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giovedì 13 maggio 2010

autoportrait


Rudy M. Leonelli
laureato in Filosofia all’Università di Bologna con la tesi Il problema della genealogia in M. Foucault; relatore  Guglielmo Forni Rosa,  correlatore Roberto Dionigi.

Ottenuto il DEA (Diplôme d’Études Approfondies) in filosofia con un mémoire sulla modernità in Foucault, diretto da Étienne Balibar,  all'Università di Paris X, ho poi conseguito il dottorato di ricerca in filosofia, con la tesi:  Foucault généalogiste, stratège et dialecticien. De l’histoire critique au diagnostic di présent, diretta da Étienne Balibar; soutenance de thèse  presieduta da Pierre Macherey.

Ho partecipato alla redazione di Invarianti e al gruppo di discussione di altreragioni.

Ho inoltre pubblicato su diverse altre riviste tra cui Cahiers pour l’analyse concrète, Eidos, Études Jean-Jacques Rousseau, Per il Sessantotto, Razzismo & Modernità, Vis-à-vis e in volumi collettanei della collana di studi filosofici Arcipelago.
Ho preso parte a colloqui, incontri, convegni e seminari in Italia e in Francia.
Ho curato l'edizione del volume Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, Bulzoni Editore, Roma 2010, con testi di Étienne Balibar, Albert Burgio, Stefano Catucci, Marco Enrico Giacomelli, Guglielmo Forni Rosa, Manlio Iofrida, Rudy M. Leonelli.

Svolgo seminari e attività didattiche correlate presso il  Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Bologna

... lungo la linea di contatto della filosofia con la non-filosofia

lunedì 3 maggio 2010

dibattito sul nazifascismo - 6 maggio, Bologna



«La non analisi del fascismo è uno dei fatti politici più importanti di questi ultimi trent'anni»
Michel Foucault, 1977


«Cari amici, è bene ricordare date significative che hanno chiuso quell'episodio straordinario, nuovo per la storia italiana, che è stata la lotta di Liberazione. Però, stiamo attenti: non basta un giorno all'anno. In questa situazione, la Resistenza va ricordata coi fatti e con gli atti per ogni giorno che noi trascorriamo su questa terra che ci sostiene»
Renato Romagnoli, partigiano, 24 Aprile 2010 Xm24

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Che cosa è stato il nazifascismo? Un incidente di percorso nel luminoso cammino civile dell'Europa?
oppure qualcosa che ha radici profonde e insondate nella storia e nella cultura europee?
E' un fenomeno sconfitto e archiviato per sempre, oppure qualcosa che potrebbe ripetersi con pari violenza, pur in forme nuove e aggiornate?

Considerazioni a partire da due libri e rispettivi autori:
Luigi Fabbri, La Controrivoluzione Preventiva: riflessioni sul fascismo, ZIC, 2009.
Valerio Romitelli, L'odio per i partigiani: come e perché contrastarlo, Napoli, Cronopio, 2007.

Interverranno:
Marco Fincardi (Dipartimento di Storia, Univ. di Venezia)
Rudy M. Leonelli (Dipartimento di Filosofia, Univ. di Bologna)
Valerio Romitelli (Dipartimento di Storia, Univ. di Bologna)
a seguire, spazio al dibattito

giovedì 6 maggio, dalle ore 16
Giardino Dubcek - Facoltà di Scienze politiche
Strada Maggiore 45 - Bologna
(in caso di maltempo l'iniziativa si terrà presso l'aulaC, sempre a
Scienze Politiche)
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organizzato da Aula C Staffetta
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mercoledì 21 aprile 2010

Michel Foucault, il corpo vivo della filosofia

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... Quanto a coloro per i quali crearsi dei problemi, cominciare e ricominciare, cercare, sbagliare, riprendere tutto da cima a fondo, e trovare ancora il modo di esitare a ogni passo, coloro, insomma, per i quali lavorare in modo problematico e in un continuo travaglio intellettuale, equivale a una posizione dimissionaria, be’, non siamo, chiaramente, dello stesso pianeta.

… il motivo che mi ha spinto era molto semplice. Spero anzi che, agli occhi di qualcuno, possa apparire sufficiente di per sé. È la curiosità; la sola specie di curiosità, comunque, che meriti d’esser praticata con una certa ostinazione: non già quella che cerca di assimilare ciò che conviene conoscere, ma quella che consente di smarrire le proprie certezze. A che varrebbe tanto accanimento nel sapere se non dovesse assicurare che l’acquisizione di conoscenze, e non, in un certo modo e quanto è possibile, la messa in crisi di colui che conosce? Vi sono dei momenti, nella vita, in cui la questione di sapere se si può pensare e vedere in modo diverso da quello in cui si pensa o si vede, è indispensabile per continuare a guardare o a riflettere. Mi si potrà forse obiettare che questi giochetti personali è meglio lasciarli dietro le quinte, e che, nel migliore dei casi, fanno parte di quei lavori di preparazione che si estinguono spontaneamente non appena han preso forma. Ma che sa è dunque la filosofia, oggi – voglio dire l’attività filosofica – se non è lavoro critico del pensiero su se stesso? Se non consiste, invece di legittimare ciò che si sa già, nel cominciare a sapere come e fino a qual punto sarebbe possibile pensare in modo diverso? Vi è sempre un che di derisorio nel discorso filosofico quando pretende dall’esterno, di dettar legge agli altri, dir loro dov’è la loro verità o come trovarla, o quando trae motivo di vanto dall’istruir loro il processo con ingenua positività; ma è suo pieno diritto esplorare ciò che ciò che, nel suo stesso pensiero, può essere mutato dall’esercizio di un sapere che le è estraneo. La “prova” – che va intesa come prova modificatrice di sé nel gioco della verità e non come appropriazione semplificatrice di altri a scopi di comunicazione – è il corpo vivo della filosofia, se questa è ancor oggi ciò che era un tempo, vale a dire un’“ascesi”, un esercizio di sé nel pensiero.

Michel Foucault, L’usage des plaisirs, Gallimard, Paris 1984, tr. it. di L. Guarino, L’uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano 1984, p. 13-14.
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mercoledì 14 aprile 2010

Seminario. Michel Foucault: «una filosofia presente, inquieta, mobile lungo tutta la sua linea di contatto con la non-filosofia»



Università degli Studi di Bologna
Dipartimento di Filosofia
A. A. 2009-2010

Rudy M. Leonelli
dottore di ricerca in Filosofia

Seminario
per il corso di Filosofia della storia del prof. Manlio Iofrida

Michel Foucault:
«una filosofia presente, inquieta, mobile lungo tutta la sua linea di contatto con la non-filosofia»


 
Concentrandosi inizialmente su alcuni luoghi cruciali della Storia della follia nei quali la relazione tra filosofia e non-filosofia è particolarmente intenso, il seminario tende poi a mostrare come – attraverso un ininterrotto lavoro di ripensamento contrassegnato da una serie di rettifiche dirette o indirette – il tracciato della ricerca di Michel Foucault abbia operato incessanti spostamenti, in un processo di continua problematizzazione e riproblematizzazione.
Procedendo sulla linea di contatto della filosofia con la non-filosofia, le giornate conclusive sono dedicate all’esplicitazione del rapporto forte tra le inchieste di Foucault e certe analisi di Marx, in particolare con luoghi de Il capitale, libro I, IV sezione.

Testi:

Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, qualunque ristampa.

Rudy M. Leonelli (a cura di), Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, Bulzoni, Roma, 2010.
Parti di altri testi per i frequentanti verranno fornite in fotocopie.


Orario e sede del seminario: Giovedì, aula B, via Centotrecento 18, ore 11-13
da giovedì 15 aprile a giovedì 13 maggio 2010




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Avviso di conferenza:

giovedì 22 aprile


Giuseppe Panella
(docente presso la Scuola Normale Superiore di Pisa)
parteciperà al seminario con l'intervento:


Il lascito Foucault



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post correlati: Foucault-Marx. Paralleli e Paradossi
Foucault, Marx, marxismi



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martedì 13 aprile 2010

Foucault-Marx. Paralleli e paradossi


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Foucault-Marx
Paralleli e paradossi
a cura di Rudy M. Leonelli
Bulzoni Editore


Che Marx – e, nel suo solco, un’eterogenea e “scismatica” costellazione di teorici, filosofi e/o militanti che ad esso si richiamano – potessero trovare attualità filosofica anche attraverso certe letture di Foucault, è un fatto imprevedibile ed estraneo alla cultura corrente. Specie in Italia. Un’eventualità non contemplabile, non contemplata, in un orizzonte repentinamente divenuto familiare, pacifico, “acquisito”.

Dopo circa un quarto di secolo, dall’inizio degli anni Sessanta alla metà degli anni Ottanta, in cui aveva prevalso un forte e generale ostracismo, Foucault sembra ormai accomodarsi senza traumi nella cultura del tempo, che pare averlo “assimilato” senza troppi problemi.

