venerdì 1 ottobre 2010

Alberto Burgio: La radice profonda del razzismo in Europa


Alberto Burgio
La radice profonda del razzismo in Europa
il manifesto, 1 ottobre 2010
È una buona cosa che, sullo sfondo della persecuzione razzista dei rom in Francia, si sia aperta una riflessione teorica sul razzismo. È tutt'altro che scontato che se ne sappia abbastanza (su ciò che lo produce e lo alimenta e, prima ancora, su ciò che il razzismo è) per reagire all'altezza dei suoi devastanti effetti attuali e potenziali. Gli interventi di Étienne Balibar e Jacques Rancière sul manifesto hanno fatto luce su aspetti rilevanti. Il primo si è incentrato sul nesso tra cittadinanza ed esclusione, mettendo in risalto come esso operi anche nel quadro dell'Europa comunitaria; il secondo ha insistito sulla natura artificiale (non spontanea) di un razzismo frutto dell'iniziativa di «imprenditori politici».

Entrambi condividono una prospettiva politico-centrica e meriterebbero un approfondimento: in particolare Rancière sembra sbarazzarsi troppo precipitosamente della scaturigine sociale della paura (e del risentimento) che l'intervento politico alimenta e incanala contro gruppi umani rappresentati come pericolosi. Ma lo spazio è tiranno e, piuttosto che dedicarlo a un confronto interno, conviene utilizzarlo per ampliare lo spettro della discussione, prospettando un'ipotesi differente e complementare, incentrata sulle dinamiche sociali responsabili della produzione di stereotipi inferiorizzanti: un'ipotesi per dir così socio-centrica.

Quando parliamo di razzismo siamo soliti pensare ai margini della società o a popolazioni straniere. Il razzismo appare al senso comune una faccenda riguardante gli «altri», i «diversi» (o i «devianti»), insomma non-persone abitanti la periferia (fisica o morale) delle nostre metropoli. Naturalmente questo modo di pensare ha le sue buone ragioni. Oggi le «razze» (poco importa se rinominate con termini meno impresentabili come «etnie» o «culture») sono in primo luogo i migranti, variamente considerati invasori, nemici, delinquenti naturali, terroristi potenziali, barbari e così via connotando. Oppure sono i rom (e i sinti), cioè gli «zingari». O ancora gli ebrei (checché se ne dica, resiste il pregiudizio che li configura come una «razza»). In una parola, minoranze a vario titolo percepite come estranee al corpo (sano) della collettività. Come eccezioni (patologiche) rispetto alla norma e alla normalità. Tuttavia, se non vogliamo rimanere prigionieri del razzismo, non possiamo limitarci a sfogliare il catalogo dei gruppi umani trasformati in «razze», dobbiamo anche chiederci a che scopo il razzismo li «razzizza».

Con ogni probabilità, l'obiettivo è legittimare trattamenti discriminatori e persecutori che possono arrivare sino allo sterminio. La violenza che difficilmente la società accetterebbe di subire, appare tollerabile (motivata e giusta) se colpisce un gruppo raffigurato come portatore «per natura» di uno stigma morale. Quella violenza è percepita come legittima difesa poiché è messa in relazione alle caratteristiche perverse attribuite a quel gruppo. In una parola, il razzismo è la fabbrica delle identità negative, un operoso cantiere antropologico che, producendo stereotipi (cioè letteralmente creando le «razze»), sforna ininterrottamente argomenti utili a giustificare la violenza che una parte della società scarica su altre componenti più deboli e a vario titolo subordinate.

Se le cose stanno così, lo sguardo dovrebbe disinteressarsi del dito (gli argomenti specifici - tutti, indistintamente, pretestuosi - addotti dal razzista di turno) e rivolgersi alla luna che esso indica, cioè alla radice profonda di questa violenza. Dovrebbe cercare la fonte «strutturale» dell'insaziabile fame di discriminazione che ossessiona la nostra società, poiché soltanto così è possibile capire perché da due o tre secoli a questa parte l'occidente capitalistico non può fare a meno di inventare «razze» inferiori, parti infette dei corpi sociali che meritano di essere cauterizzate o addirittura amputate. E soltanto adottando questa prospettiva si può capire perché il razzismo torna sistematicamente in auge nelle fasi acute di crisi economica e sociale, quando le dinamiche riproduttive esasperano la propria connotazione gerarchica, mobilitando un surplus di violenza e di brutalità.

Il punto è che la «razza inferiore» (quella di chi - stando alle mitologie razziste - ruba o stupra per incoercibili propensioni «naturali» o è «per natura» refrattario alla civilizzazione) incarna e mette in scena non soltanto le ragioni della propria discriminazione, ma anche, soprattutto, la legittimità del discriminare come meccanismo generale della relazione sociale. Certo, la violenza che si scatena contro i rom cacciati via da una palude infestata dai topi all'altra, evitati come appestati sugli autobus e sui treni e finalmente deportati oltre confine nel nome della sicurezza e sanità del corpo sociale, è diversa da quella che gli italiani (o i francesi) doc - quanti tra loro lavorano sotto padrone o nemmeno riescono a trovare un lavoro - sono costretti a subire. Questi ultimi sono (ancora) protetti da qualche diritto. Ma un denominatore comune c'è, e consiste nel dipendere dall'arbitrio altrui. Per questo è importante che assistano alla cacciata dei rom, spettacolo estremamente istruttivo che rammenta (e rappresenta come una condizione inemendabile) la loro radicale subalternità.

Che cosa imparano, a guardar bene, da questo spettacolo che colpisce ai margini della società ma si rivolge al grosso della popolazione, alle «genti meccaniche» cui non è toccata la buona sorte di illustri natali? Apprendono la terribile lezione della modernità: la loro condizione di homines œconomici, di individui soli, costretti a combattere, a proprio rischio e pericolo, la guerra quotidiana degli egoismi individuali. Ciò che il razzismo si incarica di portare a termine mettendo in scena il destino degli ultimi è, in altre parole, l'atomismo sociale e lo sradicamento della solidarietà, fattore antimoderno per antonomasia, incompatibile con lo scatenamento degli «spiriti animali» del capitalismo.

In questo senso - per quanto paradossale ciò possa apparire - se vogliamo capire quale ruolo il razzismo giochi sulla scena europea (e perché esso svolga ancora una funzione così importante), è indispensabile leggere correttamente vicende come quelle di Pomigliano e di Melfi, nelle quali il padrone dichiara in modo esplicito di voler negare qualsiasi diritto a chi per sopravvivere è costretto a vendere il proprio tempo di vita. Gli operai debbono tornare ad essere cose, levarsi dalla testa di essere persone e, soprattutto, membri di un soggetto collettivo. E affinché intendano la musica, niente è più utile del mostrare loro che fine fanno quelli con i quali la buona società si arrabbia per davvero.

Ma se la sorte riservata ai margini serve a educare il centro, allora il problema è la reazione del centro. Non si tratta di stabilire se il razzismo sia o meno spontaneo, certo che non lo è. Il punto è che il razzismo sarà senso comune, benché inculcato dall'alto, finché i corpi sociali assimileranno docilmente la lezione che esso impartisce: la fondatezza delle gerarchie sociali, la legittimità della violenza che esse decretano, la moralità della riduzione a cose dei subordinati. Oggi, esattamente come nel secolo scorso, il problema chiama dunque in causa proprio gli «uomini comuni», spesso complici, più o meno inconsapevoli, della violenza razzista.

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humor nero: la grande scelta finale...


Il party di compleanno di Silvio: barzellette sugli ebrei...




