipendentemente dalle provocazioni criminali che l'hanno viziata, questa rabbia si giustifica per almeno tre motivi. L'imposizione dell'austerità è stata accompagnata da una stigmatizzazione delirante del popolo greco, considerato colpevole per la corruzione e le menzogne della sua classe politica, di cui (qui come altrove) approfittano ampiamente i più ricchi (in particolare sotto la forma dell'evasione fiscale). L'austerità, ancora una volta, è stata imposta rovesciando gli impegni elettorali del governo, al di fuori di qualsiasi dibattito democratico. Infine, abbiamo visto l'Europa applicare al suo interno non delle procedure di solidarietà, ma le regole leonine del Fondo monetario internazionale, che mirano a proteggere i crediti delle banche, mentre annunciano una prevedibile recessione senza fine per il paese. Gli economisti, su queste basi, concordano nel pronosticare un default certo del tesoro greco, un contagio della crisi e un'esplosione del tasso di disoccupazione, soprattutto se le stesse regole verranno applicate ad altri paesi virtualmente in fallimento stando alle «notazioni» del mercato, come reclamano ad alta voce i difensori dell'«ortodossia».


Una politica che occulta il suo volto

Nel «salvataggio» della moneta comune, di cui i greci sono stati le prime vittime (ma non saranno gli ultimi), le modalità che hanno prevalso finora (imposte, in particolare, dalla Germania) hanno messo in primo piano, come priorità, la generalizzazione del «rigore» di bilancio (inscritto nei trattati fondatori, ma nei fatti mai veramente applicato) e, ma solo in secondo luogo,la necessità di una «regolazione» - molto moderata - della speculazione e della libertà degli hedge funds (già evocata dopo la crisi dei subprimes e dei fallimenti bancari del 2008). Gli economisti neo-keynesiani aggiungono a queste esigenze dei passi avanti verso il «governo economico» europeo (in particolare l'unificazione delle politiche fiscali), o dei piani di investimento elaborati in comune: senza questo, affermano, l'esistenza stessa della moneta unica si rivelerà impossibile.

Si tratta, evidentemente, di proposte assolutamente politiche (e non tecniche). Sono alternative che i cittadini dovrebbero dibattere, poiché le conseguenze di queste scelte saranno irreversibili per la collettività. Ma il dibattito è falsato dalla dissimulazione di tre dati essenziali:

- la difesa di una moneta e la sua utilizzazione congiunturale (sostegno, svalutazione) comportano sia un assoggettamento delle politiche economiche e sociali all'onnipotenza dei mercati finanziari (con le loro «notazioni» che si auto-realizzano e i loro «verdetti» che non lasciano spazio a nessun appello), sia una crescita della capacità degli stati (e, più in generale, della potenza pubblica) a limitarne l'instabilità e a privilegiare gli interessi a lungo termine sui profitti speculativi. Una strada o un'altra, tertium non datur.

- con la scusa di una relativa armonizzazione delle istituzioni e di una garanzia di alcuni diritti fondamentali, la costruzione europea, nella sua forma attuale, con le forze che l'orientano, non ha smesso di favorire la divergenza delle economie nazionali, che in teoria avrebbe invece dovuto ravvicinare all'interno di una zona di prosperità condivisa: alcune economie ne dominano altre, sia in termini di parti di mercato, sia in termini di concentrazione bancaria, sia trasformandole in fornitori in subappalto. Gli interessi delle nazioni, se non quelli dei popoli, diventano contraddittori.

- il terzo pilastro di una politica keynesiana generatrice di fiducia, oltre la moneta e il fisco, cioè la politica sociale, la ricerca della piena occupazione e la crescita della domanda attraverso il consumo popolare, viene sistematicamente passato sotto silenzio, anche dai riformatori. E sicuramente viene fatto apposta.


Dove va la globalizzazione?

