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giovedì 16 settembre 2010

Gilles Deleuze - «A che serve la filosofia?»


Allorché qualcuno domanda a che serve la filosofia, dobbiamo rispondere in modo aggressivo, poiché la domanda vuole essere ironica e mordace. La filosofia non serve né lo Stato né la Chiesa, che hanno altre preoccupazioni. Non serve ad alcuna potenza costituita. Una filosofia che non turba e non contraria nessuno non è una filosofia. Essa serve a far danno alla stoltezza, facendone qualcosa di turpe. Essa ha la sola funzione di denunciare la bassezza del pensiero in tutte le sue forme.
Gilles Deleuze
Nietzsche et la philosophie, Presses Universitaires de France, Paris 1962
tr. it. di S. Tassinari, Nietzsche e la filosofia, Colportage, Firenze 1978
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domenica 1 agosto 2010

Franco Bergoglio: jazz-filosofia [su "L'identità incompiuta"]


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Davide Sparti
L'identità incompiuta.
Paradossi dell'improvvisazione musicale
Il Mulino, 2010



Proseguendo un lavoro iniziato qualche anno addietro con Suoni inauditi L'improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana (2005) Davide Sparti, professore associato nella Facoltà di Lettere e filosofia dell'Università di Siena, torna a occuparsi di jazz coniugando i termini di questo affascinante mondo con le scienze sociali e la filosofia. Sparti aveva già affrontato alcuni nodi legati alla pratica dell'improvvisazione nel libro sopra citato e nel successivo Il corpo sonoro. Oralità e scrittura nel jazz (2007). Ora la cartina tornasole utilizzata per studiare l'improvvisazione è quella, fortemente innovativa in ambito jazz, dell'identità.
Spunto iniziale di questa analisi un paradosso sapientemente illustrato dallo scrittore Ralph Ellison, ripreso più volte nel corso del saggio: "Esiste (…) una contraddizione crudele implicita nella stessa forma artistica (il jazz): il jazzista deve perdere la sua identità anche mentre la trova". Il jazzista che improvvisa corre ben due rischi, ci avverte Sparti: in primo luogo quello di fallire, di non trovare l'originalità, ma esiste anche il pericolo di smarrirsi nel tentativo di esplorare territori incontaminati e di non trovare il filo conduttore per tornare a casa dopo il solo.
Sono considerazioni iniziali di un testo tutto da scoprire che sviscera questi "paradossi" dell'improvvisazione. Operazione non banale, poiché come ci segnala l'autore: "Chi pratica l'improvvisazione non ha necessariamente bisogno di elaborare un concetto di improvvisazione (perché dovrebbe, dato che tale impresa concettuale non garantisce un guadagno estetico?)". Se i musicisti possono permettersi una prassi senza una teoria (che non sia quella musicale in senso stretto, ovviamente) è altrettanto evidente che un discorso su questo tema presenta aspetti tanto fertili da interessare finalmente anche i filosofi, i sociologi, i semiologi e tutti coloro che a vario titolo si sentono attrezzati con i mezzi adatti a coniugare queste discipline al jazz.
Dopo questo denso preambolo il lavoro si dipana lungo i binari di una speculazione scientifica sul tema del identità personale condotto adottando riferimenti alti (Arendt, Pizzorno, Goffman) e facendoli interagire con esempi, prassi, affermazioni tratte dal mondo del jazz. Proprio da questo primo capitolo è tratta una deliziosa testimonianza di Miles Davis, quasi una programmatica dichiarazione d'intenti artistica: "Talvolta devi suonare a lungo prima di riuscire a suonare come te stesso".
Nel saggio sono tante le citazioni di jazzisti quali Joe Henderson, Max Roach, Charles Mingus e di molti altri, scelte con cura a illustrare - con esempi presi, per così dire, sul campo - quanto siano complessi i discorsi che si possono costruire attorno all'improvvisazione e le riflessioni che ne scaturiscono. Questo perché nell'improvvisazione si possono leggere spinte all'eccesso le tensioni che l'artista deve affrontare, stretto fra la spinta a trasformarsi per essere originale e la necessità di definirsi per essere riconoscibile al pubblico e forse anche a se stesso. Le figure che secondo l'autore meglio si prestano a suffragare questa analisi sono due: quella di John Coltrane, che riceve una attenzione particolare e la Arkestra di Sun Ra, paradigma dei problemi dell'identità relativi a un collettivo musicale (e insieme esistenziale) rimasto insieme per decenni sotto la guida di un leader carismatico.
Con il terzo capitolo, dedicato all'improvvisazione e al versante filosofico del tema che riguarda l'identità, il libro tocca davvero questioni nuove. I contributi intellettuali di Michel Foucault e Hannah Arendt sull'agire umano vengono messi in relazione all'improvvisazione jazzistica.