.... Infine, arriva la grande scelta finale, la barzelletta sugli ebrei: «Un ebreo racconta a un suo familiare: “Ai tempi dei campi di sterminio un nostro connazionale venne da noi e chiese alla nostra famiglia di nasconderlo, e noi lo accogliemmo. Lo mettemmo in cantina, lo abbiamo curato, però gli abbiamo fatto pagare una diaria”. “E quanto era, in moneta attuale?” “Tremila euro”. “Al mese?” “No al giorno” “Ah, però” “Bè, siamo ebrei, e poi ha pagato perché aveva i soldi, quindi lasciami in pace” “Scusa un’ultima domanda” “Tu pensi che glielo dobbiamo dire che Hitler è morto e che la guerra è finita?”».

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sabato 25 settembre 2010

Alain Badiou, Piccolo pantheon portatile



Enzo Di Mauro

Badiou, tombe a orologeria




Da Derrida a Deleuze, da Foucault ad Althusser, da Lacan a Canguilhem e Cavaillès, queste quattordici orazioni funebri di Alain Badiou si propongono quasi come un'intifada del pensiero in nome e per conto degli ultimi materialisti.



Come in ogni altro libro di Alain Badiou, anche nel Piccolo pantheon portatile (Il Melangolo, a cura di Tommaso Ariemma, traduzione di Luisa Bosi, pp. 142, € 15, 00) – un titolo che parrebbe lezioso se non venisse inteso in maniera letterale e trasparente – si mantengono bene in vista i segni di una indomabile passione per il reale, qui semmai illuminati da una temperatura emotiva altissima. Virilmente introiettato il lutto, l'acuto sentimento di perdita che ne anima le pagine e ne determina l'andatura si trasforma d'un sol colpo in gesto militante, in lampo di pensiero, in netto e risentito starsene nel campo aspro e seminato a pietre, chiuso a ogni orizzonte di conciliazione, precluso a ogni patto con chiunque si erga a campione della presunta «innocenza » (in verità un'impostura criminale) delle democrazie parlamentari e dei regimi liberali. Poiché, quella del filosofo nato a Rabat settantatré anni fa, è qui un'intifada in nome e per conto dei maestri, degli interlocutori, dei contraddittori e dei compagni di strada che se ne sono andati via per sempre, lasciando vuoto il paesaggio combattente dopo quell'estremo lembo di secolo – diciamo, all'incirca, l'arco di tempo che andò dal 1960 al 1980 – in cui s'accesero gli ultimi fuochi del materialismo e, in senso lato, del pensiero critico e radicale più irriducibile.

Resta quello, per Badiou, un lascito lanciato nel futuro, sebbene un trentennio di restaurazione lo abbia come posto in sonno, in attesa di attivo riutilizzo. Ebbene: se soltanto il sommo Bossuet non avesse messo il suo stile al servizio del potere e dei potenti, lo zelo politico all'autore gli avrebbe consentito senza rimorsi di intitolare il suo libro, assai semplicemente, Orazioni funebri. Ma resta quello il modello, quella l'intenzione per i quattordici epicedi dedicati ad altrettante figure centrali della filosofia francese. È un libro a suo modo straordinario, di quelli che solo a un sopravvissuto è dato di scrivere o di ordinare.

Si tratta di articoli a volte molto brevi, in altri casi di testi (conferenze o saggi) più esaustivi e distesi – in entrambi i casi composti quasi sempre a caldo, sotto l'effetto della commozione, dell'improvvisa mancanza. Non si tratta tanto di frequentare la morte da vicino («se la filosofia ha un qualche compito, è quello di allontanare il calice delle passioni tristi, di insegnarci che la pietà non è un sentimento onesto, né il lamento è la ragione di aver ragione, né il vittimismo è ciò a partire da cui articolare il nostro pensiero”), quanto piuttosto di rendere onore a ciò che resta dei processi di verità così raggrumati nel percorso pensante di quelle vite. Di ognuna di esse Badiou coglie il punto nevralgico, gli inciampi, le fratture, l'ambito del discorso più prossimo e prezioso al tempo a venire.Ma pure a muoverlo agisce un sentimento arioso e verticale, come egli annota nel concludere l'introduzione: «Fui legato ad alcuni da amicizia, con altri ebbi qualche discussione. Ma sono felice di dire qui, in barba agli intrugli che vogliono farci ingoiare oggi, che questi quattordici filosofi scomparsi li amo tutti, ebbene sì. Sì, li amo».

Quanto vi è di avventuroso in tale piegatura intima e sentimentale appare facile intuire. Letture, discussioni, apprensioni, battaglie – tutto confluisce nella formazione di un intellettuale come Badiou, così stretto al respiro del suo tempo e al tratto di Novecento che gli è toccato in sorte di attraversare e che, al finire di esso, egli ha avvertito l'urgenza e la necessità di indagarne il significato in una serie di seminari svolti al Collège international de philosophie negli anni tra il 1998 e il 2001(Il secolo è stato poi pubblicato da Feltrinelli nel 2006). Già lì, nello spazio aperto del suo Novecento, oltre agli omaggi, commoventi per il lettore, a Osip Mandel'štam, Jean Genet, Paul Celan, Pessoa, Brecht , Malevic, troviamo i maestri e i compagni di viaggio a lui più prossimi, molti dei quali in teoria dolente formano la costellazione resistente del suo piccolo pantheon.

Allora eccola la compagine dei senza paura: Jacques Lacan (1901-1981), Georges Canguilhem (1904-1995) e Jean Cavaillès (1903-1944), Jean Paul Sartre (1905-1980), Jean Hyppolite (1907-1968), Louis Althusser (1918-1990), Jean François Lyotard (1924-1998), Gilles Deleuze (1925-1995), Michel Foucault (1926-1984), Jacques Derrida (1930-2004), Jean Borreil (1938-1992), Philippe Lacoue-Labarthe (1940-2007), Gilles Châtelet (1945-1999) e Françoise Proust (1947-1998). È questa la linea di una ricerca materialistica, eretica quanto eterogenea, che ha investito o almeno sforato di sé la pratica dell'agire politico che più ha coinvolto e interessato Badiou, e in proposito basterà leggere, senza essere particolarmente né specialmente votati alla filosofia, l'opera sua per ritrovarne ovunque sparsi i nomi e le idee. Tra le cose notevoli, qui – dove, tra l'altro, quando è il caso, non si trascura il ritratto e persino l'aneddotica più curiosa – spicca ad esempio la rivendicazione tutta in positivo dell'ultimo Lacan, il più criticato dalla vulgata giornalistica, nella cui estrema pratica clinica invece, e proprio a partire dal cruciale assioma secondo il quale non bisogna cedere di un solo millimetro rispetto al proprio desiderio, si farà più stringente l'indagine intorno al rapporto col reale e alla dialettica del soggetto («per un marxista francese contemporaneo, Lacan ha la stessa funzione che aveva Hegel per un rivoluzionario tedesco del 1840»).