Eppure, se ci fosse richiesto di indicare il tratto fondamentale e distintivo dell’intera attività di Foucault, potremmo rispondere, con una certa sicurezza: la sospensione, la rottura delle nostre evidenze: il turbamento e la trasformazione simultanea del modo in cui ci rapportiamo al “nostro” passato e a questo presente.

Di fatto, se sospendiamo il pregiudizio ordinario che relega Foucault in un postmarxismo di carattere meramente cronologico, dove il suo lavoro conduce un'esistenza apparentemente confortevole e spesso rassicurante,  accediamo ad un vasto campo, in gran parte inesplorato, che offre un'ampia gamma di ricerche possibili.

È questa la
prova che i lavori qui proposti hanno cercato di affrontare: riaprire, riesaminare e riformulare il rapporto tra Foucault e Marx, come un modo per pensare altrimenti l’uno e l’altro. Perché l’emergere di relazioni impreviste tra due termini, trasforma i termini stessi, mutando il loro statuto, la loro rilevanza, il loro “luogo”.



Indice:

Rudy M. Leonelli, Premessa

Étienne Balibar, Foucault-Marx, paralleli e paradossi

Alberto Burgio, La passione per la critica

Stefano Catucci, Essere giusti con Marx

Guglielmo Forni Rosa, Note sul rapporto Foucault-Marx. A proposito di “Bisogna difendere la società”

Marco Enrico Giacomelli, Ascendenze e discendenze foucaultiane in Italia. Dall’operaismo italiano al futuro

Manlio Iofrida, Marxismo e comunismo in Francia negli anni ’50. Qualche appunto sul primo Foucault

Rudy M. Leonelli, L'arma del sapere. Storia e potere tra Foucault e Marx

Note biografiche degli autori

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recensioni:
op. cit.:

lunedì 15 marzo 2010

Entretien avec Michel Foucault [1981]


Entretien avec Michel Foucault

réalisé par André Berten



Nel 1981 Michel Foucault fu invitato dalla Facoltà di diritto della Scuola di criminologia dell’Università di Lovanio a tenere una serie di corsi-conferenze da lui intitolati: Mal faire, dire vrai. Fonction de l’aveu en justice. Per l’occasione, nel maggio di quell’anno, il professor André Berten realizzò un’intervista filmata dal Centro audiovisivo dell’Università. Il fim è stato ripreso da FR3 nel quadro delle trasmissioni Océanique.





A. B. … Qu’est-ce qui a été le fil conducteur de votre réflexion, s’il est possible de répondre à un telle question ?

M. F. Mais c’est une question difficile que vu me posez. D’abord parce-que le fil conducteur, on ne peut guère dégager qu’une fois qu’on a été conduit au terme, et puis enfin, vous savez je ne considère absolument ni pas ni comme un écrivain ni comme un prophète. Je travaille, c’est vrai, en grande partie souvent au gré de circonstances, des sollicitations extérieures, de conjonctures diverses. Je n’ai pas du tout l’intention de faire la loi, et il me semble que s’il y a dans ce que je fais une certaine cohérence, elle peut être liée à une situation qui nous appartient à tous, les uns et les autres, dans laquelle nous sommes tous, plus qu’à une intuition fondamentale ou à une pensée systématique. C’est vrai peut-être depuis le jour où Kant a posé la question : « Was ist Aufklärung ? » c’est-à-dire qu’est-ce que notre actualité, qu’est-ce qui se passe autour de nous, qu’est-ce que notre présent ; il me semble que la philosophie a acquis là une nouvelle dimension. Plus, s’est ouverte pour elle une certaine tâche qu’elle avait ignorée ou qui n’existait pas pour elle auparavant, et qui est de dire qui nous sommes, de dire : qu’est-ce que notre présent, qu’est-ce que ça, aujourd’hui. C’est évidemment une question qui n’aurait pas eu de sens pour Descartes. C’est une question qui commence à avoir du sens pour Kant quand il se demande ce que c’est l’Aufklärung ; c’est une question qui est en un sens la question de Nietzsche. Je pense aussi que la philosophie parmi les différentes fonctions qu’elle peut et quelle doit avoir, a aussi celle-là, de s’interroger sur ce que nous sommes dans notre présent et dans notre actualité. Je dirai que c’est autour de cela que je pose la question et dans cette mesure je suis Nietzschéen ou Hégélien ou Kantien, de par ce côté là ...

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La trascrizione in lingua originale dellintervista è stata pubblicata - con il titolo Entretien avec Michel Foucault - in “Cahiers du grif” n. 37-38, 1988, p. 9-19.
La traduzione italiana, Intervista a Michel Foucault [1981], a cura di Antonello Sciacchitano, è stata pubblicata in “aut-aut”, n. 331, 2006, p. 55-66.
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giovedì 18 febbraio 2010

Il mondo borghese “citato in giudizio” (M. Foucault) dall’opera d’arte


Il mondo borghese “citato in giudizio”
(M. Foucault) dall’opera d’arte:

La ricerca di un mondo nuovo e di una nuova comunità nel cinema contemporaneo




SEDE: BIBLIOTECA MULTIMEDIALE R. RUFFILLI
VICOLO BOLOGNETTI, 2 BOLOGNA

Il calendario degli incontri:


Martedì 2 marzo 2010, ore 20.30

Milim (Israele, Francia, Italia, 1995)

di Amos Gitai

a cura di Marilina Gianico


Martedì 9 Marzo 2010, ore 20.30

La schivata (L’esquive) (Francia, 2003)

di Abdellatif Kechiche

a cura di Daniela Vola


Martedì 23 Marzo 2010, ore 20.30

L’humanité (Francia, 1999)

di Bruno Dumont

a cura di Jonny Costantino


Martedì 30 Marzo 2010, ore 20.30

Sans Soleil (Francia, 1983)

di Chris Marker

a cura di Francesco Cattaneo e Gianluca Pulsoni


Martedì 13 Aprile 2010, ore 20.30

L’Anglaise et le Duc [La nobildonna e il duca], (Francia, 2001)

di Eric Rohmer

a cura di Enrico Camporesi


Martedì 20 Aprile 2010, ore 20.30

E la nave va (Francia, Italia, 1983)

di Federico Fellini

a cura di Vito Contento


Organizzazione

Laura Vichi, Laura Zardi, Renzo Principe


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Per informazioni tel. 051/276112
Ingresso gratuito (riservato agli studenti, al personale e ai docenti del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna).


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da: Spazio di cultura Surrealista
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lunedì 16 marzo 2009

Michel Foucault - Parresia e pericolo

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… quando un filosofo si rivolge a un sovrano, a un tiranno, e gli dice che la sua tirannide è pericolosa e spiacevole, perché la tirannide è incompatibile con la giustizia, in quel caso il filosofo dice la verità, crede di stare dicendo la verità, e ancor più, corre un rischio (giacché il tiranno può adirarsi, può punirlo, può esiliarlo, può ucciderlo). Fu questa esattamente la situazione in cui si trovò Platone con Dionigi di Siracusa – sulla quale ci sono interessantissimi riferimenti nella Lettera settima di Platone, e anche nella Vita di Dionigi di Plutarco.
Quindi, come vedete, il parresiastes è qualcuno che corre un rischio. Naturalmente, non è sempre il rischio della vita. Quando, per esempio, qualcuno vede un amico che sta commettendo un errore e rischia di incorrere nelle sue ire dicendogli che sta sbagliando, costui sta agendo da parresiastes. In tal caso, certo, non rischia la vita, ma può irritare l’amico coi suoi rilievi, e conseguentemente l’amicizia può risentirne. Se, in una discussione politica, un oratore rischia di perdere la sua popolarità perché la sua opinione è contraria a quella della maggioranza, o perché può condurre ad uno scandalo politico, egli sta usando la parresia. La parresia dunque è legata al coraggio di fronte al pericolo: essa richiede propriamente il coraggio di dire la verità a dispetto di un qualche pericolo. E nella sua forma estrema, dire la verità diventa un «gioco» di vita o di morte.

