Résumé Foucault prononce en 1973 un cours au Collège de France intitulé « La
société punitive ». Ce cours, encore inédit, offre les premières
grandes propositions théoriques de Foucault sur la naissance de la
prison. Elles seront reprises, infléchies, reproblématisées dans
Surveiller et Punir. Mais, en 1973, elles sont données avec une netteté
conceptuelle et un tranchant polémique qu’elles ne retrouveront plus par
la suite. Trois grandes notions sont définies : le « pénitentiaire »,
le « carcéral » et le « coercitif ». C’est le nouage de ces trois
dimensions qui rend compte de l’invention de la prison. ” L’organisation d’une pénalité d’enfermement n’est pas simplement
récente, elle est énigmatique. Qu’est-ce qui pénètre dans la prison ? En
tout cas, pas la loi. Que fabrique-t-elle ? Une communauté d’ennemis
intérieurs. ” C’est en ces termes que Michel Foucault dénonce, dans ce
cours prononcé en 1973 – et que viendra compléter, en 1975, son ouvrage
Surveiller et punir – le ” cercle carcéral “. La Société punitive étudie
ainsi comment les sociétés traitent les individus ou les groupes dont
elles souhaitent se débarrasser, c’est-à-dire les tactiques punitives,
mais aussi la prise de pouvoir sur le corps et sur le temps et
l’instauration du couple pénalité-délinquance. Michel Foucault retrace
l’histoire des ” tactiques fines de la sanction ” dont il distingue
quatre modalités : exiler ; imposer un rachat ; marquer ; enfermer.
C’est dans la seconde moitié du XVIIIe siècle que se développe une ”
science des prisons ” à fonction corrective et que se construit un
discours sur le criminel et son traitement possible, donnant naissance à
un schéma de société qui vise à l’absolu du contrôle et de la
surveillance. L’ajustement entre le système judiciaire et le mécanisme
de surveillance (l’organisation d’une police), entre l’émergence de la
richesse et la pratique des illégalismes, entre la force corporelle de
l’ouvrier et l’appareil de production s’accomplit ensuite au tournant du
XIXe siècle. Foucault démontre donc que ce sont les instances de
contrôle para-pénal du XVIIe et du XVIIIe siècle qui ont abouti, in
fine, au fonctionnement de la prison, visant à l’élimination du
désordre, au contrôle de la distribution spatiale des individus, de leur
emplacement par rapport à l’appareil productif. La Société punitive
finit par poser la question, cruciale aux yeux du philosophe, de la
validité intrinsèque de la loi pénale. A-t-elle vocation universelle ou
se limite-t-elle à la douteuse applicabilité d’une somme de décrets ?
«Saremo noi per primi a difenderci da eventuali infiltrati. Io per
primo ho paura perché le infiltrazioni (…) non ci fanno bene, fanno
un favore al sistema. Purtroppo, però, ci sono». Era stato lo stesso
leader del Movimento siciliano dei Forconi, Mariano Ferro, ad
ammettere che la mobilitazione del 9 dicembre correva il rischio
di trasformarsi in una straordinaria vetrina per chi volesse
cercare visibilità. Come l’estrema destra che cerca oggi di
speculare sul malessere alimentato dalla crisi, nel tentativo di
riposizionarsi in forme più radicali dopo il lungo flirt con la
destra di governo berlusconiana.
Perciò, non deve sorprendere più di tanto se tra gli esiti delle
manifestazioni che si sono svolte ieri in molte città, dalla Sicilia
fino al Nordest, vi è anche quello di una rinnovata presenza dei
neofascisti. Un dato da non enfatizzare, ma pur sempre reale.
Ultrà «neri» del calcio organizzati militarmente a Torino — anche
se dai microfoni di Radio Black Out, vicina ai centri sociali, si
invitava a una lettura più articolata della composizione della
piazza -, militanti di Casa Pound e Forza Nuova a Roma e in altre città
del centro-sud, attivisti del Movimento Sociale Europeo, sigla di
comodo in realtà legata ad alcuni dirigenti del partito La Destra di
Storace a bloccare qualche strada sempre nella Capitale, mentre
qui e là si è visto anche qualche esponente di Fratelli d’Italia.
Estremisti di destra confusi tra i manifestanti: una situazione
resa possibile anche dal profilo politicamente indefinito
dell’iniziativa.
