Scritti critici. Saggi, articoli e recensioni di filosofia, politica e storia del presente
sabato 4 dicembre 2010
mercoledì 1 dicembre 2010
sabato 6 novembre 2010
"Giovinezza" : per chi ha ancora un po' di memoria storica
Vittorio Emiliani
Quando Toscanini non eseguì Giovinezza
A CHI ha proposto di far cantare Giovinezza a Sanremo si dovrebbe ricordare che il rifiuto di eseguirla prima delle opere opposto dal grande Arturo Toscanini fu la ragione fondamentale del suo esilio in America. Mussolini stesso lo convocò e gli chiese di eseguirla alla Scala alla prima di Turandot di Puccini il 25 aprile 1926, ma il maestro oppose un muto diniego fissando per tutto l' incontro il soffitto. Per questo rifiuto venne aggredito e malmenato a Bologna in prossimità del Teatro Comunale nel 1931 e decise che non avrebbe più diretto in Italia finché ci fosse stato il fascismo. Né diresse più a Bayreuth dopo l' avvento di Hitler, né a Salisburgo dopo l' annessione dell' Austria alla Germania nazista. Per poterlo avere sul podio in Europa gli crearono il festival di Lucerna, ma chi si mosse in auto da Milano - ricordava Camilla Cederna - venne segnalato e schedato alla frontiera. Insomma, non è questione di canzonette. Almeno per chi ha ancora un po' di memoria storica.
al Teatro comunale.
Qualcuno lo colpì e Leo Longanesi commentò
Bologna 1931.
Schiaffo fascista a «un uomo schifoso, un rudere...»
giovedì 4 novembre 2010
M. Foucault : Gaston Bachelard
Michel Foucault
Piéger sa propre culture
Ce qui me frappe beaucoup chez Bachelard, c’est en quelque sorte qu’il joue contre sa propre culture, avec sa propre culture. Dans l’enseignement traditionnel – et pas seulement, dans l’enseignement traditionnel, dans la culture que nous recevons –, il y a un certain nombre de valeurs établies, des choses qu’il faut dire et d’autres qu’il ne faut pas dire, d’œuvres qui sont estimables et puis d’autres qui sont négligeables, il y a les grands et les petits, il y a la hiérarchie enfin, tout ce monde céleste avec les Trônes, les Dominations, les Anges et les Archanges !... Tout ça est très hiérarchisé. Eh bien, Bachelard fait se déprendre en lisant tout cet ensemble de valeurs, et il fait s’en déprendre en lisant tout et en faisant jouer tout contre tout.
Il fait penser, si vous voulez, à ces joueurs d’échecs habiles qui arrivent à prendre les gros pièces avec des petits pions. Bachelard n’hésite pas à opposer à Descartes un philosophe mineur ou un savant… un savant, ma foi, un peu… un peu imparfait ou fantaisiste du xviiie siècle. Il n’hésite pas à mettre dans la même analyse les plus grands poètes et puis un petit mineur qu’il aura découvert comme ça au hasard d’un bouquiniste… En faisant cela, il ne s’agit pas du tout pour lui de reconstituer la grande culture globale qui est celle de l’Occident, ou de l’Europe, ou de la France. Il ne s’agit pas de montrer qui c’est toujours le même grand esprit qui vit, fourmille partout, qui se retrouve le même ; j’ai l’impression, au contraire, qu’il essaie de piéger sa propre culture avec ses interstices, ses déviances, ses phénomènes mineurs, ses petits couacs, ses fausses notes.
_______________
Michel Foucault, «Piéger sa propre culture»
- in «Gaston Bachelard, le philosophe et son ombre», Le Figaro littéraire, n° 1376, 30 septembre 1972, p. 16.
- M. Foucault, Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994, vol. II, texte n° 111, p. 382
Vidéo : « Foucault : Gaston Bachelard » (02/10/1972)
Producteur : Office national de radiodiffusion télévision française
Réalisateur : Jean-Claude Bringuier
martedì 19 ottobre 2010
Nonostante Auschwitz
Nonostante Auschwitz
Il "ritorno" del razzismo in Europa
un saggio di
Alberto Burgio
Roma, DeriveApprodi, 2010
Gli episodi di violenza razzista oggi sono diventati un fenomeno della realtà quotidiana. La speranza che i genocidi del secolo scorso avessero creato una volta per tutte gli anticorpi contro la diffusione del razzismo a livello di massa si sta rivelando, purtroppo, una tesi consolatoria. Le cronache riferiscono abitualmente di immigrati arsi nel sonno, di ronde contro gli immigrati, di incendi appiccati nei campi rom, di lavoratori stranieri uccisi per aver reclamato qualche diritto fondamentale, di rivolte di quartieri contro gli immigrati accusati di spaccio e criminalità, persino di interi paesi come hanno dimostrato i fatti di Rosarno.
