su Augusto Masetti e l’invasione della Libia
Scritti critici. Saggi, articoli e recensioni di filosofia, politica e storia del presente
venerdì 28 ottobre 2011
30 ottobre 2011: Giornata di studi su Augusto Masetti e l’invasione della Libia
su Augusto Masetti e l’invasione della Libia
giovedì 29 settembre 2011
ri - ecce Eccher
sabato 28 maggio 2011
P : Penso [sinceramente]
venerdì 27 maggio 2011
Il "ritorno" del razzismo in Europa. Incontro - BO 27 maggio
Bologna
ore 18
Razzismo e sessismo tra passato e presente
Il "ritorno" del razzismo in Europa
Mauro Raspanti
mercoledì 11 maggio 2011
Il ruolo della donna nell'ideologia colonialista italiana - 11 Maggio B0
intervegono:
martedì 10 maggio 2011
Furio Jesi: Cultura di destra - Con tre inediti e un'intervista
Originale mitologo della modernità, Jesi dedica gli studi qui raccolti a individuare le matrici sotterranee, il linguaggio e le manifestazioni delle “idee senza parole” della cultura di destra otto-novecentesca; e lo fa smascherandone i luoghi comuni, le formule e le parole d’ordine che alludono a un nucleo mitico profondo e inconoscibile, ma fondante e modellante, cui fanno riferimento i principi ricorrenti di Tradizione, Passato, Razza, Origine, Sacro.
Da questa prospettiva, Jesi indaga gli apparati linguistici e iconici sottesi al fascismo e al neofascismo, al nazismo e al razzismo, penetra nelle pieghe dell’esoterismo di Julius Evola e del lusso retorico dannunziano, attraversa le pagine di Liala e Pirandello.
Questa nuova edizione di un libro ancora attualissimo è corredata da tre inediti e un’intervista.
giovedì 17 marzo 2011
Bruno Lauzi, Garibaldi blues
fu ferito ad una gamba,
Garibaldi che comanda,
che comanda i suoi soldà..
Per Garibaldi Viva!
Garibaldi che si ferì…
Garibaldi aveva un socio
si chiamava Nino Bixio,
venne giù da Busto Arsizio
e nei Mille si arruolò..
Per Nino Bixio Viva!
Nino Bixio che si arruolò..
(Strofa regionale:)
Giunsero a Calatafimi
e incontrarono i francesi
che rimasero sorpresi
dal furor degl'isolan..
Per la Trinacria Viva!
La Trinacria, terra del sud…
venerdì 25 febbraio 2011
Lo stronzio del terzo millennio
lunedì 21 febbraio 2011
La parabola di Benigni a Sanremo: "buoni" consigli - "cattivo" esempio?
* * *
Benigni e «Fratelli d'Italia», dubbi su una lezione di storia
Che trasformazione sorprendente!
Eh sì, giacché giovedì 17 febbraio «sul palco dell'Ariston», come si dice in queste circostanze, non ha fatto solo l'esegesi dell'Inno di Mameli. Ha fatto di più. Ha fatto un'apologia appassionata dei valori politici e morali proposti dall'Inno. E - come ha detto qualcuno - ci ha anche impartito una lezione di storia. Una «memorabile» lezione di storia, se volessimo usare il lessico del comico.
Bene. E che cosa abbiamo imparato da questa lezione di storia? Che noi italiani e italiane del 2011 discendiamo addirittura dai Romani, i quali si sono distinti per aver posseduto un esercito bellissimo, che incuteva paura a tutti. Che discendiamo anche dai combattenti della Lega lombarda (1176); dai palermitani che si sono ribellati agli angioini nel Vespro del lunedì di Pasqua del 1282; da Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze; e da Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci. Interessante. Da storico, francamente non lo sapevo. Cioè non sapevo che tutte queste persone, che ritenevo avessero combattuto per tutt'altri motivi, in realtà avessero combattuto già per la costruzione della nazione italiana. Pensavo che questa fosse la versione distorta della storia nazionale offerta dai leader e dagli intellettuali nazionalisti dell'Ottocento. E che un secolo di ricerca storica avesse mostrato l'infondatezza di tale pretesa. E invece, vedi un po' che si va a scoprire in una sola serata televisiva.
