sabato 13 agosto 2011

Borges e io - Borges y yo

E’ l’altro, è Borges, quello a cui capitano le cose. Io vado in giro per Buenos Aires e mi fermo, forse oramai meccanicamente, per guardare l’arco di un atrio e la porta a vetri con la griglia; di Borges ho notizie dall’ufficio postale e vedo il suo nome in una terna di professori o in un dizionario biografico. Mi piacciono gli orologi a sabbia, i mappamondi, le stampe del diciottesimo secolo, le etimologie, il sapore del caffè e la prosa di Stevenson; l’altro condivide queste simpatie ma in un modo vanitoso che le trasforma negli attributi di un attore. Sarebbe esagerato affermare che i nostri rapporti siano ostili; io vivo, io mi lascio vivere, perché Borges possa tessere la sua letteratura e quella letteratura mi giustifica. Non mi costa nulla confessare che è riuscito ad ottenere certe pagine valide, ma quelle pagine non mi possono salvare, forse perché oramai il buono non è di nessuno, neppure dell’altro, ma del linguaggio e della tradizione. D’altronde io sono destinato a perdermi, definitivamente, e soltanto qualche momento di me potrà sopravvivere nell’altro. A poco a poco sto cedendogli tutto, per quanto mi sia evidente la sua perversa abitudine di falsificare e di magnificare. Spinoza capì che tutte le cose vogliono la propria conservazione; la pietra vuole essere eternamente pietra e la tigre una tigre. Io devo rimanere in Borges, non in me (ammesso che io sia qualcuno), ma mi riconosco meno nei suoi libri che in molti altri o nel laborioso arpeggiare di una chitarra. Alcuni anni or sono ho tentato di liberarmi di lui e sono passato dalle mitologie dei sobborghi ai giochi con il tempo e con l’infinito, ma quei giochi adesso sono di Borges e mi toccherà ideare qualche altra cosa. Così la mia vita è una fuga e perdo tutto e tutto è dell’oblio, o dell’altro. Non so quale dei due scrive questa pagina.



 Jorge Luis Borges, L'artefice - El hacedor, 1960


Al otro, a Borges, es a quien le ocurren las cosas. Yo camino por Buenos Aires y me demoro, acaso ya mecánicamente, para mirar el arco de un zaguán y la puerta cancel; de Borges tengo noticias por el correo y veo su nombre en una terna de profesores o en un diccionario biográfico. Me gustan los relojes de arena, los mapas, la tipografía del siglo xviii, las etimologías, el sabor del café y la prosa de Stevenson; el otro comparte esas preferencias, pero de un modo vanidoso que las convierte en atributos de un actor. Sería exagerado afirmar que nuestra relación es hostil; yo vivo, yo me dejo vivir, para que Borges pueda tramar su literatura y esa literatura me justifica. Nada me cuesta confesar que ha logrado ciertas páginas válidas, pero esas páginas no me pueden salvar, quizá porque lo bueno ya no es de nadie, ni siquiera del otro, sino del lenguaje o la tradición. Por lo demás, yo estoy destinado a perderme, definitivamente, y sólo algún instante de mí podrá sobrevivir en el otro. Poco a poco voy cediéndole todo, aunque me consta su perversa costumbre de falsear y magnificar. Spinoza entendió que todas las cosas quieren perseverar en su ser; la piedra eternamente quiere ser piedra y el tigre un tigre. Yo he de quedar en Borges, no en mí (si es que alguien soy), pero me reconozco menos en sus libros que en muchos otros o que en el laborioso rasgueo de una guitarra. Hace años yo traté de librarme de él y pasé de las mitologias del arrabal a los juegos con el tiempo y con lo infinito, pero esos juegos son de Borges ahora y tendré que idear otras cosas. Asi mi vida es una fuga y todo lo pierdo y todo es del olvido, o del otro. No sé cuál de los dos escribe esta página.

mercoledì 6 luglio 2011

Avendo gran disio

Luciano Berio
Avendo gran disio
da "Quattro Canzoni Popolari", No.3 (1947).






