mercoledì 1 dicembre 2010

'sta rivoluzione... uno striscione a/per Mario Monicelli


una manifestazione,
uno striscione
(foto da Liberazione di oggi):




... come finisce? Non lo so, non lo so.
Mah, io spero che finisca
in una specie di...

quello che in Italia non c'è mai stato:
una bella botta, una bella rivoluzione.
Rivoluzione
che non c'è mai statain Italia...
 Mario Monicelli


da un'intervista del marzo 2010 [video]

Mario Monicelli ... l'immagine che balena una volta per tutte ...


La tradizione degli oppressi ci insegna che lo «stato di emergenza » in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza .… Lo stupore che le cose che viviamo sono «ancora» possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è l’inizio di alcuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.


Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, § 8




Mario Monicelli
1973:
VOGLIAMO I COLONNELLI
Cronaca di un colpo di Stato






sabato 27 novembre 2010

Gaston Bachelard - Portrait d'un philosophe

01/12/1961:
intervista
a
Gaston Bachelard

Bar-sur-Aube, 27 giugno 1884 – Parigi, 16 ottobre 1962



                                                              



«Gaston Bachelard, ancien professeur de philosophie à la Sorbonne, a reçu récemment le prix national des lettres [7 novembre 1961]. Nous le découvrons près de la place Maubert où il vit dans une petite pièce dont il ne sort presque plus. Avec humour, il nous parle de sa vie, de son amour pour les choses simples et "naturelles". Il dément l'idée que l'on se fait souvent à tort d'un philosophe ...»

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venerdì 26 novembre 2010

Zapruder a Bologna: presentazione del numero "Brava gente" a XM24

Zapruder, n. 23

Presentazione a Bologna - XM24

venerdì 26 novembre ore 21.00


Intervengono:

Sabrina Marchetti
Vincenza Perilli

Elena Petricola
Eleonora Pizzinat

Andrea Tappi

domenica 21 novembre 2010

la temuta e sconvolgente efficacia della parola [da: L'internamento di Nietzsche]



“Ma la cultura, caro amico, la nostra cultura… Viviamo in un ambiente così innocente, così vago e irreale … che la violenza e la morte sembrano escluse. Eppure per secoli, per millenni, le parole hanno avuto un senso di minaccia o di salvezza, sono coese tra gli uomini come coltelli. L’idea della cultura che abbiamo ricevuto, qualcosa di molto elevato, ideale, che ha valore per il suo disinteresse, ed esprime soltanto conoscenza … Beh, questa storia non è vera: se si cercano certi testi, che oggi forse sono poco conosciuti, se si vanno a leggere quei libri che sono che sono, per così dire, ancora chiusi nelle biblioteche, che nessuno legge da secoli, e non si bada, caro amico, al senso più prossimo, almeno come noi lo intendiamo, al senso conoscitivo o puramente speculativo … le cose possono apparire sotto una luce diversa, connettersi in modo imprevedibile, sconosciuto, ma ancora dotato di senso. Così ad esempio una discussione letteraria o scientifica può nascondere una condanna a morte, o un ammonimento sinistro: nella discussione compaiono soltanto teorie diverse, ma a poco a poco si capisce, eventualmente da piccoli particolari, da sfumature interpretative, ironiche, polemiche, che ci sono dei condannati e dei condannatori, degli imputati e dei giudici, che il processo in corso è una lotta in cui ciascuno mette in gioco la vita”.

Sorrise e si avvicinò finestra scuotendo la testa, come per limitare l’importanza delle ultime parole.

“Ma non si tratta soltanto di questo. In una civiltà dominata da una religione qualsiasi, le parole non possono essere mutate arbitrariamente, a caso. Nella teoria del diritto del Medioevo, e anche del Cinquecento e del Seicento, le formule si ripetono con poche lentissime variazioni, tutto il contrario dello sproloquio moderno; in questo mondo, in cui da qualche parola ben detta dipende l’assenza o la presenza di Dio, il peso, la gravità, la temuta e sconvolgente efficacia della parola è ancora presente. Che la parola sia divenuta soltanto parola soltanto discorso, è un fenomeno che noi, in fondo abbiamo accettato come cosa ovvia, su cui ci siamo adagiati troppo presto, senza verificare, senza indagare. Capisce cosa voglio dire? Non voglio affatto spiegare le sue ultime vicende; cerco di dirle che lei si trova certamente ancora, tutti ancora ci troviamo, a orientarci in un mondo troppo complesso con strumenti inadeguati”.

Capivo il senso generale del discorso; tuttavia si era creata in me una certa diffidenza. Kleiber diceva cose interessanti ma non tali da costituire per me una specie di rivelazione. Pensavo che questo orientamento derivava in parte dai suoi studi sulle religioni primitive, studi importanti nel loro ambito, ma che non potevano assumere un significato così esteso; mi sembrava inoltre, a tratti,di notare una certa reticenza o riservatezza.

“Capisco il suo imbarazzo – riprese Kleiber sorridendo, e avvicinando il suo viso al mio – Sono sempre i vecchi discorsi, penserà, da mitologo e storico delle religioni. Eppure lei ha vissuto, osservato, subito alcune forme di violenza, si è sentito minacciato: riconosca allora che, se la parola ha un potere reale, modifica in qualche modo la realtà, anche la violenza pura, insensata o incomprensibile, che è una delle caratteristiche più rilevanti della nostra epoca, non potrà isolarsi … o nascondersi. Essa dovrà esprimersi: cioè parlare, giustificarsi, controbattere, argomentare”.


da Guglielmo Forni Rosa

“L’internamento di Nietzsche” (1977)

ora in L’internamento di Nietzsche e altri racconti
Faenza, Moby Dick 2007

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sabato 20 novembre 2010

Manfredi tra King e Foucault - «Tecniche di resurrezione»