Ma c'è dell'altro. Abbiamo scoperto che tutti questi «italiani» erano buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori - stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o spagnoli. E anche questa è una nozione interessante, una di quelle che cancellano in un colpo solo i sentimenti di apertura all'Europa e al mondo che hanno positivamente caratterizzato l'azione politica degli ultimi quarant'anni.
Poi abbiamo anche capito che dobbiamo sentire un brivido di emozione speciale quando, passeggiando per il Louvre o per qualche altro museo straniero, ci troviamo di fronte a un quadro, che so, di Tiziano o di Tintoretto: e questo perché quelli sono pittori «italiani» e noi, in qualche modo, discendiamo da loro. Che strano: questa mi è sembrata una nozione veramente curiosa: io mi emoziono anche di fronte alle tele di altri, di Dürer, di Goya o di Manet, per dire: che sia irriducibilmente anti-patriottico?
E infine abbiamo capito qual è il valore fondamentale che ci rende italiani e italiane, e che ci deve far amare i combattenti del Risorgimento: la mistica del sacrificio eroico, la morte data ai nemici, la morte di se stessi sull'altare della madre-patria, la militarizzazione bellicista della politica. Ecco. Da tempo sostengo che il recupero acritico del Risorgimento come mito fondativo della Repubblica italiana fa correre il rischio di rimettere in circuito valori pericolosi come sono quelli incorporati dal nazionalismo ottocentesco: l'idea della nazione come comunità di discendenza; una nazione che esiste se non ab aeterno, almeno dalla notte dei tempi; l'idea della guerra come valore fondamentale della maschilità patriottica; l'idea della comunità politica come sistema di differenze: «noi» siamo «noi» e siamo uniti, perché contrapposti a «quegli altri», gli stranieri, che sono diversi da noi, e per questo sono pericolosi per l'integrità della nostra comunità.
Verrebbe da chieder loro: ma che ne è stato dell'internazionalismo, del pacifismo, dell'europeismo, dell'apertura solidale che ha caratterizzato la migliore cultura democratica dei decenni passati? Perché non credo proprio che un simile bagaglio di valori sia conciliabile con queste forme di neo-nazionalismo. Con il suo lunghissimo monologo, infatti, Benigni - pur essendosi dichiarato contrario al nazionalismo - sembra in sostanza averci invitato a contrastare il nazionalismo padano rispolverando un nazionalismo italiano uguale a quello leghista nel sistema dei valori e contrario a quello solo per ciò che concerne l'area geopolitica di riferimento.
Beh, speriamo che il successo di Benigni sia il successo di una sera. Perché abbracciare la soluzione di un neo-nazionalismo italiano vorrebbe dire infilarsi dritti dritti nella più perniciosa delle culture politiche che hanno popolato la storia dell'Italia dal Risorgimento al fascismo.
mercoledì 9 febbraio 2011
Foibe, revisionismo di Stato...
FOIBE, REVISIONISMO DI STATO E AMNESIE DELLA REPUBBLICA
Intervista a
Alessandra Kersevan
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- Riprendiamoci la Giornata della Memoria!
