I gravi episodi di questi giorni, dai liquami a Capri all'auto anfibia a Budelli, hanno un tratto comune: l'interesse dei più ricchi
di
Giorgio Nebbia
Che cosa farebbero i titolari della ditta di espurgo pozzi neri, i cui operai sono stati sorpresi a scaricare liquami o lavaggi di fogna nel mare di Capri, se mi presentassi nelle loro private case e gli versassi in camera da letto un vaso da notte con i miei personali e privati escrementi del giorno prima ? Mi coprirebbero di botte, suppongo, e farebbero bene. Che cosa dovrei fare io, se i predetti versassero, come risulta che abbiamo fatto, gli escrementi di alcune abitazioni private nel mare che è anche mio, che è parte di "casa mia" ? L'episodio dello sversamento di liquami nel mare di Capri è la metafora di tutte le violenze ambientali, compresi l'abuso nelle costruzioni abusive, lo sbarco di un arzillo sessantenne in autobarca nella spiaggia rosa dell'isola di Budelli, eccetera. Lo sversamento di liquami che ha fatto finire agli arresti i due operai, è stato riconosciuto anche come reato di "deturpamento di bellezze naturali". E' tutta questione di "bellezza" ? Quando è sbarcata anche in Italia la contestazione ecologica, quarant'anni fa, la difesa dell'ambiente è stata praticata dai "pretori d'assalto" che sono riusciti a trovare, nelle pieghe delle leggi allora esistenti (scritte decenni prima senza pensare a particolari violazioni ecologiche, ma "solo" per la difesa del diritto alla salute umana), i motivi per colpire gli inquinatori. Per anni si è dibattuta la necessità di leggi per la difesa dell'ambiente e sono state formulate, o ereditate dalla Comunità europea, norme, ma sempre nel rispetto degli interessi privati ed economici, leggi che comunque mostravano la massima delicatezza verso ogni persona che, come scriveva Marx per gli inquinatori del suo tempo, intraprende to turn an honest penny, per guadagnarsi qualche meritato soldo; leggi poi lentamente svuotate mediante deroghe, testi unici, condoni, le uniche con cui anche la parte attenta della magistratura può operare. L'inquinamento del mare, al di là della formulazione del reato, è un crimine perché tocca un delicato e fragile insieme di rapporti ecologici che coinvolgono le catene di esseri viventi presenti nel mare - come spiega il dimenticato bel libro di Rachel Carson, Il mare intorno a noi , Einaudi, 1973 - e le alterazioni di tali equilibri ricadono, in forma diretta, sulla vita umana, di chi fa il bagno nelle acque inquinate, di chi consuma il pesce avvelenato dagli agenti inquinanti, dal carico di batteri e virus delle merde, dai prodotti petroliferi, dalle sostanze chimiche di rifiuto agricole e industriali, eccetera.
Un secondo punto riguarda i soldi. I reflui domestici o qualsiasi altro flusso di sostanze inquinanti che finiscono nel mare (limitiamoci a queste per ora) potrebbero essere trattati con adatte tecniche che fanno diminuire le sostanze inquinanti per renderle meno offensive per il mare, ma questa operazione costa dei soldi e, se venisse praticata, renderebbe più costose le merci e i servizi e, nel caso considerato, il prezzo del soggiorno a Capri. E qualcuno dei turisti magari non verrebbe a Capri e andrebbe altrove e ne soffrirebbe l'economia della città; da questo punto di vista i due inquinatori e tutti quelli come loro che fanno risparmiare i loro clienti scaricando i reflui in uno spazio che, secondo la mentalità corrente, è considerato "di nessuno", sono benemeriti difensori dell'economia, del turismo di Capri o di Ischia o quel che è.
La biografia di Vincenzo La Russa, fratello del ministro Ignazio, santifica il leader del Msi. Tacendo sul bando contro i partigiani e sdoganando Salò. Una revisione piena di errori e omissioni sugli anni ’60 e ’70.