A cosa serve, d'altronde, riflettere e discutere sull'avvenire dell'Europa e della sua moneta (dalla quale alcuni grandi paesi si tengono alla larga: Gran Bretagna, Polonia, Svezia), se non si tiene conto delle tendenze reali della globalizzazione? Se la gestione politica della crisi finanziaria resta fuori portata per le popolazioni e i governi implicati, l'effetto sarà una formidabile accelerazione dei processi in corso. Di che cosa si tratta? In primo luogo, del passaggio da una forma di concorrenza a un'altra: dai capitalismi produttivi ai territori nazionali, dove ognuno, a colpi di esenzioni fiscali e di abbassamento del valore lavoro, tenta di attirare più capitali fluttuanti del vicino. E' più che evidente che l'avvenire politico, sociale e culturale dell'Europa in generale - e di ogni paese in particolare - dipende dal fatto di sapere se l'Europa costituisce un meccanismo di solidarietà e di difesa collettiva delle popolazioni contro il «rischio sistemico», oppure se, al contrario (con l'appoggio di alcuni stati, momentaneamente dominanti, e delle loro opinioni pubbliche) si tratta di un quadro giuridico per intensificare la concorrenza tra gli stati membri e tra i cittadini.

Inoltre, si tratta, più generalmente, del modo in cui la mondializzazione sta sconvolgendo la divisione del lavoro e la ripartizione dell'occupazione nel mondo: in questa ristrutturazione che sovverte nord e sud, ovest e est, una nuova crescita delle ineguaglianze e dell'esclusione in Europa, l'annientamento della classe media, la diminuzione dei lavori qualificati e delle attività produttive «non protette», dei diritti sociali, delle industrie culturali e dei servizi pubblici universali, sono per così dire già programmati. Le resistenze all'integrazione politica, con la scusa di difendere la sovranità nazionale, non possono che aggravare gli effetti nella maggior parte delle nazioni e precipitare il ritorno (già ben avviato) degli antagonismi etnici che l'Europa aveva preteso di oltrepassare definitivamente al suo interno. Ma inversamente è chiaro che non ci sarà un'integrazione europea «dall'alto», in virtù di un'ingiunzione burocratica, senza un progresso democratico in ogni paese e in tutto il continente.


Populismo: pericolo o risorsa?

E' la fine dell'Unione europea, di questa costruzione la cui storia era cominciata 50 anni fa sulla base di una vecchia utopia, ma le cui promesse non sarebbero state mantenute? Non bisogna aver paura di dirlo: sì, ineluttabilmente, a una più o meno breve scadenza e non senza qualche prevedibile violenta scossa, l'Europa è morta come progetto politico, a meno che non riesca a rifondarsi su nuove basi. Un'implosione abbandonerebbe ancora di più i popoli che la compongono oggi alle incertezze della globalizzazione, come sugheri in un torrente. Una rifondazione non garantisce nulla, ma dà qualche possibilità di esercitare una forza geopolitica, a proprio vantaggio e per quello degli altri, a condizione di osare affrontare le immense sfide di un federalismo di nuovo tipo. Si tratta della potenza pubblica comunitaria (distinta sia dallo stato che da una semplice «governance» di politici ed esperti), di eguaglianza tra le nazioni (il contrario dei nazionalismi reattivi, sia quello dei «forti» che quello dei «deboli») e di rinnovamento della democrazia nello spazio europeo (il contrario della «de-democratizzazione» attuale, favorita dal neo-liberismo e dallo «statalismo senza stato» delle amministrazioni europee, colonizzate dalla casta burocratica, che sono anche per buona parte all'origine della corruzione pubblica).

Da tempo avremmo dovuto ammettere questo fatto evidente: non ci saranno passi avanti verso il federalismo, in effetti oggi auspicabile, senza un passo avanti della democrazia al di là delle forme esistenti, in particolare con una intensificazione dell'intervento popolare nelle istituzioni sovranazionali. Significa che, per rovesciare il corso della storia, scuotere le abitudini di una costruzione ormai senza fiato, ci sia bisogno oggi di qualcosa che può essere definito un populismo europeo, un movimento convergente delle masse o un'insurrezione pacifica, attraverso la quale venga espressa contemporaneamente la rabbia delle vittime della crisi contro coloro che ne approfittano (o la alimentano) e l'esigenza di un controllo «dal basso» sugli scambi tra finanza, mercati e politica degli stati? Sì, senza dubbio, perché non c'è altro nome per definire la politicizzazione del popolo, ma a condizione - se si vogliono scongiurare altre catastrofi - che vengano istituiti seri controlli costituzionali e che rinascano delle forze politiche su scala europea, in grado di far prevalere all'interno di questo populismo «post-nazionale» una cultura, un immaginario e degli ideali democratici intransigenti. C'è un rischio, ma è minore di quello di lasciare libero corso ai diversi nazionalismi.