Ma poi per ognuno vi è un tratto che si prova a definirlo, a riassumerlo, a storicizzarlo, a glorificarlo in uno stemma imperituro. Sartre, a cui il diciottenne Badiou deve intanto l'iniziazione «a ogni delizia filosofica», è il compagno d'azione e di idee con i suoi trent'anni «di puntuale militanza nella rivolta, di equilibrata metamorfosi di posizioni, di colpi bene assestati» e il cui peso nella storia letteraria può paragonarsi a quello di Voltaire, di Rousseau e di Victor Hugo, «scrittori, questi, che non cedono». O la «singolarità esistenziale » di Hyppolite, «traghettatore » di Hegel in terra di Francia (mirabile, anche per i tedeschi, la sua traduzione della Fenomenologia della spirito), e poi «organizzatore, nel senso di colui che recluta, che sa porre le domande migliori e stringere alleanze anche con persone molto lontane da lui», lettore insonne, fumatore imbattibile fino all'autocombustione. E, ancora, Althusser, per il quale «le questioni del pensiero provengono dallo scontro, dalla linea del fronte, dai rapporti di forza. Il chiodo della rue d'Ulm mal si accordava sia con il tempo della meditazione sia con quello del ritiro. Lì non esisteva che il tempo dell'intervento, circoscritto, agitato, come precipitato verso una fine ineluttabile. L'altro tempo, infinito, era quello del dolore. Purtroppo».

Ma ciò che forse indica il senso vero e l'anima del pantheon di Badiou è la lettura sovrapposta o a incastro di Canguilhem e di Cavaillès, il cui perimetro viene circoscritto nella breve, intensissima monografia del primo dedicata al secondo e intitolata Vita e morte di Jean Cavaillès, pubblicata nel 1976. Quella vita e quella morte camminano tenendosi per mano. Il giovane filosofo e matematico che militò nella Resistenza e che venne torturato e assassinato dai nazisti ad Arras diventa l'emblema, limpido e insieme misterioso, di un punto di contatto, comunque invincibile, che possiamo chiamare etica dell'azione. Appunto: tombe risolute e temerarie quelle che ci consegna Badiou. Imbottite di esplosivo.

da Alias n. 38 del 25 settembre 2010


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Petit panthéon portatif

Ceux qui, aux alentours de 1965, avaient entre vingt et trente ans, ont alors rencontré un nombre exceptionnel de maîtres dans le champ de la philosophie. Les anciens comme Sartre, Lacan ou Canguilhem, étaient encore en pleine activité ; d'un peu plus jeunes, comme Althusser, déployaient leur œuvre, et toute une génération, les Deleuze, Foucault, Derrida, entrait dans l'arène.
Tous ces maîtres, aujourd'hui, sont morts. La scène philosophique, largement peuplée d'imposteurs, est autrement composée, ne tirant sa consistance que de ceux, jeunes et moins jeunes, qui, les formulant à neuf dans leur propre langue, savent être fidèles aux questions qui nous animèrent il y a quarante ans. Je crois juste de rassembler les analyses et hommages qu'au long des années, quand ils disparaissaient, j'ai consacrés à ceux à qui je dois la signification, toujours inhumaine autant que noble et combattante, du mot «philosophie». Je n'ai pas toujours eu avec ces contemporains capitaux des rapports simples et sereins : la philosophie, comme le dit Kant, est un champ de bataille. Mais, considérant aujourd'hui les innombrables «philosophes» médiatiques, je puis dire que j'aime tous ceux dont je parle dans ce livre. Oui, je les aime tous.

martedì 21 settembre 2010

Italo Calvino: «Da noi, niente va perduto ...» [da Militant]

Venticinque anni fa moriva Italo Calvino [Santiago de la Vegas, 15 settembre 1923 - Siena, 19 settembre 1985] uno dei più grandi scrittori italiani del 900. Recentemente ci siamo riletti Il sentiero dei nidi di ragno, il suo bellissimo romanzo sulla lotta partigiana vista attraverso gli occhi di Pin, un ragazzino che quasi per caso (o forse no) si trova a militare dalla parte giusta, dalla parte della storia. Ne riproponiamo un passo ...

Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qui si risolve qualcosa, là si ribadisce la catena. Quel peso di male che grava sugli uomini del Dritto, quel peso che grava su tutti noi, su me, su te, quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta ad uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto. ma allora c’è la storia.C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur senza saperlo, noi per redimercene, loro per rimanerne schiavi. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta al riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.


sabato 18 settembre 2010

Étienne Balibar: Rom, questione comune


La condizione dei rom testimonia l’esistenza di «una traccia durevole delle persecuzioni nella storia europea». L’Europa può cancellarla.



Dal punto di vista dei rom, il processo di unificazione europea ha di sicuro aperto delle possibilità di comunicazione nella comunità finora inesistenti e ha dato la possibilità di reclamare i propri diritti in modo più efficace e legittimo. Ma non ha modificato la configurazione di base della persecuzione, o addirittura può aver dato ad essa una nuova dimensione. Si tratta di una storia affascinante: quello che era ampiamente invisibile è diventato visibile e un'intera parte della storia d'Europa diventa comprensibile. Ed è una questione vitale per il futuro dell'Europa: essa non può essere costruita sull'esclusione, non è un Impero. Ufficialmente, presenta se stessa come uno spazio per la realizzazione dei diritti democratici e del benessere comune delle sue popolazioni. In pratica, conquisterà legittimità nelle menti e nei cuori dei cittadini (una cosa più difficile di quanto immaginato all'inizio) soltanto se comporterà un avanzamento verso istituzioni più democratiche e una cultura di maggiore - e non di minore - solidarietà. Sotto questo punto di vista, la persecuzione dei rom in Europa, trasmettendosi da un Paese all'altro in un processo di emulazione negativa come nel passato, non è un problema che riguarda ogni paese separatamente, ma è un problema "comune", un problema "comunitario".

Affrontandolo in questo modo - e lavorando contro le proprie inclinazioni - gli europei eliminerebbero non solo una fonte di conflitti interni e di violenza che può diventare insopportabile, ma costruirebbero una comune cittadinanza. Inoltre reclamando i loro diritti, elevando il discorso dal livello culturale a quello civile, trovando gli interlocutori istituzionali e gli alleati di cui hanno bisogno tra la popolazione, i rom di tutta Europa conquisterebbero un'integrazione che ci riguarda tutti, collettivamente. Non essendo un esperto di storia e sociologia rom, ma in quanto cittadino europeo e filosofo che ha lavorato su altri aspetti dell'esclusione e sul loro impatto sullo sviluppo della democrazia, vorrei affrontare le tre principali questioni in discussione.

La prima riguarda l'esclusione e la cittadinanza e la loro trasformazione a livello paneuropeo. I rom sono privi di alcuni diritti di base in molti paesi europei e nello spazio europeo, malgrado il fatto che siano cittadini europei, essendo di pieno diritto cittadini degli stati membri. Questi diritti di base includono il diritto di circolazione, di residenza, di lavoro, il diritto alla scuola, alla salute e alla cultura. I rom sono costretti a risiedere in determinate aree, dalle quali del resto possono anche venire arbitrariamente espulsi. Sono definiti o come "nomadi" o come cittadini che provengono da determinati paesi. Sono a priori considerati come delinquenti o come una popolazione pericolosa. Non vengono mai ammessi o sono ampiamente sottorappresentati nella maggior parte delle professioni, sia manuali che intellettuali (con tassi di disoccupazione che toccano i massimi). È inutile dire che questo riguarda anche gli impieghi pubblici. Questo fenomeno è illegale o legale, con la scusa di norme e di accordi interstatali che riguardano l'igiene, la previdenza sociale, le politiche per l'occupazione e le norme culturali. Hanno luogo su uno sfondo di una persistente estrema violenza "popolare", che è alimentata anche da gruppi neofascisti e da bande criminali, solo verbalmente condannati da molti stati membri dell'Unione europea. Solo i più vergognosi pogrom diventano una notizia per la stampa nazionale o internazionale.

