giovedì 7 aprile 2011

Per Gramsci, oltre il simulacro

Gramsci non è solo un'icona pop
Restituiamolo ai ventenni di oggi
 

di Michela Murgia
5 aprile 2011,
l'Unità

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Il volto di Antonio Gramsci è un’icona pop con livelli di riconoscibilità pari o di poco inferiori a quelli di Che Guevara, di Marilyn Monroe e di Martin Luther King. Nessun altro filosofo al mondo,eccetto Marx, ha esercitato lo stesso fascino di lingua in lingua, seducendo quattro generazioni con il suo pensiero innovativo e con la forza di una dialettica cosí tagliente da aver colonizzato il linguaggio ben oltre l’area ideologica a cui voleva dare riferimenti.

Espressioni come «intellettuale organico», «egemonia culturale » e «ottimismo della volontà» – anche se non sempre usate propriamente rispetto al senso originario – fanno parte da tempo del linguaggio comune, giornalistico e televisivo. Eppure proprio questa sua progressiva trasformazione in monumentointellettuale rischia di rendere Nino Gramsci inavvicinabile alla passione di una ventenne o di un ventenne di oggi. Troppo ingombrante per approcciarlo senza timori reverenziali, il pensiero gramsciano finisce per essere sterilizzato dalla sua stessa importanza, il che danneggia Gramsci stesso, ridotto a santino laico tanto citato quanto poco letto, e contraddice l’umiltà rigorosa che lo portava a credersi «semplicemente un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde e che non le baratta per niente al mondo». Ma soprattutto danneggia i ventenni, privati ingiustamente dell’incontro con la teoria di un maestro robusto e con la vita di un clamoroso testimone civile. Queste lettere personali, quanto di piú lontano dall’accademia filosofica si possa immaginare, sono un ottimo modo per fare la pace con l’uomo Gramsci, conoscerne la vivacità di spirito, la piacevolissima prosa, la rettitudine morale e l’esperienza sofferta di perseguitato politico. Mentre i parenti lo piangevano carcerato e il regime fascista lo credeva politicamente neutralizzato, Gramsci rivendicava il senso della sua prigionia come atto di lotta, rivelandosi capace di generare formidabili chiavi di lettura del mondo proprio dal luogo in cui il mondo lo voleva mutoe monco.Con orgoglio lo ripete alla cognata che nelle lettere lo compativa: «Io non sono un afflitto chedebba essere consolato, e non lo diverrò mai». La vicenda biografica del carcere di Gramsci commuove, indigna e conquista al punto che, dopo questo approccio, avvicinarsi al suo pensiero piú strutturato sembrerà il naturale proseguo di un’amicizia spontanea con un uomo speciale.

LA FEDINA PENALE  Per avere una prospettiva completa sugli scritti personali di Gramsci in carcere bisognerebbe essere cosí fortunati da avere a disposizione due strumenti: il primo sono le lettere vere e proprie, l’altro è la sua fedina penale, perché il percorso intimo e quello burocratico carcerario si intrecciano in maniera cosí dissonante che solo accettando di stare dentro la loro contraddizione si può intuire davvero la complessità dell’uomo Gramsci e del tempo che ha vissuto. Di solito i documenti giudiziari sono freddi e poco esplicativi, ma dalla lettura di quella preziosa fedina penale si capiscono invece molte cose, prima tra tutte che il regime fascista era un sistema ipocrita al punto da non poter fare a meno della messa in scena di una qualche forma di legalità: per combattere gli avversari politici non si limitava a imprigionarli, ma cercava di legittimare il proprio arbitrio costruendo intorno a loro un impianto formale fatto di reati inventati che attribuissero l’apparenza del danno sociale al moto di dissenso che si voleva soffocare. Per mettere a tacere Nino Gramsci di reati ne furono inventati ben sei: cospirazione, incitamento ai militari per disobbedienza alle leggi, offese al capo del governo, incitamento alla guerra civile, incitamento alla insurrezione e al mutamento violento della costituzione e della forma di governo e infine incitamento all’odio di classe e alla disobbedienza delle leggi a mezzo stampa. Poiché però per reati fittizi non si possono chiamare in causa giudici veri, a decretare la condanna di Gramscinonera stata la magistratura ordinaria, ma una corte fascista, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato in Roma,di fattounamagistratura parallela che si occupava dei nemici politici del regime. Persino la sentenza risentiva dell’ipocrisia del contesto: vent’anni di reclusione, seimiladuecento lire di multa, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e due anni di vigilanza speciale erano solo apparentemente una detenzione; a tutti gli effetti costituivano una condanna a morte, la traduzione formale della richiesta del pubblico ministero Michele Isgrò,unuomotalmente complessato dall’autorevolezza intellettuale dell’imputato da concludere la sua requisitoria con la famosa frase: «Dobbiamo impedire a questo cervello di pensare per vent’anni». Quel tribunale gli comminò dunque l’annullamento civile e quello politico,maanche quellomeramente fisico, perché nove anni dopo, quando il regime rilasciò Gramsci a causa delle sue disperate condizioni di salute, egli morí in meno di una settimana. Nell’avvicinarsi a queste lettere non bisogna dimenticare che sono il testamento intimo di unuomo innocente finito in carcere a causa di quello che pensava, unuomogiovane che non si godrà il suo amore, che non vedrà crescere i suoi figli, la cui anzianamadremorirà a sua insaputa e la cui salute declinerà gravemente di prigione in prigione, fino alla morte avvenuta a meno di cinquant’anni. Se non si ricorda questo, sarà facile farsi sedurre dallo spirito eccezionalmente vivace di Gramsci – quello che lui stesso definiva come «un certo spiritello ironico e pieno di umore che mi accompagna sempre» – che permea il carteggio al punto che egli quasi riesce nel miracolo di far dimenticare da dove e in che condizioni scrive. Tenerlo a mente serve non solo a mantenere un corretto approccio ermeneutico ai testi, ma anche – ed è la cosa piú appassionante per un lettore che nonabbia solo intenti accademici – a capire la misura morale di un uomo la cui libertà di spirito aumentava in proporzione inversa al peggioramento delle sue condizioni detentive. In questo carteggio multiforme appaiono scorci splendidi della sua natura umana: ricordi vividi dell’infanzia in Sardegna, l’amore per gli animali che Gramsci coltivava anche in cella addestrando passeri e altre creature che riuscivano a passare le sbarre, il rapporto via via sempre piú teso con la moglie e quello parallelo, tenerissimo e confidenziale, con la cognata, a tutti gli effetti una consorte vicaria.