Testo di Jacopo da Lentini (-1247).

Cathy Berberian, voce
Bruno Canino, pianoforte

domenica 3 luglio 2011

Alemagnanimità



Cos’è che ha spinto Gaetano, Christian, Carmine, il gruppo del Rione Monti a picchiare in modo selvaggio Alberto Bonanni? Per il sindaco Alemanno «si tratta più correttamente di un problema di violenza da ultrà, da stadio». Come dire che i tatuaggi, il braccio alzato, le croci celtiche con l’aggressione di sabato scorso c’entrano poco. Il pestaggio avvenuto al Rione Monti obbedisce ad altre regole. A prescindere dalle fotografie che ritraggono i giovani arrestati nell’atto di fare il saluto fascista. Oppure - su facebook - dietro uno striscione con scritti slogan deliranti. Gli stessi che qualche giorno prima sfilavano dietro la statua della Madonna alla processione.

Perfeziona il concetto Alemanno: «A Roma ci sono delle bande attive più o meno colorate dal punto di vista politico, quindi dobbiamo essere molto attenti e molto vigili. Sappiamo che esistono delle sacche violente che devono essere attentamente vigilate e represse proprio per evitare quello che è successo a Monti».

da il Messaggero, domenica 3 luglio 2011

giovedì 30 giugno 2011

Andrea Angelini: Foucault-Marx: una fedele trasgressione


 

Andrea Angelini

Foucault-Marx: una fedele trasgressione 

 Recensione :          
Rudy M. Leonelli (a cura di)
Foucault-Marx. Paralleli e paradossi,
Bulzoni Editore, Roma 2010


L’ossimoro del titolo sta ad indicare la difficoltà di tracciare in modo univoco e lineare le caratteristiche del rapporto tra Foucault e Marx, il modo singolare in cui prossimità e distanza si intrecciano nella loro produzione intellettuale. Ciò rende molto arduo il tentativo di definire la posizione del primo verso il secondo: continuità, rottura, fedeltà, rifiuto; sono aspetti che si sovrappongono agli occhi del lettore. Per questo motivo affrontare il parallelo tra i due grandi autori richiede cautela, la messa da parte di facili schematismi e pregiudizi, e la pazienza di confrontarsi con una impegnativa massa di scritti, sia pubblicati che d’occasione, eterogenei, alcuni a un primo sguardo contraddittori, comunque difficili da legare in un insieme coerente e unitario.

Si riscontra in modo diffuso l’ostilità verso la scolastica di partito che ha preteso monopolizzare la lettura di Marx e stabilirne la legittima e corretta applicazione, e dunque l’esigenza, da parte di Foucault, di non accorpare immediatamente Marx, marxismo e socialismo storico: «Lo stalinismo e il leninismo inorridirebbero Marx»[1]. Ma per altro verso più d’una volta Foucault esprime diffidenza verso la teoria che vorrebbe Marx o Lenin totalmente estranei alle storture, ai fraintendimenti o tradimenti che avrebbero subito nel corso del movimento storico-politico che a essi si richiamava:

[…] rifiutare di interrogare il Gulag a partire dai testi di Marx o di Lenin, domandandosi per quale errore, deviazione, mistificazione, distorsione speculativa o pratica, la teoria è potuta essere tradita a tal punto. Al contrario, interrogare tutti questi discorsi, per quanto siano datati, a partire dalla realtà del Gulag. Invece di cercare in questi testi ciò che potrebbe condannare a priori il Gulag, si tratta di chiedersi ciò che in essi l’ha permesso, che continua a giustificarlo, ciò che permette oggi di accettarne sempre l’intollerabile verità.[2]
 
Foucault fa queste affermazioni negli anni in cui in Urss si va sempre più consolidando il potere del maresciallo Brežnev, il regime della Ddr vanta il più efficiente e capillare corpo di polizia della storia, e si va facendo sempre più forte l’insofferenza del popolo polacco; cioè quando, nonostante lo strappo libertario del ’68 avesse già scosso l’Europa, vanno ancora perpetuandosi i prodotti dello stalinismo. Su di esso Foucault si sofferma continuamente negli anni ’70, manifestando quanto indispensabile gli fosse comprendere quali interrogativi, tanto politici che teorici, esso rendeva imprescindibili, dal cosa siano nel profondo, al di là di stereotipi ossificati, il potere, la resistenza, la lotta, al quesito dubbioso riguardo la «desiderabilità stessa della rivoluzione» (nella sua accezione storico-dialettica)[3].