Tutto ciò accade Nonostante Auschwitz, come recita il titolo del nuovo saggio di Alberto Burgio - sottotitolo Il ritorno del razzismo in Europa (DeriveApprodi, pp. 224, euro 17). L'ideologia razzista - o, per essere più precisi, quel vasto repertorio di suggestioni, immagini stereotipi e metafore che si potrebbe definire la koiné razzista - sta dilagando nelle società europee dall'alto e dal basso. Da un lato, assistiamo al ritorno del "razzismo di Stato", nella forma di una ideologia pubblica che ispira governanti, legislatori e amministratori locali nella loro azione politica. L'Italia, da questo punto di vista, è un laboratorio di punta in Europa nella legalizzazione del razzismo. Il reato di immigrazione clandestina ha reso operativo un meccanismo di "criminalizzazione" dei migranti, individuati come colpevoli solo per il fatto di rispondere allo stigma dello straniero. Nelle legislazioni europee si riaffaccia il dispositivo penale ottocentesco della «colpa d'autore», sotto forma di leggi che istituzionalizzano la discriminazione di interi gruppi umani (migranti, prostitute, omosessuali, zingari). La Francia di Sarkozy, solo per citare un altro caso recente, si è distinta per le espulsioni e i rimpatri forzati dei Rom. Il razzismo è la risorsa politica di partiti di governo. Basterebbe pensare al fenomeno della Lega, fucina di centinaia di amministratori locali che propagandano (e praticano) nei territori il modello razzista dei servizi sociali (scuole, mense, asili) per soli padani. Ma accanto al razzismo di Stato - e in simbiosi con esso - si è sviluppato un senso comune razzista, una subcultura di massa, un diffuso rancore collettivo alla ricerca di capri espiatori che non è più appannaggio di frange minoritarie della società. La manovalanza delle aggressioni ai danni di migranti, omosessuali, clochard e giovani dei centri sociali viene dalle sigle della destra radicale, dalle fasce giovanili delle periferie metropolitane o dalle curve degli stadi, ma il repertorio di valori cui attingono è però ormai un immaginario collettivo.
Eppure mai come oggi gli studi sulle ideologie razziste sono deboli, spesso incerti sulle categorie interpretative da adottare. Fare del razzismo un oggetto di studio è «un passo difficile, che mette in discussione anche convincimenti radicati nella cultura critica e in particolare nella storiografia». Nel senso che non si può procedere facendo l'inventario di tutto quel che affermano i testi letterari del razzismo, quelli - per inciso - in cui si parla esplicitamente di razza. Il metodo "filologico", «in apparenza impeccabile, è causa del più grave degli inconvenienti: costringe a muoversi dentro la prospettiva del discorso razzista che si intende criticare. E rischia quindi di restarvi imprigionato». Non solo, «muovere in questa ricerca dalla presenza del lemma "razza" (in quanto lo si considera costitutivo del discorso razzista)» significa anche farsi trovare spiazzati dalle nuove varianti del razzismo che non utilizzano la parola "razza" e che tuttavia sono a tutti gli effetti varianti dell'ideologia razzista. E' sufficiente che «una teoria razzista si mascheri sotto un lessico non-razzista (il che avviene non di rado, soprattutto nel secondo Novecento) perché essa scompaia dalla visuale di una critica feticisticamente legata al dato lessicale». «La traduzione del (forte) lessico razzista tradizionale nel (debole) registro culturalista (il passaggio dalla "razza" all'"etnia" e alla "cultura") ha seminato scompiglio tra storici e politologi». Questo disorientamento ha impedito a lungo di riconoscere e contrastare «le nuove forme di ideologia (e pratica) razzista, messe in atto da parte della "nuova destra" con la retorica del "rispetto per le culture altre", col risultato di abbandonare al proprio destino gruppi umani razzizzati per mezzo di retoriche nuove e a prima vista irreprensibili». Del resto, il discorso razzista non ha vincoli di coerenza né di verità. Non ha bisogno di dati di fatto, ma può fare e disfare, affermare e negare a proprio uso e consumo i criteri di assegnazione degli individui a una comunità da perseguitare.«Sono io a decidere chi è ebreo!», diceva Karl Lueger, sindaco antisemita della Vienna di fine Ottocento. L'ideologia «non funziona (non conquista credito e consenso) in base alla propria veridicità. La presa di una tesi ideologica dipende piuttosto dalla sua operatività, dalla capacità di rispondere a bisogni e di soddisfare pulsioni».
Se si guarda alla «genealogia storica» del razzismo, si scopre che la sua esplosione è solo in parte riconducibile alla globalizzazione degli ultimi due decenni. E' vero che sono aumentati i flussi migratori, che la crisi economica ha accentuato i conflitti tra "nativi" e "migranti", che il globale ha fatto irruzione nella dimensione locale delle nostre vite. Eppure, «se gli avvenimenti dell'ultimo ventennio spiegano l'esplosione del razzismo, non consentono invece di comprenderne la riemergenza. Per impiegare una metafora abusata, indicano il detonatore, ma non dicono nulla dell'esplosivo». L'ipotesi di Burgio è che il razzismo sia «un ingrediente fondamentale», una «tara congenita» della modernità europea o, per dirla in altro modo ancora, una «normale patologia» inerente alla vita quotidiana. Il Moderno non è stato solo un processo di emancipazione e di uguaglianza, ma al suo interno ogni conquista progressiva è avvenuta all'ombra di spinte regressive. La modernità ha innescato meccanismi di spaesamento, inquietudini, dissoluzione delle vecchie gerarchie, proletarizzazione dei ceti medi, sentimenti crescenti di insicurezza. «Se dovessimo individuare un denominatore comune a questo complesso di dinamiche, propenderemmo senz'altro per la paura». Su questa base, «la crisi moderna genera una forte domanda di colpevoli e nemici: stranieri o infedeli, malvagi, devianti o cospiratori, ai quali attribuire la responsabilità della propria sventura e sui quali scaricare il proprio rancore».