Sono tali e tanti i silenzi, le reticenze e le omissioni della biografia di Giorgio Almirante curata da Vincenzo La Russa (Giorgio Almirante. Da Mussolini a Fini, Mursia, p. 247, 17 euro), che potrebbe addirittura sorgere il sospetto che si stia parlando di un’altra persona. Davvero scoperto e grossolano appare il tentativo, tutto politico, di santificare il leader del neofascismo italiano, in spregio alle conoscenze storiche pacificamente acquisite.
Dopo poche pagine iniziali in cui si concentrano le origini familiari e i primi passi compiuti da giornalista al seguito di Telesio Interlandi (un autentico invasato razzista nei confronti del quale Almirante manterrà sempre «stima e devozione»), prima al quotidiano Tevere e poi come segretario di redazione al quindicinale La difesa della razza, si passa subito a narrare del ruolo svolto dal settembre 1943 in veste di capo di gabinetto di Fernando Mezzasoma al ministero della Cultura popolare nella Rsi. Circostanza che viene presentata come frutto di un incontro del tutto fortuito a Roma con lo stesso Mezzasoma. Così la sua elezione a segretario del Msi nel giugno 1947, raccontata come un accidente non previsto, avvenuta a pochi mesi dalla costruzione della formazione politica da parte di un gruppo di nostalgici della Repubblica di Salò, che lo innalzarono a tale carica essendo loro ben più compromessi con il passato ventennio o addirittura latitanti. È il caso di Pino Romualdi, la più importante figura del neofascismo di quel periodo, costretto ad operare nella clandestinità. In realtà Almirante, come ricorderà egli stesso anni dopo, giunse a questo ruolo portando in dote al Msi un intero movimento da lui fondato, il Movimento italiano di unità sociale (Mius), «che raccoglieva l’élite direttiva del fascismo». Fu lui a sottolinearlo nella sua storia del Movimento sociale italiano, scritta con Francesco Palamenghi-Crispi nel 1958. Non proprio, dunque, come si vorrebbe, un’elezione casuale. Sul terrorismo delle Sam (Squadre d’azione Mussolini) e dei Far (Fasci di azione rivoluzionaria), che precedettero e accompagnarono la fase iniziale del Msi, in buona parte composti e diretti dagli stessi missini, non una sola parola. Eppure gli attentati furono innumerevoli, spesso tutt’altro che dimostrativi, con tanto di morti e feriti. Ma siamo solo agli inizi. Tutta la vita politica di Almirante e del Msi viene, infatti, nel complesso collocata in un contesto volutamente depurato da tutti quegli elementi che potrebbero contraddire una ricostruzione di comodo. Si cita più volte l’importante lavoro di Giuseppe Parlato Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia, 1943-1948, edito dal Mulino nel 2006, forse la miglior ricerca su quel periodo da parte di uno storico di destra, ma, ad esempio, si tralascia clamorosamente di riprenderne la parte essenziale, minuziosamente documentata anche con carte tratte dagli archivi americani, relativa agli intensi rapporti intercorsi tra i dirigenti neofascisti, Pino Romualdi in testa, e i servizi segreti americani che appoggiarono, anche economicamente, e favorirono i chiave anticomunista la nascita del Msi. Una tessitura di contatti avviata ancor prima della fine della guerra, che consentì allo stesso Romualdi, il 27 aprile del 1945, di scampare a fucilazione certa. Queste le conclusioni di Giuseppe Parlato: «Da lì discendono una serie di legami che consentono di leggere la nascita del Msi in modo totalmente diverso: non un movimento di reduci, ma una forza atlantica e nazionale nel quadro della Guerra Fredda» (dall’intervista rilasciata a Simonetta Fiori apparsa su La Repubblica del 9 novembre 2006). Nulla di tutto ciò, neanche un cenno, nel libro di Vincenzo La Russa. Un approccio teso, il suo, da un lato a rileggere, all’opposto, il neofascismo italiano come un’area posta ai margini della vita politica e vessata dalla violenza comunista, mai attraversata da spinte eversive, frustrata nei suoi tentativi di inserimento nel sistema anche a causa del peso che vi ebbero i nostalgici del fascismo repubblichino (in ciò una critica) come Almirante, comunque conquistati al metodo democratico, dall’altro lato, a cercare di “salvare” proprio questa figura da ogni sospetto riguardo alla sua buona fede democratica, non si capisce bene quando acquisita. Forse da sempre.
