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giovedì 12 febbraio 2009

La cosmopoli di Gramsci (di Giorgio Baratta)




La cosmopoli di Gramsci
antidoto al leghismodi Giorgio Baratta *


Il crollo del socialismo reale e il rigonfio dell'americanismo, la violenza arrogante dell'era Bush e il trionfo dei fondamentalismi che mette in crisi le acquisizioni del postcolonialismo, la globalizzazione economica e mediatico-culturale, ora la crisi, hanno determinato e determinano in varie parti del mondo il risveglio di interesse per il pensiero di Gramsci.
In un senso paradossale, ma non peregrino, il suo modo-metodo di pensare appare per alcuni versi più attuale oggi rispetto al periodo nel quale egli scriveva.
La sostanza internazionale del pensiero di Gramsci e, insieme, il motus - crescendo regionale-nazionale-continentale-mondiale che essa sprigiona, sono la ragione della sua fortuna oggi, diversa da quella di ieri.
Il focus sta nella consapevolezza della mondializzazione della politica a dominanza americana, a fronte della certezza che la filosofia della prassi, animata da un autentico «filosofo democratico» o «pensatore collettivo», delinea o può delineare un orizzonte pratico-teorico nel quale morendo, come muore, il "vecchio", si profila all'orizzonte il "nuovo", anche se per ora, come Gramsci scrive nel Quaderno 3, «non può nascere».
Che cosa fosse e cosa potrà essere questo "nuovo", è il suo, e nostro, sogno di una cosa.
Nel Quaderno 1 Gramsci rivendica, differenziandosi da Lenin e dalla linea di pensiero dell'Internazionale, la fioritura di una nuova fase del capitalismo, che si annuncia attraverso il primato economico e politico degli Stati Uniti e l'egemonia americana/americanista. In questo contesto egli ripropone la questione meridionale - affrontata a livello tutto italiano nelle Tesi del 1926 - in una dimensione internazionale, rispetto alla quale l'emblematico, per l'Italia e l'Europa «mistero di Napoli», si ricollega a tutti i Sud del mondo, in particolare a quei Paesi asiatici, come «l'India e la Cina», ove si presentano il «ristagno della storia e l'impotenza politico-militare». Tuttavia già nel Quaderno 2 Gramsci lumeggia un possibile transito: «Se la Cina e l'India diventassero nazioni moderne, con grandi masse di produzione industriale» e «si sposterà l'asse della politica mondiale dall'Atlantico al Pacifico», che cosa accadrà?
Si capisce bene la prudenza politico-programmatica di Gramsci in un «mondo grande e terribile» che risulta, «specialmente per chi è in carcere, sempre più incomprensibile».
Un punto fermo è l'insistenza, anche metaforica ed espressiva, di Gramsci sulla categoria "mondo", spia della centralità del cosmopolitismo=nuovo internazionalismo nel ritmo del suo pensiero.
Gli studi geo-politici e culturali (ad es. di Boothman, che interverrà sull'Islam a Cagliari) hanno avviato la «filologia vivente» di questa dimensione. Banco di prova di un «moderno cosmopolitismo», a partire dal «vecchio centro», in via di sfaldamento, è, per un verso, la «crisi italiana», per altro la questione europea. Di qui la singolare e problematica, ma efficace espressione: «una nuova cosmopoli europea e mondiale».
A che cosa pensa Gramsci?
Nel Quaderno 9 leggiamo: «Nel Risorgimento, Mazzini-Gioberti cercano di creare il mito di una missione dell'Italia rinata in una nuova Cosmopoli europea e mondiale, ma è un mito puramente verbale e cartaceo».
A fronte di questo cosmopolitismo «tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi meccanici del passato», che aspira a modernizzarsi coniugandosi, sia pure da posizioni arretrate, con l'«uomo-capitale», Gramsci ribadisce che «l'espansione italiana è dell'uomo-lavoro non dell'uomo-capitale. Il cosmopolitismo italiano non può non diventare internazionalismo. Non il cittadino del mondo, in quanto civis romanus o cattolico, ma in quanto lavoratore e produttore di civiltà». E' cieco chi non veda in questo passo lungi-mirante un modello passato del ricongiungimento, che il presente quadro politico italiano ci offre, tra le godurie mediatiche dell'«uomo capitale» e i rigurgiti clerical-fascisti di «ricordi meccanici del passato».