Ma qual è, appunto, il modus operandi, la maniera in cui il razzismo svolge la sua funzione compensativa di queste pulsioni sociali insoddisfatte? Qual è la logica che fa della "razza" un dispositivo capace di colpire e "razzizzare" in potenza qualunque gruppo umano? La procedura "razzizzante" consiste nell'attribuire un aspetto fisico, un «corpo», a un set di qualità morali (negative), assegnate per natura a una comunità umana, designata come bersaglio di discriminazione e violenza. Il razzista "inventa" corpi per i propri stereotipi. Anche quando si tratta di colpire gruppi umani che non presentano aspetti somatici distintivi, come dimostra il caso classico dell'antisemitismo. L'antisemita non si limita a dire che gli ebrei sono avidi, lussuriosi, ipocriti e così via, ma deve anche aggiungere, per l'economia del proprio discorso, che gli ebrei hanno evidenze fisiche, il naso adunco, i capelli crespi, le unghie quadrate. Siamo in presenza di costrutti simbolici, di un vero e proprio montaggio, la cui regola è quella dell'essenzialismo. Le ideologie razziste sono «teorie essenzialiste», «individuano una (presunta) essenza invariabile ("naturale") del gruppo umano che rappresentano come "razza"». Non potrebbe essere altrimenti: il razzismo ha bisogno che i presunti caratteri negativi di un gruppo umano durino nel tempo affinché quel gruppo possa ricoprire stabilmente il ruolo di capro espiatorio. I meccanismi della «devianza» e della «stigmatizzazione» che Burgio descrive, dimostrano che il razzismo è in grado di colpire chiunque. La costruzione del «nemico interno» ha avuto largo seguito nella sfera politica - si pensi ai comunardi marchiati come "negri" e ai bolscevichi definiti ebrei (e viceversa) - così come è stata applicata verso le figure marginali della società, dagli omosessuali ai malati di mente. Quel che rende il razzismo una ideologia (e una pratica) «totalitaria e paradossalmente inclusiva» deriva dalla sua capacità di costruire e legittimare «modelli sociali complessivi, rigidamente gerarchici, che assegnano un luogo ben determinato a tutte le componenti della popolazione».
L'ideologia razzista è stata un veicolo dell'egemonia della destra tra i ceti popolari e ha contribuito, in parte, alla frattura tra la sinistra ("sempre lì a difendere gli immigrati") e il suo popolo, che s'è gettato tra le braccia della Lega. Sarebbe il caso di non dimenticarsene.
domenica 1 agosto 2010
Franco Bergoglio: jazz-filosofia [su "L'identità incompiuta"]
-->
giovedì 27 maggio 2010
Étienne Balibar - Europa: crisi o fine?
Étienne Balibar
Europa: crisi o fine?
In poche settimane, abbiamo assistito alla rivelazione da parte del primo ministro Papandreu del debito «reale» della Grecia, manipolato dal suo predecessore con l'aiuto di Goldmann Sachs; all'annuncio della possibilità che il suo Paese non ce la faccia a pagare i nuovi interessi sul debito, brutalmente moltiplicati; all'imposizione alla Grecia di un piano di austerità selvaggio, come contropartita del prestito europeo. Poi l'«abbassamento del voto» della Spagna e del Portogallo, la minaccia dell'implosione dell'euro, la creazione di un fondo di aiuto europeo di 750 miliardi (su richiesta, in particolare, degli Stati uniti). Infine, la decisione della Bce, in contraddizione con il suo statuto, di acquisire delle obbligazioni statali, e l'adozione di politiche di rigore in una decina di paesi. Ce n'est qu'un début, non è che l'inizio, poiché questi nuovi episodi di una crisi apertasi due anni fa con il crollo dei crediti immobiliari statunitensi ne prefigurano altri. Dimostrano che il rischio di crac persiste o addirittura aumenta, alimentato da una massa enorme di titoli «spazzatura», accumulata nel corso del decennio precedente grazie ai consumi a credito, alla trasformazione dei titoli dubbiosi e dei credit default swaps in prodotti finanziari, oggetto di speculazione a breve. Il tormentone dei crediti dubbiosi continua, e gli stati sono in affanno. La speculazione investe ormai le monete e il debito pubblico. L'euro rappresenta oggi l'anello debole di questa catena, e trascina l'Europa. Le conseguenze saranno devastanti.
