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martedì 22 novembre 2011

E. Balibar - Union européenne : la révolution par en haut ?

 Étienne  Balibar

Union européenne : la révolution par en haut ?

Liberation 21/11/11

Que s’est-il donc passé en Europe entre la chute des gouvernements grec et italien et le désastre de la gauche espagnole aux élections de ce dimanche ? Une péripétie dans la petite histoire des remaniements politiques qui s’épuisent à courir derrière la crise financière ? Ou bien le franchissement d’un seuil dans le développement même de cette crise, produisant de l’irréversible au niveau des institutions et de leur mode de légitimation ? Malgré les inconnues, il faut prendre le risque d’un bilan.

Les péripéties électorales (comme celle qui se produira peut-être en France dans six mois) n’appellent pas de grands commentaires. On a compris que les électeurs tiennent les gouvernements pour responsables de l’insécurité croissante dans laquelle vit aujourd’hui la majorité des citoyens de nos pays et ne se font pas trop d’illusions sur leurs successeurs (même s’il faut moduler : après Berlusconi, on peut comprendre que Monti, pour l’instant, batte tous les records de popularité). La question la plus sérieuse concerne le tournant institutionnel. La conjonction des démissions sous la pression des marchés qui font monter et descendre les taux d’emprunt, de l’affirmation d’un «directoire» franco-allemand au sein de l’UE, et d’une intronisation de «techniciens» liés à la finance internationale, conseillés ou surveillés par le FMI, ne peut manquer de provoquer débats, émotions, inquiétudes, justifications.

L’un des thèmes les plus fréquents est celui de la «dictature commissariale» qui suspend la démocratie en vue d’en recréer la possibilité - notion définie par Bodin aux aurores de l’Etat moderne et plus tard théorisée par Carl Schmitt. Les «commissaires» aujourd’hui ne peuvent être des militaires ou des juristes, il faut des économistes. C’est ce qu’écrit l’éditorialiste du Figaro le 15 novembre : «Le périmètre et la durée du mandat [de MM. Monti et Papademos] doivent être suffisamment étendus pour permettre l’efficacité. Mais ils doivent, l’un comme l’autre, être limités afin d’assurer, dans les meilleures conditions, le retour à la légitimité démocratique. Il ne faut pas que l’on puisse dire que l’Europe ne se fait que sur le dos des peuples.»

A cette référence, j’en préfère néanmoins une autre : celle d’une «révolution par en haut» que, sous le fouet de la nécessité (l’effondrement annoncé de la monnaie unique), tenteraient les dirigeants des nations dominantes et la «technostructure» de Bruxelles et de Francfort. On sait que cette notion, inventée par Bismarck, désigne un changement de structure de la «constitution matérielle», donc des équilibres de pouvoir entre la société et l’Etat, l’économique et le politique, résultant d’une «stratégie préventive» de la part des classes dirigeantes. N’est-ce pas ce qui est en train de se passer avec la neutralisation de la démocratie parlementaire, l’institutionnalisation des contrôles budgétaires et de la fiscalité par l’UE, la sacralisation des intérêts bancaires au nom de l’orthodoxie néolibérale ? Sans doute ces transformations sont en germe depuis longtemps, mais elles n’avaient jamais été revendiquées au titre d’une nouvelle configuration du pouvoir politique. Wolfgang Schäuble n’a donc pas eu tort de présenter comme une «vraie révolution» à venir l’élection du président du Conseil européen au suffrage universel, qui conférerait au nouvel édifice son halo démocratique. Sauf que la révolution est en cours, ou du moins elle est esquissée.

venerdì 11 novembre 2011

Sandro Mezzadra, sul rapporto Foucault - Marx [da: Materiali foucaultiani]

A proposito del problema cruciale del rapporto tra Foucault e Marx - per noi di importanza "stategica" - riproduciamo un brano del contributo di Sandro Mezzadra, tratto dal Forum "Michel Foucault e le resistenze" curato da Daniele Lorenzini per Materiali foucaultiani.

*     *     *

« un ...  rapporto che sarebbe importante tornare a studiare è quello tra Foucault e Karl Marx: un rapporto che credo sia interessante interrogare anche dal punto di vista della categoria di “biopolitica”.
In effetti, mi ha colpito molto rileggere, di recente, la conferenza di Bahia su Les mailles du pouvoir, nella quale Foucault fa riferimento al primo (e non al secondo, come dice!) libro del Capitale [*]: al processo di disciplinamento del lavoro all’interno della cooperazione di fabbrica, dove agisce un potere, anzi una serie di poteri, che sono chiaramente diversi dal potere politico, e che Marx definisce attraverso una categoria piuttosto rilevante, quella di “Kommando” (un termine inusuale, di applicazione esclusivamente militare). Mi pare valga la pena lavorare su questa categoria di Kommando, in Marx, che sarei portato a leggere proprio dal punto di vista (indicato da Foucault) dell’eterogeneità dei dispositivi e dei modi di potere come elemento costitutivo della storia moderna del potere – una storia che non è descrivibile come una transizione lineare dalla sovranità alla disciplina, e poi dalla disciplina al controllo, ma che (come ci mostrano molti degli studiosi che hanno provato ad applicare le categorie foucaultiane ad ambiti coloniali [**]) è invece caratterizzata dalla sovrapposizione e dall’articolazione tra diversi regimi, modalità, dispositivi, tecnologie di potere. E il riferimento di Foucault a Marx, in quella conferenza, è così rilevante perché è anche una delle prime circostanze in cui Foucault usa il termine “biopolitica”: a mio avviso, allora, sarebbe interessante interrogare, attraverso e oltre Foucault, il rapporto tra quello che il filosofo francese chiama “disciplina” (e Marx “Kommando”: credo infatti che le due categorie vadano contaminate, perché l’una ci mostra i limiti dell’altra) e la biopolitica. Perché, in quel testo, Foucault definisce la biopolitica come una politica che si applica, innanzitutto, al di fuori del luogo eminente di applicazione della disciplina (la fabbrica), e inoltre su una dimensione non individuale (la popolazione).
Quello su cui sto un po’ ragionando è la possibilità di leggere questo rapporto dal punto di vista dell’analisi marxiana della forza lavoro, che ci consegna precisamente il problema del rapporto tra dimensione individuale e dimensione collettiva, dimensione singolare e dimensione comune: come si governa la dimensione collettiva, la dimensione comune della forza lavoro, soprattutto quando il lavoro esce dalle mura della fabbrica? La biopolitica, a un certo punto, deve essere sembrata a Foucault un concetto che consentiva di affrontare (anche) questo problema. »
______
NOTE:
[*] Cfr. M. Foucault, Les mailles du pouvoir, in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, pp. 1001-1020. L’“equivoco” su cui si basa il riferimento al secondo libro del Capitale nel testo della conferenza è ben chiarito da R.M. Leonelli, L’arma del sapere. Storia e potere tra Foucault e Marx, in Id. (a cura di), Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, Bulzoni, Roma 2010, pp. 113-142 (in specie pp. 124-127).

[**]
Cfr. ad esempio A.L. Stoler, Race and the Education of Desire: Foucault’s History of Sexuality and the Colonial Order of Things, Duke University Press, Durham–London 1995.

lunedì 10 ottobre 2011

G. Carotenuto su Steve Jobs & Apple: Oltre lo schermo del marketing funerario


Gennaro Carotenuto
Cinque cose fuori dai denti su Steve Jobs e la Apple

I lutti non sono il momento adatto per le puntigliosità ma per la celebrazione del caro estinto. Tuttavia la morte di Jobs si è trasformata nell’ennesimo evento globale. Così il segno encomiastico rischia di impedire una valutazione equanime, sul personaggio, sull’impresa a maggior capitalizzazione al mondo e su un’epopea dove non tutto luccica. Siamo di fronte ad un’operazione di marketing funerario sulla quale è bene riflettere brevemente.

1) Le invenzioni di Steve Jobs, spesso un passo avanti a tutti e a volte dei veri capolavori soprattutto dal punto di vista estetico, sono sempre stati dei prodotti di fascia alta per consumatori in grado di spendere (o svenarsi). Al dunque quel costo di un 20% in più rispetto ad un Sony Vaio o 30% in più rispetto ad un Toshiba Satellite, il surplus che ti garantisce lo status symbol per fare quasi sempre le stesse cose, te lo devi poter permettere.