Venerdì scorso i Fascisti del Terzo Millennio hanno ospitato nel loro
quartier generale i neonazisti greci, un'evidente svolta a destra:
l'intento è unire tutti i movimenti nazionalisti europei. Il guru di
tale svolta pare l'evergreen Adinolfi il quale contro la crisi economica
propone da tempo una "nuova alchimia movimentista peronista".
Né svastiche né celtiche. Nessuna testa rasata. L’immaginario naziskin assente.
Come i saluti romani: i camerati tra loro si limitano a stringersi
l’avambraccio destro nel saluto del legionario. Tanti giovani di Blocco
Studentesco, ben vestiti e più figli di una borghesia annoiata che
fascisti di borgata. Pochi giornalisti, Casa Pound non è più sulla
cresta dell’onda. Le ultime batoste subite in diverse tornate elettorali
ne hanno sancito un’evidente marginalità politica. Eppure venerdì
scorso ospitavano i greci più temuti del Continente: i rappresentanti
del movimento di estrema destra, ma la stampa ellenica non esita a
chiamarli esplicitamente neonazisti, di Alba Dorata, venuti
appositamente in Italia per confrontarsi con i “fascisti del Terzo
Millennio”. Un evento annunciato da migliaia di manifesti su tutti i
muri della Capitale.
Centocinquanta le persone accorse nel cuore
del quartiere multietnico dell’Esquilino per l’iniziativa. Lo staff
comunicazione del gruppo neofascista ad accogliere i cronisti e ad
accompagnarli al sesto piano del palazzone, luogo del dibattito. Ovunque
camerati impettiti a controllare e scrutare facce non conosciute:
disciplina e ordine, di stampo militarista, la fanno da padroni.
L’ambiente è ripulito. Sui muri decine di fanzine incorniciate di Casa
Pound raccontano anni di iniziative. Nulla è lasciato al caso.
Apostolos
Gkletsos, ex-deputato e componente del comitato centrale di Alba
Dorata, e Konstantinos Boviatsos, Radio Bandiera Nera Hellas, entrano in
sala accompagnati da uno scrosciante applauso. Andrea Antonini,
vicepresidente di Casa Pound Italia, introduce il dibattito. Le sue
parole suonano inequivocabili: «Condividiamo il programma politico di
Alba Dorata, è un’unione anche umana contro la repressione giudiziaria e
di sangue». Il riferimento è agli ultimi fatti accaduti in Grecia: la
magistratura conduce un’inchiesta per specifici reati criminali che ha
già portato in carcere diversi esponenti di primo piano del movimento,
mentre due giovani militanti sono stati uccisi da un commando rimasto
senza nome, anche se è arrivata una rivendicazione firmata da uno
sconosciuto gruppo di estrema sinistra.
Si ha la sensazione di
assistere ad un cambio di paradigma importante per Casa Pound che
implica una svolta. A destra. Estrema destra. In Italia Alba Dorata
finora aveva stretto rapporti soprattutto con Forza Nuova, mentre i
Fascisti del Terzo Millennio – nel loro tentativo di rinnovare il
“campo” con nuovi slogan e un immaginario a metà strada tra le
sottoculture giovanili, il futurismo e Terza Posizione –, avevano
prediletto altri movimenti ellenici di stampo più laico e non
nazionalsocialista.
Un libro, scritto dal giornalista Dimitri
Deliolanes, ripercorre la storia e l’ascesa di Alba Dorata. Per lui si
tratta dell’unico partito esplicitamente neonazista presente in un
parlamento nazionale dell’Unione Europea. La costruzione
politico-ideologica del gruppo risale all’inizio degli anni ’80. In un
editoriale del numero 5 (maggio-giugno 1981) della loro omonima rivista,
si legge:
Siamo nazisti, se ciò non disturba a livello
espressivo, perché nel miracolo della Rivoluzione Tedesca del 1933
abbiamo visto la Potenza che libererà l’umanità dal marciume ebraico,
abbiamo visto la Potenza che ci condurrà in un nuovo rinascimento
europeo, abbiamo visto la splendida rinascita degli istinti ancestrali
della razza, abbiamo visto una fuga possente dall’incubo dell’uomo massa
industriale verso una nuova e nello stesso tempo antica ed eterna
specie d’uomo, l’uomo degli dèi e dei semidei, il puro, ingenuo e
violento uomo del mito e degli istinti. Eppure Apostolos
Gkletsos precisa subito: «Non siamo nazisti, il nostro è un movimento
politico e ideologico. Un movimento nazionalista e popolare». Più volte
le frasi dell’ospite greco sembrano mettere in imbarazzo i militanti di
Casa Pound. Come quel costante richiamo alla «razza bianca europea» o
alle radici cristiane dell’Europa e alla «Grecia (che) svolge da sempre
un ruolo di scudo contro l’invasione islamica: prima i persiani, ora i
turchi».