I greci hanno ragione a rivoltarsi
Prima conseguenza della crisi e della «medicina» che le è stata applicata: la rabbia della popolazione greca. Hanno torto a rifiutare di assumersi le proprie responsabilità? Hanno ragione a denunciare una «punizione collettiva»? Indipendentemente dalle provocazioni criminali che l'hanno viziata, questa rabbia si giustifica per almeno tre motivi. L'imposizione dell'austerità è stata accompagnata da una stigmatizzazione delirante del popolo greco, considerato colpevole per la corruzione e le menzogne della sua classe politica, di cui (qui come altrove) approfittano ampiamente i più ricchi (in particolare sotto la forma dell'evasione fiscale). L'austerità, ancora una volta, è stata imposta rovesciando gli impegni elettorali del governo, al di fuori di qualsiasi dibattito democratico. Infine, abbiamo visto l'Europa applicare al suo interno non delle procedure di solidarietà, ma le regole leonine del Fondo monetario internazionale, che mirano a proteggere i crediti delle banche, mentre annunciano una prevedibile recessione senza fine per il paese. Gli economisti, su queste basi, concordano nel pronosticare un default certo del tesoro greco, un contagio della crisi e un'esplosione del tasso di disoccupazione, soprattutto se le stesse regole verranno applicate ad altri paesi virtualmente in fallimento stando alle «notazioni» del mercato, come reclamano ad alta voce i difensori dell'«ortodossia».
Una politica che occulta il suo volto
Nel «salvataggio» della moneta comune, di cui i greci sono stati le prime vittime (ma non saranno gli ultimi), le modalità che hanno prevalso finora (imposte, in particolare, dalla Germania) hanno messo in primo piano, come priorità, la generalizzazione del «rigore» di bilancio (inscritto nei trattati fondatori, ma nei fatti mai veramente applicato) e, ma solo in secondo luogo,la necessità di una «regolazione» - molto moderata - della speculazione e della libertà degli hedge funds (già evocata dopo la crisi dei subprimes e dei fallimenti bancari del 2008). Gli economisti neo-keynesiani aggiungono a queste esigenze dei passi avanti verso il «governo economico» europeo (in particolare l'unificazione delle politiche fiscali), o dei piani di investimento elaborati in comune: senza questo, affermano, l'esistenza stessa della moneta unica si rivelerà impossibile.
Si tratta, evidentemente, di proposte assolutamente politiche (e non tecniche). Sono alternative che i cittadini dovrebbero dibattere, poiché le conseguenze di queste scelte saranno irreversibili per la collettività. Ma il dibattito è falsato dalla dissimulazione di tre dati essenziali:
- la difesa di una moneta e la sua utilizzazione congiunturale (sostegno, svalutazione) comportano sia un assoggettamento delle politiche economiche e sociali all'onnipotenza dei mercati finanziari (con le loro «notazioni» che si auto-realizzano e i loro «verdetti» che non lasciano spazio a nessun appello), sia una crescita della capacità degli stati (e, più in generale, della potenza pubblica) a limitarne l'instabilità e a privilegiare gli interessi a lungo termine sui profitti speculativi. Una strada o un'altra, tertium non datur.
- con la scusa di una relativa armonizzazione delle istituzioni e di una garanzia di alcuni diritti fondamentali, la costruzione europea, nella sua forma attuale, con le forze che l'orientano, non ha smesso di favorire la divergenza delle economie nazionali, che in teoria avrebbe invece dovuto ravvicinare all'interno di una zona di prosperità condivisa: alcune economie ne dominano altre, sia in termini di parti di mercato, sia in termini di concentrazione bancaria, sia trasformandole in fornitori in subappalto. Gli interessi delle nazioni, se non quelli dei popoli, diventano contraddittori.
- il terzo pilastro di una politica keynesiana generatrice di fiducia, oltre la moneta e il fisco, cioè la politica sociale, la ricerca della piena occupazione e la crescita della domanda attraverso il consumo popolare, viene sistematicamente passato sotto silenzio, anche dai riformatori. E sicuramente viene fatto apposta.
Dove va la globalizzazione?
A cosa serve, d'altronde, riflettere e discutere sull'avvenire dell'Europa e della sua moneta (dalla quale alcuni grandi paesi si tengono alla larga: Gran Bretagna, Polonia, Svezia), se non si tiene conto delle tendenze reali della globalizzazione? Se la gestione politica della crisi finanziaria resta fuori portata per le popolazioni e i governi implicati, l'effetto sarà una formidabile accelerazione dei processi in corso. Di che cosa si tratta? In primo luogo, del passaggio da una forma di concorrenza a un'altra: dai capitalismi produttivi ai territori nazionali, dove ognuno, a colpi di esenzioni fiscali e di abbassamento del valore lavoro, tenta di attirare più capitali fluttuanti del vicino. E' più che evidente che l'avvenire politico, sociale e culturale dell'Europa in generale - e di ogni paese in particolare - dipende dal fatto di sapere se l'Europa costituisce un meccanismo di solidarietà e di difesa collettiva delle popolazioni contro il «rischio sistemico», oppure se, al contrario (con l'appoggio di alcuni stati, momentaneamente dominanti, e delle loro opinioni pubbliche) si tratta di un quadro giuridico per intensificare la concorrenza tra gli stati membri e tra i cittadini.