2) I prodotti simbolo degli ultimi dieci anni, ipod, iphone, ipad, sono stati presentati come una rivoluzione universale. Nonostante le centinaia di milioni di pezzi venduti (e quindi un indiscutibile successo di marketing) la vera innovazione, quella che cambia davvero il mondo, non è quella per chi se la può permettere ma quella per tutti. Tra il notebook da 35$ annunciato dal governo indiano (il prossimo Steve Jobs verrà da lì) e il più fico degli ipad c’è la stessa relazione che c’è tra il vaccino anti-polio e un brevetto contro la caduta dei capelli.

domenica 11 settembre 2011

Como una ola de fuerza y luz. A un rivoluzionario cileno

Nel settembre 1971 “mi giunse dal Cile la notizia della morte accidentale di Lusiano Cruz, giovane dirigente del M.I.R (movimento di sinistra rivoluzionaria)… L’avevo conosciuto a Santiago in giugno dello stesso anno, di forte intelligenza: ne era sorta una amicizia solidale. La sua presenza-assenza mi determinò nella scelta della struttura sonora, del suo perché. Ampliai il primo progetto con l’inserimento della voce (soprano) su alcuni versi scelti da un poema del poeta argentino Julio Huasi… poema per Lusiano Cruz …

Luigi Nono

 Como una ola de fuerza y luz
Come un'onda di forza e di luce







Luciano!
  Luciano!
    Luciano!

nei venti avventurosi
di questa terra
continuerai
a gettare luce di fiamma
giovane come la rivoluzione
in ogni lotta del tuo popolo
sempre vivo
e vicino
come il dolore per la tua morte

come una – Luciano! – onda
di forza
giovane come la rivoluzione
sempre vivo
e continuerai a gettare luce di fiamma
luce
per vivere

voci di bambini
si uniscono
a dolci campane
per
la tua giovinezza.

giovedì 30 giugno 2011

Andrea Angelini: Foucault-Marx: una fedele trasgressione


 

Andrea Angelini

Foucault-Marx: una fedele trasgressione 

 Recensione :          
Rudy M. Leonelli (a cura di)
Foucault-Marx. Paralleli e paradossi,
Bulzoni Editore, Roma 2010


L’ossimoro del titolo sta ad indicare la difficoltà di tracciare in modo univoco e lineare le caratteristiche del rapporto tra Foucault e Marx, il modo singolare in cui prossimità e distanza si intrecciano nella loro produzione intellettuale. Ciò rende molto arduo il tentativo di definire la posizione del primo verso il secondo: continuità, rottura, fedeltà, rifiuto; sono aspetti che si sovrappongono agli occhi del lettore. Per questo motivo affrontare il parallelo tra i due grandi autori richiede cautela, la messa da parte di facili schematismi e pregiudizi, e la pazienza di confrontarsi con una impegnativa massa di scritti, sia pubblicati che d’occasione, eterogenei, alcuni a un primo sguardo contraddittori, comunque difficili da legare in un insieme coerente e unitario.

Si riscontra in modo diffuso l’ostilità verso la scolastica di partito che ha preteso monopolizzare la lettura di Marx e stabilirne la legittima e corretta applicazione, e dunque l’esigenza, da parte di Foucault, di non accorpare immediatamente Marx, marxismo e socialismo storico: «Lo stalinismo e il leninismo inorridirebbero Marx»[1]. Ma per altro verso più d’una volta Foucault esprime diffidenza verso la teoria che vorrebbe Marx o Lenin totalmente estranei alle storture, ai fraintendimenti o tradimenti che avrebbero subito nel corso del movimento storico-politico che a essi si richiamava:

[…] rifiutare di interrogare il Gulag a partire dai testi di Marx o di Lenin, domandandosi per quale errore, deviazione, mistificazione, distorsione speculativa o pratica, la teoria è potuta essere tradita a tal punto. Al contrario, interrogare tutti questi discorsi, per quanto siano datati, a partire dalla realtà del Gulag. Invece di cercare in questi testi ciò che potrebbe condannare a priori il Gulag, si tratta di chiedersi ciò che in essi l’ha permesso, che continua a giustificarlo, ciò che permette oggi di accettarne sempre l’intollerabile verità.[2]
 
Foucault fa queste affermazioni negli anni in cui in Urss si va sempre più consolidando il potere del maresciallo Brežnev, il regime della Ddr vanta il più efficiente e capillare corpo di polizia della storia, e si va facendo sempre più forte l’insofferenza del popolo polacco; cioè quando, nonostante lo strappo libertario del ’68 avesse già scosso l’Europa, vanno ancora perpetuandosi i prodotti dello stalinismo. Su di esso Foucault si sofferma continuamente negli anni ’70, manifestando quanto indispensabile gli fosse comprendere quali interrogativi, tanto politici che teorici, esso rendeva imprescindibili, dal cosa siano nel profondo, al di là di stereotipi ossificati, il potere, la resistenza, la lotta, al quesito dubbioso riguardo la «desiderabilità stessa della rivoluzione» (nella sua accezione storico-dialettica)[3].

Era ai suoi occhi divenuto ineludibile il problema della proliferazione di strutture gerarchiche, di profili governativi e modelli istituzionali in vario modo marchiati dalla violenza, cui il movimento rivoluzionario era andato incontro (persino dopo la “destalinizzazione”), in quanto non supportato da un’adeguata analisi della polimorfia del potere, delle sue incerte provenienze storiche, dei suoi complessi legami con le forme del sapere[4].

Credo che l’esperienza dello stalinismo e della stessa Cina di questi ultimi venti o trent’anni abbia reso inutilizzabili, almeno in molti dei loro aspetti, le analisi tradizionali del marxismo. In tal senso credo che non bisognerebbe affatto abbandonare il marxismo come una specie di vecchio arnese da mandare in soffitta, ma occorrerebbe essere meno fedeli alla lettera della teoria e tentare di ricollocare le analisi politiche della società attuale, più che nel quadro di una teoria coerente, sullo sfondo di una storia reale.[5]
 
Questa è una delle espressioni più pacate della seconda metà degli anni ’70 circa il marxismo in generale. Ma se nel ’78, ad esempio, Foucault si riferiva al marxismo come ad una «causa dell’impoverimento, dell’inaridimento dell’immaginazione politica» e come a «nient’altro che una modalità di potere»[6], ancora nel ’71, pur tra numerose riserve e prese di distanza, si esprimeva così: «Marx è arrivato a proporre un’analisi storica delle società capitalistiche che conserva ancora una sua validità. Ed è riuscito a fondare un movimento rivoluzionario che è, ancor oggi, il più vitale»[7].

Foucault incitava a rendersi «completamente liberi rispetto a Marx»[8], intendendo con ciò il poter interrogare senza restrizioni e inibizioni «l’insieme dei rapporti di potere […] inevitabilmente connessi» con «le tre dimensioni del marxismo, vale a dire il marxismo in quanto discorso scientifico, il marxismo in quanto profezia ed il marxismo in quanto filosofia di Stato, o ideologia di classe»[9], ma ben sapendo quanto «sia necessario distinguere Marx, da un lato, e il marxismo, dall’altro»: «Non mi pare sia assolutamente in questione il fatto di farla finita con Marx stesso»[10].

Foucault ha poi sempre rifiutato l’idea di potersi o doversi rifare ad un «vero e autentico Marx», l’ostinazione a riconoscervi «un depositario fondamentale di verità»[11]. Ha riservato anche a lui quel “saccheggio interessato” finalizzato a far propri certi concetti, certi potenziali critici e analitici, al di fuori di una lettura storiografica volta a ricostruire il profilo complessivo dell’autore (ciò che sappiamo essere per Foucault al tempo stesso una funzione e una finzione). Una lettura dunque molteplice e mirata, destinata al riutilizzo e all’impiego spostato più che al commento.