martedì 11 gennaio 2011
Deplorevoli Eccessi di Spinelli
False analogie e ingannevoli pseudo-affinità
tra francese e italiano
L'incresciosa confusione
tra clavier [tastiera] e clava:
mercoledì 22 dicembre 2010
Guy Debord: Commentaires, XXV
Commentaires sur la Société du spectacle, 1988
tr. it. a c. d. F. Vasarri, 1990
giovedì 4 novembre 2010
M. Foucault : Gaston Bachelard
Michel Foucault
Piéger sa propre culture
Ce qui me frappe beaucoup chez Bachelard, c’est en quelque sorte qu’il joue contre sa propre culture, avec sa propre culture. Dans l’enseignement traditionnel – et pas seulement, dans l’enseignement traditionnel, dans la culture que nous recevons –, il y a un certain nombre de valeurs établies, des choses qu’il faut dire et d’autres qu’il ne faut pas dire, d’œuvres qui sont estimables et puis d’autres qui sont négligeables, il y a les grands et les petits, il y a la hiérarchie enfin, tout ce monde céleste avec les Trônes, les Dominations, les Anges et les Archanges !... Tout ça est très hiérarchisé. Eh bien, Bachelard fait se déprendre en lisant tout cet ensemble de valeurs, et il fait s’en déprendre en lisant tout et en faisant jouer tout contre tout.
Il fait penser, si vous voulez, à ces joueurs d’échecs habiles qui arrivent à prendre les gros pièces avec des petits pions. Bachelard n’hésite pas à opposer à Descartes un philosophe mineur ou un savant… un savant, ma foi, un peu… un peu imparfait ou fantaisiste du xviiie siècle. Il n’hésite pas à mettre dans la même analyse les plus grands poètes et puis un petit mineur qu’il aura découvert comme ça au hasard d’un bouquiniste… En faisant cela, il ne s’agit pas du tout pour lui de reconstituer la grande culture globale qui est celle de l’Occident, ou de l’Europe, ou de la France. Il ne s’agit pas de montrer qui c’est toujours le même grand esprit qui vit, fourmille partout, qui se retrouve le même ; j’ai l’impression, au contraire, qu’il essaie de piéger sa propre culture avec ses interstices, ses déviances, ses phénomènes mineurs, ses petits couacs, ses fausses notes.
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Michel Foucault, «Piéger sa propre culture»
- in «Gaston Bachelard, le philosophe et son ombre», Le Figaro littéraire, n° 1376, 30 septembre 1972, p. 16.
- M. Foucault, Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994, vol. II, texte n° 111, p. 382
Vidéo : « Foucault : Gaston Bachelard » (02/10/1972)
Producteur : Office national de radiodiffusion télévision française
Réalisateur : Jean-Claude Bringuier
venerdì 22 ottobre 2010
Zapruder 23: sul colonialismo italiano
Memoria e rappresentazioni del colonialismo italiano
Zapruder
a cura di Elena Petricola e Andrea Tappi
giovedì 27 maggio 2010
Étienne Balibar - Europa: crisi o fine?
Étienne Balibar
Europa: crisi o fine?
In poche settimane, abbiamo assistito alla rivelazione da parte del primo ministro Papandreu del debito «reale» della Grecia, manipolato dal suo predecessore con l'aiuto di Goldmann Sachs; all'annuncio della possibilità che il suo Paese non ce la faccia a pagare i nuovi interessi sul debito, brutalmente moltiplicati; all'imposizione alla Grecia di un piano di austerità selvaggio, come contropartita del prestito europeo. Poi l'«abbassamento del voto» della Spagna e del Portogallo, la minaccia dell'implosione dell'euro, la creazione di un fondo di aiuto europeo di 750 miliardi (su richiesta, in particolare, degli Stati uniti). Infine, la decisione della Bce, in contraddizione con il suo statuto, di acquisire delle obbligazioni statali, e l'adozione di politiche di rigore in una decina di paesi. Ce n'est qu'un début, non è che l'inizio, poiché questi nuovi episodi di una crisi apertasi due anni fa con il crollo dei crediti immobiliari statunitensi ne prefigurano altri. Dimostrano che il rischio di crac persiste o addirittura aumenta, alimentato da una massa enorme di titoli «spazzatura», accumulata nel corso del decennio precedente grazie ai consumi a credito, alla trasformazione dei titoli dubbiosi e dei credit default swaps in prodotti finanziari, oggetto di speculazione a breve. Il tormentone dei crediti dubbiosi continua, e gli stati sono in affanno. La speculazione investe ormai le monete e il debito pubblico. L'euro rappresenta oggi l'anello debole di questa catena, e trascina l'Europa. Le conseguenze saranno devastanti.