Quel poliedrico di Gianfranco Manfredi: cantautore, scrittore, sceneggiatore di cinema, tv e fumetti (Magico Vento, Volto Nascosto). Ma non chiamatelo eclettico, perché già una volta ebbe a ribattere: «Eclettici sono gli architetti o i medici che scrivono anche romanzi, io faccio un unico lavoro usando semplicemente diverse forme di scrittura».
E allora, questa volta, parliamo di Manfredi scrittore di cui è uscito
Tecniche di resurrezione (Gargoyle Books, pp. 496, euro 18), una sorta di seguito del precedente Ho freddo (Gargoyle, 2008), con ancora protagonisti i gemelli Aline e Valcour de Valmont. La coppia di scienziati (lei ricercatrice scientifica e lui medico chirurgo) si sposta dal Rhode Island degli ultimi anni del Settecento e da una vicenda di supposti vampiri all’Europa del primo Ottocento.
La storia prende avvio da un esperimento di rianimazione di un impiccato e da un delitto commesso, apparentemente, dal «fantasma» di un chirurgo, e si svolge in parallelo tra la Londra di Re Giorgio III e la Parigi di Napoleone. Il canovaccio gotico-horror, fatto di «mad doctor», esperimenti al limite, tavoli anatomici e dissezioni di cadaveri trafugati, serve però a Manfredi per un’indagine nei meccanismi e nell’ideologia di quelle che Foucault e Basaglia definirono «istituzioni chiuse», segnatamente quelle che riguardano la sanità: dagli ospedali ai manicomi. Lo scavo arriva fino al cuore dell’istituzione medica, ai rischi del potere della classe e della scienza medica, esercitato senza una reale partecipazione e diffusione della conoscenza.
A riprova di questa seria ricognizione Manfredi ha fatto da «testimonial» nella recente campagna «Staminabilia» (sulla ricerca e utilizzazione delle cellule staminali del sangue) al Festival della Scienza di Genova. Tranquilli però: non aspettatevi un noioso pamphlet che sfoggia erudizione e affastella documenti, perché il romanzo di Manfredi, pur documentatissimo, è un romanzo-romanzo, ben scritto e dal buon ritmo. Quasi da fare invidia - come annotò Sergio Pent recensendo
Ho freddo - a Stephen King.

Renato Pallavicini, in l'Unità, 18 Novembre 2010


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 Tecniche di resurrezione

venerdì 19 novembre 2010

humor nero: «Fliegen macht frei» (ovvero Aeroclub di Treviso sottozero)



TREVISO. «Una scelta di pessimo gusto» recita il rabbino capo della comunità ebraica di Venezia. «Siamo in piena inciviltà dell'immagine» aggiunge il presidente dell'Istresco. «E la solerte Procura trevigiana dov'è?» si chiede il presidente dell'Associazione partigiani. La protesta dell'Aeroclub di Treviso, che ha fatto realizzare sopra una cancellata dell'aeroporto Canova la scritta uguale nei caratteri e nella forma a quella che accoglieva i prigionieri del campo di sterminio di Auschwitz («Il volo rende liberi», in tedesco, al posto del famigerato slogan coniato dai nazisti «Il lavoro rende liberi») suscita un'ondata di reazioni...


continua a leggere in: la tribuna di Treviso
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giovedì 18 novembre 2010

Antonio Gramsci - Egemonia e intellettuali



gli intellettuali
siete voi






da: Antonio Gramsci - I giorni del carcere
un flm di Lino Del Fra, 1977
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martedì 16 novembre 2010

Seminario «Foucault e Marx»

«Io cito Marx senza dirlo, senza mettere le virgolette, e poiché la gente non è capace di riconoscere i testi di Marx, passo per essere colui che non lo cita. Un fisico, quando lavora in fisica, prova forse il bisogno di citare Newton o Einstein? Li usa, ma non ha bisogno di virgolette, di note a piè di pagina o di un’approvazione elogiativa che provi fino a che punto è fedele al pensiero del Maestro. E poiché gli altri fisici sanno quel che ha fatto Einstein, quel che ha inventato, dimostrato, lo riconoscono subito. È impossibile fare storia oggi senza usare una sequela di concetti legati direttamente o indirettamente al pensiero di Marx e senza porsi in un orizzonte che è stato descritto e definito da Marx. Al limite, ci si potrebbe chiedere che differenza ci sia tra essere storico e essere marxista»

Michel Foucault
"Entretien sur la prison : le livre et sa méthode", 1975
tr. it. in Microfisica del potere, 1977, p. 134

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Rudy M. Leonelli
Seminario
Foucault e Marx
per il corso del prof. Alberto Burgio
0442 - Storia della filosofia contemporanea
Università degli Studi di Bologna
Dipartimento di Filosofia
A. A. 2010 - 2011


Il seminario si propone di delucidare il rapporto forte intrattenuto dalle ricerche di Michel Foucault con concetti ed analisi di Marx, segnatamente nel campo del sapere storico-politico moderno, soffermandosi su diversi luoghi strategici delle opere dei due filosofi-storici e sull’incessante ripensamento – non esente da rettifiche, spostamenti, specificazioni – di Foucault intorno ai suoi rapporti con Marx.
In questa prospettiva il Corso al Collège de France del 1976 “Bisogna difendere la società” assume un’importanza decisiva: è qui che Foucault esplora il complesso e conflittuale processo di formazione del sapere storico-politico moderno, a partire dal riconoscimento tributato da Marx agli storici francesi della Restaurazione, per analizzare poi le posteriori e divergenti trasformazioni di questo sapere, nel cui campo si iscrive la stessa genealogia di Foucault.
Lungo l’asse di questa dimensione riflessiva considereremo inoltre diversi brani di autori (in prevalenza marxisti) che – dopo Marx e prima del Corso del 1976 – hanno trattato la questione del paradossale emergere della storiografia moderna.e/o dell’interpretazione della storia in termini di lotta di classe come radicale e inattesa trasformazione dell’antica guerra delle “razze”.