Michel Foucault, Discourse and Truth. The Problematization of Parresia, 1985; trad. it. a c. d. Adelina Galeotti, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma, 1996, p. 7.

venerdì 29 agosto 2008

Strade pericolose (di Franco Bergoglio)

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Strade pericolose
Tutte le vie Almirante portano a Roma *

di Franco Bergoglio

La manovra a tenaglia volta a riabilitare il segretario del MSI Giorgio Almirante non è partita con la pubblicazione dei suoi discorsi parlamentari o con la proposta di Alemanno di dedicargli una via di Roma. Per inquadrare la vicenda dobbiamo risalire al 2003, quando il presidente della Regione Lazio Storace invitò gli amministratori locali a intitolare al nostro una via in ogni comune. Viterbo, guidata da una destra zelante, gli ha consacrato addirittura una frondosa circonvallazione inaugurata alla presenza di Donna Assunta. A Corato, in Puglia, c’è una piazza; ma sono almeno una quindicina le vie Almirante italiane, che spesso hanno destato proteste di cittadini, raccolte firme, censure delle associazioni antifasciste e delle sinistre.
Da questo sguardo alla toponomastica italiana risulta evidente come la battaglia Almirante si sia già consumata e che Roma capitale sia solo la ciliegina. Si vuole Almirante tra i padri della patria, “pacificatore”, statista: ma la proposta parte sempre da esponenti di AN, ansiosi di pagare tributo alla memoria del primo segretario del mai dimenticato Movimento sociale. Per sviare le proteste, Alemanno ha corretto il tiro affermando che la via sarà dedicata al segretario del MSI solo con l’assenso della comunità ebraica romana.
Questa uscita apparentemente conciliante nasconde delle insidie.
Perché solo la comunità ebraica? Almirante nel 1938 era redattore de La difesa della razza, il giornale che invocava la persecuzione fascista degli ebrei. Nonostante la gravità dei suoi scritti antiebraici è noto che egli successivamente li abiurò con un atto di pubblico pentimento e questo fattore potrebbe addirittura rivelarsi un vantaggio. Se rimangono nell’ombra le vittime concrete, i deportati e i fucilati, si rischia di fermarsi alle scelte di campo ideali, che con una ammenda diventano peccati veniali. E’ una sottile perfidia chiamare la comunità ebraica al ruolo di arbitro unico su un personaggio che ha avuto incarichi direttivi nella Repubblica Sociale Italiana ed è stato coinvolto in vicende gravissime, costellate di lutti.


Tutta Roma e l’intera collettività italiana dovrebbe trovare un moto di sdegno e invece quasi nessuno ha avvertito l’obbligo di reagire anche solo mediante una rilettura storica della figura di Almirante mentre il ritorno in scena avviene con una strategia tanto collaudata da parere orchestrata: il più fortunato e frequente stilema è quello della par condicio viaria: una via ad Almirante, una, per ipotesi, a Berlinguer o Craxi. Anche Alemanno ha seguito la scia. Francesco Merlo, sulla Repubblica del 27 maggio, parlava con ironia di guerra civile toponomastica e nell’incipit dell’articolo, scriveva: «La via di Roma che il sindaco Alemanno devotamente vorrebbe intitolargli non solo rischia di condannarlo per sempre a quell'idea di fucilatore che a sinistra avevamo di lui». Cos’è questa storia del fucilatore cui Merlo allude senza spiegare? Buttata lì così non si capisce e nessuno pare aver voglia di alzare il sipario sui molti fatti controversi che hanno coinvolto Almirante. Partiamo dall’estate 1971. Si rinviene negli archivi di Massa Marittima un bando datato maggio 1944 con in calce la firma di Almirante: il proclama ribadiva la pena di morte per i giovani che non avessero risposto alla chiamata alle armi nell'esercito repubblichino e decretava: «Tutti coloro che non si saranno presentati saranno considerati fuori legge e passati per le armi mediante fucilazione nella schiena». All’affissione del manifesto era seguita di pochi giorni la terribile strage di minatori a Niccioleta nel Comune di Massa Marittima, proprio il luogo dove il bando era stato rinvenuto. Il testo venne fatto circolare con il commento di "Almirante Fucilatore di partigiani". Si profilava la responsabilità quanto meno morale su fatti archiviati con un rapido processo nel dopoguerra, dove gli unici condannati dal tribunale di Pisa erano stati alcuni fascisti locali. Almirante querelò con rabbia tutti coloro che avevano pubblicato la notizia, in primis l’Unità. La sua linea difensiva era improntata al negazionismo: il leader dell’Msi sosteneva fosse un falso storico costruito dalla sinistra. I processi gli diedero torto e Almirante si trovò nella scomoda posizione di passare da accusatore a imputato. Nel 1978 arrivò la sentenza definitiva della Cassazione che assolveva l’Unità e condannava Almirante al risarcimento dei danni, anche perché nel frattempo l’autenticità del bando era stata confermata dal ritrovamento negli archivi di Stato di un telegramma del maggio 1944, spedito dal ministero della Cultura Popolare alla prefettura di Lucca, che riproduceva il bando e il capo di gabinetto (Almirante) ne sollecitava l’affissione in tutti i comuni della provincia.

Il processo ebbe una appendice di sangue: il pubblico ministero che aveva istruito il caso, Vittorio Occorsio, venne freddato in un agguato per mano di terroristi neri. Carlo Ricchini - ai tempi delle vicende giornalista all’Unità - ha donato le carte di questa lunga battaglia processuale all’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell'Età Contemporanea (ISGREC) che ha costituito un fondo.


Nonostante recentemente Repubblica (Fiori il 29 maggio 2008) abbia rilanciato le affermazioni di Ricchini: «Ci apparve subito evidente che era stata scoperta una prova della partecipazione diretta di Almirante alla repressione antipartigiana, da lui tenuta nascosta…» rimane ancora una volta in ombra la strage della Niccioleta, mai destinata agli onori della cronaca. Che sia per via del coinvolgimento di Almirante? La vicina città di Grosseto pochi anni fa voleva titolare una via ad Almirante e l’ISGREC è intervenuto nell’occasione con una memoria indirizzata alla Giunta della città, come ci ha ricordato la direttrice dell’istituto, Luciana Rocchi, firmataria del documento. In questo si poneva l’accento su un ulteriore aspetto: l’attività diretta di Almirante contro gli ebrei, provata da un documento dell’estate del 1944: lo Schema di disposizioni alla stampa e alla radio per la propaganda in materia razziale. Scrive L’ISREG: «con questo schema di disposizioni Almirante dà il suo contributo all’attuazione delle persecuzioni …» agevolando la deportazione degli ebrei dall’Italia nei campi di sterminio tedeschi che produsse oltre 6000 vittime, una trentina delle quali grossetane.

Ma torniamo ai martiri della Niccioleta. Si trattava di lavoratori della miniera di pirite situata nella omonima località che avevano organizzato turni di guardia agli impianti per scongiurare saccheggi e distruzioni ad opera dei nazifascisti in ritirata. Furono scoperti e denunciati da delatori fascisti locali. Difendevano la miniera. Quello fu il pretesto per massacrarli. Sei minatori (in odore di antifascismo) furono massacrati subito, il 13 giugno sul piazzale dello spaccio aziendale. Gli altri furono tradotti a Castelnuovo Val di Cecina e il giorno seguente ne furono assassinati 77. L’ISGREC – ci informa Luciana Rocchi ha recentemente inaugurato a Castelnuovo un museo diffuso, realizzando grandi pannelli collocati nei luoghi della memoria.

Quasi in contemporanea, per tragica ironia, AN ha tappezzato Milano di manifesti per Almirante: “un grande italiano, un esempio da seguire”. Ma come si studia a scuola con Manzoni, si può essere grandi anche nel male. Forse bisognerebbe tappezzare Milano col bando Almirante. Sul blog Incidenze due lunghi post sono consacrati alla disamina della figura di Almirante: il secondo in particolare narra attraverso i documenti gli eventi del famigerato bando e della Niccioleta.

martedì 15 aprile 2008

"Il delirio razzista", giornata di studi - Bologna, 23 aprile

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Il Delirio Razzista


Giornata di studi
Mercoledì 23 Aprile, ore 21
sala dello Zodiaco, via Zamboni 13, Bologna


La giornata di studi costituisce una tappa all'interno della “primavera antifascista”, insieme di iniziative, promosse dall'Assemblea Antifascista Permanente e da altri gruppi e realtà, che ruota intorno alla storia degli ultimi giorni di aprile e a un rinnovato antifascismo.
Essa vuole essere un momento di confronto e approfondimento su un tema, quello del razzismo, assai complesso e che si intreccia inevitabilmente con altri temi: il fascismo, il totalitarismo, il sessismo, l'autoritarismo. Un'analisi storica di questo tema può servire a una migliore comprensione dei meccanismi di costruzione di quel “delirio razzista” e della sua trasformazione in un progetto politico coerente e totalitario. Il razzismo quindi anche oggi pone ostacoli non facili da superare nella costruzione di un mondo in cui le relazioni tra donne e uomini si basino sulla libertà e la dignità e che consideri la “diversità” una fortuna, una ricchezza.
E' cosa nota, purtroppo, come “sentimenti di intolleranza” siano ben presenti all'interno dell'odierna società e a ogni latitudine. Meccanismi psicologici duri da estirpare trovano nuova linfa nelle scelleratezze di un sistema autoritario sempre in bilico tra Stato di diritto e Stato totalitario. Così accade oggi in Italia, dove leggi xenofobe si affiancano a uno sdoganamento crescente del fascismo, in un clima di paura alimentato ad arte dai mass media in cui anche la Chiesa trova la sua faccia più inquietante, cercando di influenzare ancora “la morale” e attaccando diritti acquisiti.
Le crociate cosiddette “legalitarie” provano così a cancellare l'elementare concetto di umanità, rafforzando uno stato autoritario, massima espressione del “migliore dei mondi possibili”, nonché -si coglie tra le righe- l'unico possibile.
Eppure vi sono sul territorio uomini e donne che non si piegano certo a questa visione degradata della società e portano avanti da soli, in gruppi o in coordinamenti forme di autorganizzazione che sono in grado di intervenire fattivamente e di gettare i semi necessari per invertire una rotta tutt'altro che segnata.
La giornata di studi prende le mosse dalle acute riflessioni sul fascismo e il razzismo di Camillo Berneri, militante anarchico, attivo organizzatore antifascista, morto nella Spagna rivoluzionaria per mano della reazione stalinista, per poi affrontare “il delirio razzista” in alcune delle sue molteplici espressioni.