Particolarmente interessante è l'uso di Foucault. Un autore, come ha scritto Rudy M. Leonelli presentando gli atti di un convegno dedicato al rapporto Foucault-Marx, passato dall'ostracismo durato fino agli anni Ottanta all'odierna assimilazione culturale "senza traumi". Eppure, continua Leonelli, il tratto che possiamo individuare come distintivo della sua opera si situa nella sospensione, la rottura delle nostre evidenze, il turbamento e la trasformazione simultanea del modo in cui ci rapportiamo al "nostro" passato e a questo presente [1].
Uno dei concetti di Foucault che caratterizzano questa rottura delle evidenze di cui parla Leonelli viene utilizzata da Sparti per interpretare alcuni degli aspetti meno indagati del campo dell'improvvisazione e che pure ne costituiscono una specificità. Quale rapporto si viene a creare tra l'improvvisatore che durante il solo si mette in gioco, spesso in profondità, e la sua identità? Il sé per Foucault non rappresenterebbe un nucleo sepolto da liberare ma un materiale da trasformare con la pratica.
L'altro concetto, collegato, prende in considerazioni quelle procedure attività che l'uomo compie su stesso, sul proprio modo d'essere sulla propria condotta per migliorarsi, per raggiungere un certo stato di purezza, saggezza o felicità (tecnologie del sé). Molto opportunamente a questo proposito Sparti cita a più riprese l'esempio e le parole di Sonnny Rollins, maestro riconosciuto dell'improvvisazione. Nel corso di una performance prima fai le cose previste poi te ne dimentichi. Così per Sonny Rollins, con una affermazione che per Sparti riecheggia tesi riconducibili a Nietzsche e riportano, in ambito squisitamente jazzistico, all'iniziale affermazione di Ralph Ellison.
La collezione di tecniche adottate dagli improvvisatori per forzarsi all'originalità durante la loro attività quotidiana viene rappresentata da un congruo numero di citazioni che costituiscono un compendio di saggezza zen-jazz. Mi sono tolto di mezzo, dice Jim Hall, come ad intendere di fare un passo indietro e osservare l'assolo che si svolge quasi da sé. Altri musicisti teorizzano l'uso di strumenti diversi da quelli usuali per poter esprimere una voce diversa e non ristagnare nella memoria anche fisica e gestuale che si attiva quando si imbraccia il proprio. Il caso emblematico è OrnetteColeman che posa il sax per imbracciare la tromba (e il violino, aggiungo io) per ottenere effetti stranianti, ma anche innovativi e diversi da quelli considerati "normali". Forse la miglior formulazione teorica di questa disposizione d'animo verso l'improvvisazione l'ha pero concisamente fornita Sun Ra: suona le cose che non sai!
Sviscerati questi aspetti dell'estetica jazz in rapporto all'improvvisazione all'identità del musicista come singolo, il libro vira nuovamente verso gli aspetti sociali. La conclusione mette quindi in luce come la faticosa pratica dell'improvvisazione nel jazz sia un fenomenale dispositivo identitario, almeno per la comunità afroamericana. L'improvvisazione è, appunto, la ripetizione simbolica di un atto fondatore di una comunità che non rimanda ad un'origine ma è segnata dalla perdita comune, di cui si fa esperienza e che ritorna in forma esteticamente sublimata. Collegandosi in una visione quasi psicanalitica alla vicenda della diaspora degli schiavi neri, trascinati a forza dalle coste dell'Africa al nuovo mondo, sfruttando la potenzialità delle recenti teorie sull'importanza di un "Atlantico Nero", triplice luogo geografico, storico e simbolico, Sparti ci fornisce una chiave filosofica originale nel leggere questa musica. Verrebbe da dire, sfruttando titolo e leit-motifs del saggio, che nel jazz l'improvvisazione rappresenta questa identità perduta; identità che, proprio nella sua genetica incompiutezza, alla fine riesce a ritrovarsi.


Franco Bergoglio per Jazzitalia
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NOTE:
[1] Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, a cura di Rudy M. Leonelli, Roma, Bulzoni editore, 2010, p. 9. Di questa recente pubblicazione segnalo, tra gli interventi, oltre alla premessa citata e al saggio di Leonelli, una bella intervista al filosofo Étienne Balibar.
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giovedì 10 giugno 2010

Giorgio Colli - Come si diventa un filosofo


Scegliere per tempo i propri maestri (il fiuto dev’essere innato) purché siano pochi. Stringerli, spremerli, sviscerarli, tormentarli, sminuzzarli e rimetterli assieme, senza subire la lusinga della polimatia. Minatore fedele della sua caverna : è la faccia oscura del filosofo. Schopenhauer ha conosciuto questa ricetta : Nietzsche no, ma ha saputo scavare Schopenhauer.