Dov'è la sinistra europea?

Queste forze costituiscono ciò che tradizionalmente, nel continente, era chiamata la sinistra. Ma anch'essa è in stato di fallimento politico: a livello nazionale e internazionale. Nello spazio che ormai conta, che attraversa le frontiere, ha perso qualsiasi capacità di rappresentazione delle lotte sociali o di organizzazione di movimenti di emancipazione, in maggioranza si è allineata ai dogmi e ai ragionamenti del neo-liberismo. Di conseguenza, si è disintegrata dal punto di vista ideologico. Coloro che la incarnano sono soltanto gli spettatori e, in mancanza di seguito popolare, i commentatori impotenti di una crisi contro la quale non propongono nessuna risposta collettiva: niente dopo lo choc finanziario del 2008, niente dopo l'imposizione alla Grecia delle ricette dell'Fmi (peraltro vigorosamente denunciate in altri luoghi e in altri tempi), niente per «salvare l'euro» altrimenti che pesando sulle spalle dei lavoratori e dei consumatori, niente per rilanciare il dibattito sulle possibilità e gli obiettivi dell'Europa solidale.

Cosa succederà, in queste condizioni, quando entreremo nelle nuove fasi della crisi, che devono ancora intervenire? Quando le politiche nazionali sempre più securitarie si svuoteranno del loro contenuto (o del loro alibi) sociale? Ci saranno dei movimenti di protesta, senza dubbio, ma isolati, che potranno venire deviati verso la violenza o recuperati dalla xenofobia e il razzismo già galoppanti, destinati a produrre ancora maggiore impotenza e più disperazione. Tuttavia, la destra capitalista e nazionalista, benché non resti inattiva, è potenzialmente divisa tra strategie contraddittorie: lo si è visto a proposito dei deficit e dei piani di rilancio economico, lo vedremo ancora di più quando l'esistenza delle istituzioni europee sarà in gioco (come prefigura, probabilmente, l'evoluzione britannica). Ci sarebbe qui un'occasione da sfruttare, la possibilità di agire. Delineare e dibattere su ciò che potrebbe essere, su ciò che dovrebbe essere una politica anti-crisi su scala europea, democraticamente definita, che cammini sulle due gambe (del governo economico e della politica sociale), capace di eliminare la corruzione e di ridurre le ineguaglianze che l'alimentano, di ristrutturare il debito e di promuovere gli obiettivi comuni che giustificano i trasferimenti tra nazioni solidali le une con le altre. Sarebbe questa la funzione degli intellettuali progressisti europei, sia che si definiscano rivoluzionari o progressisti. Non ci sono scuse per tirarsi indietro.

[trad; it. di Anna Maria Merlo, in il manifesto, 27 maggio 2010]

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lunedì 24 maggio 2010

Étienne Balibar - Europe: crise et fin?


Étienne Balibar
Europe: crise et fin ?



  1. La crise ne fait que commencer.
En quelques semaines, on aura donc vu la déclaration de faillite du gouvernement Papandreou, l’imposition à la Grèce d’un plan d’austérité sauvage en contrepartie du prêt européen, puis la « baisse de notation » de l’Espagne et du Portugal, la menace d’éclatement de l’euro, la création du fonds de secours européen de 750 milliards (à la demande, notamment, des Etats-Unis), la décision contraire à ses statuts par la BCE de racheter des obligations souveraines, et l’adoption des politiques de rigueur dans une dizaine de pays. Ce n’est qu’un début, car ces nouveaux épisodes d’une crise ouverte il y a deux ans par l’effondrement du crédit immobilier américain en préfigurent d’autres. Ils démontrent que le risque de krach persiste ou même s’accroît, alimenté par l’existence d’une masse énorme de titres « pourris », accumulée au cours de la décennie précédente par la consommation à crédit et la titrisation des default swaps et autres produits dérivés. Le « mistigri » des créances douteuses court toujours, et les Etats courent derrière lui. La spéculation se porte désormais sur les monnaies et les dettes publiques. Or l’euro constitue aujourd’hui le maillon faible de cette chaîne, et avec lui l’Europe. Les conséquences en seront dévastatrices.