Che la Repubblica sociale e il fascismo fossero stati democratici? Il dubbio è lecito. Un esercizio spericolato, in definitiva, che per essere condotto ha bisogno di pesanti manipolazioni storiche. E queste davvero non mancano.
In particolare in questa biografia, salvo poche righe su Piazza Fontana, sembrerebbe non essere mai esistita la strategia della tensione con le sue stragi nere, in cui rimasero coinvolti e in alcuni casi condannati (si vedano le sentenze definitive per la strage di Peteano del 31 maggio 1972 e per la tentata strage del 7 aprile 1973 sul treno Torino-Roma) proprio quegli esponenti di Ordine Nuovo che Giorgio Almirante invitò «lui a rientrare» nel 1969 nel Msi. Ovviamente La Russa omette anche di ricordare il pesante coinvolgimento di Almirante in relazione a Peteano, quando fu rinviato a giudizio per favoreggiamento di Carlo Cicuttini (ex-segretario di una sezione missina), latitante in Spagna, al quale fece pervenire 34mila dollari affinché si sottoponesse a un’operazione alle corde vocali per vanificare il suo riconoscimento come autore della telefonata che attirò una pattuglia di carabinieri a Peteano, in provincia di Gorizia, dove aveva predisposto, insieme con Vincenzo Vinciguerra, un’autobomba che esplose all’apertura del cofano. Tre militi rimasero uccisi sul colpo. Carlo Cicuttini fu condannato all’ergastolo. Almirante evitò invece il processo beneficiando dell’amnistia nel febbraio del 1987.
Del bando rinvenuto nel giugno 1971 in un comune della provincia di Arezzo, firmato il 17 maggio 1944 dal capo di gabinetto Giorgio Almirante per conto del ministro Mezzasoma, in cui si minacciavano «gli sbandati» e gli appartenenti a bande partigiane di «fucilazione nella schiena», che suscitò nel Paese una forte ondata di sdegno, Vincenzo La Russa ne parla come di un semplice e dovuto adempimento burocratico. Come se Almirante fosse stato a Salò un semplice passacarte, quando invece collaborava con uno dei più fanatici ministri di Mussolini, e secondo diverse testimonianze era chiamato «il prete nazista» proprio dagli altri componenti del gabinetto per il suo acceso estremismo e il furore con cui si scagliava contro ogni pietismo.
Ma è proprio riguardo al nodo della violenza, «lui non incitava certo», che forse sarebbe il caso di ricordare a La Russa il famoso comizio di Almirante a Firenze, il 4 giugno 1972, in cui il segretario del Msi proclamò che i giovani di destra erano «pronti allo scontro frontale con i comunisti», e ancor prima la famosa intervista al settimanale tedesco Der Spiegel, il 10 dicembre 1969, solo due giorni prima della strage di Piazza Fontana, dove il segretario missino confessò che «le organizzazioni fasciste si preparano alla guerra civile… tutti i mezzi sono giustificati per combattere i comunisti… misure politiche e militari non sono più distinguibili». Non c’è male come “pacificatore”.
Di diversi episodi degli anni Settanta Vincenzo La Russa fa poi letteralmente strazio. Ricostruisce l’uccisione dell’agente Antonio Marino, avvenuta a Milano il 12 aprile 1973, nel corso di scontri provocati da una manifestazione missina, inventandosi di sana pianta la dinamica dei fatti. Non fu, infatti, mai lanciata una bomba contro alcuna camionetta di polizia, ma ben tre per colpire i cordoni degli agenti. Il poliziotto Marino morì perché raggiunto in pieno petto da una di queste e non perché esplose il tascapane con i candelotti lacrimogeni, che per altro non portava. Sarebbe bastato a La Russa leggere seppur sommariamente gli atti giudiziari o più semplicemente chiedere informazioni ai suoi fratelli, Ignazio e Romano, presenti alla manifestazione. Romano fu anche fermato dopo gli incidenti.
