Giuseppe Panella
Accoppiamenti giudiziosi
Aa. Vv. Foucault-Marx. Paralleli e paradossi,
a cura di Rudy M. Leonelli, Roma, Bulzoni, 2010
a cura di Rudy M. Leonelli, Roma, Bulzoni, 2010
Non è ancora possibile stabilire oggi che cosa sopravviverà dell’opera di Michel Foucault. Sono ormai trascorsi fortunatamente i tempi delle sterili polemiche sul valore oggettivo della sua opera. Non è più neppure l’epoca in cui venivano apprezzati, anche in Italia, saggi francamente inutili nel loro desiderio di sottoporre il pensiero del filosofo francese a una critica tanto serrata quanto inutilizzabile (penso, ad esempio, a un libro “sbagliato”, anche se bene informato e ben articolato, come quello di José Guilherme Merquior, Foucault, trad. it. di S. Maddaloni, Roma-Bari, Laterza, 1988). La ricostruzione filologica dei suoi scritti e delle sue posizioni teoriche è ormai in via di completamento. Ma fin d’ora si può ragionevolmente sostenere che il nodo costituito dai rapporti di filiazione teorica tra Marx e Foucault sarà sicuramente occasione di un dibattito fervoroso e intenso non soltanto a livello di escussione erudita dei testi. Questa raccolta di saggi dedicata ai paralleli e ai paradossi presenti nel nodo problematico Foucault-Marx apre a una nuova e fruttuosa dimensione della riflessione in questo ambito. Frutto di un convegno tenutosi presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna il 24 novembre 2005, il libro va sicuramente al di là di una pura pubblicazione (doverosa certo ma polverosa nei risultati) degli atti di un incontro accademico.
Il passaggio, infatti, è nodale nell’esplorazione della nascita e dello sviluppo del pensiero di Michel Foucault. Come sostiene Alberto Burgio nel suo saggio (La passione per la critica, pp. 23-41):
«Per cominciare è bene fare un passo indietro, considerare il modo in cui la società viene concepita come sistema entro il quale il potere esercita le proprie funzioni, anzi si dà in quanto funzione. Già a questo riguardo è possibile rilevare una significativa presenza di elementi marxiani nella prospettiva di Foucault. Nel ’73 Foucault tiene al Collège de France un corso che si colloca nel lavoro di preparazione di Surveiller et Punir (1975), senz’altro uno dei testi chiave della sua indagine sul potere. Come ha notato recentemente Stéphane Legrand (“Le marxisme oublié de Foucault”, in “Actuel Marx”, 36, 2004 / 2, pp. 27-43), questo corso (La société punitive) contiene innumerevoli e rilevanti elementi (lemmi, sintagmi e soprattutto dispositivi analitici) di matrice francamente marxiana. La tesi di questo appunto preparatorio (résumé del primo corso tenuto al Collège de France) è, in estrema sintesi, la seguente: tra il 1760 e il 1840 la penalità (sistema, istituzioni e concetti) viene rivoluzionata; l’esito di questo profondo mutamento è una inedita centralità del carcere, che sino a quel momento non ha svolto un ruolo importante; in capo a questo mutamento la prigione diviene “forma generale delle penalità”. Perché si compie questo passaggio, che si presenta a prima vista come “enigmatico”? La risposta di Foucault chiama in causa le nuove esigenze del sistema produttivo, a sua volta confrontato con la transizione verso il capitalismo, la manifattura e il macchinismo: chiama in causa cioè le nuove forme dell’accumulazione. Il macchinismo e la produzione industriale rendono le ricchezze più vulnerabili alla collera sociale; contemporaneamente, le durissime condizioni di lavoro (orari, salari, dequalificazione) impongono di legare fisicamente l’operaio alla macchina » (pp. 24-25).