  1. Les Grecs ont raison de se révolter.
Premier effet de la crise et du « remède » qui lui a été appliqué : la colère de la population grecque. Ont-ils donc tort de refuser leurs « responsabilités » ? Ont-ils raison de dénoncer une « punition collective » ? Indépendamment des provocations criminelles qui l’ont entachée, cette colère est justifiée pour trois raisons au moins. L’imposition de l’austérité s’est accompagnée d’une stigmatisation délirante du peuple grec, tenu pour coupable de la corruption et des mensonges de sa classe politique dont (comme ailleurs) profitent largement les plus riches (en particulier sous forme d’évasion fiscale). Elle est passée, une fois de plus (une fois de trop ?), par le renversement des engagements électoraux du gouvernement, hors de tout débat démocratique. Enfin, elle a vu l’Europe appliquer en son propre sein, non des procédures de solidarité, mais les règles léonines du FMI, qui visent à protéger les créances des banques, mais annoncent une récession sans fin prévisible du pays. Les économistes s’accordent à pronostiquer sur ces bases un « défaut » assuré du Trésor grec, une contagion de la crise, et une explosion du taux de chômage, surtout si les mêmes règles s’appliquent à d’autres pays virtuellement en faillite au gré des « notations » du marché, comme le réclament bruyamment les partisans de « l’orthodoxie ».


  1. La politique qui ne dit pas son nom.
Dans le « sauvetage » de la monnaie commune, dont les Grecs auront été les premières victimes (mais ne seront pas les dernières), les modalités prévalant à ce jour (imposées notamment par l’Allemagne) mettent en avant, prioritairement, la généralisation de la « rigueur » budgétaire (inscrite dans les traités fondateurs, mais jamais véritablement appliquée), et secondairement la nécessité d’une « régulation » - très modérée - de la spéculation et de la liberté des hedge funds (déjà évoquée après la crise des subprimes et les faillites bancaires de 2008). Les économistes néo-keynésiens ajoutent à ces exigences celle d’une avancée vers le « gouvernement économique » européen (notamment l’unification des politiques fiscales), voire des plans d’investissements élaborés en commun : faute de quoi le maintien d’une monnaie unique s’avérera impossible.

Ce sont là, à l’évidence, des propositions intégralement politiques (et non pas techniques). Elles s’inscrivent dans des alternatives à débattre par les citoyens, car leurs conséquences seront irréversibles pour la collectivité. Or le débat est biaisé par la dissimulation de trois données essentielles :

- la défense d’une monnaie et son utilisation conjoncturelle (soutien, dévalorisation) entraînent soit un assujettissement des politiques économiques et sociales à la toute-puissance des marchés financiers (avec leurs « notations » autoréalisatrices et leurs « verdicts » prétendument sans appel), soit un accroissement de la capacité des Etats (et plus généralement de la puissance publique) à limiter leur instabilité et à privilégier les intérêts à long terme sur les profits spéculatifs. C’est l’un ou c’est l’autre.

- sous couvert d’une harmonisation relative des institutions et d’une garantie de certains droits fondamentaux, la construction européenne dans sa forme actuelle, avec les forces qui l’orientent, n’a cessé de favoriser la divergence des économies nationales, qu’elle devait théoriquement rapprocher au sein d’une zone de prospérité partagée : certaines dominent les autres, soit en termes de parts de marché, soit en termes de concentration bancaire, soit en les transformant en sous-traitants. Les intérêts des nations, sinon des peuples, deviennent contradictoires.

- le troisième pilier d’une politique keynésienne génératrice de confiance, en plus de la monnaie et de la fiscalité, à savoir la politique sociale, la recherche du plein emploi et l’élargissement de la demande par la consommation populaire, est systématiquement passé sous silence, même par les réformateurs. Sans doute à dessein.