Inoltre, si tratta, più generalmente, del modo in cui la mondializzazione sta sconvolgendo la divisione del lavoro e la ripartizione dell'occupazione nel mondo: in questa ristrutturazione che sovverte nord e sud, ovest e est, una nuova crescita delle ineguaglianze e dell'esclusione in Europa, l'annientamento della classe media, la diminuzione dei lavori qualificati e delle attività produttive «non protette», dei diritti sociali, delle industrie culturali e dei servizi pubblici universali, sono per così dire già programmati. Le resistenze all'integrazione politica, con la scusa di difendere la sovranità nazionale, non possono che aggravare gli effetti nella maggior parte delle nazioni e precipitare il ritorno (già ben avviato) degli antagonismi etnici che l'Europa aveva preteso di oltrepassare definitivamente al suo interno. Ma inversamente è chiaro che non ci sarà un'integrazione europea «dall'alto», in virtù di un'ingiunzione burocratica, senza un progresso democratico in ogni paese e in tutto il continente.
Populismo: pericolo o risorsa?
E' la fine dell'Unione europea, di questa costruzione la cui storia era cominciata 50 anni fa sulla base di una vecchia utopia, ma le cui promesse non sarebbero state mantenute? Non bisogna aver paura di dirlo: sì, ineluttabilmente, a una più o meno breve scadenza e non senza qualche prevedibile violenta scossa, l'Europa è morta come progetto politico, a meno che non riesca a rifondarsi su nuove basi. Un'implosione abbandonerebbe ancora di più i popoli che la compongono oggi alle incertezze della globalizzazione, come sugheri in un torrente. Una rifondazione non garantisce nulla, ma dà qualche possibilità di esercitare una forza geopolitica, a proprio vantaggio e per quello degli altri, a condizione di osare affrontare le immense sfide di un federalismo di nuovo tipo. Si tratta della potenza pubblica comunitaria (distinta sia dallo stato che da una semplice «governance» di politici ed esperti), di eguaglianza tra le nazioni (il contrario dei nazionalismi reattivi, sia quello dei «forti» che quello dei «deboli») e di rinnovamento della democrazia nello spazio europeo (il contrario della «de-democratizzazione» attuale, favorita dal neo-liberismo e dallo «statalismo senza stato» delle amministrazioni europee, colonizzate dalla casta burocratica, che sono anche per buona parte all'origine della corruzione pubblica).
Da tempo avremmo dovuto ammettere questo fatto evidente: non ci saranno passi avanti verso il federalismo, in effetti oggi auspicabile, senza un passo avanti della democrazia al di là delle forme esistenti, in particolare con una intensificazione dell'intervento popolare nelle istituzioni sovranazionali. Significa che, per rovesciare il corso della storia, scuotere le abitudini di una costruzione ormai senza fiato, ci sia bisogno oggi di qualcosa che può essere definito un populismo europeo, un movimento convergente delle masse o un'insurrezione pacifica, attraverso la quale venga espressa contemporaneamente la rabbia delle vittime della crisi contro coloro che ne approfittano (o la alimentano) e l'esigenza di un controllo «dal basso» sugli scambi tra finanza, mercati e politica degli stati? Sì, senza dubbio, perché non c'è altro nome per definire la politicizzazione del popolo, ma a condizione - se si vogliono scongiurare altre catastrofi - che vengano istituiti seri controlli costituzionali e che rinascano delle forze politiche su scala europea, in grado di far prevalere all'interno di questo populismo «post-nazionale» una cultura, un immaginario e degli ideali democratici intransigenti. C'è un rischio, ma è minore di quello di lasciare libero corso ai diversi nazionalismi.
Dov'è la sinistra europea?
Queste forze costituiscono ciò che tradizionalmente, nel continente, era chiamata la sinistra. Ma anch'essa è in stato di fallimento politico: a livello nazionale e internazionale. Nello spazio che ormai conta, che attraversa le frontiere, ha perso qualsiasi capacità di rappresentazione delle lotte sociali o di organizzazione di movimenti di emancipazione, in maggioranza si è allineata ai dogmi e ai ragionamenti del neo-liberismo. Di conseguenza, si è disintegrata dal punto di vista ideologico. Coloro che la incarnano sono soltanto gli spettatori e, in mancanza di seguito popolare, i commentatori impotenti di una crisi contro la quale non propongono nessuna risposta collettiva: niente dopo lo choc finanziario del 2008, niente dopo l'imposizione alla Grecia delle ricette dell'Fmi (peraltro vigorosamente denunciate in altri luoghi e in altri tempi), niente per «salvare l'euro» altrimenti che pesando sulle spalle dei lavoratori e dei consumatori, niente per rilanciare il dibattito sulle possibilità e gli obiettivi dell'Europa solidale.