Era ai suoi occhi divenuto ineludibile il problema della proliferazione di strutture gerarchiche, di profili governativi e modelli istituzionali in vario modo marchiati dalla violenza, cui il movimento rivoluzionario era andato incontro (persino dopo la “destalinizzazione”), in quanto non supportato da un’adeguata analisi della polimorfia del potere, delle sue incerte provenienze storiche, dei suoi complessi legami con le forme del sapere[4].

Credo che l’esperienza dello stalinismo e della stessa Cina di questi ultimi venti o trent’anni abbia reso inutilizzabili, almeno in molti dei loro aspetti, le analisi tradizionali del marxismo. In tal senso credo che non bisognerebbe affatto abbandonare il marxismo come una specie di vecchio arnese da mandare in soffitta, ma occorrerebbe essere meno fedeli alla lettera della teoria e tentare di ricollocare le analisi politiche della società attuale, più che nel quadro di una teoria coerente, sullo sfondo di una storia reale.[5]
 
Questa è una delle espressioni più pacate della seconda metà degli anni ’70 circa il marxismo in generale. Ma se nel ’78, ad esempio, Foucault si riferiva al marxismo come ad una «causa dell’impoverimento, dell’inaridimento dell’immaginazione politica» e come a «nient’altro che una modalità di potere»[6], ancora nel ’71, pur tra numerose riserve e prese di distanza, si esprimeva così: «Marx è arrivato a proporre un’analisi storica delle società capitalistiche che conserva ancora una sua validità. Ed è riuscito a fondare un movimento rivoluzionario che è, ancor oggi, il più vitale»[7].

Foucault incitava a rendersi «completamente liberi rispetto a Marx»[8], intendendo con ciò il poter interrogare senza restrizioni e inibizioni «l’insieme dei rapporti di potere […] inevitabilmente connessi» con «le tre dimensioni del marxismo, vale a dire il marxismo in quanto discorso scientifico, il marxismo in quanto profezia ed il marxismo in quanto filosofia di Stato, o ideologia di classe»[9], ma ben sapendo quanto «sia necessario distinguere Marx, da un lato, e il marxismo, dall’altro»: «Non mi pare sia assolutamente in questione il fatto di farla finita con Marx stesso»[10].

Foucault ha poi sempre rifiutato l’idea di potersi o doversi rifare ad un «vero e autentico Marx», l’ostinazione a riconoscervi «un depositario fondamentale di verità»[11]. Ha riservato anche a lui quel “saccheggio interessato” finalizzato a far propri certi concetti, certi potenziali critici e analitici, al di fuori di una lettura storiografica volta a ricostruire il profilo complessivo dell’autore (ciò che sappiamo essere per Foucault al tempo stesso una funzione e una finzione). Una lettura dunque molteplice e mirata, destinata al riutilizzo e all’impiego spostato più che al commento.

A distanza di cinque anni dal convegno svoltosi a Bologna il 24 novembre 2005, “Foucault, Marx, marxismi”, diviene disponibile il contributo di insigni studiosi – arricchito inoltre da un’interessante intervista a Étienne Balibar, da cui il volume mutua il titolo – su questo tema molto delicato. Nel passato dibattito filosofico-politico, tanto francese quanto italiano, esso era stato spesso affrontato attraverso accese polemiche e prese di posizione nette, dunque impedendo un confronto sereno e misurato come quello che questa breve raccolta di interventi ha invece il merito di presentare.

... continua:
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martedì 28 giugno 2011