  1. A quoi tend la mondialisation ?
A quoi bon, au demeurant, réfléchir et débattre de l’avenir de l’Europe ou de sa monnaie (dont plusieurs grands pays se tiennent à l’écart : la Grande Bretagne, la Pologne, la Suède), si on ne prend pas en compte les tendances réelles de la mondialisation ? La crise financière, si sa gestion politique demeure hors d’atteinte des peuples et des gouvernements concernés, va leur apporter une formidable accélération. De quoi s’agit-il ? D’abord, du passage d’une forme de concurrence à une autre : des capitalismes productifs aux territoires nationaux dont chacun, à coup d’exemptions fiscales et d’abaissement de la valeur du travail, tente d’attirer plus de capitaux flottants que son voisin. Il est bien évident que l’avenir politique, social et culturel de l’Europe, et de chaque pays en particulier, dépend de la question de savoir si elle constitue un mécanisme de solidarité et de défense collective de ses populations contre le « risque systémique », ou bien au contraire (avec l’appui de certains Etats, momentanément dominants, et de leurs opinions publiques) un cadre juridique pour intensifier la concurrence entre ses membres et entre leurs citoyens. Mais il s’agit aussi, plus généralement, de la façon dont la mondialisation est en train de bouleverser la division du travail et la répartition des emplois dans le monde : dans cette restructuration qui intervertit le Nord et le Sud, l’Ouest et l’Est, un nouvel accroissement des inégalités et des exclusions en Europe, le laminage des classes moyennes, la diminution des emplois qualifiés et des activités productives « non protégées », celle des droits sociaux comme des industries culturelles et des services publics universels, sont pour ainsi dire déjà programmés. Les résistances à l’intégration politique sous couvert de défense de la souveraineté nationale ne peuvent qu’en aggraver les conséquences pour la plupart des nations et précipiter le retour (déjà bien avancé) des antagonismes ethniques que l’Europe prétendait dépasser définitivement en son sein. Mais inversement, il est clair qu’il n’y aura pas d’intégration européenne « par en haut », en vertu d’une injonction bureaucratique, sans progrès démocratique dans chaque pays et dans tout le continent.

  1. Nationalisme, populisme, démocratie : où le danger ? où le recours ?
Est-ce donc la fin de l’union européenne, cette construction dont l’histoire avait commencé il y a 50 ans sur la base d’une vieille utopie, et dont les promesses n’auront pas été tenues ? N’ayons pas peur de le dire : oui, inéluctablement, à plus ou moins brève échéance et non sans quelques violentes secousses prévisibles, l’Europe est morte comme projet politique, à moins qu’elle ne réussisse à se refonder sur de nouvelles bases. Son éclatement livrerait plus encore les peuples qui la composent aujourd’hui aux aléas de la mondialisation, comme chiens crevés au fil de l’eau. Sa refondation ne garantit rien, mais lui donne quelques chances d’exercer une force géopolitique, pour son bénéfice et celui des autres, à condition d’oser affronter les immenses défis d’un fédéralisme de type nouveau. Ils ont nom puissance publique communautaire (distincte à la fois d’un Etat et d’une simple « gouvernance » des politiciens et des experts), égalité entre les nations (à l’encontre des nationalismes réactifs, celui du « fort » aussi bien que celui du « faible ») et renouveau de la démocratie dans l’espace européen (à l’encontre de la « dé-démocratisation » actuelle, favorisée par le néolibéralisme et par « l’étatisme sans Etat » des administrations européennes, colonisées par la caste bureaucratique, qui sont aussi pour une bonne part à la source de la corruption publique).

Depuis longtemps, on aurait du admettre cette évidence : il n’y aura pas d’avancée vers le fédéralisme qu’on nous réclame aujourd’hui et qui est en effet souhaitable, sans une avancée de la démocratie au-delà de ses formes existantes, et notamment une intensification de l’intervention populaire dans les institutions supranationales. Est-ce à dire que, pour renverser le cours de l’histoire, secouer les habitudes d’une construction à bout de souffle, il faille maintenant quelque chose comme un populisme européen, un mouvement convergent des masses ou une insurrection pacifique, où s’exprime à la fois la colère des victimes de la crise contre ceux qui en profitent (voire l’entretiennent), et l’exigence d’un contrôle « par en bas » des tractations entre finance, marchés, et politique des États ? Oui sans doute, car il n’y a pas d’autre nom pour la politisation du peuple, mais à la condition – si l’on veut conjurer d’autres catastrophes - que de sérieux contrôles constitutionnels soient institués, et que des forces politiques renaissent à l’échelon européen, qui fassent prévaloir au sein de ce populisme « post-national » une culture, un imaginaire et des idéaux démocratiques intransigeants. Il y a un risque, mais il est moindre que celui du libre cours laissé aux divers nationalismes.