Si tratta, dunque, di un rapporto (quello con Marx) presente fin dall’inizio nella ricerca foucaultiana sulle forme e le modificazioni del Potere. Eppure c’è stato chi, fin da subito a partire proprio da quelle lezioni degli anni Settanta, ha potuto parlare di un Foucault contrapposto a Marx, di un Foucault che poteva servire a smantellare o a superare i dispositivi del pensiero del pensatore tedesco. Come rileva acutamente Étienne Balibar nella sua intervista dedicata a Foucault-Marx, paralleli e paradossi, a cura di David Zerbib e apparsa su “L’Humanité” del 16 dicembre 2004 (qui tradotta da Rudy M. Leonelli alle pp. 13-21), si tratta di un tema, quello del supposto (e smentibile) anti-marxismo di Foucault, le cui ragioni costituiscono un interrogativo non solo teorico ma politicamente importante cui rispondere:
«Io non rifiuto di discutere del confronto Marx-Foucault, o Foucault-Marx nei suoi aspetti allo stesso tempo intrinseci, dal lato dell’interpretazione dei testi, ma anche congiunturali e ideologici. Ma, nella congiuntura del dibattito di idee, per molti aspetti, questo mi sembra riduttivo. Al tempo stesso per Foucault e per Marx. Direi altrettanto per quelli che, ancora oggi – e bisognerebbe interrogarsi sulla ragione per cui ne hanno talmente bisogno – continuano a battere il chiodo spiegando come, con Foucault, sarebbe stato definitivamente trovato l’antidoto al marxismo, tanto più efficace e convincente, in quanto non si tratta di un pensiero conservatore, ma di un’opera essa stessa potentemente critica, il che permette di schivare in anticipo ogni forma di sospetto e di accusa, e implica il vantaggio di mettere in evidenza gli aspetti conservatori, tradizionalisti o autoritari del marxismo e della politica che si è richiamata ad esso. Io stesso ho contribuito in varie occasioni a questo dibattito. Ma nella prefazione de La paura delle masse, ritorno sul parallelo Marx-Foucault facendone due rappresentanti – per molti aspetti opposti, ma anche necessariamente molto vicini e apparentati – di quel che chiamavo la politica della trasformazione, nel senso di trasformazione sociale, di una politica della trasformazione delle strutture di potere e di dominazione» (pp. 13-14).
L’approccio di Balibar (e di una parte dei pensatori francesi di sinistra), dunque, tende ad evitare la contrapposizione tra Marx e Foucault in nome di una convergenza sull’identico fronte della necessità della trasformazione sociale. Di conseguenza, come ammonisce Stefano Catucci, “bisogna essere giusti con Marx” (utilizzando una formidabile espressione cara a Foucault che l’aveva applicata a Freud in Storia della follia nell’età classica). Rifacendosi a un dialogo del 1978 con l’intellettuale giapponese Mika Yoshimoto, Catucci (in un saggio assai significativo dal titolo Essere giusti con Marx – pp. 43-59) tiene a specificare come il Marx più amato dal pensatore francese sia quello degli scritti storici (in ciò compie, dunque, un percorso parallelo a quello di Walter Benjamin) e, per questo motivo, il suo interesse va nella direzione dello studioso delle condizioni materiali del lavoro e della vita piuttosto dell’economista teorico:
«Per un verso, l’intera impresa della genealogia del potere viene vista da Foucault “all’interno di un orizzonte generale definito da Marx”, anche se “questo non è lo spazio della comunistologia, definito dai partiti comunisti”. Per un altro, viene specificato quale sia il Marx che Foucault predilige: il Marx filosofo dell’attualità più che il profeta di rivoluzioni a venire, lo storico che descrive le condizioni concrete del lavoro e della produzione più che il teorico delle funzioni astratte del capitale, lo studioso che analizza i mutamenti dei meccanismi disciplinari dell’esercito più che il fondatore di un movimento politico. E’ il Marx del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte e della II Parte del Libro I del Capitale, nel quale l’immagine di un potere compatto, monolitico, lascia il posto alla descrizione di una molteplicità di forme di dominio e di assoggettamento, dunque a una varietà di poteri non riconducibili a un’unica specie, non comprensibili alla luce di un’unica categoria. Occorre perciò distinguere Marx da Marx, se si vuole comprendere il rapporto che Foucault ha avuto con lui, e soprattutto separarlo dai marxismi» (p. 47).