Quel che stona con l'oggi è evidentemente la pars costruens , che manca, cioè l'italiano uomo-lavoro produttore di civiltà
Dalla Sardegna all'Italia, all'Europa, al mondo: «l'unificazione del genere umano» - analiticamente la ripresa di ciò che Marx una volta chiamò il «comunismo del capitale», progettualmente la trasformazione del senso comune in comunismo socialista - è un leit-motiv nascosto, a volte affiorante, nelle pieghe di tutti i Quaderni.
Abbiamo parlato dell'Italia. Guardiamo all'Europa, anche qui nella tensione passato-presente. L'"europeismo" di Gramsci è una convinzione fortissima.
Dal quaderno 6: «Esiste oggi una coscienza culturale europea ed esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra x anni questa unione sarà realizzata la parola "nazionalismo" avrà lo stesso valore archeologico che l'attuale "municipalismo"».Il punto delicato, oggi in questione, è il nesso che Gramsci stabiliva tra Europa e Nuova Cosmopoli.
Si registra un paradosso: mai come oggi l'unione europea è apparsa tanto fragile e politicamente inconsistente; mai come oggi, tuttavia, la ricerca di un'alternativa al "nuovo ordine mondiale" "di marca americana" dimostra un bisogno urgente di iniziativa dell'Europa - "potenza di mediazione" - congeniale a quella che Gramsci chiamava «una moderna forma di cosmopolitismo».
La gramsciana dialettica del contrappunto tra forme plurime di appartenenza e comunanza degli individui, ha rappresentato e rappresenta una grande sfida contro la tragica mania identitaria che ha in gran parte caratterizzato, in difetto di prospettive concretamente internazionaliste, la storia del Novecento e di questo inizio di secolo.
Così Gramsci ha potuto ragionare sul valore politico del suo ancoramento alle proprie radici in Sardegna e insieme ha esplicitato l'esigenza di una radicale fuoriuscita dal suo originario «triplice o quadruplice provincialismo» al fine di abbracciare una coscienza, più che nazionale, "europea": coscienza difficile, che non può, né deve chiudersi in se stessa, in un'epoca, come si dice nel Quaderno 2, nella quale «l'Europa ha perduto la sua importanza e la politica mondiale dipende da Londra, Washington, Mosca, Tokyo più che dal continente».
Il nostro Convegno affronta Gramsci e la "sua" Europa fuori dell'Europa: tematizza la presenza dell'Asia e dell'Africa nel suo pensiero, e insieme l'attualità di esso in questi continenti. Sono noti i processi di studio e di uso produttivo di Gramsci in Asia, come dimostrano i Subaltern Studies fondati da Guha in India.
E l'Africa? Il Convegno è una promessa, quale tematizzazione di un argomento certo secondario, ma non irrilevante nei Quaderni. Uno studioso della letteratura senegalese immaturamente scomparso, Werner Glinga, delineò, in una magistrale analisi nel Convegno romano del Cipec del 1987, nel quale fu concepita la IGS, il "triangolo della schiavitù" tra Africa, Europa, America, che Gramsci aveva tenuto presente. Il grande intellettuale nero Cornel West - allora consulente di Jesse Jackson, candidato alternativo a Reagan per la presidenza degli Stati Uniti, così come quest'anno è stato un promotore della candidatura di Obama - mise in guardia, in una videorelazione a quello stesso convegno, dall'uso dell'apocope "afro-americano", sottolinando la necessità, financo linguistica, di lasciare spazio all'eredità africana della nazione americano-statunitense. Certo ancora non sappiamo in che cosa consisterà quella che già che viene chiamata l'era Obama.
Siamo solo agli albori. Tendenzialmente i suoi compiti si possono caratterizzare con l'articolazione: riforma economica, rivoluzione simbolica, mutamento dello scenario internazionale (per non parlare di ecologia): momenti diversi - difficile dire se solidali o in contrasto tra loro - di una medesima problematica, estremamente complessa.
Come si presenterà il volto dell'America e dell'americanismo con Obama?
Che cosa dirà Gramsci?