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Giorgio Colli, Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano, 1974

giovedì 13 maggio 2010

autoportrait


Rudy M. Leonelli
laureato in Filosofia all’Università di Bologna con la tesi Il problema della genealogia in M. Foucault; relatore  Guglielmo Forni Rosa,  correlatore Roberto Dionigi.

Ottenuto il DEA (Diplôme d’Études Approfondies) in filosofia con un mémoire sulla modernità in Foucault, diretto da Étienne Balibar,  all'Università di Paris X, ho poi conseguito il dottorato di ricerca in filosofia, con la tesi:  Foucault généalogiste, stratège et dialecticien. De l’histoire critique au diagnostic di présent, diretta da Étienne Balibar; soutenance de thèse  presieduta da Pierre Macherey.

Ho partecipato alla redazione di Invarianti e al gruppo di discussione di altreragioni.

Ho inoltre pubblicato su diverse altre riviste tra cui Cahiers pour l’analyse concrète, Eidos, Études Jean-Jacques Rousseau, Per il Sessantotto, Razzismo & Modernità, Vis-à-vis e in volumi collettanei della collana di studi filosofici Arcipelago.
Ho preso parte a colloqui, incontri, convegni e seminari in Italia e in Francia.
Ho curato l'edizione del volume Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, Bulzoni Editore, Roma 2010, con testi di Étienne Balibar, Albert Burgio, Stefano Catucci, Marco Enrico Giacomelli, Guglielmo Forni Rosa, Manlio Iofrida, Rudy M. Leonelli.

Svolgo seminari e attività didattiche correlate presso il  Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Bologna

... lungo la linea di contatto della filosofia con la non-filosofia

lunedì 15 marzo 2010

Entretien avec Michel Foucault [1981]


Entretien avec Michel Foucault

réalisé par André Berten



Nel 1981 Michel Foucault fu invitato dalla Facoltà di diritto della Scuola di criminologia dell’Università di Lovanio a tenere una serie di corsi-conferenze da lui intitolati: Mal faire, dire vrai. Fonction de l’aveu en justice. Per l’occasione, nel maggio di quell’anno, il professor André Berten realizzò un’intervista filmata dal Centro audiovisivo dell’Università. Il fim è stato ripreso da FR3 nel quadro delle trasmissioni Océanique.





A. B. … Qu’est-ce qui a été le fil conducteur de votre réflexion, s’il est possible de répondre à un telle question ?

M. F. Mais c’est une question difficile que vu me posez. D’abord parce-que le fil conducteur, on ne peut guère dégager qu’une fois qu’on a été conduit au terme, et puis enfin, vous savez je ne considère absolument ni pas ni comme un écrivain ni comme un prophète. Je travaille, c’est vrai, en grande partie souvent au gré de circonstances, des sollicitations extérieures, de conjonctures diverses. Je n’ai pas du tout l’intention de faire la loi, et il me semble que s’il y a dans ce que je fais une certaine cohérence, elle peut être liée à une situation qui nous appartient à tous, les uns et les autres, dans laquelle nous sommes tous, plus qu’à une intuition fondamentale ou à une pensée systématique. C’est vrai peut-être depuis le jour où Kant a posé la question : « Was ist Aufklärung ? » c’est-à-dire qu’est-ce que notre actualité, qu’est-ce qui se passe autour de nous, qu’est-ce que notre présent ; il me semble que la philosophie a acquis là une nouvelle dimension. Plus, s’est ouverte pour elle une certaine tâche qu’elle avait ignorée ou qui n’existait pas pour elle auparavant, et qui est de dire qui nous sommes, de dire : qu’est-ce que notre présent, qu’est-ce que ça, aujourd’hui. C’est évidemment une question qui n’aurait pas eu de sens pour Descartes. C’est une question qui commence à avoir du sens pour Kant quand il se demande ce que c’est l’Aufklärung ; c’est une question qui est en un sens la question de Nietzsche. Je pense aussi que la philosophie parmi les différentes fonctions qu’elle peut et quelle doit avoir, a aussi celle-là, de s’interroger sur ce que nous sommes dans notre présent et dans notre actualité. Je dirai que c’est autour de cela que je pose la question et dans cette mesure je suis Nietzschéen ou Hégélien ou Kantien, de par ce côté là ...