Questo è certamente vero ed è accettabile in linea di massima. Ma il rischio di separare “ciò che è vivo da ciò che è morto” nel pensiero di Marx e dello stesso Foucault peraltro (anche se paventato dall’autore nel seguito del suo scritto), è pur sempre incombente. Il rischio è quello di dire che c’è un Marx “importante” o “più interessante” rispetto ad un Marx meno utilizzabile in chiave di ricerca storico-politica. Foucault non si è mai avviato su questa strada; semmai ha fatto il contrario: può essere arrivato a negare il marxismo così com’è diventato ma non anatomizzare i testi marxiani in cerca di quelli più “accettabili”. In un articolo per Le Nouvel Observateur intitolato La grande collera dei fatti (e pubblicato nel numero del 9-15 maggio del 1977), il pensatore francese scrive:
«Contro Stalin, non ascoltate le vittime, esse non avrebbero che le loro torture da raccontare. Rileggete i teorici: vi diranno la verità assoluta. Da Stalin, i sapienti risalivano spaventati a Marx. Glucksmann ha avuto l’impudenza di ridiscendere fino a Solgenitsin. Scandalo della “cuoca” (1). Ma lo scandalo, che non fu molto perdonato, non era di far portare a Lenin o a qualche altro santo personaggio il peso degli errori futuri, era dimostrare che non c’era “errore”, che si era rimasti nel segno; che lo stalinismo era la verità, un “poco” spogliata, è vero, di tutto un discorso politico che fu quello di Marx e forse di altri prima di lui. Con il Gulag si vedevano non le conseguenze di un malaugurato errore ma gli effetti delle teorie più “vere” nell’ordine della politica. Quelli che cercavano di salvarsi opponendo la vera barba di Marx al falso naso di Stalin non apprezzavano affatto tutto ciò» (2).
Se ne deduce che Foucault non vuole avere nulla a che pensare con il marxismo perché è da esso che è venuto fuori Stalin nel momento in cui Marx è stato trasformato, reificandolo, nella sua dottrina universale. Ma Marx non è il (o i) marxismo/i; è un pensatore la cui opera va utilizzata in toto, come un grimaldello per aprire la porta del presente. Per ovviare al rischio di leggere Marx come il pensatore del marxismo ufficiale, le ricerche di Manlio Iofrida (Marxismo e comunismo in Francia negli anni ‘50. Qualche appunto sul primo Foucault – pp. 93-112) e quelle di Guglielmo Forni Rosa (Note sul rapporto Foucault-Marx. A proposito di “Bisogna difendere la società” – pp. 61-71) concordano su un punto: occorre storicizzare certe prese di posizione di Foucault, leggerle non tanto in chiave critica ma come risposta a una precisa situazione storica.
Afferma Iofrida, ad esempio, in un saggio molto ricco di implicazioni per un lavoro futuro da sviluppare intorno a questo complesso periodo storico non ancora completamente chiarito dalla storiografia relativa (come pure quello immediatamente precedente di Vichy e del maquis):
«La posizione del giovane Foucault (ma anche quella del Foucault successivo, che rimarrà segnato da questa sua formazione) non può essere compresa se non la si inserisce nel contesto storico dell’esistenzialismo post-Liberazione: il significato di quest’ultimo, in nesso all’engagement, al rapporto stretto di cultura e democrazia che esso proponeva, era stato quello di far uscire la cultura dalle accademie, di coinvolgere attivamente in essa innanzitutto il complesso delle classi colte, poi, tendenzialmente, tutte le classi» (p. 105).