Sempre secondo l’autore, e qui siamo davvero oltre ogni limite, nell’aprile del 1975 «il giovane milanese Claudio Varalli» sarebbe stato addirittura «ucciso da estremisti di sinistra» (pag. 173, leggere per credere). Si potrebbe pensare a uno svarione, dato che Varalli militava nel Movimento lavoratori per il socialismo e che per il delitto fu condannato Antonio Braggion di Avanguardia nazionale. Ma solo poche righe più sotto troviamo scritto che nello stesso anno, a giugno, «Alceste Campanile, militante di Lotta Continua, viene trovato ucciso (si scoprirà dopo che il delitto era maturato nell’ambiente dell’estrema sinistra)».
Vale la pena di ricordare che l’assassino confesso di Alceste Campanile si chiama Paolo Bellini, ex militante di Avanguardia nazionale poi finito come killer al servizio di grandi organizzazioni criminali. Un caso ormai risolto da diversi anni. Noi non sappiamo da dove Vincenzo La Russa tragga le proprie informazioni. Qui non si tratta di spulciare polverosi archivi o di impegnarsi in estenuanti e difficili inchieste. Basterebbe a volte solo leggere i giornali.
Anche relativamente alle fotografieallagate al volume va citata una perla. In una di queste, a un certo punto, si ritrae Giorgio Almirante a Roma, il 16 marzo 1968, su una scalinata dell’Università La Sapienza, circondato da giovani con bastoni. La didascalia recita: «Almirante viene aggredito da alcuni studenti». L’episodio, che Vincenzo La Russa si guarda bene dal commentare, è relativo alla spedizione di circa trecento mazzieri missini, arrivati da tutta Italia, più qualche decina di bulgari reclutati nel campo profughi di Latina, guidati proprio da Almirante e Giulio Caradonna, che tentarono di sgomberare a forza alcune facoltà occupate. Una vicenda notissima, immortalata da centinaia di fotografie e più di un filmato, che ritrassero per altro Almirante sorridente attorniato dai suoi squadristi con tanto di mazze, spranghe e catene. Lui che «non incitava alla violenza». Finì semplicemente male. Gli studenti di sinistra si difesero e il nostro fu costretto a battere in ritirata protetto dalle forze di polizia. Tra i circa 160 fascisti fermati quel giorno figureranno, tra l’altro, anche Mario Merlino e Stefano delle Chiaie.
Una biografia, in conclusione, per molti versi inservibile. Forse non l’avrebbe apprezzata neanche Giorgio Almirante. Sarebbe stato davvero difficile riconoscersi anche per lui.
La pelle d’oca viene, a sentir parlare la Pivano. E capisci che il Fascismo non è solo un capitolo di un libro di storia, e la Beat generation non è solo quello di un libro di letteratura americana.
“Internet è meglio dei brutti libri che pubblicano adesso”
Fernanda Pivano è una traduttrice, nel senso letterale del termine: “colei che trasporta al di là”. Cioè qua, in Italia, dove ha fatto conoscere la letteratura americana, della prima e seconda metà del Novecento, facendocela apprezzare attraverso le sue traduzioni.
E non si è accontentata di studiarli, lei li ha voluti incontrare di persona, e si è voluta far conoscere dagli scrittori che hanno reso mitico un periodo della narrativa americana, tra i quali i leggendari esponenti della Beat generation.
Con la sua testimonianza oculare e i racconti appassionati, ha fatto respirare all'Italia la ventata di libertà che spirava oltreoceano e arrivava nel nostro Paese alimentando il sogno americano nell'Italia del dopoguerra. Ma prima dell'America, di Hemingway, dell'età del Jazz e del jukebox, c'era una studentessa un po' annoiata.