La costruzione dell'Ue ha avuto degli effetti estremamente contraddittori. Ha prodotto una categorizzazione dei rom a livello europeo, dal momento che per la Ue sono stati considerati un "problema" nel loro stesso diritto a farne parte. Questo è uno scalino preliminare nella nuova razzializzazione dei rom. Li mette nella stessa categoria dei "migranti" di origine extracomunitaria, in un quadro generale che ho definito come l'emergente apartheid europeo, il lato oscuro dell'emergenza di una «cittadinanza europea». La differenza proviene dal fatto che i "migranti" (e i discendenti di migranti) sono visti come un altro esterno, mentre gli tzigani come un altro interno. Ciò d'altronde rafforza il vecchio stereotipo del nemico interno, che ha effetti sanguinosi.

Malgrado gli enormi cambiamenti storici e sociali - specialmente dopo la seconda guerra mondiale e la fine della guerra fredda - che hanno portato l'Europa molto lontana dal proprio passato, questo fenomeno è testimone di una traccia durevole delle persecuzioni nella storia europea. È inevitabile la comparazione con il caso, di cui si è parlato molto di più, della persecuzione di un "gruppo razziale" nella storia europea, cioè gli ebrei. I due "gruppi paria" sono stati il bersaglio congiunto del genocidio nazista (come altre popolazioni "devianti"). Rappresentano casi completamente diversi di traiettoria religiosa ed economica, ma - è importante sottolinearlo - entrambi hanno svolto un ruolo centrale nello stabilire delle connessioni tra diverse culture europee (specie nel campo artistico, nel caso degli tzigani) incarnando l'elemento "cosmopolita" senza il quale le culture "nazionali" restano isolate e sterili.

Questo mi porta a prendere in considerazione una seconda questione, che riguarda più specificamente le tendenze di razzializzazione in Europa. Alcuni anni fa mi ero chiesto se bisognasse ammettere che esiste un razzismo o neo-razzismo "europeo" che avrebbe avuto, rispetto alla costruzione "sopra-nazionale", la stessa relazione di complementarità ed eccesso che il razzismo tradizionale (antisemitismo, razzismo coloniale, ecc) aveva con lo stato-nazione e le classiche costruzioni imperialiste. Bisogna essere molto prudenti a proporre questo tipo di ipotesi. Nondimeno, ci sono dei fenomeni inquietanti che possono dare credito a questa ipotesi, ponendo i rom nella scomoda posizione di caso test. In conclusione, possiamo dire che l'unificazione dell'Europa ha reso la razzializzazione del "problema tzigano" più visibile, perché mostra l'evidente contraddizione con la tendenza generale e ufficiale verso il superamento dei pregiudizi etnici e nazionali sulla quale è costruita la "nuova Europa". Da questo punto di vista, ci sono almeno tre fenomeni che mi paiono rilevanti:

1. La tendenza delle nazioni europee a proiettare sui rom i pregiudizi verso altre nazioni. Per esempio, la stampa francese è più attenta a riferire dei pogrom che hanno luogo in Italia o in Ungheria, o delle discriminazioni in Romania, ma resta quasi silenziosa sul modo in cui i comuni in Francia respingono i "nomadi" dal loro territorio, o sul modo in cui la polizia di frontiera francese espelle cittadini rumeni e bulgari per alimentare le statistiche ufficiali, pur sapendo benissimo che, in quanto cittadini europei, essi torneranno al più presto.

2. Arriviamo al fenomeno della costruzione del capro espiatorio e, più precisamente, al modo in cui le "nazioni" europee si considerano ufficialmente l'un l'altra come membri di una stessa comunità. Dopo aver superato le antiche ostilità, esse restano nei fatti piene di mutuo risentimento e sospetto reciproco - cosa che, fino ad un certo punto, dipende dal fatto che la costruzione europea è rimasta in mezzo al guado. Questo risentimento e sospetto reciproco tende a venire proiettato verso gruppi "devianti". I rom sono come una nazione in eccesso in Europa, che si distingue per l'odio che suscita non solo perché travalica i confini ma anche perché incarna l'archetipo delle popolazioni senza stato, che fanno resistenza alle norme di territorializzazione e di normalizzazione culturale (per ironia della sorte, sotto molti aspetti, questa singolarità è essa stessa frutto delle persecuzioni).

3. Questo problema, come sappiamo, diventa eccezionalmente acuto quando vengono prese in considerazione le relazioni tra Europa occidentale ed Europa dell'est. Il fatto che i regimi di tipo sovietico in Europa dell'est durante la guerra fredda, in paesi che hanno anche un'importante popolazione rom, avessero combinato una politica coercitiva e normativa con programmi di integrazione economica, ha comportato la definizione di "protégés del socialismo" in paesi dove (per quanto tempo ancora?) la maggioranza della popolazione vede l'ammissione alla Ue come la strada più rapida verso la liberalizzazione economica e sociale. Nell'altra metà del continente, i paesi occidentali e la loro opinione pubblica li percepiscono come la perfetta illustrazione della povertà e della deregulation con le quali l'Ue sfida i vecchi membri. In entrambi i casi, sono rigettati e visti più come "orientali" che come veramente europei.

Se la relegazione dei rom nella condizione di comunità senza stato prosegue (de facto più che de jure: vivono, certo, sotto la giurisdizione degli stati, ma sono visti sia come inadatti che ostili ad entrare nella costruzione di uno stato moderno), cosa che ci riporta all'origine della loro discriminazione, essa rivela al tempo stesso i limiti della costruzione della sfera pubblica in Europa. Essa può essere paragonata a uno statalismo senza stato. Questa situazione poco chiara, combinata con altri fattori, tende ad esacerbare varie forme di razzismo popolare, in particolare sotto la forma dell'ossessione della sicurezza. Dall'altro lato, ha portato alla creazione di una piuttosto densa rete di istituzioni e organizzazioni che hanno a vedere con la "questione rom" a livello europeo. Alcune di queste organizzazioni ed iniziative governative possono favorire lo sviluppo di una coscienza autonoma e di una pratica civile nella comunità rom, mentre altre tendono a ridurli allo stato di un gruppo sotto controllo, protetto e piazzato sotto sorveglianza. Questo dilemma, secondo me, porta a prendere in considerazione un altro problema cruciale, che riguarda le vie dell'emancipazione proposte alle popolazioni rom in Europa. Parlando da un punto di vista astratto, ci sono due strade, come in altri casi simili. Una può essere definita "maggioritaria" e comporta la richiesta della fine dell' "eccezione", il riconoscimento dei diritti di base che, di principio, appartengono ad ogni cittadino. L'altra può essere definita "minoritaria" e si basa su un crescente senso di identità e di solidarietà tra le popolazioni rom, attraverso i confini nazionali, che porta verso una maggiore autonomia culturale e, di conseguenza, verso una maggiore visibilità come gruppo "quasi nazionale" che lotta contro l'esclusione all'interno di un'Europa multi-nazionale.

La prima strada dipende soprattutto dai passi avanti più generali sui diritti umani e da un ritorno a politiche sociali che riescano ad arginare la corrente neo-liberista, mentre la seconda dipende dalla capacità di utilizzare il discorso e le istituzioni dell'Unione europea affinché i rom arrivino a costruirsi una voce autonoma. Nessuna delle due strade è facile, né probabilmente sufficiente. Sarà responsabilità dei rom stessi articolare una combinazione efficace. Ma è anche nostra responsabilità - e nostro interesse - in quanto democratici europei, aiutarli in questo processo, lottando contro il risorgere del razzismo in mezzo a noi, inventando un'Unione migliore.