Cosa succederà, in queste condizioni, quando entreremo nelle nuove fasi della crisi, che devono ancora intervenire? Quando le politiche nazionali sempre più securitarie si svuoteranno del loro contenuto (o del loro alibi) sociale? Ci saranno dei movimenti di protesta, senza dubbio, ma isolati, che potranno venire deviati verso la violenza o recuperati dalla xenofobia e il razzismo già galoppanti, destinati a produrre ancora maggiore impotenza e più disperazione. Tuttavia, la destra capitalista e nazionalista, benché non resti inattiva, è potenzialmente divisa tra strategie contraddittorie: lo si è visto a proposito dei deficit e dei piani di rilancio economico, lo vedremo ancora di più quando l'esistenza delle istituzioni europee sarà in gioco (come prefigura, probabilmente, l'evoluzione britannica). Ci sarebbe qui un'occasione da sfruttare, la possibilità di agire. Delineare e dibattere su ciò che potrebbe essere, su ciò che dovrebbe essere una politica anti-crisi su scala europea, democraticamente definita, che cammini sulle due gambe (del governo economico e della politica sociale), capace di eliminare la corruzione e di ridurre le ineguaglianze che l'alimentano, di ristrutturare il debito e di promuovere gli obiettivi comuni che giustificano i trasferimenti tra nazioni solidali le une con le altre. Sarebbe questa la funzione degli intellettuali progressisti europei, sia che si definiscano rivoluzionari o progressisti. Non ci sono scuse per tirarsi indietro.
lunedì 24 maggio 2010
Étienne Balibar - Europe: crise et fin?
Étienne Balibar
Europe: crise et fin ?
- La crise ne fait que commencer.
- Les Grecs ont raison de se révolter.
- La politique qui ne dit pas son nom.
Ce sont là, à l’évidence, des propositions intégralement politiques (et non pas techniques). Elles s’inscrivent dans des alternatives à débattre par les citoyens, car leurs conséquences seront irréversibles pour la collectivité. Or le débat est biaisé par la dissimulation de trois données essentielles :
- la défense d’une monnaie et son utilisation conjoncturelle (soutien, dévalorisation) entraînent soit un assujettissement des politiques économiques et sociales à la toute-puissance des marchés financiers (avec leurs « notations » autoréalisatrices et leurs « verdicts » prétendument sans appel), soit un accroissement de la capacité des Etats (et plus généralement de la puissance publique) à limiter leur instabilité et à privilégier les intérêts à long terme sur les profits spéculatifs. C’est l’un ou c’est l’autre.
- sous couvert d’une harmonisation relative des institutions et d’une garantie de certains droits fondamentaux, la construction européenne dans sa forme actuelle, avec les forces qui l’orientent, n’a cessé de favoriser la divergence des économies nationales, qu’elle devait théoriquement rapprocher au sein d’une zone de prospérité partagée : certaines dominent les autres, soit en termes de parts de marché, soit en termes de concentration bancaire, soit en les transformant en sous-traitants. Les intérêts des nations, sinon des peuples, deviennent contradictoires.
- le troisième pilier d’une politique keynésienne génératrice de confiance, en plus de la monnaie et de la fiscalité, à savoir la politique sociale, la recherche du plein emploi et l’élargissement de la demande par la consommation populaire, est systématiquement passé sous silence, même par les réformateurs. Sans doute à dessein.
- A quoi tend la mondialisation ?
- Nationalisme, populisme, démocratie : où le danger ? où le recours ?
Depuis longtemps, on aurait du admettre cette évidence : il n’y aura pas d’avancée vers le fédéralisme qu’on nous réclame aujourd’hui et qui est en effet souhaitable, sans une avancée de la démocratie au-delà de ses formes existantes, et notamment une intensification de l’intervention populaire dans les institutions supranationales. Est-ce à dire que, pour renverser le cours de l’histoire, secouer les habitudes d’une construction à bout de souffle, il faille maintenant quelque chose comme un populisme européen, un mouvement convergent des masses ou une insurrection pacifique, où s’exprime à la fois la colère des victimes de la crise contre ceux qui en profitent (voire l’entretiennent), et l’exigence d’un contrôle « par en bas » des tractations entre finance, marchés, et politique des États ? Oui sans doute, car il n’y a pas d’autre nom pour la politisation du peuple, mais à la condition – si l’on veut conjurer d’autres catastrophes - que de sérieux contrôles constitutionnels soient institués, et que des forces politiques renaissent à l’échelon européen, qui fassent prévaloir au sein de ce populisme « post-national » une culture, un imaginaire et des idéaux démocratiques intransigeants. Il y a un risque, mais il est moindre que celui du libre cours laissé aux divers nationalismes.
- La Gauche en Europe ? quelle « gauche » ?
(21 mai 2010)
____________________________
trad. it. : Europa. crisi o fine?
.
mercoledì 12 maggio 2010
Riccardo Bonavita: letture critiche del razzismo italiano
Letteratura e razzismo
Riccardo Bonavita
Oggi escono in volume, con il titolo “Spettri dell’altro. Letteratura e razzismo nell’Italia contemporanea” (Bologna, il Mulino, 2010), alcuni saggi scritti tra il 1995 e il 2003 che avrebbero dovuto costituire la base di un lavoro più ampio, “I nemici immaginari”, di cui restano appunti, schede preparatorie, schemi di capitoli: il progetto era quello di uno studio dell’immaginario razzista italiano che avrebbe dovuto giungere fino al presente, allo studio delle pubblicità commerciali, dei depliant turistici, degli stereotipi dei media, ossia di quegli elementi comunicativi a larga diffusione che manipolano e orientano il senso comune di una società.
Si tratta dunque di un libro frammentario, ma capace di indagare i meccanismi costanti delle procedure razziste e della costruzione di un’identità autoritaria, suggerendo implicitamente le possibili strategie di contrasto.