Che cosa sognava Fernanda Pivano seduta tra i banchi del Liceo Classico D'Azeglio di Torino? Allora ero una ragazzina di una famiglia ancora ricca, non rovinata dai fascisti. Non facevo sogni per il mio futuro, a quei tempi per le donne il futuro era sposarsi e avere dei bambini. Ma io non volevo né sposarmi, né avere figli. Da giovane ero carina, non pensi che ero come ora, e mi facevano la corte. Ma quando ero giovane io ero soprattutto disperata della mia ignoranza.
Un giorno arrivò un supplente... Nel mio liceo venne a insegnare Cesare Pavese. Era un allievo del professor Augusto Monti, che oltre a lui designò come supplente Norberto Bobbio.
Che cosa voleva dire avere come professore Cesare Pavese? Era diverso dagli altri: lui ci faceva leggere i canti di Dante e ce li spiegava, gli altri insegnanti ce li facevano solo imparare a memoria. Ricordo, come se fosse ieri, le lezioni su Guinizelli. Lui era talmente innamorato della trasformazione artistica di questo autore che spiegandocelo ci lasciava senza fiato. E io mi sono appassionata, in modo forse sproporzionato, agli autori che Pavese leggeva. Li leggeva ad alta voce, in modo incantevole, fino a farli entrare nel cuore.
È vero che all'esame di maturità non passò lo scritto? Sì, io e il mio compagno di scuola Primo Levi. Era venuto un professore di provincia, tutto vestito di bianco con un grosso stemma fascista appuntato sulla giacca. I nostri temi avevano un contenuto antifascista.
Questo fatto mi creò una profonda crisi perché io come una scema credevo nella scuola. In quell'occasione imparai a conoscere veramente la scuola italiana.
Dopo la laurea in Lettere con tesi su Moby Dick, lei tradusse l'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, pubblicata da Einaudi nel 1943. Cosa la spinse a farlo? La passione. Pavese mi aveva dato quattro libri per farmi capire la differenza tra la letteratura americana e la letteratura inglese. Questi libri erano: Addio alle armi di Ernest Hemingway e l'antologia di poesie di Masters, e altri due libri che è inutile citare solo per riempire la pagina di corsivi. A innamorarmi di Hemingway ci ho messo mezzo minuto. Un autore che i nostri professori non seppero accettare. Adesso lei mi dovrebbe chiedere perché mi sono innamorata dell'Antologia di Spoon River. Facciamo finta che me lo abbia chiesto.
Perché nel cinismo che attraversava l'America materialistica di quel tempo offriva fiducia e serenità nell'amore, nella lealtà e nella vita vera. Una fiducia che la situazione di quel periodo ci aveva tolto dalle mani, non dal cuore. Quella non era la vera America.
Cosa possiamo scoprire in quel libro? Si può scoprire ciò che può aiutare l'anima dei giovani a cavarsela nelle traversie della vita.
Lei una volta ha detto che fu colpita dalla «rivoluzionaria tenerezza» dei versi di Masters. Si può fare una rivoluzione con la tenerezza? Certo! È una rivoluzione moderna. Io nella violenza non ho mai creduto, seguo il suggerimento buddista.
Signora Pivano, lei non si è accontentata di tradurli. Li ha conosciuti, si è fatta conoscere a loro e ci usciva pure insieme ai mitici Hemingway, Kerouac, Bukowski... E Fitzgerald! E Fitzgerald!
Era divertente passare il tempo con questi scrittori? Parlare di divertimento per scrittori impastati di tragedia è difficile. Ci si divertiva poco. Ci si diverte con i padroni di un'osteria, io non ho mai avuto tempo di divertirmi. (A dispetto di ciò, nelle foto che la ritraggono, Fernanda Pivano mostra sempre un volto solare e un sorriso radioso). Ho studiato, studiato, studiato.