I greci hanno ragione a rivoltarsi
Prima conseguenza della crisi e della «medicina» che le è stata applicata: la rabbia della popolazione greca. Hanno torto a rifiutare di assumersi le proprie responsabilità? Hanno ragione a denunciare una «punizione collettiva»? Indipendentemente dalle provocazioni criminali che l'hanno viziata, questa rabbia si giustifica per almeno tre motivi. L'imposizione dell'austerità è stata accompagnata da una stigmatizzazione delirante del popolo greco, considerato colpevole per la corruzione e le menzogne della sua classe politica, di cui (qui come altrove) approfittano ampiamente i più ricchi (in particolare sotto la forma dell'evasione fiscale). L'austerità, ancora una volta, è stata imposta rovesciando gli impegni elettorali del governo, al di fuori di qualsiasi dibattito democratico. Infine, abbiamo visto l'Europa applicare al suo interno non delle procedure di solidarietà, ma le regole leonine del Fondo monetario internazionale, che mirano a proteggere i crediti delle banche, mentre annunciano una prevedibile recessione senza fine per il paese. Gli economisti, su queste basi, concordano nel pronosticare un default certo del tesoro greco, un contagio della crisi e un'esplosione del tasso di disoccupazione, soprattutto se le stesse regole verranno applicate ad altri paesi virtualmente in fallimento stando alle «notazioni» del mercato, come reclamano ad alta voce i difensori dell'«ortodossia».
Una politica che occulta il suo volto
Nel «salvataggio» della moneta comune, di cui i greci sono stati le prime vittime (ma non saranno gli ultimi), le modalità che hanno prevalso finora (imposte, in particolare, dalla Germania) hanno messo in primo piano, come priorità, la generalizzazione del «rigore» di bilancio (inscritto nei trattati fondatori, ma nei fatti mai veramente applicato) e, ma solo in secondo luogo,la necessità di una «regolazione» - molto moderata - della speculazione e della libertà degli hedge funds (già evocata dopo la crisi dei subprimes e dei fallimenti bancari del 2008). Gli economisti neo-keynesiani aggiungono a queste esigenze dei passi avanti verso il «governo economico» europeo (in particolare l'unificazione delle politiche fiscali), o dei piani di investimento elaborati in comune: senza questo, affermano, l'esistenza stessa della moneta unica si rivelerà impossibile.
Si tratta, evidentemente, di proposte assolutamente politiche (e non tecniche). Sono alternative che i cittadini dovrebbero dibattere, poiché le conseguenze di queste scelte saranno irreversibili per la collettività. Ma il dibattito è falsato dalla dissimulazione di tre dati essenziali:
- la difesa di una moneta e la sua utilizzazione congiunturale (sostegno, svalutazione) comportano sia un assoggettamento delle politiche economiche e sociali all'onnipotenza dei mercati finanziari (con le loro «notazioni» che si auto-realizzano e i loro «verdetti» che non lasciano spazio a nessun appello), sia una crescita della capacità degli stati (e, più in generale, della potenza pubblica) a limitarne l'instabilità e a privilegiare gli interessi a lungo termine sui profitti speculativi. Una strada o un'altra, tertium non datur.
- con la scusa di una relativa armonizzazione delle istituzioni e di una garanzia di alcuni diritti fondamentali, la costruzione europea, nella sua forma attuale, con le forze che l'orientano, non ha smesso di favorire la divergenza delle economie nazionali, che in teoria avrebbe invece dovuto ravvicinare all'interno di una zona di prosperità condivisa: alcune economie ne dominano altre, sia in termini di parti di mercato, sia in termini di concentrazione bancaria, sia trasformandole in fornitori in subappalto. Gli interessi delle nazioni, se non quelli dei popoli, diventano contraddittori.