UMORISMO E TENEREZZA  Ci si sbalordisce per la sua straordinaria passione per lo studio, che lo portava a leggere un libro al giorno delle materie piú svariate e in piú lingue, arrivando a mandarne a memoria alcune parti nei frequenti periodi in cui gli veniva impedito di avere a disposizione carta e penna per gli appunti. Si scopre in lui anche l’inatteso talento inventivo, proprio di un narratore naturale, che lo spingeva a costruire piccoli racconti per il diletto della cognata, spesso conditi da un irresistibile senso dell’umorismo. Commuove la sua tenerezza di padre, quando completamente debilitato scrive ai figli piccoli gli ultimi brevi biglietti di saluto e istruzione, nei quali mai traspare la progressiva certezza di non rivederli piú. Conquistano persino certi cedimenti allo sconforto, alla rabbia, al senso di abbandono quando le lettere si diradano o si perdono, portandolo a lamentarsi vivacemente. Questo piccolo, stortignaccolo uomo in carcere giganteggia davanti al lettore in ogni riga e senso possibile, e a centovent’anni dalla nascita continua a prendersi gioco della sua stessa fama, esattamente comefece con quel compagno di carcere a Palermo che, incredulo di trovarsi davanti al vero Antonio Gramsci, lo apostrofò dicendo: «Non può essere. Antonio Gramsci dev’essere un gigante, e non un uomo cosí piccolo». Il galeotto non gli rivolse piú la parola, deluso della distanza tra la proiezione e l’originale. Non saprà mai cosa si è perso.

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1 commento:

riccardo uccheddu ha detto...

L'esigenza di restituire l'uomo, l'intellettuale ed il rivoluzionario Gramsci a chi non ha ancora avuto la fortuna di leggerlo si fa, direi, sempre più pressante di giorno in giorno.
Nel mio piccolo, come sai, ne ho parlato anch'io in una piccola introduzione-saggio ad una delle prime edizioni delle "Lettere", da poco ripubblicata da una casa editrice cagliaritana ("La Riflessione" di Davide Zedda).
Di recente, durante la presentazione del "Dizionario gramsciano" alla facoltà di lettere e filosofia di Cagliari, benchè non facessi parte degli oratori, in un mio intervento mi sono rivolto quasi esclusivamente ad una classe di un liceo condotta alla presentazione in questione dalla loro prof (sia... benedetta!).
Al di là d'aspetti storico-filosofici ed ermeneutici che i ragazzi non avrebbero potuto seguire, ho cercato di far capire loro come dalla lettura delle opere dell'uomo che M. Murgia chiama affettuosamente "Nino" si possa ricevere un'effettiva illuminazione sul piano intellettuale... ed anche un conforto ed uno stimolo sul piano pratico e morale.
Perchè per Gramsci (come del resto per il Che) il socialismo non era un freddo progetto da realizzarsi a tavolino ma una costruzione che prevede l'edificazione anche dell'uomo nuovo, non solo di una nuova società.
Da qui l'importanza del "istruitevi, perchè presto avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza."
In questa costruzione serve l'uomo ed IL giovane e LA giovane con la loro sfera intellettuale ed anche affettiva, perchè quel che fa il capitalismo è, attraverso lo sfruttamento, creare anche infelicità, frustrazione, amicizie (ed anche amori) influenzate dall'ipocrisia e dalla convenienza ed ancora, ignoranza, superstizione, militarismo, razzismo...
Abbraccio e scusa il commento-fiume!