Una curiosità: durante la presentazione dell'ultimo libro di Gore Vidal a Milano, lei ha sorseggiato Coca-Cola per tutto il tempo. È una bevanda che le piace particolarmente? No, è una scelta casuale, per bere qualcosa. È un simbolo dell'America, io ne ho conosciuti di più importanti.
Uno sguardo sulla società di oggi. Oggi i ragazzi non leggono molto nel tempo libero, lei come spiega questo disinteresse? Quei brutti libri che pubblicano adesso! I ragazzi preferiscono guardare Internet che è fatto molto bene. E quello che i professori fanno a scuola non interessa.
Ma come si fa, allora, a iniziarli alla letteratura? Guarderei insieme a loro Internet, mi farei guidare da loro, cercando di capire cosa gli interessa. E poi cercherei un autore classico in rete. Internet come fonte d'informazione è straordinario.
[Al momento di salutarsi] Sa, io studio Lettere.
Vivrà senza guadagnare una lira. A meno che non incontri un Pavese.
Ormai è chiaro a tuttiche la Lega guida il governo con mano sicura e chiarezza d’intenti. Varato (complice l’«opposizione») il federalismo fiscale, incassato il reato di immigrazione clandestina e istituite le ronde, è tornata al primo amore: la disunità d’Italia, il dagli al terrone parassita. Ieri la metafora gentile era il tricolore nel cesso. Oggi sono l’esame di dialetto, la purezza anagrafica dei dirigenti scolastici, il boicottaggio dell’anniversario della prima Unità. E le gabbie salariali, alle quali i nostri capitani d’industria e lo statista di palazzo Chigi hanno subito concesso il benestare. Il punto è sempre quello: sancire la superiorità dei padani e la non redimibile inferiorità dei sudici, parenti ai migranti.
Non è pura propaganda. Non è solo guerra di nervi dentro il governo, lucrando sulla debolezza del «consumatore finale». E non si tratta nemmeno soltanto di quattrini, che pure evidentemente c’entrano, sia col federalismo, sia con le gabbie e con la distruzione del contratto collettivo nazionale. La posta è più alta, ma si ha l’impressione che pochi lo intendano.
Stiamo sottovalutando gli effetti (intellettuali e morali oggi, politici e materiali domani) della sistematica picconatura dell’unità nazionale. In un Paese di recentissima e squilibratissima unificazione. In un quadro politico privo di argini al dilagare della destra. In un paesaggio sociale devastato dalla crisi e dall’emarginazione del movimento operaio. In un contesto culturale regredito (dove il senso comune è calibrato dai reality, dai centri commerciali e dal gossip): gli insulti razzisti di Bossi e dei suoi all’Italia e al Mezzogiorno sono percepiti come il nulla-osta per giudizi e comportamenti distruttivi senza limiti.
Si prepara un autunno amaro per milioni di poveri vecchi e nuovi. Ma ai poveri del nord si concede ora una nuova via di fuga: non solo qualche spicciolo in più in un tessuto economico un po’ meno arretrato, ma anche la soddisfazione di fargliela finalmente pagare a quei pezzenti del sud, fannulloni e ignoranti, usi a vivere a sbafo a carico del nord alacre e operoso.
Difficile dire dove possa portare la distruzione del senso di appartenenza a una comunità nazionale. Ma si deve sapere che nulla è scontato e nulla impossibile. Chi, trent’anni fa, avrebbe immaginato di dover fare i conti nuovamente col razzismo di Stato?
Non c’è niente di naturale nell’idea di essere uguali e niente di irreversibile nella sua faticosa acquisizione. Dopo due decenni di sistematica sottovalutazione del pericolo della destra, sarebbe il caso, ora, di fare molta attenzione. Lo diciamo a quella parte della sinistra che sa distinguere tra lo Stato e la sua degenerazione nazionalista, che conosce la funzione progressiva (socialmente unificante) dello Stato costituzionale e può quindi decifrare l’attacco neofeudale della destra all’unità nazionale. Rifletta e corra ai ripari, prima che sia troppo tardi.