Orario e sede del seminario: giovedì, ore 11-13, via Centotrecento 18, aula D
Data di inizio: giovedì 18 novembre 2010

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Comunicazioni
per i/le frequentanti:

* Il seminario,integrativo del corso di Storia della filosofia contemporanea del Prof. A. Burgio, è opzionale.
Per chi sceglie di includere nell'esame i temi affrontati nel seminario, è prevista una riduzione dei testi della bibliografia d'esame.
Per informazioni più dettagliate rivolgersi al dott. Leonelli.
* Parti integranti di testi discussi al seminario sono disponibili presso la Copisteria Centotrecento, via Centotrecento 19/b, Bologna
Aggiornamenti calendario:
Come comunicato a chi era presente alla scorsa giornata,
il seminario "Foucault e Marx"
NON si terrà giovedì 23 dicembre,

e riprenderà giovedì 13 gennaio 2011,

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Il seminario si concluderà
giovedì 20 gennaio
(ore 11-13 aula D)
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domenica 14 novembre 2010

Deleuze - Boulez - Berg


Gilles Deleuze
Vincennes, 1975-1976


La storia fatta dai grandi compositori non è una storia conservatrice ma al contrario una storia di distruzione pur amando l'oggetto che si distrugge. Boulez lo dice a proposito delle forme musicali in Berg.





L'histoire faite par les grands compositeurs est non pas une histoire conservatrice mais une histoire de destruction tout en cherissant l'objet quo'n detruit. Boulez le dit à propos des forrmes musicales chez Berg.
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lunedì 8 novembre 2010

Foucault-Marx. Paralleli e paradossi - Presentazione a Bologna 12 nov. 2010



FOUCAULT-MARX PARALLELI E PARADOSSI
a cura di Rudy M. Leonelli
Bulzoni Editore, 2010



Venerdì 12 novembre
ore 18

Libreria delle Moline
Via delle Moline, 3/A
Bologna
tel.: 051 23 20 53




Ne parlano:

Andrea Cavalletti
Università IUAV di Venezia
Manlio Iofrida
Dipartimento di Filosofia, Università di Bologna
Giuseppe Panella
Scuola Normale Superiore di Pisa
Rudy M. Leonelli
Dipartimento di Filosofia, Università di Bologna.


Qui si tratta del buon uso che riusciamo a fare di quanto è contenuto nelle riflessioni di Foucault, Marx, Gramsci,sulla natura ambigua e contraddittoria del potere,che è contemporaneamente sia dominio, sia egemonia, attraversando il pensiero politico della modernità, ma anche del rapporto stretto tra cultura e democrazia, dell’intreccio tra potere e sapere, che ha percorso in molteplici direzioni la profonda riflessione del nostro tempo nei testi di suoi protagonisti, quali Nietzsche, Heidegger, Freud, Breton, Sartre, Bataille, Blanchot, Canguilhem, per esempio, ma anche il poeta René Char, dell’immaginazione, del pensiero, del possibile.

Da interventi presentati e discussi all’incontro: Foucault, Marx, marxismi organizzato dal Dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna presso la Scuola Superiore di Studi Umanistici, il volume raccoglie sei saggi:

Alberto Burgio, La passione per la critica.
Stefano Catucci, Essere giusti con Marx.
Guglielmo Forni Rosa, Note sul rapporto Foucault-Marx. A proposito di “Difendere la società”.
Marco Enrico Giacomelli, Ascendenze e discendenze foucaultiane in Italia. Dall’operaismo italiano al futuro.
Manlio Iofrida, Marxismo e comunismo in Francia negli anni ’50. Qualche appunto sul primo Foucault.
Rudy M. Leonelli, L’arma del sapere. Storia e potere tra Foucault e Marx.

Il volume è arricchito da un contributo di Étienne Balibar.


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sabato 6 novembre 2010

"Giovinezza" : per chi ha ancora un po' di memoria storica

Vittorio Emiliani
Quando Toscanini non eseguì Giovinezza

A CHI ha proposto di far cantare Giovinezza a Sanremo si dovrebbe ricordare che il rifiuto di eseguirla prima delle opere opposto dal grande Arturo Toscanini fu la ragione fondamentale del suo esilio in America. Mussolini stesso lo convocò e gli chiese di eseguirla alla Scala alla prima di Turandot di Puccini il 25 aprile 1926, ma il maestro oppose un muto diniego fissando per tutto l' incontro il soffitto. Per questo rifiuto venne aggredito e malmenato a Bologna in prossimità del Teatro Comunale nel 1931 e decise che non avrebbe più diretto in Italia finché ci fosse stato il fascismo. Né diresse più a Bayreuth dopo l' avvento di Hitler, né a Salisburgo dopo l' annessione dell' Austria alla Germania nazista. Per poterlo avere sul podio in Europa gli crearono il festival di Lucerna, ma chi si mosse in auto da Milano - ricordava Camilla Cederna - venne segnalato e schedato alla frontiera. Insomma, non è questione di canzonette. Almeno per chi ha ancora un po' di memoria storica.

da: la Repubblica 5 novembre 2010



Leoncarlo Settimelli
La storia:Toscanini si era rifiutato di eseguire «Giovinezza»
al Teatro comunale.
Qualcuno lo colpì e Leo Longanesi commentò
Bologna 1931.

Schiaffo fascista a «un uomo schifoso, un rudere...»