A distanza di cinque anni dal convegno svoltosi a Bologna il 24 novembre 2005, “Foucault, Marx, marxismi”, diviene disponibile il contributo di insigni studiosi – arricchito inoltre da un’interessante intervista a Étienne Balibar, da cui il volume mutua il titolo – su questo tema molto delicato. Nel passato dibattito filosofico-politico, tanto francese quanto italiano, esso era stato spesso affrontato attraverso accese polemiche e prese di posizione nette, dunque impedendo un confronto sereno e misurato come quello che questa breve raccolta di interventi ha invece il merito di presentare.

... continua:
articolo completo in materiali foucaultiani >>

venerdì 11 marzo 2011

“Già l’ora s’avvicina della più giusta guerra” - Giornata di Studi - 13 marzo [BO]













Domenica 13 marzo, presso il Circolo anarchico Camillo Berneri, Piazza di Porta S. Stefano 1, Bologna, si terrà una giornata di riflessione sull’antifascismo anarchico e libertario per ragionare insieme su declinazioni, percorsi, prospettive di un antifascismo che rifiuti a un tempo le logiche dell’autorità statale, della delega, delle discriminazioni e dello sfruttamento.

“Già l’ora s’avvicina della più giusta guerra”
L’antifascismo anarchico 1921-2011

 
Giornata di studi
Domenica 13 marzo 2011



La giornata intende dare conto di varie ricerche sul movimento anarchico e il suo apporto all’antifascismo, coprendo un arco cronologico ampio e arrivando fino all’oggi. L’approfondimento e la comprensione di alcune dinamiche storiche del passato saranno così una possibilità di auto-formarsi, al di là di e al di fuori di una istituzione, quella universitaria, sempre più a pezzi e asservita alle logiche di potere e di mercato. Studenti e studentesse, operai e operaie, precari e precarie socializzeranno i risultati delle proprie ricerche con l’intento di offrire nuovi elementi di interpretazione del passato e chiavi di lettura di un presente se non totalitario sicuramente oppressivo.



Inizio lavori ore 10:30



- Il 25 aprile non è una ricorrenza, ora e sempre resistenza! Contro ogni fascismo
  Giorgio, Nodo Sociale Antifascista

–  Gli Arditi del Popolo 1921-1922: la prima opposizione armata al fascismo
  Andrea Staid, autore del libro Gli Arditi del Popolo, Circolo dei Malfattori Milano

- Il fuoriuscitismo: l’esilio degli antifascisti nella Francia negli anni Venti
  Toni, redazione locale di Umanità Nova, settimanale anarchico

- La Resistenza sconosciuta: gli anarchici nella lotta di liberazione
  Marabbo, archivio popolare Antonio Rubbi, Medicina

Pranzo a buffet



- Dopoguerra e ricostruzione: l’antifascismo a Bologna
  Dawit S., ANPI Savena


- Fra strategia della tensione e antifascismo militante: gli anni ’70 e il caso Marini
  Jacopo F., Circolo Berneri

- L’incomparabile antifascismo
   Rudy Leonelli, Nodo Sociale Antifascista, incidenze

A seguire aperitivo libertario


[con il patrocinio del Nodo Sociale Antifascista]

giovedì 24 febbraio 2011

Alain Badiou: il vento dell’est vince sul vento dell’ovest

Alain Badiou

Tunisia, Egitto: quando un vento dell’est spazza via l’arroganza dell’Occidente

 Articolo tratto da Le Monde e tradotto dalla redazione di Zic


l vento dell’est vince sul vento dell’ovest.

Fino a quando l’Occidente inattivo e crepuscolare, la “comunità internazionale” di coloro i quali si credono ancora i padroni del mondo, continueranno a dare lezioni di buona gestione e di buona condotta alla terra intera?

Non è risibile vedere quegli intellettuali di servizio, soldati allo sbando del capitalo-parlamentarismo che ci mantiene in questo paradiso tarlato, fare dono delle loro persone ai magnifici popoli tunisino e egiziano, al fine di insegnare a questi popoli selvaggi l’a,b,c della democrazia?

Che desolante persistenza dell’arroganza coloniale! Nella situazione di miseria politica che è la nostra da almeno tre decenni, non è ancora evidente che siamo noi ad aver tutto da imparare dai sollevamenti popolari del momento?

Non dobbiamo forse studiare, in tutta urgenza e da vicino, tutto ciò che, laggiù, ha reso possibile il rovesciamento attraverso l’azione collettiva di governi oligarchici, corrotti e inoltre – e forse soprattutto – in situazione di vassallaggio umiliante nei confronti degli Stati Occidentali?

Si, noi dobbiamo essere gli scolari di questi movimenti, e non i loro stupidi professori.

Poiché essi danno vita, nel genio delle loro invenzioni, ad alcuni principi della politica dei quali si cerca da tempo di convincerci che sono morti e desueti.

E in particolare a questo principio che Marat non smetteva di ricordare: quando si tratta di libertà, di eguaglianza, di emancipazione, noi dobbiamo tutto alle rivolte popolari ...

continua >>

sabato 15 gennaio 2011

O cara moglie

Ivan Della Mea

O cara Moglie

[1966]

 
O cara moglie, stasera ti prego,
dì a mio figlio che vada a dormire,
perché le cose che io ho da dire
non sono cose che deve sentir.

Proprio stamane là  sul lavoro,
con il sorriso del caposezione,
mi è arrivata la liquidazion,
m'han licenziato senza pietà.

E la ragione è perché ho scioperato
per la difesa dei nostri diritti,
per la difesa del mio sindacato,
del mio lavoro, della libertà .

Quando la lotta è di tutti per tutti
il tuo padrone, vedrai, cederà ;
se invece vince è perché i crumiri
gli dan la forza che lui non ha.

Questo si è visto davanti ai cancelli:  
noi si chiamava i compagni alla lotta,
ecco: il padrone fa un cenno, una mossa,
e un dopo l'altro cominciano a entrar.

O cara moglie, dovevi vederli
venir avanti curvati e piegati;
e noi gridare: crumiri, venduti!
e loro dritti senza piegar.

Quei poveretti facevano pena
ma dietro loro, là sul portone,
rideva allegro il porco padrone:
l'ho maledetto senza pietà .

O cara moglie, prima ho sbagliato,
dì a mio figlio che venga a sentire,
ché ha da capire che cosa vuol dire
lottare per la libertà  
ché ha da capire che cosa vuol dire
lottare per la libertà.
____________
info: il Deposito

venerdì 14 gennaio 2011

Solidarietà con il popolo tunisino e algerino Contro il neo-colonialismo e la dittatura. Presidio: BO sabato 15 gennaio piazza Nettuno



In questi giorni il popolo tunisino e
algerino si stanno ribellando contro i propri regimi. In Tunisia, come in Algeria, ci si ribella contro l'aumento dei prezzi degli alimentari, la mancanza di case e la disoccupazione; una povertà che è il frutto dell'espropriazione e dello sfruttamento dell'imperialismo e delle borghesie asservite di quei paesi. Non a caso UE ed Usa sostengono questi regimi spacciandoli per "stati democratici".

Questo è evidenziato - oltre che dalla reazione stragista del regime - dalla preoccupazione con cui seguono lo sviluppo degli avvenimenti le potenze occidentali; in primo luogo l’Italia di cui Ben Alì è stato storicamente uno strumento e partner economico, a partire dalla sua presa del potere nel 1987 con un colpo di stato, organizzato in diretto collegamento con i servizi segreti italiani e l’allora Primo ministro Craxi morto latitante in Tunisia per sfuggire alle condanne emesse contro di lui dalla magistratura italiana.

Lo scontro, in Tunisia, ha ormai raggiunto drammatici livelli: circa 70 morti tra i manifestanti, arresti selezionati di comunisti e sindacalisti. Il criminale regime fantoccio del sanguinario Ben Alì sta mostrando il suo vero volto..

Dopo anni di emigrazione da quei paesi l’Europa chiude le porte della speranza per migliaia di giovani negandogli un futuro diverso. Affamati dai propri governi, schiavi nei paesi di immigrazione, il popolo ha deciso che è giunta l’ora di cambiare.

La lotta dei giovani, dei disoccupati, dei lavoratori maghrebini, le loro rivendicazioni sono le nostre, in Maghreb cosi come in Italia.