Sarà per la storia personale dell’autore; sarà perché d’estate la letteratura “nera” trova spazio sui giornali; sarà forse anche per sposare la causa del “capitalismo autoritario” (definizione del filosofo e studioso di psicoanalisi sloveno Slavoj Zizek), che Moisés Naìm, sul Sole 24 Ore del 28 luglio scorso, ha firmato un articolo dal titolo “Così ti cucino un colpo di Stato”.
L’autore, esperto conoscitore di politica internazionale, in punta di penna, ha stilato un elenco degli ingredienti che occorrono per la preparazione di “un golpe ad alta digeribilità”.Scopo di quella “missiva” uscita sul prestigioso quotidiano «fornire istruzioni» per «preparare colpi di stato che non dipendano, almeno nella fase iniziale, dall’uso delle forze armate». Del resto si sa, un colpo di stato manu militari, oggi giorno, risulterebbe indigesto a molti. La palese manifestazione della violazione dei principi democratici con gli assalti al palazzo, come fu per quello della “Moneda” nel ’73 in Cile, non è più conveniente, prima di tutto per il Paese stesso e per la sua economia, che in questo modo verrebbe esclusa dal capitalismo globalizzato. Meglio dunque fare affidamento «più sugli avvocati che sui tenenti colonnello»; meglio puntare «sulle riforme costituzionali e sui referendum». Il fine? Il medesimo che in un golpe: «Un leader autocratico che, mantenendo le apparenze democratiche, conserva il potere a tempo indefinito e fa quello che vuole».
Il nostro rinomato “chef ” non si perita quindi nel fornire un elenco degli ingredienti necessari per la preparazione di cotanto agognato colpo di stato: milioni di poveri; una robusta dose di disuguaglianza sociale; ingiustizia giuridica diffusa; partiti politici molto screditati; discriminazioni
razziali; corruzione in gran quantità; una borghesia apatica e disillusa nei confronti della democrazia; parlamento, magistratura e forze armate lasciate “marinare a lungo” così da “ammorbidirle”; media e televisioni controllate dal padrone; un’opinione pubblica distratta e anestetizzata; squadracce al soldo della causa pronte a spaccare il cranio agli ultimi rimasti che non si ravvedono (il nostro le chiama “Brigate d’intervento popolari”, poche ma “buone”); infine, e non meno importante, come in ogni regime autoritario che si rispetti, ci vuole un nemico esterno, una concreta minaccia che rischia di distruggere la nazione, la sua coesione.
Naìm suggerisce la Cia, o un Paese vicino, ma si può andare anche sul classico gli ebrei, oppure gli immigrati - basta che ci sia un’entità esterna ritenuta pericolosa così da cementificare l’opinione pubblica, anestetizzata ma impaurita, risolutanquindi nel cedere pieni poteri al leader autocratico che difenderà la Nazione senza mai indietreggiare.
Che gran piatto succulento, che acquolina… Ma chi è questo cuoco così padrone delle dinamiche culinarie,sociali e politiche internazionali da dispensare, con animo generoso, una ricetta così allettante? Moisés Naìm è un ex ministro del governo venezuelano del socialdemocratico Carlos Andres Perez, un presidente così avvertito che non si risparmiò nell’applicare alla virgola i diktat draconiani del Fondo Monetario Internazionale, in modo così ossequioso che Caracas nel 1989 fu teatro di una rivolta per mano dei ceti popolari esasperati. Naìm, nonostante questo, rimane uno chef ineguagliato, tanto che fu premiato per la sua lungimiranza in campo neoliberista con la chiamata nell’entourage di Bush figlio. Il nostro cultore del fondamentalismo economico più spinto ha fatto anche parte del vertice della Banca Mondiale. Oggi dirige la rivista Foreign Policy, sovvenzionata da Carnegie Endowment for International Peace. Tra i finanziatori di questo organismo troviamo Bp Usa, Exxon Mobil, la Fundación Ford, General Motors. Naìm, però, fa parte anche del National Endwment for Democracy, altro organismo internazionale che riceve cospicui finanziamenti da parte del Congresso degli Stati Uniti, indicato da tutti come il braccio esecutivo nella destabilizzazione e nelle manipolazioni elettorali in tutti quei Paesi la cui politica è sgradita agli Usa.