Immaginiamoci Bologna, nel 1931, anno nono dell'era fascista. Il Teatro Comunale ha in programma un concerto diretto dal grande Arturo Toscanini, forse il più grande direttore d'orchestra del Novecento, carattere forte, scontroso, noto per il dominio ferreo dell'orchestra. La città si è preparata all'evento. Abiti da sera e divise fasciste, nero su nero, e belle dame, gente dell'alta borghesia e aristocratici. Perbacco, stasera c'è quello lì, quello che ci dà lustro all’estero, che non ha nascosto simpatie per il regime, almeno all'inizio. E stasera dirigerà la musica di Giuseppe Martucci, che a Bologna ha dato lustro e al quale il Podestà vuole rendere un grande omaggio. Bene, è tutto pronto, automobili e qualche carrozza hanno scaricato un pubblico scelto, che se ne intende. Naturalmente la serata si aprirà con la Marcia reale («Viva il Re-viva il Re-viva il Re- le trombe eroiche squillano» si cantava anche in coro) e con Giovinezza, con la quale si aprono tutte le trasmissioni radio e tutti gli eventi pubblici: «Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza» suonano le parole scritte da Salvator Gotta su una musica che il maestro Blanc aveva scritto per un’operetta che parlava di studenti. Poi Gotta aveva cambiato tutto e si incominciava con «Salve o popolo d'eroi» per finire a «Dell'Italia nei confini/son rifatti gli italiani/li ha rifatti Mussolini/ per la guerra di domani…». Evidentemente per Toscanini è troppo e fa sapere che non dirigerà quei brani. Apriti cielo! Grande trambusto e una mano che si protende a schiaffeggiare il maestro che se ne torna in albergo, seguito da grida e insulti. Chi lo ha schiaffeggiato? Una cronaca vuole che sia stato Leo Longanesi, l'inventore del motto «Mussolini ha sempre ragione». Che su Libro e moschetto dello stesso anno, sfogherà il suo livore scrivendo in prosa futurista che «il maestro celebre, dopo la sua morte sarà come tutti gli uomini destinato a marcire», «uomo schifoso… un rudere che molta gente, di dentro e di fuori, avrebbe voluto divenisse il deposito escrementizio di tutte le loro acidose e putrefacenti ire isteriche… gli osservo sulla guancia le impronte (ora metaforiche) dello schiaffo bolognese che lo fa degno del mio compassionevole sguardo e… gli sputo negli occhi». Toscanini risultò sgradito al regime quanto a lui risultò sgradito Mussolini e tutto il carnevale fascista. Se ne andò a dirigere per il mondo e in America e non tornò che a Liberazione avvenuta. L'11 maggio del 1946 dirigerà nuovamente alla Scala. Nel 1943 aveva diretto a New York l'Inno delle nazioni in cui aveva incluso anche l'Internazionale. Lo identificò come l'inno di tutti quelli che, a cominciare dall’Urss, avevano contribuito alla sconfitta del nazismo e del fascismo.
da: l'Unità, 17 gennaio 2007

giovedì 4 novembre 2010

M. Foucault : Gaston Bachelard


Michel Foucault

Piéger sa propre culture




Ce qui me frappe beaucoup chez Bachelard, c’est en quelque sorte qu’il joue contre sa propre culture, avec sa propre culture. Dans l’enseignement traditionnel – et pas seulement, dans l’enseignement traditionnel, dans la culture que nous recevons –, il y a un certain nombre de valeurs établies, des choses qu’il faut dire et d’autres qu’il ne faut pas dire, d’œuvres qui sont estimables et puis d’autres qui sont négligeables, il y a les grands et les petits, il y a la hiérarchie enfin, tout ce monde céleste avec les Trônes, les Dominations, les Anges et les Archanges !... Tout ça est très hiérarchisé. Eh bien, Bachelard fait se déprendre en lisant tout cet ensemble de valeurs, et il fait s’en déprendre en lisant tout et en faisant jouer tout contre tout.

Il fait penser, si vous voulez, à ces joueurs d’échecs habiles qui arrivent à prendre les gros pièces avec des petits pions. Bachelard n’hésite pas à opposer à Descartes un philosophe mineur ou un savant… un savant, ma foi, un peu… un peu imparfait ou fantaisiste du xviiie siècle. Il n’hésite pas à mettre dans la même analyse les plus grands poètes et puis un petit mineur qu’il aura découvert comme ça au hasard d’un bouquiniste… En faisant cela, il ne s’agit pas du tout pour lui de reconstituer la grande culture globale qui est celle de l’Occident, ou de l’Europe, ou de la France. Il ne s’agit pas de montrer qui c’est toujours le même grand esprit qui vit, fourmille partout, qui se retrouve le même ; j’ai l’impression, au contraire, qu’il essaie de piéger sa propre culture avec ses interstices, ses déviances, ses phénomènes mineurs, ses petits couacs, ses fausses notes.

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Michel Foucault, «Piéger sa propre culture»

- in «Gaston Bachelard, le philosophe et son ombre», Le Figaro littéraire, n° 1376, 30 septembre 1972, p. 16.

- M. Foucault, Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994, vol. II, texte n° 111, p. 382

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Vidéo : « Foucault : Gaston Bachelard » (02/10/1972)
Producteur : Office national de radiodiffusion télévision française
Réalisateur : Jean-Claude Bringuier


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post correlati:
Gaston Bachelard - Portrait d'un philosophe

mercoledì 3 novembre 2010

La Bella, la Bestia e l’Umano - una presentazione a Bologna

Presentazione del libro di Annamaria Rivera




La Bella, la Bestia e l’Umano

Sessimo e razzismo senza escludere lo specismo


Ne discutono con l'autrice:

Alberto Burgio -
Università di Bologna

Vincenza Perilli -
Marginalia



giovedì 11 novembre
ore 18
a
la
Feltrinelli International, via Zamboni 7/b
Bologna



venerdì 22 ottobre 2010

Zapruder 23: sul colonialismo italiano

Brava gente.
Memoria e rappresentazioni del colonialismo italiano


è uscito il numero 23 della rivista
Zapruder


a cura di Elena Petricola e Andrea Tappi

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martedì 19 ottobre 2010

Nonostante Auschwitz


Nonostante Auschwitz
Il "ritorno" del razzismo in Europa
un saggio di

Alberto Burgio
Roma,
DeriveApprodi, 2010



Tonino Bucci
La bestia si è risvegliata.
Il razzismo, come lavora e perché è efficace
[recensione per Liberazione, 10 ottobre 2010]