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La trascrizione in lingua originale dellintervista è stata pubblicata - con il titolo Entretien avec Michel Foucault - in “Cahiers du grif” n. 37-38, 1988, p. 9-19.
La traduzione italiana, Intervista a Michel Foucault [1981], a cura di Antonello Sciacchitano, è stata pubblicata in “aut-aut”, n. 331, 2006, p. 55-66.
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domenica 7 febbraio 2010

Giorgio Colli - Destino comune


Quando si vede che sul frontespizio di alcune edizioni cinquecentesche di Niccolò Machiavelli, alla Biblioteca Nazionale di Firenze, il nome dell
autore è cancellato da mano ignota, con un frego di penna, per dispregio, di quellautore che aveva scritto sulla
«debolezza nella quale la presente religione ha condotto el mondo», viene in mente Friedrich Nietzsche, e quanto devono attendersi dalla giustizia dei posteri coloro che parlano al loro presente con vera durezza.

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Giorgio Colli, Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano, 1974
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martedì 10 marzo 2009

Immagine e città. Conversazione con Roberto Dionigi (1984)


In questi giorni, il tema del provincialismo di Bologna è nuovamente riaffiorato nelle cronache locali *.
Ed è stato per me inevitabile riandare con la mente ad una conversazione dell’84 con Roberto Dionigi **.

È all’inizio degli anni Ottanta che Roberto Dionigi – oggi (ri)conosciuto come filosofo, o autore filosofico,ben più ampiamente di quanto non lo sia stato in vita – ha iniziato ad essere per me un pensatore rilevante, in seguito all’uscita di un suo «piccolo» e denso libro di lunga e laboriosa gestazione: Il doppio cervello di Nietzsche, pubblicato a Bologna da Cappelli Editore, nel 1982.
Proprio in quegli anni, (a distanza ravvicinata, ma comunque ormai inesorabilmente a distanza, dal ’77) sorse la proposta di un periodico cittadino, tra politica, culture e informazione, un po’ alla ricerca e all’esplorazione di un qualche possibile «dopo». Nella primavera dell’84, nacque Metro’ (sottotitolo: «quindicinale di informazione e spettacolo»).
Come contributo al primo numero, avevo pensato ad una sorta di intervista o colloquio con Roberto Dionigi, il quale accettò, anticipando francamente che, piuttosto che una discussione di «filosofia», avrebbe preferito sviluppare qualche considerazione sul rapporto tra la città e la sua immagine, con particolare riferimento al tema del supposto «provincialismo» di Bologna, che imperversava nelle cronache locali.
Così, frustrando apparentemente il mio interesse per la sua attività filosofica, Dionigi mi (ci) affidò queste sue «considerazioni inattuali» – alle quali rispose, fin troppo prevedibilmente, l’assordante silenzio dei media locali.
Nel ritrovare e riproporre quelle considerazioni, mi limito ad osservare che quel gesto non era altro che una forma di attività filosofica, che spingeva la filosofia oltre il circolo dell’interpretazione interna, in contatto con la non filosofia, nell’esercizio di un’interrogazione critica del presente, capace di misurarsi con la molteplicità e la specificità irriducibile dei giochi linguistici, che fanno parte determinate forme di vita [Wittgenstein, Ricerche filosofiche].
E di esporsi al rischio [Il doppio cervello di Nietzsche] di una presa di posizione.


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Immagine e città
Conversazione con
Roberto Dionigi
[1984]


Le pagine locali dei quotidiani hanno dedicato ampio spazio alla discussione a proposito (e a sproposito) della «provincialità» e della «decadenza» di Bologna. Vorrei proporti di partire da qui, per arrivare – spero – altrove.

C’è un senso comune, questo della provincialità di Bologna, che poi ha tante varianti. Si dice, che so io: «Bologna è la città del consumo culturale e non della produzione culturale». Oppure ci sono quelli che dicono: «Ah! Com’era bella la Bologna di Dozza! ah, quella sì che era una vera Bologna, poi è decaduta». Bene, su questo, proprio, io credo il contrario: che definire provinciale una città significa affermare una relazione tra com’è una città e come s’immagina che altre siano; senza però mai definire come è prodotta la differenza dalle altre città rispetto a quella di cui si parla.
Io credo che, invece, se c’è qualcosa di provinciale, come dire, la ragione del provincialismo di Bologna, è fondamentalmente il provincialismo di coloro che ne parlano. Che non è il provincialismo dei suoi abitanti. E allora dov’è, per me, l’anima, il cuore, il segreto di questo «provincialismo»? È un curioso patto, o una verità giudicata di senso comune, io la chiamo di senso volgare, che questa città è rilevante solo se politicamente rilevante. Politicamente in senso stretto, in quello, cioè, del teatro del politico. E del suo complemento – come diremmo in logica – che in questo caso è «ciò che non è politico». Ma che cos’è il «non politico» in questo quadro provinciale? Il divertissement, cioè il folklore, ciò che comunque garantisce breve durata.