- il terzo pilastro di una politica keynesiana generatrice di fiducia, oltre la moneta e il fisco, cioè la politica sociale, la ricerca della piena occupazione e la crescita della domanda attraverso il consumo popolare, viene sistematicamente passato sotto silenzio, anche dai riformatori. E sicuramente viene fatto apposta.
Dove va la globalizzazione?
A cosa serve, d'altronde, riflettere e discutere sull'avvenire dell'Europa e della sua moneta (dalla quale alcuni grandi paesi si tengono alla larga: Gran Bretagna, Polonia, Svezia), se non si tiene conto delle tendenze reali della globalizzazione? Se la gestione politica della crisi finanziaria resta fuori portata per le popolazioni e i governi implicati, l'effetto sarà una formidabile accelerazione dei processi in corso. Di che cosa si tratta? In primo luogo, del passaggio da una forma di concorrenza a un'altra: dai capitalismi produttivi ai territori nazionali, dove ognuno, a colpi di esenzioni fiscali e di abbassamento del valore lavoro, tenta di attirare più capitali fluttuanti del vicino. E' più che evidente che l'avvenire politico, sociale e culturale dell'Europa in generale - e di ogni paese in particolare - dipende dal fatto di sapere se l'Europa costituisce un meccanismo di solidarietà e di difesa collettiva delle popolazioni contro il «rischio sistemico», oppure se, al contrario (con l'appoggio di alcuni stati, momentaneamente dominanti, e delle loro opinioni pubbliche) si tratta di un quadro giuridico per intensificare la concorrenza tra gli stati membri e tra i cittadini.
Inoltre, si tratta, più generalmente, del modo in cui la mondializzazione sta sconvolgendo la divisione del lavoro e la ripartizione dell'occupazione nel mondo: in questa ristrutturazione che sovverte nord e sud, ovest e est, una nuova crescita delle ineguaglianze e dell'esclusione in Europa, l'annientamento della classe media, la diminuzione dei lavori qualificati e delle attività produttive «non protette», dei diritti sociali, delle industrie culturali e dei servizi pubblici universali, sono per così dire già programmati. Le resistenze all'integrazione politica, con la scusa di difendere la sovranità nazionale, non possono che aggravare gli effetti nella maggior parte delle nazioni e precipitare il ritorno (già ben avviato) degli antagonismi etnici che l'Europa aveva preteso di oltrepassare definitivamente al suo interno. Ma inversamente è chiaro che non ci sarà un'integrazione europea «dall'alto», in virtù di un'ingiunzione burocratica, senza un progresso democratico in ogni paese e in tutto il continente.
Populismo: pericolo o risorsa?
E' la fine dell'Unione europea, di questa costruzione la cui storia era cominciata 50 anni fa sulla base di una vecchia utopia, ma le cui promesse non sarebbero state mantenute? Non bisogna aver paura di dirlo: sì, ineluttabilmente, a una più o meno breve scadenza e non senza qualche prevedibile violenta scossa, l'Europa è morta come progetto politico, a meno che non riesca a rifondarsi su nuove basi. Un'implosione abbandonerebbe ancora di più i popoli che la compongono oggi alle incertezze della globalizzazione, come sugheri in un torrente. Una rifondazione non garantisce nulla, ma dà qualche possibilità di esercitare una forza geopolitica, a proprio vantaggio e per quello degli altri, a condizione di osare affrontare le immense sfide di un federalismo di nuovo tipo. Si tratta della potenza pubblica comunitaria (distinta sia dallo stato che da una semplice «governance» di politici ed esperti), di eguaglianza tra le nazioni (il contrario dei nazionalismi reattivi, sia quello dei «forti» che quello dei «deboli») e di rinnovamento della democrazia nello spazio europeo (il contrario della «de-democratizzazione» attuale, favorita dal neo-liberismo e dallo «statalismo senza stato» delle amministrazioni europee, colonizzate dalla casta burocratica, che sono anche per buona parte all'origine della corruzione pubblica).