Gli episodi di violenza razzista oggi sono diventati un fenomeno della realtà quotidiana. La speranza che i genocidi del secolo scorso avessero creato una volta per tutte gli anticorpi contro la diffusione del razzismo a livello di massa si sta rivelando, purtroppo, una tesi consolatoria. Le cronache riferiscono abitualmente di immigrati arsi nel sonno, di ronde contro gli immigrati, di incendi appiccati nei campi rom, di lavoratori stranieri uccisi per aver reclamato qualche diritto fondamentale, di rivolte di quartieri contro gli immigrati accusati di spaccio e criminalità, persino di interi paesi come hanno dimostrato i fatti di Rosarno.

Tutto ciò accade Nonostante Auschwitz, come recita il titolo del nuovo saggio di Alberto Burgio - sottotitolo Il ritorno del razzismo in Europa (DeriveApprodi, pp. 224, euro 17). L'ideologia razzista - o, per essere più precisi, quel vasto repertorio di suggestioni, immagini stereotipi e metafore che si potrebbe definire la koiné razzista - sta dilagando nelle società europee dall'alto e dal basso. Da un lato, assistiamo al ritorno del "razzismo di Stato", nella forma di una ideologia pubblica che ispira governanti, legislatori e amministratori locali nella loro azione politica. L'Italia, da questo punto di vista, è un laboratorio di punta in Europa nella legalizzazione del razzismo. Il reato di immigrazione clandestina ha reso operativo un meccanismo di "criminalizzazione" dei migranti, individuati come colpevoli solo per il fatto di rispondere allo stigma dello straniero. Nelle legislazioni europee si riaffaccia il dispositivo penale ottocentesco della «colpa d'autore», sotto forma di leggi che istituzionalizzano la discriminazione di interi gruppi umani (migranti, prostitute, omosessuali, zingari). La Francia di Sarkozy, solo per citare un altro caso recente, si è distinta per le espulsioni e i rimpatri forzati dei Rom. Il razzismo è la risorsa politica di partiti di governo. Basterebbe pensare al fenomeno della Lega, fucina di centinaia di amministratori locali che propagandano (e praticano) nei territori il modello razzista dei servizi sociali (scuole, mense, asili) per soli padani. Ma accanto al razzismo di Stato - e in simbiosi con esso - si è sviluppato un senso comune razzista, una subcultura di massa, un diffuso rancore collettivo alla ricerca di capri espiatori che non è più appannaggio di frange minoritarie della società. La manovalanza delle aggressioni ai danni di migranti, omosessuali, clochard e giovani dei centri sociali viene dalle sigle della destra radicale, dalle fasce giovanili delle periferie metropolitane o dalle curve degli stadi, ma il repertorio di valori cui attingono è però ormai un immaginario collettivo.

Eppure mai come oggi gli studi sulle ideologie razziste sono deboli, spesso incerti sulle categorie interpretative da adottare. Fare del razzismo un oggetto di studio è «un passo difficile, che mette in discussione anche convincimenti radicati nella cultura critica e in particolare nella storiografia». Nel senso che non si può procedere facendo l'inventario di tutto quel che affermano i testi letterari del razzismo, quelli - per inciso - in cui si parla esplicitamente di razza. Il metodo "filologico", «in apparenza impeccabile, è causa del più grave degli inconvenienti: costringe a muoversi dentro la prospettiva del discorso razzista che si intende criticare. E rischia quindi di restarvi imprigionato». Non solo, «muovere in questa ricerca dalla presenza del lemma "razza" (in quanto lo si considera costitutivo del discorso razzista)» significa anche farsi trovare spiazzati dalle nuove varianti del razzismo che non utilizzano la parola "razza" e che tuttavia sono a tutti gli effetti varianti dell'ideologia razzista. E' sufficiente che «una teoria razzista si mascheri sotto un lessico non-razzista (il che avviene non di rado, soprattutto nel secondo Novecento) perché essa scompaia dalla visuale di una critica feticisticamente legata al dato lessicale». «La traduzione del (forte) lessico razzista tradizionale nel (debole) registro culturalista (il passaggio dalla "razza" all'"etnia" e alla "cultura") ha seminato scompiglio tra storici e politologi». Questo disorientamento ha impedito a lungo di riconoscere e contrastare «le nuove forme di ideologia (e pratica) razzista, messe in atto da parte della "nuova destra" con la retorica del "rispetto per le culture altre", col risultato di abbandonare al proprio destino gruppi umani razzizzati per mezzo di retoriche nuove e a prima vista irreprensibili». Del resto, il discorso razzista non ha vincoli di coerenza né di verità. Non ha bisogno di dati di fatto, ma può fare e disfare, affermare e negare a proprio uso e consumo i criteri di assegnazione degli individui a una comunità da perseguitare.«Sono io a decidere chi è ebreo!», diceva Karl Lueger, sindaco antisemita della Vienna di fine Ottocento. L'ideologia «non funziona (non conquista credito e consenso) in base alla propria veridicità. La presa di una tesi ideologica dipende piuttosto dalla sua operatività, dalla capacità di rispondere a bisogni e di soddisfare pulsioni».