Qualcosa come l’effimero.

Sì, ma un effimero di povera lega. Non è l’effimero che viene prodotto, ma, prima ancora che si produca qualcosa di effimero, c’è uno schema di interpretazione per cui si tollera ciò che non è politico solo se, diciamo così, dà garanzie di durare abbastanza poco. Perché si ritiene che il quadro normale – e questo è il provincialismo di coloro che rappresentano la città – sia un quadro che, in fondo, ruota attorno al palazzo del governo. Con una presentazione in questo senso piatta, fino ad arrivare a dei momenti di non-informazione di ciò che accade. Perché viene giudicata irrilevante una cosa («tanto domani non c’è»), per cui: o ne parlo perché ho la certezza che domani non ci sia, o non ne parlo perché tanto so che domani non c’è più. In entrambi i casi s’è un’aspettativa di effimero, e non è altro che la riproduzione del volto politico di Bologna, il cuore di quello che viene chiamato il suo provincialismo. Ma questa non è la realtà di Bologna, questo è il modo dominante delle letture della realtà di Bologna.


Il che, se vogliamo, sottende un’idea del «politico» non solo stretta, ma addirittura legata a quadretti umanistici (la figura epica del sindaco) e a un’idea dell’amministrazione politica, e del suo contesto di problemi, come centro e rappresentazione della vita e della cultura della città. Quasi che la città potesse essere «compresa» nel suo politico, inteso in termini classici.

Forse. Non lo so. È un giudizio molto duro. Mi auguro che qualcuno non la pensi così, anche se sicuramente qualcuno la pensa così come tu dici, su questo non v’è dubbio.
Ma proprio, direi, in tono leggermente diverso dal tuo, che è non accettare che ciò che non è politico rappresenti la città. Ma soprattutto, cosa ancor più grave, è che il non politico non viene assunto come rappresentativo in senso forte della realtà di una città. Mi riferisco a quel «non politico» di cui dicevo prima, che non è divertimento, che non è il folklore, le salsicce in piazza…


Tutto ciò, in qualche modo, produce la provincialità di Bologna, in quanto disincentiva tutte le iniziative che tendono ad uscire da questo quadro, o quadretto.

È evidente. C’è un rapporto tra il reale e la sua produzione di immagine. Cioè chi dice «Bologna è provinciale» è un riproduttore del suo provincialismo, e al tempo stesso non prende in considerazione quanto questo sia un suo giudizio. E non una descrizione dei fatti.
Non voglio dire con questo che ogni cosa che accade a Bologna deve essere parlata, ci sono cose che servono solo per farsi compagnia, per carità! Però manca questo principio di attenzione a promuovere ciò che si produce, assumendosi il rischio di appoggiare un’iniziativa, e quanto meno una consapevolezza che, se non ne parli, ti assumi anche tu la tua responsabilità di occultare e di tacere. Ciò che non trovo più è il senso di questo giudizio che mi sembra venir meno ormai nei mass media, per cui non si parla più di niente, direi quasi, e non trovo più questa relazione all’interno della notizia che non sia la relazione della notizia politica o, ripeto, di vago folklore; di sociologismo da quattro soldi, di fesserie descrittive e consolatorie, per cui uno si rilegge sul giornale.


Credo che sia importante riferirsi anche alla tua esperienza diretta, come organizzatore del convegno «Teoria dei sistemi e razionalità sociale», convegno che è entrato nel circuito dell’informazione, ma in modo, a mio avviso, alquanto riduttivo.

Era stato un convegno non banale, sia per i temi che trattava; sia per le intelligenze, nazionali e non, che vi partecipavano. La stessa produzione del convegno era interessante: due dipartimenti universitari che vanno a un rapporto con l’ente locale, questo almeno poteva avere un interesse anche per chi è orientato verso la «politica». Ebbene, questo convegno si è trovato non solo al di sotto di un’informazione culturale competente, ma anche al di sotto della semplice informazione «di servizio», cioè della semplice comunicazione della «scaletta» degli interventi, con nomi, date, orari, argomento delle singole relazioni. A questo convegno è stato dato un minor rilievo di quanto non ne avrebbe avuto un torneo di briscola in una Casa del Popolo.