Da tempo avremmo dovuto ammettere questo fatto evidente: non ci saranno passi avanti verso il federalismo, in effetti oggi auspicabile, senza un passo avanti della democrazia al di là delle forme esistenti, in particolare con una intensificazione dell'intervento popolare nelle istituzioni sovranazionali. Significa che, per rovesciare il corso della storia, scuotere le abitudini di una costruzione ormai senza fiato, ci sia bisogno oggi di qualcosa che può essere definito un populismo europeo, un movimento convergente delle masse o un'insurrezione pacifica, attraverso la quale venga espressa contemporaneamente la rabbia delle vittime della crisi contro coloro che ne approfittano (o la alimentano) e l'esigenza di un controllo «dal basso» sugli scambi tra finanza, mercati e politica degli stati? Sì, senza dubbio, perché non c'è altro nome per definire la politicizzazione del popolo, ma a condizione - se si vogliono scongiurare altre catastrofi - che vengano istituiti seri controlli costituzionali e che rinascano delle forze politiche su scala europea, in grado di far prevalere all'interno di questo populismo «post-nazionale» una cultura, un immaginario e degli ideali democratici intransigenti. C'è un rischio, ma è minore di quello di lasciare libero corso ai diversi nazionalismi.
Dov'è la sinistra europea?
Queste forze costituiscono ciò che tradizionalmente, nel continente, era chiamata la sinistra. Ma anch'essa è in stato di fallimento politico: a livello nazionale e internazionale. Nello spazio che ormai conta, che attraversa le frontiere, ha perso qualsiasi capacità di rappresentazione delle lotte sociali o di organizzazione di movimenti di emancipazione, in maggioranza si è allineata ai dogmi e ai ragionamenti del neo-liberismo. Di conseguenza, si è disintegrata dal punto di vista ideologico. Coloro che la incarnano sono soltanto gli spettatori e, in mancanza di seguito popolare, i commentatori impotenti di una crisi contro la quale non propongono nessuna risposta collettiva: niente dopo lo choc finanziario del 2008, niente dopo l'imposizione alla Grecia delle ricette dell'Fmi (peraltro vigorosamente denunciate in altri luoghi e in altri tempi), niente per «salvare l'euro» altrimenti che pesando sulle spalle dei lavoratori e dei consumatori, niente per rilanciare il dibattito sulle possibilità e gli obiettivi dell'Europa solidale.
Cosa succederà, in queste condizioni, quando entreremo nelle nuove fasi della crisi, che devono ancora intervenire? Quando le politiche nazionali sempre più securitarie si svuoteranno del loro contenuto (o del loro alibi) sociale? Ci saranno dei movimenti di protesta, senza dubbio, ma isolati, che potranno venire deviati verso la violenza o recuperati dalla xenofobia e il razzismo già galoppanti, destinati a produrre ancora maggiore impotenza e più disperazione. Tuttavia, la destra capitalista e nazionalista, benché non resti inattiva, è potenzialmente divisa tra strategie contraddittorie: lo si è visto a proposito dei deficit e dei piani di rilancio economico, lo vedremo ancora di più quando l'esistenza delle istituzioni europee sarà in gioco (come prefigura, probabilmente, l'evoluzione britannica). Ci sarebbe qui un'occasione da sfruttare, la possibilità di agire. Delineare e dibattere su ciò che potrebbe essere, su ciò che dovrebbe essere una politica anti-crisi su scala europea, democraticamente definita, che cammini sulle due gambe (del governo economico e della politica sociale), capace di eliminare la corruzione e di ridurre le ineguaglianze che l'alimentano, di ristrutturare il debito e di promuovere gli obiettivi comuni che giustificano i trasferimenti tra nazioni solidali le une con le altre. Sarebbe questa la funzione degli intellettuali progressisti europei, sia che si definiscano rivoluzionari o progressisti. Non ci sono scuse per tirarsi indietro.
lunedì 24 maggio 2010
Étienne Balibar - Europe: crise et fin?