  1. La Gauche en Europe ? quelle « gauche » ?
De telles forces constituent ce que traditionnellement, sur ce continent, on appelait la Gauche. Or elle aussi est en état de faillite politique : nationalement, internationalement. Dans l’espace qui compte désormais, traversant les frontières, elle a perdu toute capacité de représentation de luttes sociales ou d’organisation de mouvements d’émancipation, elle s’est majoritairement ralliée aux dogmes et aux raisonnements du néo-libéralisme. En conséquence elle s’est désintégrée idéologiquement. Ceux qui l’incarnent nominalement ne sont plus que les spectateurs et, faute d’audience populaire, les commentateurs impuissants d’une crise à laquelle ils ne proposent aucune réponse propre collective: rien après le choc financier de 2008, rien après l’application à la Grèce des recettes du FMI (pourtant vigoureusement dénoncées en d’autres lieux et d’autres temps), rien pour « sauver l’euro » autrement que sur le dos des travailleurs et des consommateurs, rien pour relancer le débat sur la possibilité et les objectifs d’une Europe solidaire…

Que se passera-t-il, dans ces conditions, lorsqu’on entrera dans les nouvelles phases de la crise, encore à venir ? Lorsque les politiques nationales de plus en plus sécuritaires se videront de leur contenu (ou de leur alibi) social ? Des mouvements de protestation, sans doute, mais isolés, éventuellement déviés vers la violence ou récupérés par la xénophobie et le racisme déjà galopants, au bout du compte producteurs de plus d’impuissance et de plus de désespoir. Et pourtant la droite capitaliste et nationaliste, si elle ne reste pas inactive, est potentiellement divisée entre des stratégies contradictoires : on l’a vu à propos des déficits publics et des plans de relance, on le verra plus encore lorsque l’existence des institutions européennes sera en jeu (comme le préfigure peut-être l’évolution britannique). Il y aurait là une occasion à saisir, un coin à enfoncer. Esquisser et débattre de ce que pourrait être, de ce que devrait être une politique anticrise à l’échelle de l’Europe, démocratiquement définie, marchant sur ses deux jambes (le gouvernement économique, la politique sociale), capable d’éliminer la corruption et de réduire les inégalités qui l’entretiennent, de restructurer les dettes et de promouvoir les objectifs communs qui justifient les transferts entre nations solidaires les unes des autres, telle est en tout cas la fonction des intellectuels progressistes européens, qu’ils se veuillent révolutionnaires ou réformistes. Et rien ne peut les excuser de s’y dérober.


(21 mai 2010)


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trad. it. : Europa. crisi o fine?

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domenica 21 febbraio 2010

"un paese più normale": il revisionismo incoronato a Sanremo


L'obiettivo di divenire una "nazione normale", che istituisce un rapporto "armonico" col proprio passato, è da tempo una posta in gioco decisiva del revisionismo storico tedesco:
 
La storia non deve più essere oggetto di scontro, deve essere integrata come un elemento 'normale' all'interno della nazione e deve costituire una stabile "identità nazionale".[16]

La sutura della memoria, chiudere le lacerazioni aperte e latenti nella storia moderna, e quelle più specifiche della "storia patria", è ormai divenuto, anche in Italia, un programma statale.






E. Filiberto: Io credo nella mia cultura e nella mia religione, per questo io non ho paura, di esprimere la mia opinione. Io sento battere più forte, il cuore di un’Italia sola, che oggi più serenamente, si specchia in tutta la sua storia.
...
Pupo: Io credo ancora nel rispetto, nell’onestà di un ideale, nel sogno chiuso in un cassetto e in un paese più normale

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video da Liberazione
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giovedì 11 febbraio 2010

Il cuore nel pozzo: un "classico" del revisionismo di Stato

A fronte dei tentativi di imposizione del revisionismo di Stato, intensificati in questi giorni nelle celebrazioni del "giorno del ricordo", e culminate nell'ennesima trasmissione da parte della RAI dello sceneggiato "Il cuore del pozzo", riprendiamo un interessante video che opera uno smontaggio critico di questa fiction.


martedì 19 maggio 2009

Come un uomo sulla terra

"Respingere i migranti in Libia

è come se i pompieri

riportassero dentro ad un incendio

le vittime dell'incendio stesso"

La deriva razzista del Governo Italiano che in questi giorni avvia disumani respingimenti in Libia e approva a colpi di fiducia il ddl sicurezza, non può lasciarci indifferenti.