Se si guarda alla «genealogia storica» del razzismo, si scopre che la sua esplosione è solo in parte riconducibile alla globalizzazione degli ultimi due decenni. E' vero che sono aumentati i flussi migratori, che la crisi economica ha accentuato i conflitti tra "nativi" e "migranti", che il globale ha fatto irruzione nella dimensione locale delle nostre vite. Eppure, «se gli avvenimenti dell'ultimo ventennio spiegano l'esplosione del razzismo, non consentono invece di comprenderne la riemergenza. Per impiegare una metafora abusata, indicano il detonatore, ma non dicono nulla dell'esplosivo». L'ipotesi di Burgio è che il razzismo sia «un ingrediente fondamentale», una «tara congenita» della modernità europea o, per dirla in altro modo ancora, una «normale patologia» inerente alla vita quotidiana. Il Moderno non è stato solo un processo di emancipazione e di uguaglianza, ma al suo interno ogni conquista progressiva è avvenuta all'ombra di spinte regressive. La modernità ha innescato meccanismi di spaesamento, inquietudini, dissoluzione delle vecchie gerarchie, proletarizzazione dei ceti medi, sentimenti crescenti di insicurezza. «Se dovessimo individuare un denominatore comune a questo complesso di dinamiche, propenderemmo senz'altro per la paura». Su questa base, «la crisi moderna genera una forte domanda di colpevoli e nemici: stranieri o infedeli, malvagi, devianti o cospiratori, ai quali attribuire la responsabilità della propria sventura e sui quali scaricare il proprio rancore».

Ma qual è, appunto, il modus operandi, la maniera in cui il razzismo svolge la sua funzione compensativa di queste pulsioni sociali insoddisfatte? Qual è la logica che fa della "razza" un dispositivo capace di colpire e "razzizzare" in potenza qualunque gruppo umano? La procedura "razzizzante" consiste nell'attribuire un aspetto fisico, un «corpo», a un set di qualità morali (negative), assegnate per natura a una comunità umana, designata come bersaglio di discriminazione e violenza. Il razzista "inventa" corpi per i propri stereotipi. Anche quando si tratta di colpire gruppi umani che non presentano aspetti somatici distintivi, come dimostra il caso classico dell'antisemitismo. L'antisemita non si limita a dire che gli ebrei sono avidi, lussuriosi, ipocriti e così via, ma deve anche aggiungere, per l'economia del proprio discorso, che gli ebrei hanno evidenze fisiche, il naso adunco, i capelli crespi, le unghie quadrate. Siamo in presenza di costrutti simbolici, di un vero e proprio montaggio, la cui regola è quella dell'essenzialismo. Le ideologie razziste sono «teorie essenzialiste», «individuano una (presunta) essenza invariabile ("naturale") del gruppo umano che rappresentano come "razza"». Non potrebbe essere altrimenti: il razzismo ha bisogno che i presunti caratteri negativi di un gruppo umano durino nel tempo affinché quel gruppo possa ricoprire stabilmente il ruolo di capro espiatorio. I meccanismi della «devianza» e della «stigmatizzazione» che Burgio descrive, dimostrano che il razzismo è in grado di colpire chiunque. La costruzione del «nemico interno» ha avuto largo seguito nella sfera politica - si pensi ai comunardi marchiati come "negri" e ai bolscevichi definiti ebrei (e viceversa) - così come è stata applicata verso le figure marginali della società, dagli omosessuali ai malati di mente. Quel che rende il razzismo una ideologia (e una pratica) «totalitaria e paradossalmente inclusiva» deriva dalla sua capacità di costruire e legittimare «modelli sociali complessivi, rigidamente gerarchici, che assegnano un luogo ben determinato a tutte le componenti della popolazione».

L'ideologia razzista è stata un veicolo dell'egemonia della destra tra i ceti popolari e ha contribuito, in parte, alla frattura tra la sinistra ("sempre lì a difendere gli immigrati") e il suo popolo, che s'è gettato tra le braccia della Lega. Sarebbe il caso di non dimenticarsene.

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domenica 17 ottobre 2010

Roberta Cavicchioli su "Foucault-Marx" [per Recensioni Filosofiche]

Leonelli, Rudy (a cura di)
Foucault-Marx. Paralleli e Paradossi.
Roma, Bulzoni, 2010, pp. 146, € 13,00, ISBN 9788878704763