Étienne Balibar
Europe: crise et fin ?
- La crise ne fait que commencer.
- Les Grecs ont raison de se révolter.
- La politique qui ne dit pas son nom.
Ce sont là, à l’évidence, des propositions intégralement politiques (et non pas techniques). Elles s’inscrivent dans des alternatives à débattre par les citoyens, car leurs conséquences seront irréversibles pour la collectivité. Or le débat est biaisé par la dissimulation de trois données essentielles :
- la défense d’une monnaie et son utilisation conjoncturelle (soutien, dévalorisation) entraînent soit un assujettissement des politiques économiques et sociales à la toute-puissance des marchés financiers (avec leurs « notations » autoréalisatrices et leurs « verdicts » prétendument sans appel), soit un accroissement de la capacité des Etats (et plus généralement de la puissance publique) à limiter leur instabilité et à privilégier les intérêts à long terme sur les profits spéculatifs. C’est l’un ou c’est l’autre.
- sous couvert d’une harmonisation relative des institutions et d’une garantie de certains droits fondamentaux, la construction européenne dans sa forme actuelle, avec les forces qui l’orientent, n’a cessé de favoriser la divergence des économies nationales, qu’elle devait théoriquement rapprocher au sein d’une zone de prospérité partagée : certaines dominent les autres, soit en termes de parts de marché, soit en termes de concentration bancaire, soit en les transformant en sous-traitants. Les intérêts des nations, sinon des peuples, deviennent contradictoires.
- le troisième pilier d’une politique keynésienne génératrice de confiance, en plus de la monnaie et de la fiscalité, à savoir la politique sociale, la recherche du plein emploi et l’élargissement de la demande par la consommation populaire, est systématiquement passé sous silence, même par les réformateurs. Sans doute à dessein.
- A quoi tend la mondialisation ?
- Nationalisme, populisme, démocratie : où le danger ? où le recours ?
Depuis longtemps, on aurait du admettre cette évidence : il n’y aura pas d’avancée vers le fédéralisme qu’on nous réclame aujourd’hui et qui est en effet souhaitable, sans une avancée de la démocratie au-delà de ses formes existantes, et notamment une intensification de l’intervention populaire dans les institutions supranationales. Est-ce à dire que, pour renverser le cours de l’histoire, secouer les habitudes d’une construction à bout de souffle, il faille maintenant quelque chose comme un populisme européen, un mouvement convergent des masses ou une insurrection pacifique, où s’exprime à la fois la colère des victimes de la crise contre ceux qui en profitent (voire l’entretiennent), et l’exigence d’un contrôle « par en bas » des tractations entre finance, marchés, et politique des États ? Oui sans doute, car il n’y a pas d’autre nom pour la politisation du peuple, mais à la condition – si l’on veut conjurer d’autres catastrophes - que de sérieux contrôles constitutionnels soient institués, et que des forces politiques renaissent à l’échelon européen, qui fassent prévaloir au sein de ce populisme « post-national » une culture, un imaginaire et des idéaux démocratiques intransigeants. Il y a un risque, mais il est moindre que celui du libre cours laissé aux divers nationalismes.
- La Gauche en Europe ? quelle « gauche » ?
(21 mai 2010)
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trad. it. : Europa. crisi o fine?
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domenica 21 febbraio 2010
"un paese più normale": il revisionismo incoronato a Sanremo
L'obiettivo di divenire una "nazione normale", che istituisce un rapporto "armonico" col proprio passato, è da tempo una posta in gioco decisiva del revisionismo storico tedesco:
E. Filiberto: Io credo nella mia cultura e nella mia religione, per questo io non ho paura, di esprimere la mia opinione. Io sento battere più forte, il cuore di un’Italia sola, che oggi più serenamente, si specchia in tutta la sua storia.