La passione del giovane normalien per l’opera trasgressiva di Georges Bataille, l’amicizia con Pierre Klossowski (che gli dedicherà il suo romanzo maledetto Le Baphomet), l’ammirazione per la scrittura di Maurice Blanchot, la volontà di confrontarsi con la psicoanalisi fenomenologia di Ludwig Binswanger sono tutti momenti in cui Marx fa capolino non tanto come modello ma come maestro non sovrapponibile alle esperienze che Foucault va consumando per raggiungere l’equilibrio della sua formazione compiuta. Guglielmo Forni Rosa, invece, ritrova nella polemica contro uno dei bastioni dell’hegelo-marxismo degli anni Cinquanta-Sessanta, Storia e coscienza di classe di György Lukács, che, pur essendo uscito nel 1923, era ritornato in circolazione come testo-chiave della sinistra occidentale, uno dei punti di forza del rapporto di Foucault con Marx:
«Riferendosi poi con qualche ironia all’opera di Lukács, in particolare a Storia e coscienza di classe (che tuttavia non viene affatto nominata), Foucault ricorda il “luogo comune” (perché effettivamente era divenuto tale nella vulgata marxista) secondo cui solo le classi in ascesa (la borghesia e, successivamente, il proletariato) sarebbero portatrici della universalità e della razionalità, mentre le classi in decadenza (la nobiltà e, successivamente, la borghesia) eviterebbero una comprensione obiettiva dei rapporti sociali, cioè la verità, poiché nella storia dovrebbero leggere soltanto il loro tramonto. Questi pensieri erano presenti dappertutto nell’opera lukácsiana del ’23; ne formavano per così dire l’ossatura, la base fondamentale, e manifestavano certamente, oltre che il marxismo, l’hegelismo di Lukács (l’universale s’incarna, in ogni momento della storia, in un soggetto concreto, determinato)» (p. 65).
La discontinuità cara a Foucault (che la mediava attraverso le contemporanee lezioni di Georges Canguilhem e di Louis Althusser) si rivela impossibile in un contesto del genere. Ma il suo tirare fuori dall’armadio lo scheletro (filosofico) di Lukács implica per l’appunto la sua considerazione “diversa” del progetto rappresentato dal pensiero marxiano. La riflessione di Marco Enrico Giacomelli, invece, tutta legata alle vicende dell’operaismo italiano (Ascendenze e discendenze foucaultiane in Italia. Dall’operaismo italiano al futuro – pp. 73-92) rileva importanti convergenze tra le analisi sul Potere effettuate da Michel Foucault e quelle relative all’uso dell’inchiesta operaia di derivazione Panzieri-Tronti all’epoca dell’impresa intellettuale e politica di “Quaderni Rossi” e di “Classe Operaia”:
«E’ ormai chiaro come il superficiale leninismo dell’”assalto al Palazzo d’Inverno” fosse, oltre che difficilmente realizzabile – e porterà all’innalzamento del livello dello scontro, con le drammatiche vicende della lotta armata –, sostanzialmente inutile, poiché quel palazzo si sarebbe rivelato semi-deserto. I luoghi del potere sono invece dispersi sul territorio, presenti con forza discreta nei luoghi della mediazione sociale. Foucault invita a concentrarsi sui centri reali del potere, dove questo si esercita nel quotidiano, in un movimento di “sempre maggiore approssimazione al soggetto”. Nella stessa ottica, questa prospettiva permette di scorgere germinali eterotopie, luoghi dove nascono “coscienze” che hanno subito sul corpo l’iscrizione dei fatti» (p. 80).
Tra un Foucault “militante” dunque e uno che analizza i luoghi del Potere che contesta in maniera radicale, si inserisce il “lettore” di Marx.
“Io cito Marx senza dirlo, senza mettere le virgolette, e poiché la gente non è capace di riconoscere i testi di Marx, passo per colui che non lo cita. Un fisico, quando lavora in fisica, prova forse il bisogno di citare Newton o Einstein? Li usa, ma non ha bisogno di virgolette, di note a piè di pagina o di un’approvazione elogiativa che provi fino a che punto è fedele al pensiero del Maestro. E poiché gli altri fisici sanno quel che ha fatto Einstein, quel che ha inventato, dimostrato, lo riconoscono subito. E’ impossibile fare storia oggi senza usare una sequela di concetti legati direttamente o indirettamente al pensiero di Marx e senza porsi in un orizzonte che è stato descritto e definito da Marx. Al limite, ci si potrebbe chiedere che differenza ci sia tra essere storico e essere marxista” – è l’epigrafe (tratta da una famosa intervista contenuta in Microfisica del potere) del saggio di Rudy M. Leonelli (L’arma del sapere. Storia e potere tra Foucault e Marx – pp. 113-139).