Interventi di:

Luciano Nicolini – Berneri nel quadro del pensiero libertario
Massimo Varengo - Berneri e l'antifascismo
Mauro Raspanti - L'antigitanismo
Nadia Musolesi - Le leggi razziali del 1938
Vincenza Perilli – Razzismo: una "malattia" soltanto maschile?
Rudy Leonelli – La razionalità dell’abominevole: Foucault critico del razzismo


Seguiranno comunicazioni e interventi dell'AAP di Bologna e del Coordinamento Migranti.


Promuovono: Assemblea Antifascista Permanente, Centro Furio Jesi, Associazione Nazionale Partigiani d’Italia Bolognina, Unione Sindacale Italiana, Circolo anarchico Camillo Berneri, Archivio storico della Federazione Anarchica Italiana

martedì 27 febbraio 2007

Maurice Blanchot: Michel Foucault come io l'immagino

Maurice Blanchot
Michel Foucault come io l’immagino, Genova, Costa & Nolan 1988 [Michel Foucault tel que je l’imagine, Montpellier, Fata Morgana 1986]  
 
1. L’immagine non è, in Blanchot, confortata dalla credenza nel “profondo di un sogno felice che l’arte troppo spesso autorizza”.
“Vivere un avvenimento in immagine – citiamo ancora, e necessariamente a lungo, da Lo spazio letterario – non vuol dire disimpegnarsi da questo avvenimento, disinteressarsene, come vorrebbero la versione estetica dell’immagine e l’ideale sereno dell’arte classica, ma vuol dire non più impegnarvisi con una decisione libera: vuoi dire lasciarsi prendere, passare dalla regione del reale, in cui ci teniamo a distanza dalle cose per meglio disporne, a quest’altra regione in cui la distanza ci tiene, questa distanza è allora profondità non viva, indisponibile, lontananza inapprezzabile divenuta come la potenza suprema e ultima delle cose ... Vivere un avvenimento in immagine, non vuol dire avere di questo avvenimento una immagine, e neppure conferirgli la gratuità dell’immaginano. L’avvenimento, in questo caso, avviene veramente; e tuttavia avviene ‘veramente’? Ciò che accade ci afferra, come ci afferrerebbe l’immagine, vale a dire ci priva, di esso e di noi, ci tiene al di fuori, fa di questo di fuori una presenza in cui ‘Io’ non ‘si’ riconosce”.
L’evocazione straniante dell’incontro anonimo e aleatorio con Foucault nel ’68, che apre Michel Foucault come io l'immagino, presenta quel carattere di esteriorità irriducibile dell’avvenimento, che costituisce un luogo cruciale dell’opera (sia “critica”, sia letteraria”) di Blanchot. “Non è una
finzione benché non sia capace di pronunciare a proposito di tutto ciò la parola verità. Gli è successo qualcosa, e non può dire che sia vero, né il contrario. Più tardi, pensò che l’avvenimento consistesse in questa maniera di non essere né vero, né falso” (L'attesa, l’oblio). E ancora, ne La comunità inconfessabile (a proposito di Acéphale): “Coloro che vi hanno partecipato non sono sicuri di avervi avuto parte”.

2. “Esprimere soltanto quello che non può esserlo. Lasciarlo inespresso” (L‘attesa, l’oblio).

venerdì 2 febbraio 2007

Foucault, Marx, marxismi

Il convegno di Bologna del 24 novembre 2005


Qual è stata l’incidenza di Marx e dei marxismi (il plurale è, per noi, d’obbligo) nella formazione di Foucault e nel percorso delle sue ricerche? E quanto il pensiero foucaultiano ha segnato lo sviluppo del marxismo occidentale?
Il convegno "Foucault, Marx , marxismi", organizzato dal Dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna presso la Scuola Superiore di Studi Umanistici, ha cercato di rispondere a questi interrogativi attraverso il confronto tra una pluralità di interventi accomunati dall’esigenza di dar corpo e determinazioni alla complessità di questi rapporti, spesso riconosciuta almeno in linea di principio, ma – in particolare in Italia – raramente esplorata nelle sue molteplici articolazioni.

Manlio Iofrida ha esplorato uno dei periodi più trascurati dalla letteratura critica: il Foucault che, all’inizio degli anni ’50, si iscrive al PCF, e le cui posizioni filosofiche oscillano tra due poli : la psicologia esistenziale di Biswanger (di filiazione heideggeriana) e un marxismo ortodosso in cui trovano spazio elementi di osservanza sovietica (in particolare Pavlov). Due poli rappresentati da due opere del ’54: l’Introduzione a Malattia mentale ed esistenza di Biswanger e Maladie mentale et personnalité. Affrontando il nodo della coesistenza di questi poli, Iofrida ha messo in luce un retroterra comune, che attraversa molteplici marxismi dell’epoca: dalle ascendenze surrealiste, all’opera di Bataille e del Blanchot del dopoguerra, al poeta e resistente René Char; una “nebulosa” in cui diversi orientamenti legati a Marx intersecano riferimenti a Nietzsche e Heidegger. Iofrida ha poi riesaminato le questioni poste dal saggio di Pierre Macherey (in Critique, n. 471-472, 1986) sulle trasformazioni che, con la riedizione del ’64, Foucault ha apportato al testo della Maladie del ’54, e ha esplicitato un unico punto di dissenso da Macherey: nel ’64 Foucault non avrebbe sostituito Marx con Heidegger; quanto piuttosto sostituito a un marxismo di osservanza sovietica un marxismo “nietzscheano-heideggeriano”. Non un cancellazione di Marx, ma l’esordio di un diverso rapporto con Marx, non più soggetto all’ortodossia.

Partendo dal corso del 1976 (Bisogna difendere la società), Guglielmo Forni Rosa ha notato che i riferimenti di Foucault al marxismo non sono omogenei e sono riferibili a diversi marxismi. Foucault distingue il riconoscimento dell’importanza di Marx dalla critica del marxismo come istituzione ancorata ad apparati di potere (partito, Stato). In questo senso, il rifiuto del marxismo come scienza potrebbe essere inteso non tanto come contestazione della legittimità del marxismo a comparire tra le scienze sociali del XIX secolo, ma come critica degli effetti di potere propri a un discorso scientifico. Un punto di forte prossimità a Marx è la concezione foucaultiana dell’individuo come prodotto storico e sociale e non come un dato naturale, sottolineata nel ’76 dall’opposizione “barbaro”/“selvaggio”. Nel rifiuto della dialettica quale forma di pacificazione di un sapere storico-politico “bellicoso”, prevale l’impossibilità di una “uscita dalla storia” in termini di conciliazione.

Sviluppando una lettura del corso del ’76 che ne privilegia le dimensione autoreferenziale (Foucault problematizza riflessivamente la griglia della “battaglia perpetua” che percorre i suoi testi degli ani ’70), Rudy M. Leonelli – con una rielaborazione delle tesi proposte in un saggio pubblicato in Altreragioni (n. 9, 1999) – ha sottolineato che l’intensificazione della lettura interna conduce paradossalmente al suo oltrepassamento, aprendo il problema cruciale del rapporto con Marx, inteso come condizione storica di esistenza della ricerca foucaultiana. L’analisi di questo rapporto è ostacolata tanto dal “gioco” di Foucault che usa frequentemente Marx senza citarlo, quanto a diverse imprecisioni nelle citazioni. Il caso più importante è quello della conferenza del 1976 “Le maglie del potere”, in cui Foucault indica luoghi del Capitale come un punto di riferimento per un’uscita dalla concezione giuridica del potere. Con il riferimento (erroneo) al II libro del Capitale, Foucault si riferisce in realtà a brani del tomo 2 del primo libro, (IV sezione). Solo se si individua il Marx al quale si riferisce Foucault, diviene possibile leggere l’analisi delle tecnologie del potere in termini produttivi come una generalizzazione delle analisi marxiane.