Pupo: Io credo ancora nel rispetto, nell’onestà di un ideale, nel sogno chiuso in un cassetto e in un paese più normale
giovedì 11 febbraio 2010
Il cuore nel pozzo: un "classico" del revisionismo di Stato
martedì 19 maggio 2009
Come un uomo sulla terra
"Respingere i migranti in Libia
è come se i pompieri
riportassero dentro ad un incendio
La deriva razzista del Governo Italiano che in questi giorni avvia disumani respingimenti in Libia e approva a colpi di fiducia il ddl sicurezza, non può lasciarci indifferenti.
Cosa fa realmente la polizia libica?
Cosa subiscono migliaia di uomini e donne africane?
"Come un uomo sulla terra"
di Riccardo Biadene, Andrea Segre, Dagmawi Ymer
Giovedì 21 Maggio 09
Ore 16 @ AulaC
Strada Maggiore 45 - Bologna
Un film sulle brutalità con cui la Libia controlla i flussi migratori su richiesta e grazie ai finanziamenti e alla connivenza di Italia ed Europa
Per maggiori info sul documentario visita il sito:
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giovedì 16 aprile 2009
Bologna: un reprint della propaganda fascista e razzista
Riprendo integralmente un articolo da Repubblica.
Non saprei commentare.
Comune nella bufera, manifesto fascista per un convegno sulla violenza contro le donne
[di Carlo Gulotta]
Sulla locandina che accompagna un seminario organizzato dal Comune e dalla Casa delle Donne, sul tema «Femminicidi, ginocidi e violenze sulle donne», c'è un'immagine forte. E' un manifesto che risale al Ventennio fascista e che raffigura un uomo dalla pelle scura che aggredisce una donna con la scritta «Difendila, potrebbe essere tua moglie, tua sorella, tua figlia». E in città scoppia la bufera: intasata dalle proteste la posta elettronica del vicesindaco Giuseppe Paruolo e l'associazione Orlando, che gestisce il Centro delle Donne, dice che «se il messaggio è stato frainteso, vuol dire che è un messaggio sbagliato e bisogna ritirarlo». Critiche anche in seno al Pd: per i due consiglieri comunali Emilio Lonardo e Leonardo Barcelò quella «è una locandina razzista, il Comune tolga il patrocinio», e lancia accuse persino l'Ordine dei Giornalisti. L'assessore alla Scuola e alle Politiche delle Differenze Milli Virgilio, che quel manifesto l'ha scelto per illustrare il seminario di domani alle 16,30 in Santa Cristina, è costretta a una mezza marcia indietro.
«Un errore? Non dico questo, ma se dovessi rifare daccapo, credo che ci ripenserei. Ma l'ho fatto in buona fede, per dimostrare che in sessant'anni purtroppo niente è cambiato: tutte le novità legislative sono intitolate alla sicurezza pubblica, ma in sostanza sono riservate ai migranti e alle restrizioni nei loro confronti». L'invito con la locandina "razzista" è stato spedito a centinaia di soggetti, istituzioni, associazioni e singoli. Virgilio parla di un «equivoco», e oggi scriverà una mail al Centro delle donne e a tutti quelli che hanno protestato per spiegare le sue ragioni. Anche all'ex presidente della Consulta degli immigrati. «Quel manifesto — sta scritto nel messaggio del Centro delle donne — è edito dal Nucleo Propaganda fascista del 1944 e quel che fa riflettere è che purtroppo questo "reperto storico" è tornato oggi tremendamente attuale. Per realizzare l'obiettivo di tutelare le "nostre" donne è stato scelto l'approccio contro il migrante, cioè contro il "differente", costruito come "il nemico". Bisogna rimediare ad un errore di comunicazione». Paruolo, sulla richiesta di negare il patrocinio del Comune, è prudente. «Aspettiamo, prima di trarre delle conclusioni. Ma confermo che mi è arrivata la mail di un rappresentante della Consulta degli immigrati. Non era affatto contento».