Recensione di Roberta Cavicchioli

in Recensioni Filosofiche,
Numero 53 -
nuova serie - ottobre 2010

Il volume collettaneo, Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, sviluppa e ordina gli spunti scaturiti da una giornata di lavori dedicata a Foucault, Marx, marxismi, ospitata dalla Scuola Superiore di Studi Umanistici di Bologna, cinque anni or sono.
Decisi ad esplorare le possibilità di dialogo, contatto e contaminazione fra due approcci critici alla società che si implicano vicendevolmente e, tuttavia, non riescono a sottrarsi a un confronto animato, i sei relatori hanno deciso di riorganizzare i loro interventi. Ad essi si è poi aggiunto un settimo sodale, Etienne Balibar, che, condividendo le premesse dell’impresa, ha messo a disposizione la versione integrale dell'intervista rilasciata a l’Humanité nel ventennale della morte di Michel Foucault .
Come si inferisce facilmente dal contesto, l’oggetto dell'indagine condotta è il rapporto del filosofo francese con l'eredità marxiana, quell'eredità ingombrante che, sovente e con accenti polemici, Foucault lamentava di aver trascurato per dedicarsi a problemi "più cogenti"- un'eredità che trova nella riflessione foucaultiana interpretazioni originali ed esiti sorprendenti.
L'indicazione contenuta nel titolo è forte: non si vuole innescare il gioco delle appartenenze e fare di Foucault un nipote più o meno devoto. Contrastando il persistere di una storia delle idee che tende a produrre un’uniformità fittizia fra gli autori, si cercano le somiglianze di famiglia proprio nella discontinuità e nelle rotture. Il tentativo riesce, almeno nella misura in cui fornisce al lettore uno spaccato della storia dei movimenti culturali afferenti alla Sinistra; riapre problemi interpretativi non secondari circa la ricezione dell’insegnamento marxiano; chiama in causa autori come Gramsci, Lukács, Sartre, Althusser, uscendo dalla logica segregante di un soliloquio di Foucault su Marx.
Eloquente la premessa del curatore, Rudy Leonelli, che, prese le distanze da un'ermeneutica di maniera, invita a procedere per paralleli e paradossi, rintracciando nell'opera foucaultiana i temi e i problemi posti dalla teorizzazione marxiana e marxista, senza omissioni. Esprimendo una posizione non condivisa dalla totalità dei redattori, Leonelli sostiene che Foucault abbia riattivato i percorsi di ricerca marxiani nel senso della “generalizzazione”. Con generalizzazione si allude alla dislocazione di un sapere dal suo contesto di nascita, al quale è inizialmente incorporato, a un altro: rintracciarne esempi probanti, mette in campo una “genealogia della genealogia” e impone di restituire la parola ai testi. Una feconda circolazione di concetti che coinvolge le nozioni di produzione materiale e simbolica, controllo, dominazione, lotta - per citare solo alcune delle anticipazioni marxiane che incontrano in Foucault un’evoluzione sorprendente.
Colpiva Foucault la concezione della guerra come economia generale di armati e non armati: non è un caso che nella costruzione del mito della battaglia perpetua, su cui si diffonde nel corso del 1976, individui la condizione di emergenza di un immaginario politico moderno che fa la sua comparsa nel discorso dei Levellers per trovare una sistematizzazione negli storici della Restaurazione, Thierry e Guizot dai quali lo stesso Marx avrebbe mutuato la categoria della lotta di classe.
Orienta l’analisi degli autori la certezza paradossale che Foucault possa insegnare molto su Marx, naturalmente a patto che si esca dall’alternativa di una micropolitica cripto o anti-marxista. Ed è vero il contrario: il confronto con la tradizione marxista permette di cogliere elementi importanti della strategia politica foucaultiana.
Ne è certo Balibar che, già nel suo La paura delle Masse, (1997), aveva individuato in Marx e Foucault i due maggiori esponenti della politica della trasformazione delle strutture di potere/dominazione. Valutazione, questa, che trova supporto in un esame non superficiale della riflessione marxiana; riducendo il marxismo alla sussunzione dell’individuo nella massa, se ne perde completamente la valenza emancipatoria, l’afflato libertario soffocato nelle epifanie del totalitarismo. Recuperando questa profondità, si arriva a ricomporre la frattura fra la teoria macropolitica delle strutture collettive avanzata da Marx e il pensiero micropolitico, espressione di un individualismo libertario che in Foucault è mitigato dall’influenza esercitata dalla ricerca sociologica.
Alberto Burgio ravvisa nel concetto di contropotere l’elemento che accomuna Foucault a Marx; la collettivizzazione delle resistenze individuali ribadisce la necessità di “non essere governati”, formulata alla “Société française de philosophie” il 27 maggio 1978. È in particolare nei suoi studi in ambito psichiatrico che Foucault arriva a cogliere il rapporto fra la funzione strutturante del modo di produzione e l’emergere di forme di soggettivazione resistenti o alternative all’interno di uno script definito dal potere, mostrando un'evidente prossimità con il metodo marxiano; riconoscere tale prossimità significa, nuovamente, sottrarre Marx a una lettura deterministica ed economicistica. Elargisce tale indicazione di percorso lo stesso Foucault, che abbandona una concezione appropriativa del potere per definirlo in rapporto alla guidance, una capacità di indirizzo essenziale all’integrazione dei subalterni nei disegni delle classi dirigenti, in cui si avverte anche il riferimento all’opera del grandissimo Antonio Gramsci.
Per valutare la sua ricezione al di fuori di una cornice ideologica, Stefano Catucci chiede di “essere giusti con Marx” (p. 45), cui dobbiamo il linguaggio che ancora struttura la nostra riflessione sui rapporti di potere. Opportuna la sua affermazione che mette subito in chiaro le cose: in Marx, Foucault ama il filosofo dell'attualità, il critico implacabile di Ricardo, Smith e Say. Il suo omaggio si arresta dinnanzi all’utopia antropologica di marca ottocentesca, al materialismo dialettico che si autorappresenta, quale scienza esatta. Se a più riprese celebra in Marx l’instauratore di una nuova discorsività, la pietra angolare della scienze storiche, Foucault contesta al marxismo di non saper progettare una reale trasformazione degli apparati statali, trasformazione che richiederebbe di aver compreso come al di sotto dei dispositivi istituzionali ne agiscano altri infimi, quotidiani, che non vengono toccati dalle rivoluzioni e dagli avvicendamenti interni al Palazzo d’Inverno.
L’ammirazione di Foucault si applica piuttosto al materialismo storico, quale interpretazione della storia che considera determinante il modo di produzione, e mira al rinnovamento della vita materiale. Pretendendo alla scientificità, il marxismo si fa parte dei dispositivi di normalizzazione, diventa monopolio dell'Accademia, dei partiti, dello Stato. Tale l’impressione di Guglielmo Forni Rosa che tiene a sottolineare come l’atteggiamento di Foucault rispetto all’opera marxiana risenta dell’eterogeneità del panorama dei marxismi a lui contemporanei, restii al dialogo o antagonisti fra loro, (p.61: “Bisogna distinguere il comunismo francese e internazionale degli anni Cinquanta, gli incroci esistenzialisti di marxismo e fenomenologia husserliana, il materialismo storico e dialettico, con tutti i tentativi di costruire una filosofia della storia, un'evoluzione lineare per grandi momenti storici, estranea al pensiero di Marx”). Un antagonismo che si proietta all’esterno, perché l’egemonia delle correnti marxiste non imbavaglia le tante anime presenti nella Sinistra: socialisti, libertari, personalisti, in quegli anni, si fanno estensori di sperimentazioni autonome.
In quel solco, Manlio Iofrida schizza il ritratto di un Foucault giovane, combattuto fra la psichiatria fenomenologica di Binswanger influenzata da Heidegger, e il polo rappresentato dal marxismo ortodosso del PCF. Un’oscillazione che si palesa nelle due opere giovanili pubblicate nel 1954, Maladie mentale et psychologie, in cui si respira l'influenza del contrastato maestro Althusser, e Introduzione a Sogno ed esistenza dello stesso Binswanger, in cui si avverte il suo legame con la tradizione tedesca mediata dall'esperienza surrealista. Non è un caso che del surrealismo Foucault salvi proprio il poeta René Char, leggenda della Resistenza, cui tributava un'ammirazione incondizionata, anche per la sua contestatissima amicizia con Heidegger.
Offre un ottimo esempio della ricchezza di un’interpretazione posizionale e non dogmatica, Marco Enrico Giacomelli, deciso a mostrare le intersezioni fra la lezione foucaultiana e l'operaismo italiano. Il riferimento culturale è all’esperienza della con-ricerca di Danilo Montaldi, agli interventi di Raniero Panzieri, all’opera di Tronti e Alquati che porranno le basi per la ricezione di Foucault, anche elaborando alcune categorie analitiche originali atte ad interpretare, nel segno del dominio diffuso e individualizzato, le trasformazioni della società italiana, al culmine del suo processo di industrializzazione. Sulle pagine di “Quaderni Rossi” e “Classe operaia” riecheggiano molti temi contigui al pensiero micro-politico. Prova di tale sensibilità una significativa ricezione dell’opera foucaultiana, letta e discussa nei circoli e sulle pagine delle riviste o magari tradotta, come nel caso della versione italiana di Microfisica del potere, pubblicata già nel 1977.
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lunedì 11 ottobre 2010