Cosa fa realmente la polizia libica?

Cosa subiscono migliaia di uomini e donne africane?

E perché tutti fingono di non saperlo?





AulaC in collaborazione con Progetto Asilo presenta:

"Come un uomo sulla terra"

di Riccardo Biadene, Andrea Segre, Dagmawi Ymer

Giovedì 21 Maggio 09

Ore 16 @ AulaC

Strada Maggiore 45 - Bologna


Un film sulle brutalità con cui la Libia controlla i flussi migratori su richiesta e grazie ai finanziamenti e alla connivenza di Italia ed Europa

Per maggiori info sul documentario visita il sito:

Come un uomo sulla terra

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giovedì 16 aprile 2009

Bologna: un reprint della propaganda fascista e razzista


Riprendo integralmente un articolo da
Repubblica.

Lo pubblico così come l'ho trovato.
Non saprei commentare.

Comune nella bufera, manifesto fascista per un convegno sulla violenza contro le donne

Il Comune di Bologna promuove via email un convegno sulla violenza alle donne e per farlo usa una immagine d'epoca che risale al periodo del Fascismo. Proteste ai centralini di Palazzo d'Accursio. L'assessore Milli Virgilio si scusa: "E' stato un equivoco"

[di Carlo Gulotta]





Sulla locandina che accompagna un seminario organizzato dal Comune e dalla Casa delle Donne, sul tema «Femminicidi, ginocidi e violenze sulle donne», c'è un'immagine forte. E' un manifesto che risale al Ventennio fascista e che raffigura un uomo dalla pelle scura che aggredisce una donna con la scritta «Difendila, potrebbe essere tua moglie, tua sorella, tua figlia». E in città scoppia la bufera: intasata dalle proteste la posta elettronica del vicesindaco Giuseppe Paruolo e l'associazione Orlando, che gestisce il Centro delle Donne, dice che «se il messaggio è stato frainteso, vuol dire che è un messaggio sbagliato e bisogna ritirarlo». Critiche anche in seno al Pd: per i due consiglieri comunali Emilio Lonardo e Leonardo Barcelò quella «è una locandina razzista, il Comune tolga il patrocinio», e lancia accuse persino l'Ordine dei Giornalisti. L'assessore alla Scuola e alle Politiche delle Differenze Milli Virgilio, che quel manifesto l'ha scelto per illustrare il seminario di domani alle 16,30 in Santa Cristina, è costretta a una mezza marcia indietro.

«Un errore? Non dico questo, ma se dovessi rifare daccapo, credo che ci ripenserei. Ma l'ho fatto in buona fede, per dimostrare che in sessant'anni purtroppo niente è cambiato: tutte le novità legislative sono intitolate alla sicurezza pubblica, ma in sostanza sono riservate ai migranti e alle restrizioni nei loro confronti». L'invito con la locandina "razzista" è stato spedito a centinaia di soggetti, istituzioni, associazioni e singoli. Virgilio parla di un «equivoco», e oggi scriverà una mail al Centro delle donne e a tutti quelli che hanno protestato per spiegare le sue ragioni. Anche all'ex presidente della Consulta degli immigrati. «Quel manifesto — sta scritto nel messaggio del Centro delle donne — è edito dal Nucleo Propaganda fascista del 1944 e quel che fa riflettere è che purtroppo questo "reperto storico" è tornato oggi tremendamente attuale. Per realizzare l'obiettivo di tutelare le "nostre" donne è stato scelto l'approccio contro il migrante, cioè contro il "differente", costruito come "il nemico". Bisogna rimediare ad un errore di comunicazione». Paruolo, sulla richiesta di negare il patrocinio del Comune, è prudente. «Aspettiamo, prima di trarre delle conclusioni. Ma confermo che mi è arrivata la mail di un rappresentante della Consulta degli immigrati. Non era affatto contento».