Presidio ore 15.00
Sabato 15 gennaio
Piazza Nettuno Bologna




Aderiscono:

Bologna Prende Casa
Coordinamento Migranti di Castel Maggiore
Giovani Comunisti
il popolo viola
Partito della Rifondazione Comunista
Rete dei Comunisti
Sinistra Critica
USB-Immigrati
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mercoledì 12 gennaio 2011

Appello: a sostegno delle lotte dei giovani nel Maghreb e contro il liberismo...


A sostegno delle lotte dei giovani nel Maghreb

e contro il liberismo che nega il futuro



un appello
da Alberto Burgio e Salvatore Palidda



Le rivolte esplose in quasi tutte le città della Tunisia e dell’Algeria
e prima anche del Marocco nascono dalle stesse motivazioni che hanno provocato le lotte dei giovani a Londra come in Italia, in Francia e altrove.

Le conseguenze delle scelte liberiste sono dappertutto le stesse: accentuazione dell’asimmetria di potere e della distanza fra ricchezza e povertà, corruzione e protervia di poteri reazionari se non di tipo apertamente mafioso, erosione dei diritti fondamentali, negazione del futuro della società e quindi in primo luogo dei giovani. Puntando all’arricchimento immediato di pochi – da Cameron a Sarkozy, da Berlusconi a Ben Ali, da Bouteflika alla cerchia di potere del re del Marocco – il liberismo favorisce soltanto gli affari privati dei più forti e distrugge i servizi pubblici e quindi ogni prospettiva vivibile. I regimi tunisino e algerino stanno minacciando il bagno di sangue approfittando dell’appoggio dei governi francese e italiano e di altri europei. In Algeria e in Tunisia la polizia e l’esercito sparano persino sulle persone andate ai funerali degli assassinati. La gravità della situazione è rivelata dalla stessa Ue costretta a chiedere il cessate il fuoco dopo le decine di morti e le varie centinaia di feriti. Il rischio di un bagno di sangue è alto.

Per parte nostra ci impegniamo a sostenere queste lotte come quelle per la difesa dei diritti fondamentali dei lavoratori con ogni sorta di iniziative nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università e nei quartieri, e organizzando anche un effettivo sostegno ai militanti maghrebini che rischiano la feroce persecuzione anche con metodi mafiosi. Che in tutte le università e le fabbriche europee ci si mobiliti a fianco delle rivolte nel Maghreb


Aderisci all'appello inviando una e-mail a:
rivoltenelmaghreb@gmail.com





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mercoledì 5 gennaio 2011

"Scomodare Marx": la Fiat, le tendenze storiche che muovono il capitalismo del nostro tempo

Gli operai, la Fiat e il Pd
Piero Bevilacqua
il manifesto, 4 gennaio 2011

Per comprendere meglio ciò che accade a Mirafiori e a Pomigliano è necessario affondare lo sguardo nelle tendenze storiche che muovono il capitalismo del nostro tempo. E bisogna scomodare Marx. Egli aveva colto come “legge fondamentale dell'accumulazione capitalistica” una tendenza già evidente ai suoi tempi e oggi conclamata : «Dato che la massa di lavoro vivo impiegato diminuisce costantemente in rapporto alla massa di lavoro oggettivato da essa messo in movimento (cioé ai mezzi di produzione...) anche la parte di questo lavoro vivo che non è pagato e si oggettiva nel plusvalore, dovrà essere in proporzione costantemente decrescente rispetto al valore del capitale complessivo impiegato”.
Nel corso del suo sviluppo, dunque, il capitalismo riduce costantemente la quota di lavoro per unità di prodotto, cercando di sfuggire alla caduta tendenziale del saggio di profitto e di sostenere la competizione. Quella competizione che oggi esso stesso si fa delocalizzando parte delle sue imprese nei paesi a bassi salari. Ma il capitale che espelle lavoro cerca di sfruttare più intensivamente quello che impiega, perché più ridotta diventa nel frattempo la quota da cui può estrarre plusvalore. André Gorz ha riassunto lapidariamente questa attuale contraddizione del capitale in cui i lavoratori vengono stritolati: «più la quantità di lavoro per una produzione data diminuisce, più il valore prodotto per lavoratore – la sua produttività – deve aumentare affinché la massa del profitto realizzabile non diminuisca. Si ha dunque questo apparente paradosso per cui più la produttività aumenta, più è necessario che aumenti ancora per evitare che il volume del profitto diminuisca.

La corsa alla produttività tende così ad accelerarsi, gli impiegati effettivi a essere ridotti, la pressione sul personale a inasprirsi, il livello e la massa dei salariati a diminuire». E in questa morsa oggi, letteralmente, si soffoca. Chi ha la pazienza di leggersi la grande inchiesta della Fiom del 2008, condotta su un questionario cui hanno risposto 100 mila lavoratrici e lavoratori, può farsene un'idea.


Siamo dunque giunti a una fase storica nella quale o noi costringiamo il capitalismo a cambiare il suo modello di accumulazione, o esso trascinerà l'intera società industriale nella barbarie. Non è un'espressione di maniera. Non è uno slogan. Chi oggi, anche in buona fede, difende il nuovo contratto imposto da Marchionne, crede che il cedimento sia accettabile come un compromesso temporaneo, dovuto alla crisi in atto e ai vincoli della competizione mondiale. E' un gravissimo errore. Questa idea fa parte di una campagna pubblicitaria che punta a far arretrare ulteriormente i rapporti di classe con un argomento puramente propagandistico: oggi occorre tirare la cinghia per poter ritornare allo splendore di prima. Ma prima il cielo era davvero così splendido? Che questa sia una menzogna è possibile illustrarlo con una semplice analisi storica, con fatti scientificamente verificabili ... 

 continua  >> 

mercoledì 29 dicembre 2010

A. Gramsci: Perché i comunisti chiamano mandarini i funzionari sindacali riformisti

Antonio Gramsci
da L'Ordine Nuovo
n. 173. , 23 giugno 1921
sotto la rubrica:
"La lotta su due fronti degli operai metallurgici torinesi"




Perché i comunisti chiamano mandarini i funzionari sindacali riformisti? Chi sono i mandarini?

Il mandarinato è una istituzione burocratico-militare cinese, che, su per giú, corrisponde alle prefetture italiane. I mandarini appartengono tutti a una casta particolare, sono indipendenti da ogni controllo popolare, e sono persuasi che il buono e misericordioso dio dei cinesi abbia creato apposta la Cina e il popolo cinese perché fosse dominato dai mandarini. Chi fa il bel tempo? I mandarini. Chi rende fertili i campi? I mandarini. Chi dà la fecondità al bestiame? I mandarini. Chi permette all'ingenuo popolo cinese di respirare e di vivere? I mandarini. È dunque naturale che il popolo cinese sia nulla e i mandarini siano tutto. E' naturale che solo i mandarini possano deliberare e comandare e il popolo cinese debba solo obbedire, senza recriminazioni, pagar le tasse senza fiatare, dare al mandarino tutto ciò che il mandarino domanda, senza preoccuparsi di sapere il perché e il percome.