* Questo testo è una rielaborazione, per gentile concessione di Étienne Balibar, dell'introduzione al volume «Romani Politics in Contemporary Europe» (Palgrave ed. dicembre 2009), una raccolta di saggi sulla questione dei rom e l'Europa a cura di Nando Sigona e Nidhi Trehan. La traduzione è stata curata da Anna Maria Merlo.

da: il manifesto, 18.09.2010

giovedì 16 settembre 2010

Gilles Deleuze - «A che serve la filosofia?»


Allorché qualcuno domanda a che serve la filosofia, dobbiamo rispondere in modo aggressivo, poiché la domanda vuole essere ironica e mordace. La filosofia non serve né lo Stato né la Chiesa, che hanno altre preoccupazioni. Non serve ad alcuna potenza costituita. Una filosofia che non turba e non contraria nessuno non è una filosofia. Essa serve a far danno alla stoltezza, facendone qualcosa di turpe. Essa ha la sola funzione di denunciare la bassezza del pensiero in tutte le sue forme.
Gilles Deleuze
Nietzsche et la philosophie, Presses Universitaires de France, Paris 1962
tr. it. di S. Tassinari, Nietzsche e la filosofia, Colportage, Firenze 1978
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domenica 12 settembre 2010

Humor nero: MinCulPop del Terzo millennio


La barzelletta su Hitler

«Dobbiamo ridere». Così il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi davanti alla platea dei giovani del Pdl introduce una barzelletta sul nazismo. «Dopo un po' che Hitler è morto - racconta - i suoi sostenitori vengono a sapere che è ancora vivo. Lo vanno a cercare per convincerlo a tornare e lui risponde: Sì torno, ma ad una condizione. La prossima volta cattivi, eh?».

da l'Unità

[immagine: fotomontaggio di Erwin Blumenfeld]
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giovedì 19 agosto 2010

Del "senso dello Stato" [da Senza Soste]

Cossiga, quando la sovranità
non appartiene al popolo

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È buffo che nei necrologi bipartisan dedicati a Cossiga si metta in evidenza soprattutto il suo senso dello Stato. Perché Cossiga, a differenza di tanti che oggi lo commemorano, non si è mai posto il problema di nascondere il suo disprezzo per lo Stato di diritto e ha sempre rivendicato apertamente il suo ruolo in quelle strategie occulte ed “eversive” (tecnicamente parlando) che dalla Liberazione in poi hanno costituito la vera struttura portante della Prima e della Seconda Repubblica ...

Strategie con un obiettivo chiaro e semplice: quello di impedire che in Italia la volontà popolare potesse mettere in pericolo gli equilibri politici voluti dai veri padroni del Paese e detentori della sovranità reale.

A Cossiga va dunque riconosciuto almeno un merito: quello di aver mostrato con chiarezza che nelle cosiddette democrazie occidentali i diritti civili e politici sono solo un simulacro che copre i reali rapporti di forza: “la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi”, scriveva Michel Foucault capovolgendo il famoso motto di Clausewitz.

I fatti di cui Cossiga è stato protagonista sono notissimi ...