Più in generale esiste un problema di moduli della comunicazione, di un linguaggio che, anche quando parla di qualcosa che folklore non è, ne parla come se fosse folklore, banalizzandolo, appiattendone la radicalità.

Su questo sono, almeno nei miei termini, d’accordo. C’è una perdita della molteplicità di criteri della rilevanza di ciò che accade. Ciò che sento che manca, che mi piacerebbe chiamare con questa parola «borghese», è un rispetto per il rischio che l’altro corre quando fa qualcosa. Rispetto non vuol dire condividere, ma – relativamente all’ambito di volta in volta diverso in cui qualcosa accade – misurarsi con il rischio di quel gesto, per promuoverlo o anche per aggredirlo. Certo, sono d’accordo con te, non per trattarlo con sufficienza o con bonomia, o per appiattirne la sua stessa capacità d’urto. Ma questo forse è chiedere troppo. Ma comunque c’è un dato di fondo: che c’è qualcosa che precede il consenso e il dissenso, vecchi valori: è questa forma di rispetto che non soffoca il rischio di ciò che l’altro fa a partire dal fatto che l’ambito in cui questo accade viene giudicato «banale». Io parto dall’idea che non vi sono ambiti di vita «banali». Non vi è nessuna forma di vita banale.

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NOTE


  - Il tema del provincialismo di Bologna è riemerso con l’intervista a Fausto Anderlini: «Alla scoperta di “Bolokistan” dove i partiti si autodissolvono», il Bologna, 6 marzo 2009, p. 27.
[*]- Su Roberto Dionigi e le sue opere vedi Quodlibet.

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«Immagine e città. Conversazione con Roberto Dionigi», a cura di Rudy M. Leonelli, in Metro’, anno I, n. 1, 3 febbraio 1984.

sabato 31 gennaio 2009

Valerio Morucci, l'antifascismo non è un western (da il manifesto)


Valerio Morucci, l'antifascismo
non è un western

di Francesco Raparelli

[da il manifesto, 31 gennaio 2009]


Ci sono alcune pagine di Nietzsche sulla «cattiva coscienza» che più di altre ci aiutano a capire la «questione Morucci», ma i giganti vanno scomodati di fronte alle cose serie e il caso dell’ex-Br (che sarà ospite del centro sociale neofascista Casa Pound) di certo non rientra tra queste. A cercare meglio, dietro la rabbia che immagino abbia colpito molti, c’è una biografia che per i movimenti, quelli di massa, ha avuto poco amore. Meglio i western.

Sono passati solo pochi giorni, dal divieto di Frati, pochi giorni da una questione che ha visto protagonista la Sapienza, Morucci e, suo malgrado l’Onda. Durante le feste natalizie, infatti, un docente di Scienze umanistiche ha deciso di invitare Morucci per parlare degli anni di piombo. Puntuale la replica del Rettore: l’iniziativa è stata vietata e in compenso Rettore e sindaco Alemanno hanno pensato bene di attaccare l’Onda («i trecento criminali»), di riproporre la questione del Papa e della libertà di parola. Il professore si difese chiamando in causa il consiglio poliziesco, Morucci fece finta di nulla, l’Onda rispose al meglio (era il 5 gennaio!). Oggi la musica cambia, a parlare è Iannone che presenta l’iniziativa di Casa Pound (di cui è portavoce), «oasi» del libero pensiero e della democrazia. Casa Pound e Morucci, infatti, sono accomunati da un problema comune e dallo stesso desiderio: interdetti dall’università, il problema; farla finita con «l’antifascismo ideologico», il desiderio. Sul desiderio Casa Pound ha già lavorato sodo in questi anni, con tutti gli strumenti tecnici a sua disposizione: per chi ha la memoria corta basta ricordare le cinte e i bastoni tricolore di Piazza Navona (29 ottobre 2008), quelli che colpivano con forza (altro che ideologia!) studenti e studentesse di non più di sedici, diciassette anni. Parlano le foto, parlano le ricostruzioni più oneste (Curzio Maltese primo fra tutti), parla la verità.