Perché i comunisti chiamano mandarini i funzionari sindacali riformisti e non li chiamano con altri nomi, per es. bonzi come in Germania, o in altro modo che indichi solo il dominio assoluto, I'intrigo burocratico per mantenersi al potere ad ogni costo, la prepotenza e l'altezzosità? Per questa ragione: perché i funzionari sindacali riformisti disprezzano le masse, sono convinti che gli operai sono tante bestie, senza intelligenza, senza carattere, senza principi morali, bestie che si tengono tranquille e mansuete dando loro modo di comprare un litro di vino e di andare all'osteria a ingozzarsi di cibo. I funzionari riformisti disprezzano le masse operaie cosí come i mandarini, uomini di alta casta, gente uscita dalla corte imperiale cinese, disprezzano i loro sudditi, ignoranti, sporchi, superstiziosi ...


continua QUI
.

giovedì 9 dicembre 2010

Incontro Foucault-Marx . Firenze, 13 dicembre 2010


Gruppo Quinto Alto - Laboratorio nuova buonarroti


Gli spazi della parola - incontri di filosofia e letteratura

LUNEDÌ 13 DICEMBRE, ore 16.30
Biblioteca delle OBLATE, I piano, s
ala letteratura (scala B)
via dell'Oriuolo 26, Firenze


III incontro di
L’ANGOLO DI LETTURA
Conversazioni muovendo da




Foucault-Marx. Paralleli e paradossi
Bulzoni, Roma 2010
a cura di Rudy M. LEONELLI


intervengono col curatore
Stefano BERNI, Giuseppe PANELLA e Giovanni SPENA


ingresso libero




Prossimi incontri di L’ANGOLO DI LETTURA, dall’8 NOVEMBRE 2010 al 20 MAGGIO 2011, Biblioteca delle Oblate, 1° piano:
  • LUNEDÌ 10 GENNAIO, ore 16,30 Le «officine filosofiche» oggi: una ricerca / rivista, intervengono Stefano BERNI, Silvano CACCIARI, Ubaldo FADINI e Stefano RIGHETTI

  • LUNEDÌ 17 GENNAIO, ore 16,30 Paolo GODANI, La sartoria di Proust. Estetica e costruzione nella «Recherche» (ETS, 2010) e Marco PIAZZA, Redimere Proust. Walter Benjamin e il suo segnavia, (Le Càriti, 2009), interviene, con gli autori, Ubaldo FADINI

  • LUNEDÌ 14 MARZO, ore 16,30 Per una festa dell'immaginazione: rileggere Raymond ROUSSEL, intervengono Gianni BROI e Ubaldo FADINI. Letture di Caroline GALLOIS

  • LUNEDÌ 2 MAGGIO, ore 16,30 Il turbamento e la scrittura, a cura di Giulio Ferroni (Donzelli, 2010), intervengono Paola ITALIA e Katia ROSSI

  • LUNEDÌ 9 MAGGIO, ore 16,30 Tommaso TARANI, Il velo e la morte. Saggio su Leopardi (Bulzoni, 2010), intervengono, insieme all'autore, Vittorio BIAGINI e Andrea SARTINI

  • VENERDÌ 20 MAGGIO, ore 21 Alessio SCARLATO, 20 gennaio 1942. Auschwitz e l'estetica della testimonianza (NEU, 2009), intervengono, insieme all'autore, Massimo BALDI e Katia ROSSI

Gruppo Quinto Alto
quintoalto@gmail.com


sabato 27 novembre 2010

Gaston Bachelard - Portrait d'un philosophe

01/12/1961:
intervista
a
Gaston Bachelard

Bar-sur-Aube, 27 giugno 1884 – Parigi, 16 ottobre 1962



                                                              



«Gaston Bachelard, ancien professeur de philosophie à la Sorbonne, a reçu récemment le prix national des lettres [7 novembre 1961]. Nous le découvrons près de la place Maubert où il vit dans une petite pièce dont il ne sort presque plus. Avec humour, il nous parle de sa vie, de son amour pour les choses simples et "naturelles". Il dément l'idée que l'on se fait souvent à tort d'un philosophe ...»

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martedì 10 agosto 2010

Marx lo scienziato impaziente di rivoltare il mondo



Marx lo scienziato impaziente
di rivoltare il mondo

Tonino Bucci, per Liberazione, 20.07.2010





Nicolao Merker, Karl Marx Vita e opere
Laterza, 2010

«Un tipaccio nero imperversa pieno di furore, come se volesse afferrare l’ampia volta celeste e tirarla sulla Terra». Cimentandosi con un poemetto satirico Friedrich Engels tratteggiava con questi rapidi, ma efficaci versi un giovane studente di filosofia, uno dei tanti hegeliani di sinistra che allora –siamo all’incirca nel 1841 – circolavano per l’università di Berlino, capitale di una Prussia autocratica e in pieno clima di Restaurazione. Il nome di quello studente era Karl Marx. Tra lui ed Engels – rampollo di una famiglia di industriali tessili, arrivato nella capitale prussiana per il servizio militare – non si era ancora stabilito il celebre sodalizio di amicizia e di idee che sarebbe durato una vita. Eppure quelle parole dettate da un innocente esercizio d’ironia non si sarebbero rivelate del tutto fuori luogo. Una certa brama di rivoltare il mondo, un certo titanismo di derivazione romantica, quel giovane studente li avrebbe mantenuti anche negli anni a venire della sua esistenza.
Del resto, intere generazioni di lettori e studiosi marxisti hanno ritenuto di dover distinguere tra un Marx scienziato e un Marx politico: l’uno, autore di sobrie analisi economiche, meticoloso fino all’eccesso, ossessivo nella raccolta di fonti e documenti; l’altro, impetuoso e impaziente di passare ai fatti, frettoloso di vedere nella propria epoca i segni premonitori della nuova società post-borghese al punto da scorgere in ogni insurrezione l’inizio della rivoluzione proletaria. Il più delle volte, questa distinzione ha avuto la funzione di far giocare un Marx contro l’altro, con l’implicito presupposto che un pensiero possa farsi scienza solo a condizione di tener lontana ogni commistione con la politica. Non è il caso, questo, della nuova biografia su Marx – era da tanto che non se ne vedevano qui in Italia a differenza che in altri paesi – appena uscita in libreria a firma di Nicolao Merker, Karl Marx. Vita e opere (edizioni Laterza, pp. 268, euro 18). Di primo acchito si potrebbe restare sorpresi che a distanza di quasi centotrenta anni dalla morte (avvenuta l’11 gennaio 1883) ci sia ancora di che scrivere sulla vita di Marx. Dalla fine dell’Ottocento in poi il suo nome è circolato nei movimenti operai di ogni paese del mondo. Sindacati, partiti, interi Stati si sono appropriati a torto o a ragione di Marx, cercando nel suo pensiero una fonte di legittimazione. Una quantità indescrivibile di pubblicazioni si è accumulata nel tempo, gran parte delle quali però dedicate alla dottrina. «Molto minore fortuna – scrive Merker – ha avuto l’interesse per l’uomo. Le buone biografie di Karl si sono sempre contate sulle punte delle dita», mentre «i “teorici del marxismo” (o chi presumeva si esserlo, o comunque si occupava del Marx della “teoria”) erano moltitudine». Marx, questo sconosciuto, poteva dire lo storico Maximilien Rubel, quando ben altra era la circolazione del suo nome, a maggior ragione lo si può dire all’inizio del XXI secolo. «Oggi spesso, riguardo alle cose attendibili su di lui, Marx sembra diventato un parente dell’uomo di Neanderthal». Non che manchino lavori attendibili, Merker ne cita alcuni: ad esempio il Karl Marx. Storia della sua vita del 1918, a firma del socialdemocratico Franz Mehring, il primo ad essere «sganciato da limiti tattici di partito» e ad aver consultato documenti inediti, soprattutto il carteggio con Engels, seguito da Blumenberg, Nikolajevsky e Maenchen-Helfen, Rubel, Friedenthal, fino a Berlin e McLellan, tutti ormai diventati a modo loro dei “classici”.
Una biografia non è solo una collezione di fatti privati o una ricerca di aneddoti che ancora attendono d’essere raccontati da qualcuno. Né, peggio ancora, una “psicografia”, un viaggio senza capo né coda, senza metodo, nella psicologia e nel carattere dell’uomo Marx. Non è tutto il privato di Marx che conta, ma quelle vicende che nella sua biografia e nei suoi scritti spiccano come segni evidenziali. Che Marx abbia fatto un figlio con la domestica di casa o che sia stato eterno debitore di denaro all’amico Engels sono tratti casuali. Altri eventi della sua vita, invece, testimoniano di come le teorie marxiane nascano e si sviluppino come risposta originale alle grandi sollecitazioni culturali della sua epoca.
Fin dalle avventure giovanili all’università – prima a Bonn, poi a Berlino dove finirà a studiare filosofia contro la volontà paterna di fame un laureato in giurisprudenza – per proseguire nelle prime esperienze di giornalista politico alla Gazzetta Renana, sotto il segno di un democraticismo radicale, Merker restituisce l’immagine di un Marx assillato dall’idea di fare della filosofia una scienza rigorosa dei fatti, al punto da scrivere: «Desideriamo costruire esclusivamente su dati di fatto e ci sforziamo, per quanto è in noi, di sollevare solo i fatti a una significazione generale». Anche la resa dei conti con Hegel, della cui filosofia Marx è negli anni universitari un seguace, avviene in nome della ricerca di una scienza dei fatti che non andasse a discapito dei fatti medesimi. Di una scienza capace di leggere i fatti non attraverso interpretazioni costruite indipendentemente dai dati e, successivamente, a questi sovrapposte. «Marx rintracciò i difetti di Hegel partendo dal modo in cui il filosofo aveva mediato i fatti, ossia il molteplice concreto. Dall’incapacità hegeliana e idealistica in genere di spiegare i fatti, Marx concluse che le deduzioni speculative, mancano di funzionalità conoscitiva». La filosofia hegeliana aveva trattato l’uomo reale, i fenomeni della vita reale, la società e lo Stato come estrinsecazioni dell’Idea, come tappe di una narrazione logica: a prezzo, però, di dover “riempire” l’Idea, forma vuota, «con contenuti empirici senza però filtrarli attraverso un’adeguata analisi critica». Anche il Marx talvolta più attaccato dai suoi critici, quello autore nel 1846 – assieme a Engels – dell’Ideologia tedesca, un manoscritto che uscì in edizione postuma solo nel 1932, è a giudizio di Merker un Marx impegnato in una lotta senza quartiere contro le distorsioni ideologiche della realtà. Dove altri interpreti marxisti hanno visto all’opera un materialismo esasperato, un’esaltazione dell’homo faber e dell’attività materiale a discapito della teoria – liquidata a semplice riflesso capovolto della realtà – Merker descrive Marx ed Engels come due autori tutt’altro che inconsapevoli dell’importanza delle ideologie nella storia, tutt’altro che ignari della «complessità delle griglie attraverso cui la realtà giunge alla coscienza». C’è da tener presente che la ricerca di una conoscenza scientifica della realtà va di pari passo con la polemica contro quelle che a Marx ed Engels, nel panorama dei giovani hegeliani di sinistra appaiono fantasie individuali, fughe nell’individualismo anarchico se non recrudescenze irrazionalistiche. Del resto, il materialismo cui i due approdano, è ormai un congegno più raffinato di quel che si pensi. «La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva – scrive Marx nelle Tesi su Feuerbach – non è questione teoretica bensì una questione pratica», essendo nella prassi che «l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere del suo pensiero».
Non distorcere la realtà, non anteporre i propri desideri allo studio scientifico dei fatti, non limitarsi a denunce moralistiche diventa il leit motiv nella polemica di Marx contro i socialisti utopisti conosciuti nell’esilio in Francia, primo fra tutti Proudhon. Nonostante il fallimento delle rivoluzioni democratiche del 1848, nonostante i patimenti e la miseria che l’esule Marx conosce negli oltre due decenni di soggiorno a Londra, questo richiamo a una conoscenza scientifica e a un metodo rigoroso non verrà mai meno. È però, questo, il nodo sul quale si è innestata la leggenda di un Marx affetto da economicismo, che si concentra nello studio dell’economia capitalistica, disinteressandosi del tutto della politica e di ciò che accade al di fuori della fabbrica. Emerge, invece, un autore consapevole della differenza tra il momento puramente economico, di quando, ad esempio, si cerca di «costringere i singoli capitalisti in singole fabbriche o anche in singole officine tramite scioperi ecc. a concedere una diminuzione dell’orario di lavoro», e il movimento politico «per la conquista di una legge per le otto ore». Anche se più rarefatto rispetto allo “scienziato”, il Marx politico emerge in momenti cruciali, per esempio quando sotto la pressione degli eventi si accinge a riconoscere nella Comune di Parigi del 1871, nata da un’insurrezione, il primo esempio di governo della classe operaia. Così come non mancano gli accenni a una teoria dello Stato, per quanto frammentata in scritti di varia natura. Però è proprio nelle riflessioni politiche che emerge un dissidio interiore di Marx, per un verso incline da scienziato a parlare di strutture e tempi lunghi, per nulla disposto a lanciarsi da futurologo in ricette per la società futura; e dall’altra però disposto in certi passaggi epocali a scommettere sull’accelerazione della storia, come se la rivoluzione proletaria fosse dietro l’angolo, anche quando, come nel caso dei comunardi parigini, mancava del tutto una classe operaia capace di agire su scala nazionale. «In Marx l’utopia, in realtà, non stava in primo piano. Negli accenti utopici, quando c’erano, si esprimeva il desiderio che le teorie dell’emancipazione si avverassero in un futuro ancora visibile; e venivano quasi regolarmente bloccati non appena subentravano la analisi scientifiche».
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sabato 29 maggio 2010