Giorgio Baratta
* Relazione di apertura del convegno "Gramsci in Asia e in Africa", organizzato dal dipartimento di studi storico-politico internazionali dell'università di Cagliari giovedì e venerdì presso l'aula magna della facoltà di Scienze politiche (via di Sant'Ignazio 78). Sarà presentato anche il videosaggio di Giorgio Baratta e Massimiliano Bomba "Terra Gramsci".

[da Liberazione,10/02/2009]

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info: unica.it


giovedì 13 novembre 2008

Scusi, ma quello non è il capitalismo? (di Alberto Burgio e Vladimiro Giacché)


In questi giorni è di gran moda tributare onori al vecchio Marx. La crisi del capitalismo incoraggia le palinodie. Ancora ieri era un reperto fossile, oggi è la mascotte di banchieri e economisti di radicata (e in realtà incrollabile) fede liberista. Lasciamo andare ogni considerazione sulla scarsa decenza di tanti improvvisi ripensamenti. Proviamo piuttosto a divertirci un po’ immaginando lo spasso che procurerebbero a Marx tutti questi discorsi e quanto sta accadendo in queste turbolente settimane. A Marx e non soltanto a lui. C’è un altro grande vecchio, di cui nessuno parla, che si sta godendo una tardiva ma non imprevista rivincita. Un vecchio molto caro all’autore del Capitale. Insomma, questa crisi è un momento di riscatto anche per Hegel, il grande maestro di Marx. Attenti a quei due. La rappresentazione prevalente descrive un movimento che va dalla crisi finanziaria («originata - recita la vulgata - dalla caduta dei mutui subprime») all’economia reale.

Le implicazioni di questa narrazione ideologica sono principalmente due. La prima è che l’«economia reale» (in sostanza, il capitalismo) sarebbe di per sé sana; la seconda, che ne consegue, è che si tratta in definitiva di un problema di «assenza di regole e controlli» in grado di prevenire (e adeguatamente reprimere) i comportamenti «devianti» degli speculatori troppo ingordi.

Tale descrizione omette il dato essenziale. Prima del movimento descritto, ne opera uno opposto (dall’economia reale alla finanza) che si fa di tutto per occultare. Si capisce perché.

In realtà è il modo in cui funzionano la produzione e la riproduzione (cioè il rapporto capitale-lavoro) a decidere il ruolo della finanza e le forme concrete del suo funzionamento. Nella fattispecie, è l’ipersfruttamento del lavoro (a mezzo di precarizzazioni, delocalizzazioni, bassi salari e tagli del welfare) a far sì che all’indebitamento di massa sia affidato il ruolo di fondamentale volano della crescita. Non stupisce allora che su questo si cerchi di instaurare un tabù. Non si può dire chiaramente - pena l’esplicita delegittimazione del sistema - che all’origine della crisi è la crescente povertà imposta alle classi lavoratrici da trent’anni a questa parte.

Ma che c’entra Marx con questo e cosa c’entra soprattutto Hegel? Proviamo a vederla così. Se è vero che l’economia reale è sia il luogo originario del processo di crisi, sia il terreno del suo compiuto dispiegarsi, allora si può dire che la produzione si serve della finanza per sopravvivere. Nel concreto, la speculazione finanziaria fondata sull’indebitamento è il mezzo che il capitale usa per svilupparsi in costanza del vincolo-base del neoliberismo: la deflazione salariale a tutela del saggio di profitto.

Leggi l'articolo completo in Bellaciao

lunedì 3 novembre 2008

Perché ancora Marx (di Marcello Musto)

Nel corso delle ultime settimane, da quando la crisi finanziaria internazionale si è sviluppata così violentemente da sradicare, con le furie dei propri venti, non solo alcune delle più grandi istituzioni del capitalismo americano, ma lo stesso modello neoliberale spacciato come pensiero unico fino a pochi mesi fa, tutti i principali quotidiani internazionali, non importa se di tendenza riformista o liberale, hanno reso omaggio a Karl Marx e alle sue tesi. Egli è ritornato a essere citato negli editoriali dei maggiori quotidiani finanziari mondiali e a essere ritratto sulle copertine di diffusissimi e autorevoli settimanali di Stati Uniti ed Europa.

Alcuni di questi hanno sostituito il viso della Statua della libertà con un profilo soddisfatto di Marx, mentre l’Economist di due settimane fa raffigurava il presidente francese François Sarkozy, in visita a New York, intento a leggere avidamente una copia de Il capitale mentre, sullo sfondo, i palazzi di Wall Street crollavano inesorabilmente. In tutte le descrizioni e le immagini in cui ho visto ritratto Marx durante queste settimane, egli appariva sempre sorridente e, nonostante il passar degli anni, mi è sembrato piuttosto in forma, anche quando a fare i conti con le sue analisi erano giornalisti che non possono certo essere definiti suoi seguaci.