Ma a Morucci interessa poco la verità, tanto che – ci racconta Iannone sul
Corriere della sera di ieri ‒ dopo i fatti del 29 ottobre ha chiamato proprio i giovani di Blocco studentesco e non certo gli studenti dell’Onda per esprimere la sua solidarietà. Sulla Stampa dello scorso maggio stessa cosa: nessuna difesa per gli studenti aggrediti in via De Lollis dai neofascisti di Forza nuova, piuttosto una condanna bipartisan. Verrebbe da diventare scortesi, fortunatamente la vita e la storia di Morucci non parlano più a nessuno. Ci spiace per le sue ambizioni pretesche (Ratzinger è interessato all’acquisto?) e per quanto riguarda i movimenti appartengono ad un’altra era, un’era in cui l’antifascismo è un fatto di realtà, non una patologia da nostalgici.
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vedi inoltre: Quegli esorcisti di CasaPound...

domenica 15 luglio 2007

Agnolo Poliziano: Fabula di Orfeo, regia di Stefano Armati (1986)

Lo stato dei Giardini del Guasto di Bologna, situati nel cuore della zona universitaria, dal finire degli anni 70 ha subito un andamento per così dire "pendolare", alternando stagioni di notevole produttività artistica e culturale ad altre di completo abbandono. Oggi, un po' nel solco della felice invenzione di aperture pomeridiane con accesso consentito ai soli "adulti accompagnati da bambini" (era il 2002) i Giardini presentano un rinnovato ad intenso programma di iniziative.

Vorrei salutare questo rilancio rievocando un primo (forse il primo) tentativo non poliziesco (e riuscito) di sgomberare il terreno dei Giardini dalle siringhe e dall'incuria, era l'ormai lontano '86, e fu un incrociarsi di persone, di opere, di idee, di percorsi, saperi, esperienze. Tra le cose per me indimenticabili - e non dimenticate - la realizzazione della Fabula di Orfeo curata dal multiforme ingegno di Stefano Armati [qui, in foto(copia...), nei panni di Orfeo]. Ripubblico qualcosa dalla presentazione e dal libretto della serata del quale avevo curato la redazione e la realizzazione grafica.






Mercurio annunziatore della festa:

"Silenzio, Udite. El fu già un pastore
figliuol d’Apollo, chiamato Aristeo:
costui amò con sì sfrenato ardore
Euridice che moglie fu di Orfeo
che seguendola un giorno per amore
fu cagion del suo caso acerbo e reo
perché fuggendo lei vicina all’acque,
una biscia la punse e morta giacque.
Orfeo cantando all’inferno la tolse,
ma non poté servar la legge data,
che ‘l poverel tra via drieto si volse;
sì che di nuovo ella gli fu rubata;
però mai più amar donna non volse.
e dalle donne gli fu morte data."







“Solo uno sa che, in tutte le esperienze più
intense e produttive della nostra vita, felicità e
tormento sono la stessa cosa: l’uomo creativo.
Ma molto tempo prima di lui una creatura umana,
che amava, ha già teso le mani verso una stella
senza sapere se chiedeva piacere o sofferenza.”


Lou Andreas-Salomé


È molto bello che – in una circostanza come questa – venga proposta un’opera nata in un’epoca in cui “la letteratura vien fuori tra danze, feste e conviti (De Sanctis) e scritta “in tempo di dui giorni, intra continui tumulti, in stilo vulgare perché dagli spettatori meglio fussi intesa (Poliziano).

Arte d’occasione, certo, ma di alto livello; rapida composizione che ha, tra le sue condizioni di possibilità, un’assidua e sapiente frequentazione dei classici, un’intensa e rigorosa attività filologica e storica, una raffinata conoscenza ed esperienza della scrittura in lingua volgare.

La Fabula di Orfeo, che il Poliziano – fin quasi alla fine della vita – era propenso a sopprimere, così come era in uso tra i Lacedemoni “quando alcuno loro figliuolo nasceva o di qualche membro impedito o delle forze debile”, è venuta a costituire, malgrado il giudizio e le aspettative dell’autore, un capitolo fondamentale – il primo – del teatro erudito del Rinascimento.

Secondo l’interpretazione tradizionale – tuttora diffusamente accolta – la Fabula, conservando le apparenze esteriori del teatro medievale, ne sovvertirebbe i termini, sostituendo figure pagane a quelle della tradizione cattolica.

Diversamente, D’Amico, rileva che questa composizione è, anche dal punto di vista formale, altra cosa dal dramma sacro, in quanto gli eventi non sono posti materialmente di fronte allo spettatore, ma “‘riferiti’ da narratori aggraziati, attraverso racconti più o meno dialogati ed effusioni sospirose ed elegiache”. In questa chiave la fabula è “meglio che un dramma, un seguito di scene […] da gustare soprattutto per ‘pezzi’, come oggi certe opere in musica”.