leggi l'articolo completo in Senza Soste

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martedì 10 agosto 2010

Marx lo scienziato impaziente di rivoltare il mondo



Marx lo scienziato impaziente
di rivoltare il mondo

Tonino Bucci, per Liberazione, 20.07.2010





Nicolao Merker, Karl Marx Vita e opere
Laterza, 2010

«Un tipaccio nero imperversa pieno di furore, come se volesse afferrare l’ampia volta celeste e tirarla sulla Terra». Cimentandosi con un poemetto satirico Friedrich Engels tratteggiava con questi rapidi, ma efficaci versi un giovane studente di filosofia, uno dei tanti hegeliani di sinistra che allora –siamo all’incirca nel 1841 – circolavano per l’università di Berlino, capitale di una Prussia autocratica e in pieno clima di Restaurazione. Il nome di quello studente era Karl Marx. Tra lui ed Engels – rampollo di una famiglia di industriali tessili, arrivato nella capitale prussiana per il servizio militare – non si era ancora stabilito il celebre sodalizio di amicizia e di idee che sarebbe durato una vita. Eppure quelle parole dettate da un innocente esercizio d’ironia non si sarebbero rivelate del tutto fuori luogo. Una certa brama di rivoltare il mondo, un certo titanismo di derivazione romantica, quel giovane studente li avrebbe mantenuti anche negli anni a venire della sua esistenza.
Del resto, intere generazioni di lettori e studiosi marxisti hanno ritenuto di dover distinguere tra un Marx scienziato e un Marx politico: l’uno, autore di sobrie analisi economiche, meticoloso fino all’eccesso, ossessivo nella raccolta di fonti e documenti; l’altro, impetuoso e impaziente di passare ai fatti, frettoloso di vedere nella propria epoca i segni premonitori della nuova società post-borghese al punto da scorgere in ogni insurrezione l’inizio della rivoluzione proletaria. Il più delle volte, questa distinzione ha avuto la funzione di far giocare un Marx contro l’altro, con l’implicito presupposto che un pensiero possa farsi scienza solo a condizione di tener lontana ogni commistione con la politica. Non è il caso, questo, della nuova biografia su Marx – era da tanto che non se ne vedevano qui in Italia a differenza che in altri paesi – appena uscita in libreria a firma di Nicolao Merker, Karl Marx. Vita e opere (edizioni Laterza, pp. 268, euro 18). Di primo acchito si potrebbe restare sorpresi che a distanza di quasi centotrenta anni dalla morte (avvenuta l’11 gennaio 1883) ci sia ancora di che scrivere sulla vita di Marx. Dalla fine dell’Ottocento in poi il suo nome è circolato nei movimenti operai di ogni paese del mondo. Sindacati, partiti, interi Stati si sono appropriati a torto o a ragione di Marx, cercando nel suo pensiero una fonte di legittimazione. Una quantità indescrivibile di pubblicazioni si è accumulata nel tempo, gran parte delle quali però dedicate alla dottrina. «Molto minore fortuna – scrive Merker – ha avuto l’interesse per l’uomo. Le buone biografie di Karl si sono sempre contate sulle punte delle dita», mentre «i “teorici del marxismo” (o chi presumeva si esserlo, o comunque si occupava del Marx della “teoria”) erano moltitudine». Marx, questo sconosciuto, poteva dire lo storico Maximilien Rubel, quando ben altra era la circolazione del suo nome, a maggior ragione lo si può dire all’inizio del XXI secolo. «Oggi spesso, riguardo alle cose attendibili su di lui, Marx sembra diventato un parente dell’uomo di Neanderthal». Non che manchino lavori attendibili, Merker ne cita alcuni: ad esempio il Karl Marx. Storia della sua vita del 1918, a firma del socialdemocratico Franz Mehring, il primo ad essere «sganciato da limiti tattici di partito» e ad aver consultato documenti inediti, soprattutto il carteggio con Engels, seguito da Blumenberg, Nikolajevsky e Maenchen-Helfen, Rubel, Friedenthal, fino a Berlin e McLellan, tutti ormai diventati a modo loro dei “classici”.
Una biografia non è solo una collezione di fatti privati o una ricerca di aneddoti che ancora attendono d’essere raccontati da qualcuno. Né, peggio ancora, una “psicografia”, un viaggio senza capo né coda, senza metodo, nella psicologia e nel carattere dell’uomo Marx. Non è tutto il privato di Marx che conta, ma quelle vicende che nella sua biografia e nei suoi scritti spiccano come segni evidenziali. Che Marx abbia fatto un figlio con la domestica di casa o che sia stato eterno debitore di denaro all’amico Engels sono tratti casuali. Altri eventi della sua vita, invece, testimoniano di come le teorie marxiane nascano e si sviluppino come risposta originale alle grandi sollecitazioni culturali della sua epoca.
Fin dalle avventure giovanili all’università – prima a Bonn, poi a Berlino dove finirà a studiare filosofia contro la volontà paterna di fame un laureato in giurisprudenza – per proseguire nelle prime esperienze di giornalista politico alla Gazzetta Renana, sotto il segno di un democraticismo radicale, Merker restituisce l’immagine di un Marx assillato dall’idea di fare della filosofia una scienza rigorosa dei fatti, al punto da scrivere: «Desideriamo costruire esclusivamente su dati di fatto e ci sforziamo, per quanto è in noi, di sollevare solo i fatti a una significazione generale». Anche la resa dei conti con Hegel, della cui filosofia Marx è negli anni universitari un seguace, avviene in nome della ricerca di una scienza dei fatti che non andasse a discapito dei fatti medesimi. Di una scienza capace di leggere i fatti non attraverso interpretazioni costruite indipendentemente dai dati e, successivamente, a questi sovrapposte. «Marx rintracciò i difetti di Hegel partendo dal modo in cui il filosofo aveva mediato i fatti, ossia il molteplice concreto. Dall’incapacità hegeliana e idealistica in genere di spiegare i fatti, Marx concluse che le deduzioni speculative, mancano di funzionalità conoscitiva». La filosofia hegeliana aveva trattato l’uomo reale, i fenomeni della vita reale, la società e lo Stato come estrinsecazioni dell’Idea, come tappe di una narrazione logica: a prezzo, però, di dover “riempire” l’Idea, forma vuota, «con contenuti empirici senza però filtrarli attraverso un’adeguata analisi critica». Anche il Marx talvolta più attaccato dai suoi critici, quello autore nel 1846 – assieme a Engels – dell’Ideologia tedesca, un manoscritto che uscì in edizione postuma solo nel 1932, è a giudizio di Merker un Marx impegnato in una lotta senza quartiere contro le distorsioni ideologiche della realtà. Dove altri interpreti marxisti hanno visto all’opera un materialismo esasperato, un’esaltazione dell’homo faber e dell’attività materiale a discapito della teoria – liquidata a semplice riflesso capovolto della realtà – Merker descrive Marx ed Engels come due autori tutt’altro che inconsapevoli dell’importanza delle ideologie nella storia, tutt’altro che ignari della «complessità delle griglie attraverso cui la realtà giunge alla coscienza». C’è da tener presente che la ricerca di una conoscenza scientifica della realtà va di pari passo con la polemica contro quelle che a Marx ed Engels, nel panorama dei giovani hegeliani di sinistra appaiono fantasie individuali, fughe nell’individualismo anarchico se non recrudescenze irrazionalistiche. Del resto, il materialismo cui i due approdano, è ormai un congegno più raffinato di quel che si pensi. «La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva – scrive Marx nelle Tesi su Feuerbach – non è questione teoretica bensì una questione pratica», essendo nella prassi che «l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere del suo pensiero».
Non distorcere la realtà, non anteporre i propri desideri allo studio scientifico dei fatti, non limitarsi a denunce moralistiche diventa il leit motiv nella polemica di Marx contro i socialisti utopisti conosciuti nell’esilio in Francia, primo fra tutti Proudhon. Nonostante il fallimento delle rivoluzioni democratiche del 1848, nonostante i patimenti e la miseria che l’esule Marx conosce negli oltre due decenni di soggiorno a Londra, questo richiamo a una conoscenza scientifica e a un metodo rigoroso non verrà mai meno. È però, questo, il nodo sul quale si è innestata la leggenda di un Marx affetto da economicismo, che si concentra nello studio dell’economia capitalistica, disinteressandosi del tutto della politica e di ciò che accade al di fuori della fabbrica. Emerge, invece, un autore consapevole della differenza tra il momento puramente economico, di quando, ad esempio, si cerca di «costringere i singoli capitalisti in singole fabbriche o anche in singole officine tramite scioperi ecc. a concedere una diminuzione dell’orario di lavoro», e il movimento politico «per la conquista di una legge per le otto ore». Anche se più rarefatto rispetto allo “scienziato”, il Marx politico emerge in momenti cruciali, per esempio quando sotto la pressione degli eventi si accinge a riconoscere nella Comune di Parigi del 1871, nata da un’insurrezione, il primo esempio di governo della classe operaia. Così come non mancano gli accenni a una teoria dello Stato, per quanto frammentata in scritti di varia natura. Però è proprio nelle riflessioni politiche che emerge un dissidio interiore di Marx, per un verso incline da scienziato a parlare di strutture e tempi lunghi, per nulla disposto a lanciarsi da futurologo in ricette per la società futura; e dall’altra però disposto in certi passaggi epocali a scommettere sull’accelerazione della storia, come se la rivoluzione proletaria fosse dietro l’angolo, anche quando, come nel caso dei comunardi parigini, mancava del tutto una classe operaia capace di agire su scala nazionale. «In Marx l’utopia, in realtà, non stava in primo piano. Negli accenti utopici, quando c’erano, si esprimeva il desiderio che le teorie dell’emancipazione si avverassero in un futuro ancora visibile; e venivano quasi regolarmente bloccati non appena subentravano la analisi scientifiche».
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venerdì 6 agosto 2010

Carlo Lucarelli: La verità su Ventura


La verità su Ventura


Lasciamo stare i morti, ma qu
alche puntualizzazione forse va fatta comunque. Quasi tutti i giornali - compreso questo - nel dare la notizia della morte di Giovanni Ventura, uno dei protagonisti di alcuni dei cosiddetti “misteri italiani” a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, hanno riassunto la vicenda più o meno con le stesse parole: venne condannato e poi assolto per la strage di piazza Fontana a Milano e ritenuto responsabile per una serie di attentati. Negli articoli, poi, seguivano notizie più complete, ma sotto il titolo, più o meno, ho quasi sempre letto questo.
Assolto.
Ecco, non è che non sia vero, e non voglio neanche fare il maestrino pedante, ma c’è qualcosa di più. Giovanni Ventura è stato sì definitivamente assolto, nel 1987, assieme a Franco Freda, per la strage di Piazza Fontana. Ma la sentenza che ha chiuso più avanti, nel 2005, un altro filone del processo ha riconosciuto come sufficentemente provate le loro responsabilità nella strage. Solo che, essendo già stati assolti nell’altro processo non possono più essere processati per quel reato. Dire che Giovanni Ventura è stato assolto è un po’ come dire che è stato assolto Andreotti: è vero ma le cose sono un po’ più complesse. E infamanti.
Questo, ripeto, non per pedanteria o per particolare odio verso il fu signor Ventura, ma per ribattere che nei processi ai fattacci del nostro recente passato ci sono un sacco di fatti accertati, di dinamiche acclarate e di meccanismi rivelati che vanno oltre il semplice dispositivo della sentenza: assolto o condannato.
C’è un sacco di verità, in quei processi. Sintetizzarla nel breve spazio del riassunto sotto un titolo non è facile, è vero, ma non per questo possiamo trascurarla.


