Alcuni passaggi del rapporto che la fotografia istituì con le alienazioni mentali, catturando più realtà di quella osservata dall'occhio umano. A partire dalla riedizione della tesi di dottorato di Jean Étienne Dominique Esquirol, fondatore della clinica psichiatrica parigina della Salpêtrière, fino al libro di Georges Didi-Huberman sulla «Invenzione dell'isteria»
Una impronta di luce
A differenza di quanto facessero i fantasmi dell'uomo finito in tribunale, però, quella che le anime di Baraduc consegnavano alla fotografia non era la propria faccia, ma una «firma», un'impronta singolare di luce che, di volta in volta, assumeva la forma specifica del pensiero, della passione, del sogno o della forza cosmica e vitale che urtava la lastra. Nello stesso anno in cui viene processato l'evocatore di bambole, del resto, nel Traité spécial de photographie pubblicato a Parigi in occasione della commercializzazione di una delle prime attrezzature amatoriali, l'appareil Dubroni, gli autori del manuale ammettono di non avere ancora una conoscenza adeguata del rapporto tra luce e materia. L'innovazione tecnologica, in altri termini, consente di fare molte più cose di quante l'esperienza non sia pronta a verificarne, alimentando la formazione di una «scienza dell'ignoto» che, come nel caso delle deformazioni studiate da Jurgis Baltrusaitis, «più sottilizza, più depura le proprie nozioni, più si sforza di darsi basi solide, più si smarrisce nel fantastico». Le «psichicone» del dottor Baraduc rappresentano un capitolo della storia di questa fantascienza, quindi, una storia nella quale alla ricerca rigorosa dei casi, delle classificazioni e degli approfondimenti, ogni volta, corrisponde la genesi e l'inventario di una nuova allucinazione. Un capitolo molto meno innocente della stessa storia, invece, è quello ambientato nel manicomio femminile di Parigi diretto da Jean-Martin Charcot, la Salpêtrière, dove proprio l'uso della macchina fotografica, a partire dal 1876, consentirà di approfondire e sottilizzare la conoscenza allucinata dell'isteria.
Nel 1862, mentre Charcot assume la direzione della Salpêtrière, in Francia appare il libro di un medico di nome Duchenne de Boulogne che, a differenza di Baraduc, non si limita a inseguire le tracce dell'anima, ma ne istruisce la cattura. Quando l'anima è agitata, sostiene Duchenne, il volto si trasforma in un dramma teatrale nel quale l'azione dei muscoli crea l'immagine corrispondente al movimento delle passioni. Procedendo in direzione opposta, però, è possibile ottenere la stessa immagine con l'impiego della corrente elettrica, convocando sul volto elettrizzato un catalogo completo dei moti interiori e dei meccanismi segreti che ne regolano la configurazione. «Attraverso l'analisi elettrofisiologica e con l'aiuto della fotografia - assicura quindi Duchenne - vi farò conoscere l'arte di dipingere correttamente le linee espressive del volto umano, un'arte che si potrebbe definire ortografia della fisionomia in movimento».Si direbbe un programma da insegnante di pittura, il suo, una campionatura delle costanti patognomiche simile a quelle illustrate da Leonardo, Lebrun o Rubens nei loro testi teorici. A questo proposito non sarà inutile ricordare che a partire dal Salon parigino del 1859, con una decisione che Baudelaire aveva giudicato ridicola, la fotografia era ufficialmente stata accolta nel gran mondo delle belle arti e che proprio al magistero di Duchenne, oggi, continuano a richiamarsi le ricerche sviluppate da un dipartimento dell'Istitute of Artificial Art di Amsterdam. Se non fosse che a fornire le illustrazioni della sua impresa non furono i modelli dell'antichità, né il primo piano di un performer, ma il volto sfigurato dagli aghi e dalle pinze di qualche disgraziato. E se non fosse che a considerarlo un «maestro» nell'uso clinico della fotografia e della stimolazione elettrica, di lì a poco, sarà proprio Jean-Martin Charcot, che alla Salpêtrière non trascurerà di attrezzare un laboratorio di elettroterapia e una squadra speciale di fotografi residenti.