Apre il volume un’analisi del riuso strumentale del pensiero di Leopardi all’interno di un periodico fascista come “La Difesa della Razza” che promosse e fomentò le violenze razziali del regime: ed è un’analisi di come la cultura conservatrice inventa la propria tradizione allineando i grandi del passato in una galleria di nobili antenati, un “mucchio indifferenziato e sacrale di roba di valore, che è il passato della patria” (F. Jesi, “Cultura di destra”), banalizzando la storia come natura e occultando i conflitti sociali che la percorrono.
Si tratta di un’operazione ripresa alla fine degli anni Novanta proprio dalla cultura berlusconiana e ora riproposta anche dai programmi scolastici del ministro Gelmini allorché esaltano gli scrittori italiani come momenti dell’“identità nazionale” e persino la tragedia greca come fondamento dell’“identità occidentale” (la rivolta di Antigone contro il potere potrà allora serenamente giustificare i crimini di guerra in Iraq, Afghanistan, ecc.). Del resto, fin dalla “discesa in campo” del 1994, Berlusconi ha insistito sul fatto che “la sinistra divide” e “la destra unisce”: un bel fascio “indifferenziato e sacrale”...
Seguono quattro saggi che prendono in esame “il razzismo nella narrativa dell’Italia fascista” e ne indagano anche le origini otto-novecentesche, nella convinzione che il razzismo sia un lento accumulo di immagini, luoghi comuni, schemi mentali, che fanno apparire “naturali” le classificazioni discriminatorie su cui si fonda l’esclusione e la violenza razzista.
Lo stereotipo dell’inferiore (l’africano) e quello dell’estraneo a ogni patria (l’ebreo) non sono dunque prodotti della legislazione coloniale fascista e delle leggi razziali del ’38, ma si producono a partire da “bacini di credenza” di lunga durata, da un “serbatoio di dispositivi retorici”, da un “giacimento di stereotipi, narrazioni, percezioni, assiologie, teorie scientifiche o pseudoscientifiche passibili di essere attualizzate, riprese e rifunzionalizzate”. Ciò implica due conseguenze che negli anni Novanta non erano affatto ovvie: 1) le procedure della “credenza” razzista dapprima diffondono una paura generica del “nemico immaginario” e poi identificano i tratti specifici, legali del soggetto da escludere, espellere, negare; 2) il “giacimento” sociale del razzismo (e sessismo) italiano, mai analizzato, mai sottoposto a critiche, resta un’energia distruttiva ancora potenzialmente funzionante e non meno aggressiva di quella del primo Novecento.
Perciò, scrive Bonavita, dinanzi all’immaginario razzista e alle politiche identitarie la prima necessità è quella della scomposizione storica e critica: “Il primo compito di chi analizza icone politiche di questo tipo consiste quindi nel compiere il processo inverso, ovvero nella decifrazione delle stratificazioni storiche accumulate dalla cultura e dalla ideologia proprio nei luoghi dove il razzista vuole mostrare all’opera la nuda natura. Solo così si può comprendere che [...] sta in realtà manipolando materiali culturali per ridisegnare i confini tra il «puro» e l’«impuro» e reinventare una nuova identità collettiva” (p. 82).
Come dimostra anche il romanzo coloniale e antisemita dell’epoca fascista, nel pensiero razzista tutto è appiattito su un “sistema di opposizioni” pseudonaturalistiche (appunto: “puro-impuro”) che struttura “l’intero campo dell’immaginario”: la costruzione autoritaria dell’identità implica sempre una “negazione dell’altro” e, per combatterla, si tratta di mostrare l’eterogeneità storica di ogni presunta “tradizione” unitaria e “credenza” indiscussa.
Resta l’esigenza di capire l’esplodere delle pratiche del razzismo di Stato in determinate fasi storiche: perché i lenti accumuli del razzismo diffuso si fanno a un tratto leggi discriminatorie e violente, si traducono in rastrellamenti di polizia, lager, deportazioni? Nell’analizzare la letteratura fascista, Bonavita offre due risposte simili e sovrapponibili.
Da una parte, fin dalla metà degli anni Venti la martellante campagna fascista per costruire l’“uomo nuovo” aveva bisogno di “controtipi” propagandistici: figure semplificate che additassero comportamenti negativi o “inferiori” attribuiti ora all’africano (scarso senso della famiglia, dell’onore, della parola data, ecc.), ora all’ebreo (rapacità economica, egoismo, ateismo, antipatriottismo, ecc.).
Così oggi, allo stesso modo, la necessità di ricomporre la famiglia tradizionale proietta le condotte predatorie e violente di mariti e fidanzati su tipi etnicamente caratterizzati: il “rumeno”, lo “straniero”, ecc. L’acutizzarsi delle pratiche razziste corrisponde a un programma di pedagogia sociale che deve occultare le contraddizioni e le diseguaglianze reali.
Ma il libro non offre solo un esame dei “controtipi” razziali. Per capire la seconda risposta, prendiamo un caso esemplare illustrato nel volume: quello di Giovanni Papini (1881-1956), da giovane incendiario anticlericale e nichilista, poi dal 1921 reazionario neocattolico e fascista.