Tonino Bucci: Foucault, ovvero l'anti-Marx. Una leggenda da smontare

Tonino Bucci

Foucault, ovvero l'anti-Marx
Una leggenda da smontare


Una raccolta di saggi sul rapporto tra i due filosofi, a cura di Rudy M. Leonelli.
E con un'intervista di Balibar



Si è diffusa una vulgata che contrappone i due pensatori: l'uno visto come un teorico del collettivismo, l'altro come un profeta della rivolta individuale e del micropolitico. Semmai Foucault contestava il marxismo come sistema di potere

da: Liberazione, 28 maggio 2010



«Io cito Marx senza dirlo, senza mettere le virgolette, e poiché la gente non è capace di riconoscere i testi di Marx, passo per essere colui che non lo cita. Un fisico, quando lavora in fisica, prova forse il bisogno di citare Newton o Einstein? Li usa, ma non ha bisogno di virgolette, di note a pie' di pagina o di un'approvazione elogiativa che provi fino a che punto è fedele al pensiero del Maestro».

Queste poche righe portano la firma di Michel Foucault e sono riprodotte in una delle opere che più ha contribuito a far conoscere in Italia gli aspetti militanti del suo pensiero. Parliamo di
Microfisica del potere, sottotitolo Interventi politici, più che un'opera sistematica, una raccolta di testi, brevi scritti, dibattiti e interviste, uscita non a caso qui da noi nel 1977. Anno cruciale, durante il quale si registra nel campo della sinistra (soprattutto in Italia e in Francia) il massimo di rottura tra movimento operaio e partiti comunisti, da un lato, e i movimenti studenteschi dall'altro. Movimenti che dall'interno delle università cominciano a guardare a nuovi soggetti al di fuori di quelle che vengono definite strutture burocratiche e di potere, dai sindacati ai partiti. Da qui si spiega l'attenzione del Settantasette verso i non garantiti e il proletariato metropolitano, verso gli esclusi e il sottoproletariato, verso i malati mentali e verso un'intera costellazione di soggetti che per la prima volta cade al fuori della "classe operaia". Di questi soggetti si mette in evidenza non un'azione di resistenza al potere riconducibile, in qualche modo, a una strategia politica complessiva. I nuovi soggetti "desideranti" del '77 sono semmai protagonisti di pratiche quotidiane di resistenza. E' la disseminazione, l'assenza di gerarchie interne - il carattere "rizomatico" diranno Deleuze e Guattari - a distinguere le azioni contro il potere. E non a caso, è questo il periodo di massima fortuna politica di Foucault, artefice di una teoria del potere come qualcosa di capillare e diffuso nella trama dei rapporti sociali, dalla fabbrica al carcere, dalla scuola all'ospedale psichiatrico.

Forse per questo il rapporto teorico di Foucault con Marx (e il marxismo, che però è altra cosa) diventa una questione sensibile, lo specchio cioè in cui si riflette lo scontro tra partiti e movimento che non si risparmiano scomuniche reciproche - da una parte l'accusa di radicalismo piccolo-borghese e individualismo anarchico, dall'altra quella di burocratismo e difesa corporativa dell'aristocrazia operaia. Sennonché il clima rovente di quello scontro politico è forse all'origine della vulgata di un Foucault senza Marx o, addirittura, contro Marx, e proprio per questo "organico" al Settantasette.