Le ricette del cuoco modello sono state così applicate, con successo, in Serbia, Georgia, Bolivia, Ucraina, Venezuela, Kenia, Nicaragua ecc., tutte nazioni che sono state sconvolte da guerre civili, rivolte armate, crolli economici, dittature palesi o vestite con abiti democratici. Una volta, infatti, che si hanno tutti gli ingredienti, lontano dalle desuete dinamiche militaresche, il golpe moderno è di facile e veloce preparazione: creare conflitto sociale a tavolino in modo aggressivo; aizzare scontri ideologici e fisici tra le diverse classi; arrivare al potere tramite elezioni “democratiche” (queste non vanno mai eliminate). Poi, con ogni mezzo, vincere sempre alle successive («Mai lasciare il potere – dice l’autore – Le elezioni non servono mica a questo»); sostituire magistrati, parlamentari e generali poco fedeli e poco inclini a sposare il progetto del presidente. Fatto questo, quindi, non resta che passare alle modifiche costituzionali, così da introdurre nuove norme poco comprensibili che consentano, però, al presidente di concentrare nelle proprie mani tutto il potere e che garantiscano a tempo indeterminato la sua rielezione; screditare e rendere ininfluente l’opposizione; infine lasciare che qualche organo di stampa, piccolo però e con pochi lettori o ascoltatori, critichi l’operato del governo, per dar prova che la libertà di stampa non è minacciata. Et voilà signori, il golpe ad alta digeribilità è servito.
Che invidia però per quei Paesi che già si gustano queste prelibatezze! A loro questa pietanza così succulenta e a noi italiani mai niente di buono… Eppure la nostra cucina è apprezzata in tutto il mondo: siamo sicuri che anche nel nostro Bel Paese non si possa fare altrettanto? L’unica cosa da fare è vedere se disponiamo già di tutti gli ingredienti necessari. Vediamo…: «Milioni di poveri››, secondo i dati oggi ce ne sono 8, non sembrano pochi; una «robusta dose di disuguaglianza sociale e giuridica », sì, questa ce l’abbiamo; «corruzione in gran quantità», la esportiamo; «elite politiche ed economiche compiacenti ed una borghesia apatica », direi che sono sotto gli occhi di tutti; «parlamento, magistratura e forze armate da far marinare a lungo », se riuscissimo a sradicare qualche ultimo arcigno nostalgico delle minestre democratiche così insipide, forse potremmo farcela definitivamente; «un nemico esterno», beh questo sì (ah - gli immigrati - la minaccia estrema!); le «brigate d’intervento “popolari” ben addestrare per spaccare la testa» ce l’abbiamo, vedi il ddl sulla sicurezza con le ronde; l’opinione pubblica è già anestetizzata e i media controllati. Beh, sì, gli ingredienti, in Italia, possiamo dire di averli tutti…
Per quanto riguarda la preparazione siamo già avanti: il conflitto sociale cresce e il manganello arriva; le elezioni “democratiche” ci sono ancora ma vince sempre il medesimo politico; i partiti politici si screditano anche da soli, proponendo deboli alchimie combinatorie; alcuni vertici della magistratura a volte vanno a cena con il presidente del Consiglio, quelli delle forze armate, talvolta, più hanno fedine penali dubbie più ricevono riconoscimenti; qualche piccolo giornale e qualche ininfluente emittente radiotelevisiva che si scaglia contro il potere conserva ancora il suo posto; per quanto riguarda infine la Costituzione, in attesa di riformarla ancora di più, non la si osserva minimamente.
Evviva, forse anche l’Italia allora potrà entrare nel novero delle nazioni fortunate! Il tempo necessario per la cottura - manca solo quello - e poi… buon appetito a tutti!