Nel 1921 Papini pubblicava un best-seller intitolato “Storia di Cristo” riprendendo, con toni di accesa violenza verbale, la leggenda dell’“Ebreo errante” dedito solo ad accumulare “l’oro che cade dall’orifizio escrementizio di Satana”. In opere successive, dal “Dizionario dell’omo salvatico” del ’23 fino a “Gog” e alla “Leggenda del Gran Rabbino” del ’31, Papini si scagliava ossessivamente contro “negri”, “comunisti” e “giudei”, ritraendo questi ultimi come un misto di avidità, affarismo, lerciume, sadismo, depravazione: e sono testi che verranno riciclati dalla propaganda fascista per dar slancio operativo alle leggi razziali del ’38.
Eppure proprio il giovane Papini, nel lontano 1906, aveva fatto l’elogio del “vagabondaggio” e della “diversità” paragonandosi persino a un “Ebreo errante” della cultura: “l’amore della diversità, l’amore del cambiamento”, “i nostri viaggi di Ebrei erranti della cultura”, scriveva. Vi è nel razzismo un tentativo autoritario e malato di negare una parte di sé: l’apertura all’altro, la solidarietà, la conoscenza, l’eros: “attaccare l’Altro”, scrive Bonavita, “per rinnegare una parte di sé”.
Il razzismo è sempre una forza anche autodistruttiva che giunge infine a una grande, tragica festa di morte. Per combatterlo efficacemente, occorre anzitutto mostrare quanto gli “spettri dell’altro” siano il rito sacrificale e lugubre di un disciplinamento oppressivo delle identità.
sabato 5 dicembre 2009
antifascismo oggi
«Al di là dei fatti, serve una riflessione complessiva su cosa significa essere antifascisti oggi. E la prima interpretazione da cui bisogna culturalmente distaccarsi è che l’antifascismo sia una pratica che appartiene solo ad un’avanguardia che si reputa tale. L’antifascismo è una pratica quotidiana che ha successo laddove l’antifascista con la sua presenza nei quartieri, nelle lotte per la casa, il lavoro, la salute riesce a creare un tessuto politico e sociale coeso che sappia respingere la presenza fascista in modo automatico senza bisogno che ciò sia ogni volta onere o responsabilità di un gruppo ristretto di militanti. I fascisti portano violenza e intolleranza e rappresentano forze fresche al servizio dei potenti nei momenti di maggiore crisi o di conflittualità sociale. E’ un dato storico e politico che deve sempre essere chiaro».
[un brano che condivido, tratto da un articolo su Senza Soste]
mercoledì 14 ottobre 2009
Antonio Gramsci [Introduzione allo studio della filosofia] Appunti
-->
giovedì 24 settembre 2009
Ascanio Celestini - Lanciano il sasso e mostrano la mano
Ma, nell'urgenza, preferisco limitarmi a qualche osservazione (temporalmente) "a caldo", e a mente fredda.
Nella notte prima dello spettacolo - riferisce Carta - "Casapound ha strappato tutti i manifesti della prima e ha imbrattato i muri della città con insulti contro l’Arci e Ascanio Celestini". La prosa murale [scritte nere, quasi tutte firmate CPI (Casapound Italia ) o CPVT (Casapound Viterbo)] toccano l'apice della volgarità e della demagogia), con "perle" di questo genere: "Celestini fa li sordi sull'immigrato", "Ascanio Celestini bamboccio", "Tutto esaurito per la prima di un fallito", "Celestini boia", e via imbrattando...
Tanta e tale rozzezza dei neri writers notturni, non è che l'elemento più eclatante di un'operazione mirata, che non è, e non va, ridotta a mero episodio locale : mettere in scena (anche grazie allo "scalpore" suscitato delle offese), l'esistenza di una "contro-campagna" nazionale - organizzata e avallata dal "centro" (i volantini affissi a Viterbo di Casapound, a firma e con l'indirizzo della centrale romana), il cui nucleo "teorico" è il ribaltamento dell'imputazione di "razzismo" su chi difende i diritti degli immigrati. E' il classico procedimento di ritorsione, da tempo collaudato nei laboratori della Nouvelle droite. E, nella palude del paradigma bipartisan,imperante da anni in Italia, la presentazione di due "pareri" speculari tesa a suscitare un'improbabile impressione di equivalenza tra un parere pro e uno contro l'immigrazione, che si pretendono entrambi antirazzisti, potrebbe servire a estendere le tenebre di questa lunga notte in cui tutte le vacche sono nere.
Ma torniamo ad Ascanio Celestini: penso che quel che i fascisti odiano e vorrebbero boicottare (oltre, ovviamente, alla campagna contro il razzismo) è la straordinaria lucidità di questo regista-interprete, capace di diagnosticare con precisione, e spesso con anticipazione, i pericoli e i conflitti del presente.
Al punto che, una provocazione come quella di Viterbo, in cui fascisti del terzo millennio lanciano il sasso e rivendicano, mostrano la mano, non può sorprendere Celestini e chi conosce e apprezza il suo lavoro che, al riguardo, ha fatto anticipatamente chiarezza.