[leggi l'articolo completo in Bellaciao]

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venerdì 2 febbraio 2007

Foucault, Marx, marxismi

Il convegno di Bologna del 24 novembre 2005


Qual è stata l’incidenza di Marx e dei marxismi (il plurale è, per noi, d’obbligo) nella formazione di Foucault e nel percorso delle sue ricerche? E quanto il pensiero foucaultiano ha segnato lo sviluppo del marxismo occidentale?
Il convegno "Foucault, Marx , marxismi", organizzato dal Dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna presso la Scuola Superiore di Studi Umanistici, ha cercato di rispondere a questi interrogativi attraverso il confronto tra una pluralità di interventi accomunati dall’esigenza di dar corpo e determinazioni alla complessità di questi rapporti, spesso riconosciuta almeno in linea di principio, ma – in particolare in Italia – raramente esplorata nelle sue molteplici articolazioni.

Manlio Iofrida ha esplorato uno dei periodi più trascurati dalla letteratura critica: il Foucault che, all’inizio degli anni ’50, si iscrive al PCF, e le cui posizioni filosofiche oscillano tra due poli : la psicologia esistenziale di Biswanger (di filiazione heideggeriana) e un marxismo ortodosso in cui trovano spazio elementi di osservanza sovietica (in particolare Pavlov). Due poli rappresentati da due opere del ’54: l’Introduzione a Malattia mentale ed esistenza di Biswanger e Maladie mentale et personnalité. Affrontando il nodo della coesistenza di questi poli, Iofrida ha messo in luce un retroterra comune, che attraversa molteplici marxismi dell’epoca: dalle ascendenze surrealiste, all’opera di Bataille e del Blanchot del dopoguerra, al poeta e resistente René Char; una “nebulosa” in cui diversi orientamenti legati a Marx intersecano riferimenti a Nietzsche e Heidegger. Iofrida ha poi riesaminato le questioni poste dal saggio di Pierre Macherey (in Critique, n. 471-472, 1986) sulle trasformazioni che, con la riedizione del ’64, Foucault ha apportato al testo della Maladie del ’54, e ha esplicitato un unico punto di dissenso da Macherey: nel ’64 Foucault non avrebbe sostituito Marx con Heidegger; quanto piuttosto sostituito a un marxismo di osservanza sovietica un marxismo “nietzscheano-heideggeriano”. Non un cancellazione di Marx, ma l’esordio di un diverso rapporto con Marx, non più soggetto all’ortodossia.

Partendo dal corso del 1976 (Bisogna difendere la società), Guglielmo Forni Rosa ha notato che i riferimenti di Foucault al marxismo non sono omogenei e sono riferibili a diversi marxismi. Foucault distingue il riconoscimento dell’importanza di Marx dalla critica del marxismo come istituzione ancorata ad apparati di potere (partito, Stato). In questo senso, il rifiuto del marxismo come scienza potrebbe essere inteso non tanto come contestazione della legittimità del marxismo a comparire tra le scienze sociali del XIX secolo, ma come critica degli effetti di potere propri a un discorso scientifico. Un punto di forte prossimità a Marx è la concezione foucaultiana dell’individuo come prodotto storico e sociale e non come un dato naturale, sottolineata nel ’76 dall’opposizione “barbaro”/“selvaggio”. Nel rifiuto della dialettica quale forma di pacificazione di un sapere storico-politico “bellicoso”, prevale l’impossibilità di una “uscita dalla storia” in termini di conciliazione.

Sviluppando una lettura del corso del ’76 che ne privilegia le dimensione autoreferenziale (Foucault problematizza riflessivamente la griglia della “battaglia perpetua” che percorre i suoi testi degli ani ’70), Rudy M. Leonelli – con una rielaborazione delle tesi proposte in un saggio pubblicato in Altreragioni (n. 9, 1999) – ha sottolineato che l’intensificazione della lettura interna conduce paradossalmente al suo oltrepassamento, aprendo il problema cruciale del rapporto con Marx, inteso come condizione storica di esistenza della ricerca foucaultiana. L’analisi di questo rapporto è ostacolata tanto dal “gioco” di Foucault che usa frequentemente Marx senza citarlo, quanto a diverse imprecisioni nelle citazioni. Il caso più importante è quello della conferenza del 1976 “Le maglie del potere”, in cui Foucault indica luoghi del Capitale come un punto di riferimento per un’uscita dalla concezione giuridica del potere. Con il riferimento (erroneo) al II libro del Capitale, Foucault si riferisce in realtà a brani del tomo 2 del primo libro, (IV sezione). Solo se si individua il Marx al quale si riferisce Foucault, diviene possibile leggere l’analisi delle tecnologie del potere in termini produttivi come una generalizzazione delle analisi marxiane.