Stefano Catucci ha ricordato che la rilevanza politica di Foucault si è affermata a partire dalle frasi del 1966 (Le parole e le cose) che contestavano la rottura epistemica di Marx in rapporto all’economia politica ricardiana. In seguito Foucault ha cercato non tanto di “ritrattare” questa tesi, ma di circoscriverne la portata, sottolineando la rottura imprescindibile costituita dagli scritti storici di Marx. Alla radice della critica foucaultiana del marxismo, stanno in primo luogo i deludenti esiti dell’esperienza sovietica. Il Foucault più recente, nel corso del 1978, Sicurezza, territorio, popolazione, ha individuato la deficienza fondamentale della cultura socialista nell’assenza di un’autonoma concezione della “governamentalità” – che si è manifestata nella riduzione delle esperienze di governo socialista nell’alternativa tra la subalternità al liberalismo (il socialismo come “antidoto” o “correttore” di quest’ultimo) e lo stato di polizia. Il fatto che la valutazione delle esperienze di socialismo al potere sia stata generalmente posta in termini di fedeltà ad un testo, è al tempo stesso l’indice della mancanza di una concezione autonoma, e un modo di evitare il problema attraverso l’esegesi accademica del testo, verso la quale Foucault ha costantemente mantenuto un atteggiamento critico.

Marco Enrico Giacomelli – riprendendo le tesi che ha proposto in un saggio pubblicato nel numero monografico “Marx et Foucault” di Actuel Marx (n. 36, 2004) – ha evidenziato diverse corrispondenze tra le ricerche dell’operaismo italiano e le genealogie di Foucault. L’inchiesta sul cremonese di Montaldi (1956) inaugura un atteggiamento “partecipante”, in opposizione alla pretesa “neutralità” del ricercatore. Consci dell’obsolescenza degli schemi interpretativi del movimento operaio, gli operaisti privilegiano il terreno dell’inchiesta, poi tradotto nel concetto di conricerca (elaborato da Guiducci, e sviluppato da Alquati). Esperienze accomunabili a Foucault per il primato della pratica, il riferimento al sottoproletariato e la percezione del carattere disseminato del potere (il tema della società-fabbrica nell’operaismo). In rapporto all’attualità, Giacomelli sottolinea la fecondità della pratica dell’inchiesta, oltre i limiti delle impostazioni che, insistendo unilateralmente sul passaggio “epocale” al lavoro immateriale, sottovalutano le dimensioni del comando capitalistico.

Alberto Burgio ha affermato la possibilità di leggere tanto Marx quanto Foucault come due diverse imprese fondamentalmente critiche: è nel segno della critica che può collocarsi il rapporto tra i due. L’esigenza di staccarsi dalla vulgata che vuole un Foucault senza (o contro) Marx, deve farci chiedere da dove proviene: in primo luogo da Foucault stesso che, contestando il ricorso rituale e intimidatorio a Marx, usa Marx senza citarlo, e spesso laddove Marx è per lui più importante. Identificare questo Marx non citato è decisivo in quanto ci permette non solo di capire meglio Foucault e il suo rapporto con Marx, ma anche Marx stesso. Foucault ha ricordato l’importanza di Marx per lo sviluppo del concetto produttivo di potere, riguardo sia al potere disciplinare che alla storia della sessualità. La derivazione marxiana è esplicita, così come è decisivo il ruolo dei rapporti capitalistici. Contro le ricorrenti letture economicistiche di Marx, Foucault ci ricorda che Marx è un eccezionale analista dei rapporti di potere. Di più, Foucault mette in campo un concetto di egemonia che rinvia chiaramente a Gramsci. Ma, precisate queste vicinanze, resta il limite dell’analisi molecolare del potere che, secondo Burgio, non riesce a rendere conto delle crescenti divaricazioni e gerarchizzazioni.

rudy m. leonelli, novembre 2005

Una versione abbreviata di questo resoconto è stata pubblicata dal quotidiano Liberazione, 26 novembre 2005, p. 3, con il titolo:
Foucault, contro Marx. Anzi con...
 
(ripubblicato dalla Rassegna stampa de l'ernesto, da Essere comunisti, dalla rassegna sull'operaismo curata dal sito Prc Pescara)

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sabato 27 gennaio 2007

Un revisionismo normale

Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo "come propriamente è stato". Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell'istante di un pericolo.
(Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia)

Premessa
 Il titolo di un libro di Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, non costituisce soltanto un'adeguata designazione dei negazionisti, araldi della "dottrina secondo la quale il genocidio praticato dalla Germania nazista nei confronti degli ebrei e degli zingari non è esistito, ma appartiene al mito, alla diceria, alla truffa"[1][1].   
Dice anche che la memoria può morire, e non di morte naturale.
Affrontare la questione della memoria a partire dalla sua estremità negativa, la cancellazione, può far emergere la sua materialità. Pensata a fronte della sua possibile sparizione, la memoria si rivela non come una sedimentazione continua, ma come una formazione storica; non una "facoltà" ma un'attività, non un patrimonio pacificamente ricevuto e posseduto ma un compito, un'arma e una posta in gioco.

1. Strategie
Nel composito schieramento revisionista, il negazionismo sembra occupare, a prima vista, una posizione marginale[2].
Focalizzando l'attenzione sul punto cruciale dello sterminio perpetrato dai nazionalsocialisti (e collaboratori) si distinguono due principali correnti: da un lato un revisionismo relativizzatore, accademicamente e mediaticamente presentabile e sovente - ma non senza contestazioni - accettato che, senza ricusare la realtà storica del genocidio, tende a eluderne o eliderne la specificità; dall'altro, il sedicente "revisionismo olocaustico", il negazionismo, più o meno emarginato, che fonda il suo carsico attivismo sull'obiettivo di "confutare" questa realtà.
Assunta in modo rigido - come disgiunzione assoluta di due sfere indipendenti, non comunicanti, reciprocamente estranee - questa distinzione diviene fuorviante, precludendo l'accesso alla dimensione strategica di questi fenomeni.
In un intervento sulla rivista fondata da Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir - «Les Temps Modernes», che mantiene alta e viva l'attenzione critica su questi problemi - Robert Redeker respinge
l'ingannevole distinzione tra revisionismo e negazionismo, essa non ha nessuna pertinenza, il fine perseguito in entrambi i casi si rivela lo stesso, andando il negazionismo direttamente allo scopo, mentre il revisionismo prende per raggiungerlo la via traversa e più paziente della minimizzazione. Il revisionismo in senso stretto, relativizzando ciò che dopo di lui il negazionismo verrà a cancellare, appare come una propedeutica del negazionismo. C'è coalescenza del revisionismo e del negazionismo.[3]
Dal fatto che il negazionismo non sia così isolato come potrebbe sembrare, o piacere, derivano alcune conseguenze. La prima è che la strategia del silenzio, l'idea che sia sufficiente e utile non parlarne, evitando di fornirgli una senz'altro immeritata pubblicità, è ormai da tempo, nella migliore delle ipotesi, una compensazione illusoria. La seconda è che l'analisi dei contesti e delle sinergie che presiedono al suo funzionamento e alla sua riproduzione diviene indispensabile. E urgente.
Natacha Michel sottolinea che il negazionismo non potrebbe incedere senza l'autorizzazione fornitagli da una varietà di revisionismi circostanti:

quello di Furet a proposito della rivoluzione francese, quello che procede alla criminalizzazione delle rivoluzioni del secolo, quello che destituisce il militante come soggetto a profitto della marionetta, quello che abbassa il repubblicanesimo anti-vichyista, ecc. La sola questione che pone il negazionismo è di sapere come è compatibile, rovinato ogni dispositivo di pensiero, e in una volontà di rifare la storia, con le categorie ambienti [4].[4]

In questa prospettiva, alcuni fenomeni altrimenti relegabili nella dimensione del bizzarro e dell'irrilevante divengono comprensibili e sensati. Per esempio il fatto che Ernst Nolte, qualche negazionista italiano ed altri inizino a convenire segnala il superamento di una soglia: dal concatenamento immanente dei discorsi "revisionisti relativizzatori" e negazionisti, sottolineato da Redeker, al coinvolgimento dei soggetti di discorso. [5][5].
Alla cerniera tra i fatti e la riflessione storico-politica si è situata una dimensione decisiva della filosofia contemporanea. È nel riferimento ai fatti, alla loro infima materialità, che Foucault individua il differenziale tra una critica improntata all'armonia prestabilita con le istituzioni e un'altra, più interessante e certo meno confortevole. La critica attiva dei revisionismi, che comporta la necessità di "abbassarsi" a registrare, tentare di decriptare e cartografare eventi non sempre grandi per risonanza e dimensioni , seguire i reticoli mobili e spesso sottili dei fatti (discorsivi e non), è destinata a urtare robusti e molteplici ostacoli. In una parola è scomoda. Essa porta così in rilievo l'esistenza di qualcosa come un interdetto ufficioso ma efficace, che getta una luce diversa sulle istituzioni, sul loro funzionamento e sui loro confini.
Un evento minore, incorporeo come un "convegno che avrebbe dovuto tenersi..."[6] [6] e al tempo stesso materiale come un testo che raccoglie relazioni non pronunciate, presuppone delle condizioni e comporta delle conseguenze.
Tra queste, la più importante è la rottura formale della separazione che sosteneva la legittimazione culturale del revisionismo relativizzatore di Nolte e il suo complemento: il posticcio alone "sovversivo" di cui si ammantava il negazionismo. Al definitivo eclissarsi di questa dicotomia, occorre ricordare che la sua presunta evidenza non è stata da tutti condivisa. Nel 1987, in pieno Historikerstreit[7],[7] Vidal-Naquet osservava con folgorante tempestività: "È grave vedere uno storico come Nolte utilizzare argomenti dell'arsenale revisionista. Come Rassinier, Faurisson o Kern" [8][8] La congiunzione tra i due filoni non è altro che il tardivo riconoscimento di una parentela più lontana: l'attenuazione del genocidio e la sua negazione occupano spazi diversi ma comunicanti e parzialmente sovrapposti.
A fronte della buona coscienza esterrefatta perché un professore emerito dell'Università di Berlino tesse l'elogio della scientificità dei metodi negazionisti, le Tesi di Benjamin balenano come un ricordo nell'istante di un pericolo:

lo stupore perché le cose che viviamo sono ancora possibili (...) è tutt'altro che filosofico. Non è l'inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l'idea di storia da cui proviene non sta più in piedi [9][9].

Uno rapido sguardo critico ad alcune delle motivazioni fornite da Nolte a sostegno della legittimazione dei negazionisti, esposte in un testo del 1993, Streitpunkte [10][10], permette di evidenziare alcune poste in  gioco decisive di questa operazione:

Nolte riduce polemicamente il rifiuto del dialogo coi negazionisti a una sola motivazione: il legame del negazionismo col "vecchio nazionalsocialismo" e col "neonazismo" (le eufemistiche virgolette su questi due termini sono dello stesso Nolte). Attraverso questa riduzione egli rimuove il nucleo della questione: un dibattito coi negazionisti presuppone che lo sterminio perpetrato per mezzo delle camere a gas venga fatto regredire dal piano della realtà storica a quello delle "opinioni" e delle "ipotesi". È l'inaccettabilità di questo presupposto a motivare l'inaccettabilità del dialogo, e proprio su questo punto Nolte è particolarmente minimizzatore.
L'immagine della collocazione politico-ideologica dei negazionisti fornita da Nolte non è altro che una sommaria riproduzione dell'immagine di sé fornita dalla propaganda negazionista. Non c'è, a questo livello, alcun distacco critico: nulla è detto dei rapporti tra "l'uomo di sinistra" Rassinier e i nazisti e fascisti europei, così come la connotazione dell'editrice negazionista Vieille Taupe è dedotta semplicisticamente dalla sua etichetta: "la vecchia talpa è la rivoluzione". Nolte non dice nulla della tortuosa (ma documentabile e documantata) storia di questa impresa "rivoluzionaria" che è giunta a partecipare ai meeting del partito di Le Pen, né dei legami della stessa con i neonazisti francesi. Limitandosi a decretare il carattere "scientifico" del negazionismo, Nolte separa artificiosamente in esso la propaganda dalla scienza, mentre non fa che riprodurre la propaganda stessa.
Nolte pretende così, in quanto storico, di sancire la scientificità di una "scienza" (qui, di una "scienza" che ha per oggetto la storia) senza porre il problema della capacità di questa "scienza" di pensare la propria storia: su questo piano, accuratamente evitato, il negazionismo è particolarmente vulnerabile, non potendo rendere conto della propria genesi e costituzione in termini altri dall'idealità.[11]

In un paese normale.
In Italia, nel corso di questo decennio fin de siècle, il negazionismo si trova ad operare in una situazione radicalmente mutata.
Nel dopoguerra la letteratura negazionista è restata a lungo un genere minore a circolazione ridotta, relegato ai ristretti circuiti dell'estrema destra, che hanno realizzato le prime traduzioni italiane delle opere del paradossale capostipite: il pacifista Paul Rassinier .
Soltanto all'inizio degli anni Ottanta, sulla scia del "caso Faurisson"[12] [11]che offre una inedita notorietà spettacolare alle "tesi" negazioniste, iniziano a comparire in Italia i primi articoli ed opuscoli prodotti in frange minori dell'estrema sinistra ispirate al bordighismo, ad alcune correnti libertarie e/o al situazionismo, ma scarsamente rappresentative di queste tendenze. Si tratta di un fenomeno confidenziale, che non riesce a coinvolgere in modo significativo l'estrema sinistra italiana.
Negli anni Novanta il "dibattito" culturale europeo è rapidamente saturato dai revisionismi circostanti e dalle culture ambienti che hanno come effetto collaterale il disserramento del negazionismo. Di più, come ogni altro paese storicamente (cor)responsabile dell'impresa genocida, l'Italia trascina e cerca di risolvere e finalmente archiviare specifici problemi di identità nazionale. Come sottolinea Lutz Klinkhammer:

in Italia negli ultimi anni è stata fortemente auspicata una 'conciliazione nazionale', considerata un elemento fondamentale per una società 'postfascista'. Il 'superamento' del passato fascista da parte di una presunta società postfascista presuppone però l'offuscamento dei lati negativi di questo passato [12].[13]

La "grande esigenza di sottoporre determinate interpretazioni della storia nazionale a un processo di armonizzazione", che comporta operazioni di "abbellimento" del passato[14] [13] costituisce l'indispensabile articolazione sul piano storiografico del progetto di costituzione di un paese normale. Questo slogan, che il pubblico italiano ha conosciuto come parola d'ordine della sinistra di governo, ha però a sua volta una storia. La genealogia delle procedure di pacificazione della storia conduce a ridimensionare drasticamente la presunzione di originalità della cultura politica italiana. Mark Terkessidis sottolinea che, già nel 1980, Armin Mohler, precursore della Neue Rechte, sosteneva la necessità per i tedeschi di "tornare a essere una nazione normale come le altre: una nazione indivisa, non solo fisicamente vitale, ma anche abbastanza armonica interiormente"[15]. L'obiettivo di divenire una "nazione normale", che istituisce un rapporto "armonico" col proprio passato, è da tempo una posta in gioco decisiva del revisionismo storico tedesco:

La storia non deve più essere oggetto di scontro, deve essere integrata come un elemento 'normale' all'interno della nazione e deve costituire una stabile "identità nazionale" [15].[16]

La sutura della memoria, chiudere le lacerazioni aperte e latenti nella storia moderna, e quelle più specifiche della "storia patria", è ormai divenuto, anche in Italia, un programma statale. La trasmissione del sapere - della storia, certo, ma non solo - è investita da questa operazione. Ma se le relazioni di potere e sapere non passano sopra, ma attraverso di noi, ad ogni snodo della trasmissione del sapere in cui (emittenti e/o riceventi) siamo collocati, esistono resistenze possibili.
Annunciata sul piano metapolico, la "trasgressione delle vecchie appartenenze", (destra/sinistra, fascismo/antifascismo, etc.), è rapidamente e prevedibilmente divenuta normativa e il negazionismo, che in questo campo ha svolto, fin dai tempi di Rassinier, un ruolo pionieristico, si trova nella paradossale posizione del creditore che può reclamare il legittimo pagamento di un debito.
Nel 1996 le cerimonie ufficiali dello Stato italiano giungono ad accomunare retrospettivamente coloro che - in onestà d'intenti - hanno sostenuto la macchina dello sterminio o l'hanno combattuta [16].[16].[ Lo stesso anno, in tutt'altra dimensione, il moto sinistrorso, che disloca le traduzioni italiane di Rassinier dalle storiche editrici di estrema destra alla nuova edizione "di sinistra", si compie giustificandosi con analogo argomento: l'ex deportato, legandosi a (vecchi e neo) fascisti e nazisti europei, non ha fatto altro che collaborare con onest'uomini di estrema destra (o, con eufemismo supplementare, reputati tali...[17.[16]).[18] Generalmente inosservata, la formazione di un luogo comune a due spazi distanti e distinti, il discorso ufficiale e al suo preteso "altro", è indice di una nuova egemonia che non è, semplicisticamente, il risultato della decisione sovrana delle "classi dominanti", ma l'effetto di una molteplicità di trasformazioni disperse che hanno reso normale il revisionismo.
Il negazionismo non si sostiene sulla "qualità" delle proprie tecniche di "confutazione" delle prove del genocidio, ma su quelle che poteremmo chiamare, con Wittgenstein, "somiglianze di famiglia":

Non posso caratterizzare queste somiglianze meglio che con l'espressione "somiglianze di famiglia"; infatti queste somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono e s'incrociano nello stesso modo: corporatura, tratti del volto, modo di camminate, temperamento, ecc. ecc. E dirò: i 'giochi' formano una famiglia [18].[19]
Il "gioco" negazionista non è identico a nessuno dei "giochi" revisionisti normalmente ammessi, ma condivide tratti, presupposti, gruppi di enunciati e segmenti di regole con ciascuno di essi. Probabilmente è qui la forza del moto che lo trasporta insensibilmente, ma inesorabilmente, dal regno dell'inaudito verso il mondo del già-sentito. Non è nella tecnica del discorso negazionista, ma nel vuoto di memoria che lo circonda, il "segreto" che rende possibile il prodigio di un iceberg rovesciato: la negazione in senso stretto è una punta sommersa, mentre la grande massa del corpus discorsivo è già fuori, nell'aria e nella luce del tempo.