Carlo Lucarelli, l'Unità, 6 agosto 2010
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vedi anche:
il manifesto, Militant , Staffetta I e II

domenica 1 agosto 2010

Franco Bergoglio: jazz-filosofia [su "L'identità incompiuta"]


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Davide Sparti
L'identità incompiuta.
Paradossi dell'improvvisazione musicale
Il Mulino, 2010



Proseguendo un lavoro iniziato qualche anno addietro con Suoni inauditi L'improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana (2005) Davide Sparti, professore associato nella Facoltà di Lettere e filosofia dell'Università di Siena, torna a occuparsi di jazz coniugando i termini di questo affascinante mondo con le scienze sociali e la filosofia. Sparti aveva già affrontato alcuni nodi legati alla pratica dell'improvvisazione nel libro sopra citato e nel successivo Il corpo sonoro. Oralità e scrittura nel jazz (2007). Ora la cartina tornasole utilizzata per studiare l'improvvisazione è quella, fortemente innovativa in ambito jazz, dell'identità.
Spunto iniziale di questa analisi un paradosso sapientemente illustrato dallo scrittore Ralph Ellison, ripreso più volte nel corso del saggio: "Esiste (…) una contraddizione crudele implicita nella stessa forma artistica (il jazz): il jazzista deve perdere la sua identità anche mentre la trova". Il jazzista che improvvisa corre ben due rischi, ci avverte Sparti: in primo luogo quello di fallire, di non trovare l'originalità, ma esiste anche il pericolo di smarrirsi nel tentativo di esplorare territori incontaminati e di non trovare il filo conduttore per tornare a casa dopo il solo.
Sono considerazioni iniziali di un testo tutto da scoprire che sviscera questi "paradossi" dell'improvvisazione. Operazione non banale, poiché come ci segnala l'autore: "Chi pratica l'improvvisazione non ha necessariamente bisogno di elaborare un concetto di improvvisazione (perché dovrebbe, dato che tale impresa concettuale non garantisce un guadagno estetico?)". Se i musicisti possono permettersi una prassi senza una teoria (che non sia quella musicale in senso stretto, ovviamente) è altrettanto evidente che un discorso su questo tema presenta aspetti tanto fertili da interessare finalmente anche i filosofi, i sociologi, i semiologi e tutti coloro che a vario titolo si sentono attrezzati con i mezzi adatti a coniugare queste discipline al jazz.
Dopo questo denso preambolo il lavoro si dipana lungo i binari di una speculazione scientifica sul tema del identità personale condotto adottando riferimenti alti (Arendt, Pizzorno, Goffman) e facendoli interagire con esempi, prassi, affermazioni tratte dal mondo del jazz. Proprio da questo primo capitolo è tratta una deliziosa testimonianza di Miles Davis, quasi una programmatica dichiarazione d'intenti artistica: "Talvolta devi suonare a lungo prima di riuscire a suonare come te stesso".
Nel saggio sono tante le citazioni di jazzisti quali Joe Henderson, Max Roach, Charles Mingus e di molti altri, scelte con cura a illustrare - con esempi presi, per così dire, sul campo - quanto siano complessi i discorsi che si possono costruire attorno all'improvvisazione e le riflessioni che ne scaturiscono. Questo perché nell'improvvisazione si possono leggere spinte all'eccesso le tensioni che l'artista deve affrontare, stretto fra la spinta a trasformarsi per essere originale e la necessità di definirsi per essere riconoscibile al pubblico e forse anche a se stesso. Le figure che secondo l'autore meglio si prestano a suffragare questa analisi sono due: quella di John Coltrane, che riceve una attenzione particolare e la Arkestra di Sun Ra, paradigma dei problemi dell'identità relativi a un collettivo musicale (e insieme esistenziale) rimasto insieme per decenni sotto la guida di un leader carismatico.
Con il terzo capitolo, dedicato all'improvvisazione e al versante filosofico del tema che riguarda l'identità, il libro tocca davvero questioni nuove. I contributi intellettuali di Michel Foucault e Hannah Arendt sull'agire umano vengono messi in relazione all'improvvisazione jazzistica.
Particolarmente interessante è l'uso di Foucault. Un autore, come ha scritto Rudy M. Leonelli presentando gli atti di un convegno dedicato al rapporto Foucault-Marx, passato dall'ostracismo durato fino agli anni Ottanta all'odierna assimilazione culturale "senza traumi". Eppure, continua Leonelli, il tratto che possiamo individuare come distintivo della sua opera si situa nella sospensione, la rottura delle nostre evidenze, il turbamento e la trasformazione simultanea del modo in cui ci rapportiamo al "nostro" passato e a questo presente [1].
Uno dei concetti di Foucault che caratterizzano questa rottura delle evidenze di cui parla Leonelli viene utilizzata da Sparti per interpretare alcuni degli aspetti meno indagati del campo dell'improvvisazione e che pure ne costituiscono una specificità. Quale rapporto si viene a creare tra l'improvvisatore che durante il solo si mette in gioco, spesso in profondità, e la sua identità? Il sé per Foucault non rappresenterebbe un nucleo sepolto da liberare ma un materiale da trasformare con la pratica.
L'altro concetto, collegato, prende in considerazioni quelle procedure attività che l'uomo compie su stesso, sul proprio modo d'essere sulla propria condotta per migliorarsi, per raggiungere un certo stato di purezza, saggezza o felicità (tecnologie del sé). Molto opportunamente a questo proposito Sparti cita a più riprese l'esempio e le parole di Sonnny Rollins, maestro riconosciuto dell'improvvisazione. Nel corso di una performance prima fai le cose previste poi te ne dimentichi. Così per Sonny Rollins, con una affermazione che per Sparti riecheggia tesi riconducibili a Nietzsche e riportano, in ambito squisitamente jazzistico, all'iniziale affermazione di Ralph Ellison.
La collezione di tecniche adottate dagli improvvisatori per forzarsi all'originalità durante la loro attività quotidiana viene rappresentata da un congruo numero di citazioni che costituiscono un compendio di saggezza zen-jazz. Mi sono tolto di mezzo, dice Jim Hall, come ad intendere di fare un passo indietro e osservare l'assolo che si svolge quasi da sé. Altri musicisti teorizzano l'uso di strumenti diversi da quelli usuali per poter esprimere una voce diversa e non ristagnare nella memoria anche fisica e gestuale che si attiva quando si imbraccia il proprio. Il caso emblematico è OrnetteColeman che posa il sax per imbracciare la tromba (e il violino, aggiungo io) per ottenere effetti stranianti, ma anche innovativi e diversi da quelli considerati "normali". Forse la miglior formulazione teorica di questa disposizione d'animo verso l'improvvisazione l'ha pero concisamente fornita Sun Ra: suona le cose che non sai!
Sviscerati questi aspetti dell'estetica jazz in rapporto all'improvvisazione all'identità del musicista come singolo, il libro vira nuovamente verso gli aspetti sociali. La conclusione mette quindi in luce come la faticosa pratica dell'improvvisazione nel jazz sia un fenomenale dispositivo identitario, almeno per la comunità afroamericana. L'improvvisazione è, appunto, la ripetizione simbolica di un atto fondatore di una comunità che non rimanda ad un'origine ma è segnata dalla perdita comune, di cui si fa esperienza e che ritorna in forma esteticamente sublimata. Collegandosi in una visione quasi psicanalitica alla vicenda della diaspora degli schiavi neri, trascinati a forza dalle coste dell'Africa al nuovo mondo, sfruttando la potenzialità delle recenti teorie sull'importanza di un "Atlantico Nero", triplice luogo geografico, storico e simbolico, Sparti ci fornisce una chiave filosofica originale nel leggere questa musica. Verrebbe da dire, sfruttando titolo e leit-motifs del saggio, che nel jazz l'improvvisazione rappresenta questa identità perduta; identità che, proprio nella sua genetica incompiutezza, alla fine riesce a ritrovarsi.