Stefano Catucci ha ricordato che la rilevanza politica di Foucault si è affermata a partire dalle frasi del 1966 (Le parole e le cose) che contestavano la rottura epistemica di Marx in rapporto all’economia politica ricardiana. In seguito Foucault ha cercato non tanto di “ritrattare” questa tesi, ma di circoscriverne la portata, sottolineando la rottura imprescindibile costituita dagli scritti storici di Marx. Alla radice della critica foucaultiana del marxismo, stanno in primo luogo i deludenti esiti dell’esperienza sovietica. Il Foucault più recente, nel corso del 1978, Sicurezza, territorio, popolazione, ha individuato la deficienza fondamentale della cultura socialista nell’assenza di un’autonoma concezione della “governamentalità” – che si è manifestata nella riduzione delle esperienze di governo socialista nell’alternativa tra la subalternità al liberalismo (il socialismo come “antidoto” o “correttore” di quest’ultimo) e lo stato di polizia. Il fatto che la valutazione delle esperienze di socialismo al potere sia stata generalmente posta in termini di fedeltà ad un testo, è al tempo stesso l’indice della mancanza di una concezione autonoma, e un modo di evitare il problema attraverso l’esegesi accademica del testo, verso la quale Foucault ha costantemente mantenuto un atteggiamento critico.

Marco Enrico Giacomelli – riprendendo le tesi che ha proposto in un saggio pubblicato nel numero monografico “Marx et Foucault” di Actuel Marx (n. 36, 2004) – ha evidenziato diverse corrispondenze tra le ricerche dell’operaismo italiano e le genealogie di Foucault. L’inchiesta sul cremonese di Montaldi (1956) inaugura un atteggiamento “partecipante”, in opposizione alla pretesa “neutralità” del ricercatore. Consci dell’obsolescenza degli schemi interpretativi del movimento operaio, gli operaisti privilegiano il terreno dell’inchiesta, poi tradotto nel concetto di conricerca (elaborato da Guiducci, e sviluppato da Alquati). Esperienze accomunabili a Foucault per il primato della pratica, il riferimento al sottoproletariato e la percezione del carattere disseminato del potere (il tema della società-fabbrica nell’operaismo). In rapporto all’attualità, Giacomelli sottolinea la fecondità della pratica dell’inchiesta, oltre i limiti delle impostazioni che, insistendo unilateralmente sul passaggio “epocale” al lavoro immateriale, sottovalutano le dimensioni del comando capitalistico.

Alberto Burgio ha affermato la possibilità di leggere tanto Marx quanto Foucault come due diverse imprese fondamentalmente critiche: è nel segno della critica che può collocarsi il rapporto tra i due. L’esigenza di staccarsi dalla vulgata che vuole un Foucault senza (o contro) Marx, deve farci chiedere da dove proviene: in primo luogo da Foucault stesso che, contestando il ricorso rituale e intimidatorio a Marx, usa Marx senza citarlo, e spesso laddove Marx è per lui più importante. Identificare questo Marx non citato è decisivo in quanto ci permette non solo di capire meglio Foucault e il suo rapporto con Marx, ma anche Marx stesso. Foucault ha ricordato l’importanza di Marx per lo sviluppo del concetto produttivo di potere, riguardo sia al potere disciplinare che alla storia della sessualità. La derivazione marxiana è esplicita, così come è decisivo il ruolo dei rapporti capitalistici. Contro le ricorrenti letture economicistiche di Marx, Foucault ci ricorda che Marx è un eccezionale analista dei rapporti di potere. Di più, Foucault mette in campo un concetto di egemonia che rinvia chiaramente a Gramsci. Ma, precisate queste vicinanze, resta il limite dell’analisi molecolare del potere che, secondo Burgio, non riesce a rendere conto delle crescenti divaricazioni e gerarchizzazioni.

rudy m. leonelli, novembre 2005

Una versione abbreviata di questo resoconto è stata pubblicata dal quotidiano Liberazione, 26 novembre 2005, p. 3, con il titolo:
Foucault, contro Marx. Anzi con...
 
(ripubblicato dalla Rassegna stampa de l'ernesto, da Essere comunisti, dalla rassegna sull'operaismo curata dal sito Prc Pescara)

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