Negazione, navigazione.
Il negazionismo naviga in rete. Diventa una nuova e imprevedibile forma di segreto pubblico.[16].[20].[19]
Il dosaggio di escursioni esplicite e forme di implicitazione ha, per questa impresa, carattere strutturale. Le iniziative editoriali che, oltre alle tradizionali collane di estrema destra, hanno visto sorgere un'editrice che affianca alla pubblicazione di testi di estrema sinistra una serie di opere negazioniste nate, letteralmente, a destra e a manca, sono circondate da una nebulosa di episodi "minori": dalla circolazione più o meno informale di testi anonimi o pseudonimi, a varie forme di "concessione", slittamento linguistico e concettuale, reperibili nei testi prodotti da diversi aggregati. Le forme allusive, fluide, intermittenti, costituiscono un indispensabile genere di accompagnamento. La moltitudine di episodi disparati è generalmente percepita come un ammasso di casi sconnessi: volta a volta si tratterebbe di un'eccezione irrilevante e priva di significato. A questa dislessia, si può opporre una prospettiva che veda il caso particolare come indice della tendenza, così "come il cader di una goccia rappresenta la direzione della pioggia"[23].[16].[21]
Lo scandalo non è una risposta adeguata, ma un effetto previsto, calcolato, reiterato. Come se la compiuta "violazione dei tabù" potesse ripetersi indefinitamente, monotona, petulante, trascinata in un attivismo inerte dal moto della propria inflazione: utopia realizzata del perpetuo lancio pubblicitario dello stesso prodotto.
Che il negazionismo, apparentemente così arcaico, navighi nel più avanzato universo telematico è un ultimo, estremo paradosso non solo di questa corrente, ma del nostro tempo.
Il problema non concerne semplicemente la possibilità di aggirare i divieti legali[21],[22] in Italia inesistenti, ma più radicalmente la logica del mezzo e la sua ideologia: la fruibilità di oggetti avulsi dalla loro storia, la circolazione di una massa di informazioni tutte egualmente raggiungibili e quindi difficilmente selezionabili, l'apologia della deregulation comunicativa: la possibilità di dire (e all'occorrenza negare) tutto e il contrario di tutto, di cui non si sospetta la stupefacente parentela con l'assoluta impossibilità di dire qualcosa, la "libera" fluttuazione e il collage arbitrario di enunciati privi di contesto. Emmanuel Chavaneau ha osservato come il negazionismo, adattandosi con facilità all'aria del tempo, possa partecipare a giusto titolo alla "hit parade della felicità in serie" accessibile a domicilio per mezzo di Internet, nella multiforme offerta di certezze a buon mercato [22].[23]
Un problema centrale è costituito dall'articolazione dei più banalizzati motivi anti-identitari con l'interazione telematica: la trionfale apologia di una "democrazia virtuale" basata sullo scambio di messaggi tra individui e gruppi che "indossano" identità fittizie e indefinitamente cangianti[23].[24] Come ha recentemente dimostrato l'eccellente libro di Nadine Fresco sul capostipite del negazionismo, già in Rassinier la "revisione" della storia è doppiata da una costante "autorevisione": Rassinier ha ininterrottamente modificato e falsificato la propria biografia politica, costruendo un personaggio fittizio ai fini di legittimare la falsificazione negazionista della storia[24].[25] Gli epigoni hanno non soltanto riprodotto questo procedimendo, tramandando in modo acritco la (auto)biografia fittizia del Maestro, ma ne hanno rilanciato i metodi, e non a caso hanno trovato nel carnevale virtuale delle identità fittizie un ambiente particolarmente adatto alla propagazione.
C'è materia sufficiente per leggere con rinnovata attenzione le Tesi di filosofia della storia: "Nulla ha corrotto la classe operaia tedesca come l'illusione di nuotare nella corrente. Lo sviluppo tecnico era la corrente in cui credeva di nuotare". È stata questa, secondo Benjamin, una delle cause dello sfacelo successivo.[25].
 [26]
Il dinamismo cosciente della storia

Il testo di Vladimir Jankélévitch appare al nuovo senso comune come il relitto di una bizzarra civiltà scomparsa:

Ma Auschwitz, ripetiamolo, non è argomento di discussione; Auschwitz esclude i dialoghi e le conversazioni letterarie; e la sola idea di confrontare il Pro e il Contro ha qui qualcosa di vergognoso e di derisorio; questo confronto è un'indecenza nei confronti dei suppliziati. Le "tavole rotonde", come si dice, sono fatte per i giochi ai quali si dedicano ogni estate i nostri brillanti conversatori durante le loro vacanze; ma i campi della morte sono incompatibili con questo genere di dibattiti e di cicalecci filosofici, Del resto il nazismo non è un'"opinione", e non dobbiamo prendere l'abitudine di discuterne con i suoi avvocati[27][26].

Quest'etica - che segnala l'esistenza di un limite all'indiscriminata proliferazione del "dialogo" - ci lascia responsabili della sua traduzione in un tempo che non è più quello della sua enunciazione. Nel 1974, Foucault, partecipando a una discussione critica della moda rétro, caratterizzata dal successo di film come Cognome e nome Lacombe Lucien, di Louis Malle,[28] aveva fatto alcune osservazioni importanti sulla memoria e sui conflitti che la investono:

È in atto un vero e proprio scontro. E qual è la posta in gioco? Ciò che si potrebbe chiamare grosso modo memoria popolare (...) La storia popolare era, fino ad un certo punto, più viva, più chiaramente formulata, ancora nel XIX secolo, in cui esisteva per esempio, tutta una tradizione di lotte che venivano riportate sia oralmente, sia con dei testi, delle canzoni, ecc. Dunque, una serie di meccanismi è stata messa in moto (la "letteratura popolare", la letteratura a buon mercato, ma anche l'insegnamento scolastico) per bloccare questo dinamismo della memoria popolare e si può dire che il successo dell'impresa sia stato relativamente grande (...) Ora, la letteratura a buon mercato non basta più. Ci sono dei mezzi molto più efficaci: la televisione e il cinema. E credo che fosse un modo di ricodificare la memoria popolare, che esiste, ma che non ha alcun mezzo per esprimersi. Allora, si mostra alla gente non quello che sono stati, ma quello che devono ricordare di essere stati. Poiché la memoria è comunque un grosso fattore di lotta (in effetti è proprio in una sorta di dinamismo cosciente della storia che le lotte si sviluppano) si tiene in pugno la memoria della gente, il suo dinamismo, e anche la sua esperienza, la conoscenza delle lotte precedenti. Bisogna non si sappia più cos'è la resistenza...[29][27].

Queste considerazioni, senza dubbio datate, si situano in un punto critico che partecipa di un processo più ampio e, a distanza di un quarto di secolo, hanno soltanto valore indicativo per una possibile analisi critica della cultura attualmente egemone. Ma assegnano alla memoria una valenza storica non contingente: la genealogia non è l'opposizione della storia alla memoria , ma l'accoppiamento delle conoscenze erudite e della memorie "locali" (estranee al sapere comune e al buon senso) delle lotte e dei luoghi "speciali" come il carcere, il manicomio ecc. La memoria non ha in questa prospettiva una funzione di pacificazione, ma di rottura: si insedia nella distanza e nel conflitto, riattivandoli.[30][28].
Nel caso estremo dei campi di sterminio non sorprende che il buon senso, per il quale il genocidio è "assurdo" e "incredibile", sia uno dei ritornelli argomentativi preferiti dalla pseudo (Nolte permettendo)-scienza negazionista nella sua guerra di annientamento della memoria dei deportati e della memoria storica.[31][31].
Dalla Scuola di Francoforte a Foucault e oltre, non senza considerevoli spostamenti e radicali riformulazioni, l'attività filosofica è stata sfigurata dallo sterminio. Il tracciato di "una filosofia presente, inquieta, mobile lungo tutta la sua linea di contatto con la non-filosofia",[32] l'ha incontrato come un luogo inevitabile, che le ha imposto un'inquietudine permanente.
In un tempo in cui "il razzismo non è in regressione, ma in progresso",[33][31] emerge da La volontà di sapere, come da una sorta di pagine postume pubblicate in vita, una linea di problematizzazione che conduce al modo in cui il mito nazista del sangue si è trasformato "nel più grande massacro di cui gli uomini possano, a tutt'oggi, avere memoria"[32].[34]  Da oltre mezzo secolo, la riflessione sulla storicità della ragione ha come condizione di esistenza e come problema irrinunciabile la memoria di questa lacerazione.
In questo spazio, i "problemi" che il negazionismo pretende di porre sono irricevibili. Esso può costituire un problema come oggetto, eventualmente come minaccia, non come interlocutore. Nessuna problematizzazione degna di questo nome può prendere sul serio la caricaturale deduzione "marxista" secondo la quale i campi di sterminio non possono essere esistiti in quanto non compatibili con le esigenze di sfruttamento capitalistico della forza-lavoro. Così come l'interpretazione del nazismo come irruzione metafisica del Male - che costituisce il bersaglio polemico (e il modello rovesciato) del negazionismo - ha molto a che vedere con il l'enorme lavoro storico e filosofico contemporaneo che non configura il nazismo come l'assolutamente Altro della nostra normalità. Strategicamente offensivo e tatticamente trasgressivo, il negazionismo è da questo punto di vista ideologicamente sedativo: la sua tendenza a eliminare o rendere evanescente la storia mira a ristabilire una pace terrificante laddove l'analisi delle forme storiche della razionalità moderna nei loro complessi rapporti con il razzismo e le sue trasformazioni hanno introdotto un'inesauribile tensione critica e autocritica nel nostro pensiero e nelle nostre pratiche.
Mantenere viva questa tensione non è mai semplicemente, questione di difesa della memoria, ma di una sua riattivazione. Non possiamo affermare  la consapevolezza critica del  passato senza turbare il presente.