L'impressione che invece si ricava dalla lettura di una raccolta di saggi pubblicata di recente,
Foucault-Marx (a cura di Rudy M. Leonelli, Bulzoni Editore, pp. 146, euro 13) è ben diversa. A cominciare dall'intervista a Balibar che mette in guardia da un dibattito «che mi sembra riduttivo», non solo rispetto alla complessità di due pensatori come Marx e Foucault, ma anche «per quelli che ancora oggi - e bisognerebbe interrogarsi sulla ragione per cui ne hanno talmente bisogno - continuano a battere il chiodo, spiegando come, con Foucault, sarebbe stato definitivamente trovato l'antidoto al marxismo». Non regge, ad esempio, la vulgata di un Marx collettivista contro un Foucault più attento, invece, al micropolitico e alla costituzione del soggetto individuale. Anche perché la critica di Marx all'individualismo - ancora parole di Balibar - è essenzialmente «la critica delle forme borghesi dell'individualismo», cioè dell'astrazione giuridica dell'individuo proprietario che è alla base della società del mercato. «Considerare il comunismo non come l'annientamento dell'individuo nella massa, ma come l'emergenza di possibilità di individualizzazione schiacciate dalla società borghese, è un aspetto molto profondo del pensiero di Marx».

Anche se si guarda alla nozione centrale, che dovrebbe registrare la massima distanza tra Foucault e Marx, ossia l'idea di potere , la presunta incompatibilità tra i due pensieri comincia a vacillare. Anzi, proprio i testi foucaultiani sul potere potrebbero insegnare a leggere correttamente Marx. Per entrambi i filosofi, infatti, il potere è una funzione che si esercita all'interno della società come sistema .

Foucault non intende sbarazzarsi di Marx - come scrivono Alberto Burgio e Guglielmo Forni Rosa nei rispettivi interventi - ma del marxismo quando diventa una scienza legata a un sistema di potere, indifferentemente che si tratti delle università, di un partito o di uno Stato (per averne un'idea basta leggere il contributo di Manlio Iofrida sul marxismo francese degli anni 50). L'idea del potere che ha in mente Foucault come un meccanismo che produce i soggetti coinvolti, quindi come «relazione», come «rapporto di direzione che suppone anche il consenso del destinatario del flusso di potere» (Burgio) è tutt'altro che assente in Marx.

E', in breve, colpa di una lettura economicistica se si è affermata la vulgata di un Marx che si disinteressa della politica e del potere che si esercita al di fuori della fabbrica, nel grande campo dell'ideologia. Da questo punto di vista la funzione di potere come immaginata da Foucault assomiglia alla funzione intellettuale di Gramsci, pervasiva non solo sul terreno della cultura e della comunicazione di massa, «ma anche in tutti gli snodi del rapporto sociale, a cominciare dal processo di produzione e dall'epifania della merce». Questo non significa far scomparire gli scarti che in Foucault si producono rispetto a Marx, ad esempio quando nega che nel flusso di potere ci sia una direzione verticale dall'alto verso il basso, dalla classe dominata ai dominati. Il potere foucaultiano resta un sistema orizzontale che distribuisce in modo equo e imparziale i propri effetti. Forse la tesi meno adeguata a spiegare il reale funzionamento del meccanismo capitalistico che dispensa costi e benefici in modi tutt'altro che simmetrici.


giovedì 27 maggio 2010

Étienne Balibar - Europa: crisi o fine?


Étienne Balibar

Europa: crisi o fine?

In poche settimane, abbiamo assistito alla rivelazione da parte del primo ministro Papandreu del debito «reale» della Grecia, manipolato dal suo predecessore con l'aiuto di Goldmann Sachs; all'annuncio della possibilità che il suo Paese non ce la faccia a pagare i nuovi interessi sul debito, brutalmente moltiplicati; all'imposizione alla Grecia di un piano di austerità selvaggio, come contropartita del prestito europeo. Poi l'«abbassamento del voto» della Spagna e del Portogallo, la minaccia dell'implosione dell'euro, la creazione di un fondo di aiuto europeo di 750 miliardi (su richiesta, in particolare, degli Stati uniti). Infine, la decisione della Bce, in contraddizione con il suo statuto, di acquisire delle obbligazioni statali, e l'adozione di politiche di rigore in una decina di paesi. Ce n'est qu'un début, non è che l'inizio, poiché questi nuovi episodi di una crisi apertasi due anni fa con il crollo dei crediti immobiliari statunitensi ne prefigurano altri. Dimostrano che il rischio di crac persiste o addirittura aumenta, alimentato da una massa enorme di titoli «spazzatura», accumulata nel corso del decennio precedente grazie ai consumi a credito, alla trasformazione dei titoli dubbiosi e dei credit default swaps in prodotti finanziari, oggetto di speculazione a breve. Il tormentone dei crediti dubbiosi continua, e gli stati sono in affanno. La speculazione investe ormai le monete e il debito pubblico. L'euro rappresenta oggi l'anello debole di questa catena, e trascina l'Europa. Le conseguenze saranno devastanti.


I greci hanno ragione a rivoltarsi

Prima conseguenza della crisi e della «medicina» che le è stata applicata: la rabbia della popolazione greca. Hanno torto a rifiutare di assumersi le proprie responsabilità? Hanno ragione a denunciare una «punizione collettiva»? Indipendentemente dalle provocazioni criminali che l'hanno viziata, questa rabbia si giustifica per almeno tre motivi. L'imposizione dell'austerità è stata accompagnata da una stigmatizzazione delirante del popolo greco, considerato colpevole per la corruzione e le menzogne della sua classe politica, di cui (qui come altrove) approfittano ampiamente i più ricchi (in particolare sotto la forma dell'evasione fiscale). L'austerità, ancora una volta, è stata imposta rovesciando gli impegni elettorali del governo, al di fuori di qualsiasi dibattito democratico. Infine, abbiamo visto l'Europa applicare al suo interno non delle procedure di solidarietà, ma le regole leonine del Fondo monetario internazionale, che mirano a proteggere i crediti delle banche, mentre annunciano una prevedibile recessione senza fine per il paese. Gli economisti, su queste basi, concordano nel pronosticare un default certo del tesoro greco, un contagio della crisi e un'esplosione del tasso di disoccupazione, soprattutto se le stesse regole verranno applicate ad altri paesi virtualmente in fallimento stando alle «notazioni» del mercato, come reclamano ad alta voce i difensori dell'«ortodossia».


Una politica che occulta il suo volto

Nel «salvataggio» della moneta comune, di cui i greci sono stati le prime vittime (ma non saranno gli ultimi), le modalità che hanno prevalso finora (imposte, in particolare, dalla Germania) hanno messo in primo piano, come priorità, la generalizzazione del «rigore» di bilancio (inscritto nei trattati fondatori, ma nei fatti mai veramente applicato) e, ma solo in secondo luogo,la necessità di una «regolazione» - molto moderata - della speculazione e della libertà degli hedge funds (già evocata dopo la crisi dei subprimes e dei fallimenti bancari del 2008). Gli economisti neo-keynesiani aggiungono a queste esigenze dei passi avanti verso il «governo economico» europeo (in particolare l'unificazione delle politiche fiscali), o dei piani di investimento elaborati in comune: senza questo, affermano, l'esistenza stessa della moneta unica si rivelerà impossibile.

Si tratta, evidentemente, di proposte assolutamente politiche (e non tecniche). Sono alternative che i cittadini dovrebbero dibattere, poiché le conseguenze di queste scelte saranno irreversibili per la collettività. Ma il dibattito è falsato dalla dissimulazione di tre dati essenziali:

- la difesa di una moneta e la sua utilizzazione congiunturale (sostegno, svalutazione) comportano sia un assoggettamento delle politiche economiche e sociali all'onnipotenza dei mercati finanziari (con le loro «notazioni» che si auto-realizzano e i loro «verdetti» che non lasciano spazio a nessun appello), sia una crescita della capacità degli stati (e, più in generale, della potenza pubblica) a limitarne l'instabilità e a privilegiare gli interessi a lungo termine sui profitti speculativi. Una strada o un'altra, tertium non datur.