Franco Bergoglio per Jazzitalia
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NOTE:
[1] Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, a cura di Rudy M. Leonelli, Roma, Bulzoni editore, 2010, p. 9. Di questa recente pubblicazione segnalo, tra gli interventi, oltre alla premessa citata e al saggio di Leonelli, una bella intervista al filosofo Étienne Balibar.
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martedì 20 luglio 2010

Humor nero: rimasticature fasciste e coloniali nelle notti bolognesi



«Pancetta nera» e «CocoCamerata».

Le notti di Carella a P.ta San Vitale

[da Staffetta]





Mentre via San Vitale è chiusa per i lavori del Civis, apre alla Porta il «ristorante» di Daniele Carella: cene «antidegrado» sul marciapiede per sdoganare la cultura di estrema destra con titoli ammiccanti quali «CocoCamerata» o «Pancetta nera». Quest’ultimo titolo sembra richiamarsi al fumetto d’epoca fascista Le avventure di Pancetta Nera, un ragazzino africano al seguito dell’esercito italico in Etiopia.

Svanito il sogno romano dell’Impero, perdute le baionette, si passa alle alacri forchette antidegrado. Il manipolo d’arditi elegge a desco il suolo stesso dell’amata Patria vilipesa. Armati sol di posate e bavagli littori, i coraggiosi affronteranno a morsi crescentine, coppa e salamino. Molti rutti, molto onore! Un mascarpone? Guai però a chiamarlo dessert. Solo felsinee parole salutino il ritorno dei biassanot. Caffè? Me ne frego!

«Ci è piaciuta l’idea di stare sul marciapiede a mangiare riappropriandoci della città e abbiamo deciso di continuare», spiega Mirko Cinti, ufficiale di Polizia giudiziaria di Castel Maggiore. «Siamo tutti persone di destra e non ci manca l’ironia – sottolinea Carella – ma il nostro intento è soltanto quello di occupare il territorio in modo positivo, con iniziative spartane, perché se ci siamo noi non vengono delinquenti, vandali e incivili».

Nella novella Sparta non manca l’ironia. Infatti l’ex consigliere comunale berlusconiano Carella dichiara serafico: «Un’iniziativa apartitica, nonostante sia partita da persone attive in politica». Speriamo solo che questa brava gente non voglia rinnovare a Bologna l’epica conquista di Addis Abeba.

mercoledì 14 luglio 2010

14 luglio: è... festa!



In un'epoca epoca in cui il revisionismo è divenuto normale, non sorprende che, nell'anniversario del 14 luglio 1789, importanti centri di potere si dedichino alla stigmatizzazione di un improbabile.... "clima giacobino".

In questo contesto, contro ogni revisionismo, salutiamo con entusiasmo un'iniziativa "minore" (in senso "deleuziano"): la festa dell'anniversario della presa della della Bastiglia che si svolge oggi a Bologna al Mercatino del libro di via Zampieri.


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G. W. F. Hegel: la sproporzionata ricchezza di alcuni cittadini

martedì 6 luglio 2010

Pierre Macherey : présentation de l’ouvrage d’Étienne Balibar “Violence et civilité”



Étienne Balibar – Violence et civilité
(éd. Galilée, 2010).

« Violence et Civilité » : cet intitulé est modelé selon une découpe dont le type peut être dit « moderne » - on n’en retrouverait aucun équivalent dans l’antiquité ou à l’époque classique –, dont l’un des premiers exemples, dans le domaine de la philosophie, serait peut-être fourni par le texte de Hegel « Foi et savoir » ; pour s’en tenir à ce domaine, on pourrait citer comme relevant de la même forme, entre autres, « Crainte et Tremblement » (Kierkegaard), « Humanisme et Terreur » (Merleau-Ponty), « Tyrannie et Sagesse » (Kojève), « Violence et Métaphysique » (Derrida), etc.. Ce genre de formulation consiste à associer deux notions par l’intermédiaire de la particule « et », qui invite à les confronter : on pourrait dire que ce « et » en constitue le terme clé, celui qui est le plus porteur d’enjeux, dont la signification reste à préciser. Il serait intéressant d’étudier, à partir d’une typologie de tels intitulés, les diverses fonctions que peut remplir « et » dans ce mode d’agencement. Dans le cas qui nous occupe, il semble clair que « et » remplit un double rôle de nouage et de disruption : violence et civilité ne peuvent être associées que sur la base de ce qui les oppose, donc les disjoint ; mais, en même temps, il apparaît que cette opposition recèle une nécessité qui rend le rapport des deux termes incontournable, ce qui oblige à les penser, non à part l’un de l’autre, mais ensemble, dans le cadre spéculatif installé par « et » qui incite à les relier. Nous partirons de l’hypothèse selon laquelle, dans l’intitulé « Violence et Civilité », « et » peut être interprété comme signifiant la relation entre question et réponse : « violence » serait l’énoncé de la question, et « civilité » serait l’énoncé de la réponse. Ce qui, puisqu’il s’agit d’un ouvrage relevant du domaine de la philosophie politique, suggère que, dans la perspective qui lui est propre telle qu’elle est annoncée dans son titre, la violence représente la question, précisons la question essentielle, principale, fondamentale, à laquelle la politique aurait à répondre ; et le propos de l’ouvrage serait de présenter la « civilité » comme réponse, du moins comme réponse possible, sinon la seule possible, à cette question. Ceci admis, nous pouvons fixer deux lignes d’interrogation à propos du contenu de l’ouvrage, qui vont permettre d’en guider la lecture : qu’est-ce qui conduit à considérer que la violence est la question politique par excellence ? et en quoi, la question de la politique étant ainsi posée, la civilité constitue-t-elle pour celle-ci une réponse acceptable ?

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mercoledì 23 giugno 2010

Giuseppe Panella: Accoppiamenti giudiziosi [su "Foucault-Marx]

Giuseppe Panella
Accoppiamenti giudiziosi
[da: Retroguardia 2.0]
 
Aa. Vv. Foucault-Marx. Paralleli e paradossi,
a cura di Rudy M. Leonelli, Roma, Bulzoni, 2010

Non è ancora possibile stabilire oggi che cosa sopravviverà dell’opera di Michel Foucault. Sono ormai trascorsi fortunatamente i tempi delle sterili polemiche sul valore oggettivo della sua opera. Non è più neppure l’epoca in cui venivano apprezzati, anche in Italia, saggi francamente inutili nel loro desiderio di sottoporre il pensiero del filosofo francese a una critica tanto serrata quanto inutilizzabile (penso, ad esempio, a un libro “sbagliato”, anche se bene informato e ben articolato, come quello di José Guilherme Merquior, Foucault, trad. it. di S. Maddaloni, Roma-Bari, Laterza, 1988). La ricostruzione filologica dei suoi scritti e delle sue posizioni teoriche è ormai in via di completamento. Ma fin d’ora si può ragionevolmente sostenere che il nodo costituito dai rapporti di filiazione teorica tra Marx e Foucault sarà sicuramente occasione di un dibattito fervoroso e intenso non soltanto a livello di escussione erudita dei testi. Questa raccolta di saggi dedicata ai paralleli e ai paradossi presenti nel nodo problematico Foucault-Marx apre a una nuova e fruttuosa dimensione della riflessione in questo ambito. Frutto di un convegno tenutosi presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna il 24 novembre 2005, il libro va sicuramente al di là di una pura pubblicazione (doverosa certo ma polverosa nei risultati) degli atti di un incontro accademico.