La necessità di rendere visibile
Situandosi in un territorio di confine tra la medicina e la filosofia, un territorio sul quale deve estendere e legittimare il proprio intervento, alla gestazione del sapere psichiatrico occorrono infatti delle prove. Occorre curare, è vero, ma occorre allo stesso tempo mostrare, esibire, documentare, in una prospettiva retorica inaugurata dalla circolazione di un nuovo genere letterario, i casi clinici, e che le lezioni di Charcot nell'anfiteatro della Salpêtrière, animate dalla presenza esemplificativa delle pazienti in preda alle convulsioni, spingeranno fino al limite dello show. È questa esigenza di visibilità, questo bisogno di rendere visibile e concreto il campo degli alienisti a ispirare l'attrazione della psichiatria per la fisiognomica e il ritratto. Jean-Étienne Dominique Esquirol, uno dei più illustri predecessori di Charcot, scrive nella sua tesi di dottorato che l'alienazione mentale non implica nessuna lesione organica, bensì un'alterazione di carattere funzionale. Siamo nel 1805. Da una parte il trasferimento del male dai tessuti alle funzioni consente a Esquirol di affermare che il proprio mestiere è necessario, perché necessario sarà l'intervento di una medicina che non si occupi solo dei corpi, ma dall'altra lo indebita con il bisogno di creare evidenza, perché le funzioni, a differenza degli organi, non si vedono. Ecco quindi che i segni cancellati dall'estensione del sapere medico riappaiono sul volto, proprio dove li aveva abbandonati la teoria della pittura. «Questi tratti fisiognomici - scrive infatti Esquirol - questi effetti organici si osservano nei maniaci a livelli ancora più pronunciati. Per cogliere i tratti della fisionomia degli alienati bisognerebbe disegnare le teste di molti di loro, conservando in ciascuna il carattere della fisionomia durante l'accesso e confrontando queste teste con quelle in cui i più grandi maestri si sono applicati per dipingere le passioni». A disegnare le teste degli internati provvederà negli anni successivi Ambroise Tardieu, con una serie di incisioni pubblicate da Esquirol nel 1838 e che, in parte, sono state intelligentemente inserite nella nuova edizione della sua tesi di dottorato, curata da Mario Galzigna, e titolata Delle passioni considerate come cause, sintomi e mezzi curativi dell'alienazione mentale (traduzione di Francesco Fonte Basso, Mimesis). Eppure, in nota alle tavole VIII, X e XI del suo atlante, Esquirol non manca di proiettare il rapporto tra la psichiatria e la fisiognomica nel futuro, impegnandosi a pubblicare una riflessione personale su «questo interessante argomento» che gli rimarrà nella penna. Ad ammettere che l'argomento è complesso, del resto, ci ha già pensato un suo allievo, Etienne-Jean Georget, per il quale descrivere la fisionomia degli alienati è tanto difficile da doverli osservare «per conservarne l'immagine». Prima di diventare il merito canonico che Charcot il «visivo», come lui stesso amerà definirsi, riconoscerà a quasi tutti i suoi collaboratori, il demone dell'osservazione evocato da Georget trova un'immediata corrispondenza nel ciclo dei dieci monomaniaci dipinti, per lui, da Théodore Géricault.
Ironia della sorte, però, sarà proprio Georget, che pure si era raccomandato di conservare le immagini, a mettere cinque dei dieci ritratti, che sono andati perduti, nelle mani delle persone sbagliate. Per trattenere tutte le smorfie necessarie, probanti ma ancora impenetrabili dei pazzi, così, bisognerà attendere l'arrivo nei manicomi della macchina fotografica, uno strumento davvero capace di catturare più realtà di quella osservata e, quindi, di affidare all'osservatore futuro il compito di completare l'osservazione del presente. Un compito che assomiglia più propriamente a un destino, perché sul fatto che un giorno le immagini daranno loro ragione gli psichiatri nutrono pochi dubbi. È a questo riguardo, nel suo splendido libro sull'iconografia fotografica della Salpêtrière, che Georges Didi-Huberman ha attribuito alla fotografia la funzione di «anticipare il sapere vedendo» (L'invenzione dell'isteria, a cura di Riccardo Panattoni e Gianluca Solla, traduzione di Enrica Manfredotti, Marietti). Perché le fotografie pubblicate sotto la direzione di Charcot tra il 1876 e il 1888 servirono innanzitutto a questo, a comprovare che il teorema del grande attacco isterico, con tutto l'apparato di presse, sedute ipnotiche, sostanze tossiche, spettacoli e bagni elettrostatici che lo inveravano, un giorno si sarebbe rivelato scientificamente più corretto di quanto gli scienziati, al momento, non fossero in grado di dimostrare. La dimostrazione era lì, davanti agli occhi di tutti, nelle pieghe ancora nascoste dell'evidenza fotografica che, prima o poi, qualcuno avrebbe visto. Ed è proprio questo differimento, che in termini disinvoltamente filosofici implica il passaggio dalle idee chiare e distinte del metodo alla struttura temporale del giudizio estetico, a trasformare la sorte di 4000 disperate, nei fatti, in una pagina infernale di storia dell'arte.
Il ruolo delle isteriche
Un contributo decisivo alla realizzazione di questo programma, chiaramente implicito, lo diede Paul Richer, l'allievo prediletto di Charcot, professore di Anatomia artistica presso l'École nationale supérieure des Beaux-Arts di Parigi. Ma un contributo ancora maggiore, forse, lo diedero proprio le isteriche, offrendo all'obiettivo la drammatizzazione delle crisi, delle contorsioni, delle pose oscene e dei vaneggiamenti che, per loro, aveva previsto la letteratura specialistica.
Molte, non c'è dubbio, lo fecero sapendo che per quelle meno brave a rassicurare la fantascienza del direttore, che le voleva tutte malate di desiderio e di simulazione, sarebbe arrivato l'ordine di trasferimento tra le incurabili. Eppure, su quelle lastre al collodio umido o al bromuro di argento che imponevano tempi di posa infiniti e che tuttavia davano l'illusione di avverare finalmente il sogno di Esquirol, per il quale sarebbe stato necessario conservare nelle teste ritratte il carattere della fisionomia durante l'accesso, i corpi e i volti delle isteriche finirono per dare a vedere molte più cose di quante l'organizzazione figurativa predisposta dal personale della Salpêtrière non desiderasse metterne in scena. Tra le altre cose, diedero a vedere proprio questo, che la loro rimaneva una presenza scenica e che alla posa con la quale stavano supportando le pretese di scientificità della psichiatria mancava comunque qualcosa. Qualcosa, probabilmente, come la resa incondizionata della forma o della «luce dell'anima», come l'avrebbe chiamata il dottor Baraduc, al flusso di intenzionalità e di processi che la investono.
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