In esso, i nodi di un rapporto apparentemente sepolto vengono al pettine e le ascendenze marxiane di molti dei testi apparentemente critici in senso negativo nei suoi confronti rintracciabili nell’opera del filosofo francese acquistano una prospettiva nuova, riconducibile non tanto a una dimensione di recupero o di raccordo quanto di genealogia della genealogia.
Nel corso del 1976 intitolato Bisogna difendere la società, uno dei suoi primi dedicati alla sua nuova indagine sulla dimensione del Potere, Foucault si era rifatto a più riprese al pensiero di Marx:
«Nel campo dell’analisi storica Marx ha operato una rottura irreversibile, Foucault procede alla sua riattivazione: “Far funzionare Marx come un “autore” (3), localizzabile in una miniera discorsiva unica e suscettibile di un’analisi in termini d’originalità o di coerenza interna, è sempre possibile. Dopo tutto, si ha pure il diritto di “accademicizzare” Marx; ma è misconoscere la rottura [éclatement] che ha prodotto”. Ne consegue che la possibilità di non misconoscere la rottura (ri) attivata da Foucault può schiudersi a una lettura che cerchi di adottare lo stesso criterio. Come e su che cosa opera questa riattivazione di Marx che Foucault invita a non confondere con l’eclettismo, l’indigenza teorica o un ingenuo empirismo?» (p. 125).
E’ nella rinnovata “rottura epistemologica” costituita da Marx, dunque, che risiede la densità di una lettura che non va contro il filosofo tedesco ma si spinge a rinvigorirne l’attualità dirompente. Leonelli ricostruisce in maniera esemplare questo snodo e impedisce che il marxismo inteso come corpus dottrinario fine a se stesso si impoverisca e si schiacci sulle glosse di se stesso a se stesso.
L’interesse costituito da questo volume è, dunque, duplice. Da un lato confuta una leggenda fin troppo facilmente avallata anche da parte foucaultiana, dall’altra cerca di trovare degli spunti e degli stimoli per portare avanti in maniera originale e non dottrinaria la ricerca sulla nascita del Moderno inteso come luogo germinale delle vicissitudini del presente. Si tratta di un compito improbo e non facile ma certamente meritorio, degno di essere apprezzato e considerato come originale, non più copia conforme di una vulgata ormai appassita.
______
NOTE:
(1) Allusione al libro di André Glucksmann, La cuoca e il mangiauomini. Sui rapporti tra stato, marxismo e campi di concentramento, trad. it. di S. Contri, Milano, L’Erba Voglio Edizioni, 1977. L’allusione è a una celebre dichiarazione di Lenin per il quale la macchina statuale durante la fase del socialismo dovrebbe essere così semplificata in modo che anche una cuoca potrebbe avervi funzioni di governo (“lo Stato democratico è quello in cui anche una cuoca può governare”).
(2) La citazione è contenuta nel volume collettivo I nuovi filosofi, a cura di M. D’Eramo, introduzione di W. Pedullà, trad. it. di S. Giovanardi, P. Poni e G. Spadoni, Cosenza, Lerici, 1978, p. 52. Collocare Foucault tra i nouveausx philosophes, che sembrava un vizio invalso nella sinistra italiana di quegli anni (cfr. ad esempio F. RELLA, Il mito dell’altro, Lacan Deleuze Foucault, Milano, Feltrinelli, 1978), non è stata più ripresa, per fortuna, come pratica ideologica.
(3) Compito che gli era già stato assegnato nella conferenza Che cos’è un autore? Tenuta nel 1969 davanti alla Société Française de Philosophie .
.
Nessun commento:
Posta un commento