rudy m. leonelli,
Un revisionsmo normale”
in Luca Verri (a c. d.),
Santarcangelo di Romagna,
Fara editore, 1999







NOTE:


[1]1. Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1993 (ed. or. 1987), p. 77.
[2]2. Per un primo e articolato orientamento bibliografico sulle differenti tendenze revisioniste e la relativa letteratura critica rinvio alla bibliografia essenziale curata da Cesare Bermani in appendice a C. Bermani, S. Corvisieri, C. Del Bello, S. Portelli, Guerra civile e stato. Per una revisione da sinistra, Roma, Odradek, 1998, pp. 82-100.
[3]3. R. Redeker, "La toile d'araignée du révisionnisme", «Les Temps Modernes», (1996) 589, p. 1.
[4]4. "Le négationnisme: histoire ou politique?", in N. Michel (a c. d.), S. Lindeperg, M. Chaillou, D. Daeninckx, P. Lartigue, J. C. Milner, S. Lazarius, F. Dominique, Ph. Beck, F. Regnault, N. Fresco, J.-P. Faye, M. Deguy, A. Badiou, Paroles à la bouche du présent,        Marseille, Al Dante, 1997, p. 10.
[5]5. Mi riferisco a F. Abbà, R. Gobbi, E. Nolte, F. Berardi (Bifo), F. Coppellotti, C, Saletta, Revisionismo e revisionismi, Genova, Graphos, 1996; presentato dall'editrice negazionista quale raccolta delle "relazioni di un convegno che si sarebbe dovuto svolgere a Trieste nei giorni 8 e 9 marzo 1996".
[6]6. Vedi nota precedente.
[7]7. I più importanti documenti della "disputa tra gli storici" (Historikerstreit) intorno al passato nazionalsocialista che, nel 1986-87, ha visto la contrapposizione all'offensiva da parte di storici revisionisti come Nolte, A. Hillgruber, K. Hildebrand, M. Srtürmer    da parte di J. Habermas e storici come M. Broszat e W. Mommsen, sono raccolti in traduzione italiana in G. E. Rusconi (a cura di), Germania: un passato che non passa. I crimini nazisti e l'identità tedesca, Torino, Einaudi, 1987. Per un resoconto critico è di particolare interesse A.-H. Wehler, Le mani sulla storia. Germania: riscrivere il passato?, trad. it. Firenze, Ponte alle Grazie, 1989.
[8]8. P. Vidal-Naquet,Gli assassini della memoria, cit., p. 122.
[9]9. W. Benjamin"Tesi di filosofia della storia", tr. it. in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1962 (ed or. 1955), p. 79.
[10]10. E. Nolte, Controversie. Nazionalsocialismo, bolscevismo, questione ebraica nella storia del Novecento, tr. it. parziale, Milano, Il Corbaccio, 1999.
[12]11. Per una cronologia del cosiddetto "affaire Faurisson", che ha portato alla ribalta l'ideologo negazionista a partire dalla pubblicazione del suo testo Le problème des chambres à gaz' ou 'La rumeur d'Auschwitz'" su «Le Monde» del 29.12 1978, p. 8
 1978, p. 8, vedi V. Pisanty, L'irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo, Milano, Bompiani, 1998, pp. 15-17.
[13]13. L. Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Roma, Donzelli, 1997, p. VII.
[14]14. Ivi, pp. VII-VIII.
[15]15. A. Mohler, Vergangenheitbewältigung, Krefeld, 1980, p. 88 ss., cit. in M. Terkessidis, Kuturkampf. L'Occidente e la Nuova Destra, tr. it., Milano, Marco  Tropea editore, 1996, p.149.
[16]16. M. Terkessidis, op. cit., p. 156.
[17]17. Cfr. C. Bermani, Il nemico interno. Guerra civile e lotta di classe in Italia (1943-1976), Roma, Odradek, 1997, pp. 74-80.
[18]18. Cfr. il mio "La fabbrica della negazione", art. cit.
[19]19. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, tr. it., Torino, Einaudi, 1974 (ed. or. 1953), § 67, p. 47.
[20]20. In un caso liminare ma sintomatico, all'inizio degli anni Novanta la propaganda negazionista ha rinnovato in ambito telematico la vecchia tattica degli pseudonimi, creando personaggi fittizi, in seguito dissimulati e qua e là riaffioranti tra le parodistiche notti e nebbie del no name. Cfr. R. Leonelli, L. Muscatello, V. Perilli, L. Tomasetta, "Negazionismo vituale: prove tecniche di trasmissione", altreragioni, (1998) 7, pp. 175-181.
[21]21. I. Nievo, Le confessioni d'un italiano, Milano, Mondadori, 1981, pp. 4-5.
[22]22. Questo aspetto importante, ma a mio avviso non esaustivo, è l'unico evidenziato nel breve paragrafo dedicato a "La propaganda su Internet" del libro di Valentina Pisanty, L'irritante questione delle camere a gas, cit., p. 23: "Il canale informatico si rivela un'ottima soluzione contro la censura che, in alcuni paesi europei, colpisce gli scritti dei negazionisti. Come si sa, infatti, lo spazio informatico è aperto a tutti e, anche se si decidesse di rifiutare l'accesso alla rete a un sito ritenuto ideologicamente pernicioso, esistono molti modi per aggirare il divieto".
[23]23. "L'illusion d'une vie sans histoire", in A. Bihr, G. Caldiron, E. Chavaneau, D. Daeninckx, G. Fontenis, V. Igounet, T. Maricourt, R. Martin, P, Piras, C. Terras, Ph. Videlier, Négationnistes: les chiffoniers de l'histroire, Villeurbanne - Paris, Golias -Syllepse, 1997, p. 210.
[24]24. Per una critica degli effetti di questa pratica e della sua ideologia nell'ambito della comunicazione politica vedi Thomás Maldonado, Critica della ragione informatica, Milano, Feltrinelli, 1998. Per una critica dei profeti dell'era digitale vedi anche F. Graziani, ""Virtuale e reale", «Altreragioni», (1998) 7, pp. 157-161.
[25] 25. N. Fresco, Fabrication d'un antisémite, Paris, Seuil, 1999.
[26] 26. W. Benjamin, "Tesi di filosofia della storia", cit., p.81.
[27] 27. V. Jankélévitch, Perdonare?, Firenze, La Giuntina, 1987 (ed. or. 1971), pp. 25-26.
[29] 28. "Anti-rétro Conversazione con Michel Foucault", trad. it., AAVV. Passato ridotto, a cura di G. Gori, Firenze, La casa Usher, 1982, p. 19.
[30] 29. Cfr. M. Foucault, "Corso del 7 gennaio 1976", in "Bisogna difendere la società", Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 11-25.
[31] 30. Non avendo interesse a replicare agli argomenti "tecnici" dei negazionisti, risparmio esempi che chiunque sia in grado di sopportarne la lettura può facilmente rinvenire nella prosa "scientifica" di questi esperti.
[32]31.  M. Foucault, L'ordine del discorso, tr. it., Milano, Feltrinelli, 1972, p. 57.
[33]32. E. Balibar, "Prefazione" a E. Balibar - I. Wallerstein, Razza nazione classe. Le identità ambigue, trad. it., Roma, Edizioni associate, 1990, p. 20.
[3433. M. Foucault, La volontà di sapere, tr. it., Milano, Feltrinelli, 1978, p. 133.