Possiamo leggere la Fabula come una serie di “esercizi di stile”, una composizione (in un significato molto vicino a quello che il termine ha in musica): la scrittura cita le narrazioni classiche del mito di Orfeo, inserisce espressioni del parlato popolare, traduce, riorganizza, riscrive, ordina i materiali e i frammenti che sceglie dalla tradizione, in diverse forme poetiche e mutandone – insieme – il tono e il colore.

Il risultato non ha, evidentemente, né la gravità, né lo spessore, né l’intensità dei luoghi di Ovidio e di Virgilio che il Poliziano ha presenti, e che ripete, variati.

La Fabula è tremendamente superficiale: “eterea”, “impalpabile”, adolescenziale”, “rarefatta”: i termini costituiscono il linguaggio corrente, e quasi obbligato, della letteratura critica.

Ed è probabilmente questo il segreto del suo fascino, non disgiunto dalla assoluta innocenza degli eventi che compongono lo schema narrativo.

Nietzsche: si può essere “superficiali, per profondità!”

Rudy M. Leonelli, 1986


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La prima rappresentazione della Fabula di Orfeo risale ai tumulti del carnevale mantovano, “con esatta probabilità ad un banchetto che il cardinale offrì ai fratelli la sera del martedì grasso. 15 febbraio 1840.
Il cardinale in questione è Francesco Gonzaga, che ospitò il Poliziano dopo la sua caduta in disgrazia presso Lorenzo il Magnifico, è colui “al cui sfarzo conviviale dobbiamo la creazione della Fabula di Orfeo”.
Nel riproporla, non si inteso farne realizzazione filologica, bensì si è cercato di recuperare il clima “giovale e carnascialesco”, che sta all’origine dell’opera.
Un Orfeo “di occasione” come allora, che ricerca nella propria struttura originaria “a Fregio” la possibilità di svolgersi in una successione di quadri, secondo una struttura narrativa, quasi da “strip-cartoon”, dove i personaggi si muovono come graffiti metropolitani, nello scenario “post-atomico” dei Giardini del Guasto.
Ho operato sul testo di Poliziano sopprimendo i brani in lingua latina e inserendo l’aria cantata, di Antonio Cesti: Intorno all’idol mio.
Grazio la dottoressa Margherita Sergardi, del Dipartimento di Italianistica dell’Università degli Studi di Bologna, per avermi iniziato al testo del Poliziano, e per avermi dato, nel giugno scorso, l’opportunità di realizzare – nei giardini di Palazzo Hercolani – una prima bozza registica ed interpretativa della Fabula.
Ringrazio inoltre le amiche della palestra Isadora per l’ennesimo, indispensabile contributo, il circolo Massarenti, tutti coloro – enti e persone – che hanno contribuito alla realizzazione di questa rappresentazione e il pubblico presente a questa serata.

Stefano Armati



La Compagnia:

Mercurio……...….annunziatore della festa…….….Roberto Sabattini
Il pastore Schiavone…………………….…………….Roberta Casadei
Mopso…………..….vecchio preveggente…..……....Paolo Franceschi
Aristeo…,,,,,..giovane pastore innamorato di Euridice…..Claudio Cavina
Tirsi……………………..servo di Aristeo………..…Antonio Obino

Euridice………….infa sposa di Orfeo…….…Ilaria Sala
Orfeo…………..mitico cantore……..Stefano Armati

Plutone………….Re degli Inferi…….Pino Bianchini
Minosse …………massimo giudice infernale………………Maurizio Babini
Proserpina…….Regina degli Inferi…..Annamaria Pierfederici

Le Furie…..spiriti infernali:
Gianna Beduschi, Tania Pizzuti, Francesca Campanaro, Roberta Raimondi

Le Baccanti……seguaci di Bacco:
voci recitanti……………………………Patrizia Piccinini, Roberta Casadei
danzatrici……Susanna Quaranta, G. Beduschi, T. Pizzuti, F. Campanaro, R. Raimondi, P. Piccinini

Cerbero…..cane infernale…..Anna Batoli, P.Piccinini, S. Quaranta

Arpista…………………………………………………Emanuela Degli Esposti
Violoncellista…………………..Nicola Baroni

Interventi scenografici…..Giano Castagnoli, Maja Becheret, Eleonora Straub
Adattamento scenico e regia……………………..Stefano Armati
Assistenti alla regia……….A. Pierfederici, G. Beduschi
Suono…………………………Guido Tabone
Luci……………Mario Chemello
Sartoria………..Pamela e Luisa Muratori
Decorazioni in metallo……..Maurizio Sterchele
Progetto grafico e realizzazione libretto di sala……….Rudy M. Leonelli