Vinicio Capossela

Suona Rosamunda






Suona la banda prigioniera
suona per me e per te
eppure è dolce nella sera
il suono aguzzo sul nostro cuor
cade la neve senza rumore
sulle parole cadute già

fino nel fondo della notte
che qui ci inghiotte e non tornerà
il passo d'oca che mai riposa
spinge la giostra, spinge la ruota
con i bottoni e coi maniconi
marciano i suoni vengon per noi

suona Rosamunda
suona che mi piaci
suonano i tuoi baci
nella cenere ancor
suona Rosamunda
suona che mi piaci
brucino i tuoi baci
nella cenere allor

si bruci il circo si bruci il ballo
e le divise ubriache d'amor
che non ritorni più a luce il sole
che non ritorni più luce per noi
le marionette marciano strette
dentro la notte tornan per noi

suona Rosamunda
suona che mi piaci
suonano i tuoi baci
come fuoco d'amor
brucia Rosamunda
brucia che mi piaci
brucino i tuoi baci
nella cenere ancor


* * *


«... ci mettono ancora una volta in fila, ci conducono in un vasto piazzale che occupa il centro del campo, e ci dispongono meticolosamente inquadrati. Poi non accade più nulla per un'altra ora: sembra che si aspetti qualcuno.
Una fanfara incomincia a suonare, accanto alla porta del campo: suona Rosamunda, la ben nota canzonetta sentimentale, e questo ci appare talmente strano che ci guardiamo l'un l'altro sogghignando; nasce in noi un'ombra di sollievo, forse tutte queste cerimonie non costituiscono che una colossale buffonata di gusto teutonico. Ma la fanfara, finita Rosamunda, continua a suonare altre marce, una dopo l'altra, ed ecco apparire i drappelli dei nostri compagni, che ritornano dal lavoro. Camminano in colonna per cinque: camminano con un'andatura strana, innaturale, dura, come fantocci rigidi fatti solo di ossa: ma camminano seguendo scrupolosamente il tempo della fanfara»
Primo Levi, Se questo è un uomo
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mercoledì 6 ottobre 2010

Friedrich Nietzsche - Difetto ereditario dei filosofi



Tutti i filosofi hanno il comune difetto di partire dall’uomo attuale e di credere di giungere allo scopo attraverso un’analisi dello stesso. Inavvertitamente «l’Uomo» si configura alla loro mente come una æterna veritatis, come un’identità fissa in ogni vortice, come una misura certa delle cose. Ma tutto ciò che il filosofo enuncia sull’uomo, non è in fondo altro che una testimonianza sull’uomo di un periodo molto limitato. La mancanza di senso storico è il difetto ereditario di tutti i filosofi; molti addirittura pendono di punto in bianco la più recente configurazione dell’uomo, quale essa si è venuta delineando sotto la pressione di determinate religioni, anzi di determinati avvenimenti politici, come la forma fissa dalla quale si debba partire. Non vogliono capire che l’uomo è divenuto e che anche la facoltà di conoscere è divenuta; mentre alcuni di loro si fanno addirittura fabbricare, da questa facoltà di conoscere, l’intero mondo. Ora tutto l’essenziale dell’evoluzione umana è avvenuto in tempi remotissimi, assai prima di quei quattromila anni che all’incirca conosciamo e durante i quali l’uomo non può essere gran che cambiato. Ma nell’uomo attuale il filosofo vede «istinti» suppone che essi appartengano ai fatti immutabili dell’uomo e possano quindi fornire una chiave alla comprensione del mondo in generale: tutta la teologia è basata sul fatto che dell’uomo degli ultimi quattro millenni si parla come di un uomo eterno, al quale tendono naturalmente tutte le cose del mondo. Ma tutto è divenuto; non ci sono fatti eterni: così come non ci sono verità assolute. Per conseguenza il filosofare storico è da ora in poi necessario, e con esso la virtù della modestia.

Friedrich Nietzsche, Menschliches, AllzumenschlichesUmano troppo umano, Adelphi, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, vol. I, parte prima, § 2