- con la scusa di una relativa armonizzazione delle istituzioni e di una garanzia di alcuni diritti fondamentali, la costruzione europea, nella sua forma attuale, con le forze che l'orientano, non ha smesso di favorire la divergenza delle economie nazionali, che in teoria avrebbe invece dovuto ravvicinare all'interno di una zona di prosperità condivisa: alcune economie ne dominano altre, sia in termini di parti di mercato, sia in termini di concentrazione bancaria, sia trasformandole in fornitori in subappalto. Gli interessi delle nazioni, se non quelli dei popoli, diventano contraddittori.

- il terzo pilastro di una politica keynesiana generatrice di fiducia, oltre la moneta e il fisco, cioè la politica sociale, la ricerca della piena occupazione e la crescita della domanda attraverso il consumo popolare, viene sistematicamente passato sotto silenzio, anche dai riformatori. E sicuramente viene fatto apposta.


Dove va la globalizzazione?

A cosa serve, d'altronde, riflettere e discutere sull'avvenire dell'Europa e della sua moneta (dalla quale alcuni grandi paesi si tengono alla larga: Gran Bretagna, Polonia, Svezia), se non si tiene conto delle tendenze reali della globalizzazione? Se la gestione politica della crisi finanziaria resta fuori portata per le popolazioni e i governi implicati, l'effetto sarà una formidabile accelerazione dei processi in corso. Di che cosa si tratta? In primo luogo, del passaggio da una forma di concorrenza a un'altra: dai capitalismi produttivi ai territori nazionali, dove ognuno, a colpi di esenzioni fiscali e di abbassamento del valore lavoro, tenta di attirare più capitali fluttuanti del vicino. E' più che evidente che l'avvenire politico, sociale e culturale dell'Europa in generale - e di ogni paese in particolare - dipende dal fatto di sapere se l'Europa costituisce un meccanismo di solidarietà e di difesa collettiva delle popolazioni contro il «rischio sistemico», oppure se, al contrario (con l'appoggio di alcuni stati, momentaneamente dominanti, e delle loro opinioni pubbliche) si tratta di un quadro giuridico per intensificare la concorrenza tra gli stati membri e tra i cittadini.

Inoltre, si tratta, più generalmente, del modo in cui la mondializzazione sta sconvolgendo la divisione del lavoro e la ripartizione dell'occupazione nel mondo: in questa ristrutturazione che sovverte nord e sud, ovest e est, una nuova crescita delle ineguaglianze e dell'esclusione in Europa, l'annientamento della classe media, la diminuzione dei lavori qualificati e delle attività produttive «non protette», dei diritti sociali, delle industrie culturali e dei servizi pubblici universali, sono per così dire già programmati. Le resistenze all'integrazione politica, con la scusa di difendere la sovranità nazionale, non possono che aggravare gli effetti nella maggior parte delle nazioni e precipitare il ritorno (già ben avviato) degli antagonismi etnici che l'Europa aveva preteso di oltrepassare definitivamente al suo interno. Ma inversamente è chiaro che non ci sarà un'integrazione europea «dall'alto», in virtù di un'ingiunzione burocratica, senza un progresso democratico in ogni paese e in tutto il continente.


Populismo: pericolo o risorsa?

E' la fine dell'Unione europea, di questa costruzione la cui storia era cominciata 50 anni fa sulla base di una vecchia utopia, ma le cui promesse non sarebbero state mantenute? Non bisogna aver paura di dirlo: sì, ineluttabilmente, a una più o meno breve scadenza e non senza qualche prevedibile violenta scossa, l'Europa è morta come progetto politico, a meno che non riesca a rifondarsi su nuove basi. Un'implosione abbandonerebbe ancora di più i popoli che la compongono oggi alle incertezze della globalizzazione, come sugheri in un torrente. Una rifondazione non garantisce nulla, ma dà qualche possibilità di esercitare una forza geopolitica, a proprio vantaggio e per quello degli altri, a condizione di osare affrontare le immense sfide di un federalismo di nuovo tipo. Si tratta della potenza pubblica comunitaria (distinta sia dallo stato che da una semplice «governance» di politici ed esperti), di eguaglianza tra le nazioni (il contrario dei nazionalismi reattivi, sia quello dei «forti» che quello dei «deboli») e di rinnovamento della democrazia nello spazio europeo (il contrario della «de-democratizzazione» attuale, favorita dal neo-liberismo e dallo «statalismo senza stato» delle amministrazioni europee, colonizzate dalla casta burocratica, che sono anche per buona parte all'origine della corruzione pubblica).

Da tempo avremmo dovuto ammettere questo fatto evidente: non ci saranno passi avanti verso il federalismo, in effetti oggi auspicabile, senza un passo avanti della democrazia al di là delle forme esistenti, in particolare con una intensificazione dell'intervento popolare nelle istituzioni sovranazionali. Significa che, per rovesciare il corso della storia, scuotere le abitudini di una costruzione ormai senza fiato, ci sia bisogno oggi di qualcosa che può essere definito un populismo europeo, un movimento convergente delle masse o un'insurrezione pacifica, attraverso la quale venga espressa contemporaneamente la rabbia delle vittime della crisi contro coloro che ne approfittano (o la alimentano) e l'esigenza di un controllo «dal basso» sugli scambi tra finanza, mercati e politica degli stati? Sì, senza dubbio, perché non c'è altro nome per definire la politicizzazione del popolo, ma a condizione - se si vogliono scongiurare altre catastrofi - che vengano istituiti seri controlli costituzionali e che rinascano delle forze politiche su scala europea, in grado di far prevalere all'interno di questo populismo «post-nazionale» una cultura, un immaginario e degli ideali democratici intransigenti. C'è un rischio, ma è minore di quello di lasciare libero corso ai diversi nazionalismi.


Dov'è la sinistra europea?

Queste forze costituiscono ciò che tradizionalmente, nel continente, era chiamata la sinistra. Ma anch'essa è in stato di fallimento politico: a livello nazionale e internazionale. Nello spazio che ormai conta, che attraversa le frontiere, ha perso qualsiasi capacità di rappresentazione delle lotte sociali o di organizzazione di movimenti di emancipazione, in maggioranza si è allineata ai dogmi e ai ragionamenti del neo-liberismo. Di conseguenza, si è disintegrata dal punto di vista ideologico. Coloro che la incarnano sono soltanto gli spettatori e, in mancanza di seguito popolare, i commentatori impotenti di una crisi contro la quale non propongono nessuna risposta collettiva: niente dopo lo choc finanziario del 2008, niente dopo l'imposizione alla Grecia delle ricette dell'Fmi (peraltro vigorosamente denunciate in altri luoghi e in altri tempi), niente per «salvare l'euro» altrimenti che pesando sulle spalle dei lavoratori e dei consumatori, niente per rilanciare il dibattito sulle possibilità e gli obiettivi dell'Europa solidale.

Cosa succederà, in queste condizioni, quando entreremo nelle nuove fasi della crisi, che devono ancora intervenire? Quando le politiche nazionali sempre più securitarie si svuoteranno del loro contenuto (o del loro alibi) sociale? Ci saranno dei movimenti di protesta, senza dubbio, ma isolati, che potranno venire deviati verso la violenza o recuperati dalla xenofobia e il razzismo già galoppanti, destinati a produrre ancora maggiore impotenza e più disperazione. Tuttavia, la destra capitalista e nazionalista, benché non resti inattiva, è potenzialmente divisa tra strategie contraddittorie: lo si è visto a proposito dei deficit e dei piani di rilancio economico, lo vedremo ancora di più quando l'esistenza delle istituzioni europee sarà in gioco (come prefigura, probabilmente, l'evoluzione britannica). Ci sarebbe qui un'occasione da sfruttare, la possibilità di agire. Delineare e dibattere su ciò che potrebbe essere, su ciò che dovrebbe essere una politica anti-crisi su scala europea, democraticamente definita, che cammini sulle due gambe (del governo economico e della politica sociale), capace di eliminare la corruzione e di ridurre le ineguaglianze che l'alimentano, di ristrutturare il debito e di promuovere gli obiettivi comuni che giustificano i trasferimenti tra nazioni solidali le une con le altre. Sarebbe questa la funzione degli intellettuali progressisti europei, sia che si definiscano rivoluzionari o progressisti. Non ci sono scuse per tirarsi indietro.

[trad; it. di Anna Maria Merlo, in il manifesto, 27 maggio 2010]

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