Con questo “piccolo” libro, Étienne Balibar si propone di «comprendere e far comprendere perché si leggerà ancora Marx nel XXI secolo: non soltanto come un momento del passato, ma come un autore ancora attuale, per le questioni che pone alla filosofia e per i concetti che le propone»1, e di fornire al contempo uno strumento per orientarsi nei testi di Marx e nei dibattiti che suscitano. La formulazione del primo (principale) obiettivo non è semplicemente un pronostico, ma un performativo, essendo l’eventuale sparizione di una teoria non «un destino, ma l’effetto di un rapporto di forze»2.
«Molto nuova e così antica – scrive Derrida – la congiura sembra al tempo stesso potente e, come sempre, inquieta, fragile, angosciata. Il nemico da scongiurare (conjurer), per i congiurati (conjurés) si chiama certo il marxismo. Ma si ha ormai paura di non riconoscerlo più. Si trema di fronte all’ipotesi che grazie a una di queste metamorfosi di cui Marx ha tanto parlato (“metamorfosi” fu per tutta la sua vita una delle sue parole preferite) un nuovo “marxismo” non abbia più la figura sotto la quale sotto la quale ci si era abituati a identificarlo e a metterlo in rotta. Non si ha forsepiù paura dei marxisti, ma si ha paura di certi non-marxisti che non hanno rinunciato all’eredità di Marx, paura dei cripto-marxisti, degli pesudo- o dei para- marxisti che sarebbero pronti a dare il cambio sotto dei tratti o delle virgolette che gli esperti angosciati dell’anticomunismo non sono allenati a smascherare»3.
Credo – è il compito che vorrei assegnate a queste note – che sia possibile rilevare l’apertura di un nuovo spazio per la filosofia: un rientro esplicito di Marx (in nessun caso un semplice “ritorno a”) che, fuori e contro la sempre più insicura “euforia trionfante” della democrazia liberale, permetterà di pensare altrimenti: il tempo, i conflitti, le possibilità di resistenza e di trasformazione. La scrittura dovrebbe, in questa congiuntura, avvicinarsi al movimento di un sismografo: registrare, con un tratto minimo, uno spostamento più grande. E segnare alcune rilevazioni provvisorie: i sintomi, ancora dispersi, delle modificazioni di territori non uniformi, ma interessati da un generale processo di cambiamento.
Per Balibar, la chiusura del ciclo storico in cui il marxismo ha funzionato come dottrina d’organizzazione apre inedite possibilità di leggere Marx: «Liberati da un’impostura, guadagniamo un universo teorico» 4. La negazione dell’esistenza di una “dottrina” filosofica marxista non dissolve le determinazioni né sfocia su un pensiero “debole”; consente al contrario di delimitare i concetti, di sottolinearne le tensioni e gli spostamenti interni, di costruire un diagramma delle biforcazioni e delle “rettifiche”, dei possibili luoghi di dissidio e linee di fuga.: una prospettiva ai limiti del marxismo che cerca di cogliere, insieme, ciò che nel pensare – non solo “con”, ma anche eventualmente “contro” Marx – è ancora marxiano 5.
Leggendo Marx nella congiuntura, notiamo che Marx stesso «ha scritto nella congiuntura»; i suoi concetti solo ad un tempo rigorosi e «incompatibili con la stabilità delle conclusioni». La possibilità di un approccio di questo tipo è evidentemente data dal fatto che nel marxismo, e in particolare nel marxismo degli anni Sessanta e Settanta, di sono prodotti avvenimenti, aperture, spostamenti che, retroagendo sui testi di Marx, hanno irreversibilmente modificato il modo in cui possiamo leggerli. C’è un rapporto forte tra questo Marx «filosofo dell’eterno ricominciamento»6 e «una caratteristica significativa dei concetti “althusseriani”: questi concetti sono sempre già “autocritici”. Contengono sempre già un elemento di negazione che li mette in pericolo, che fa vacillare il loro senso nel momento stesso in cui pretendono al più grande rigore. Contengono dunque in anticipo, un elemento che si oppone al fatto che il loro uso, il loro sviluppo, sfoci nell’univocità di una teoria “infine trovata”. Sono così sin dalla loro origine, un modo discorsivo di porsi essi stessi in disequilibrio, di assicurarsi contro la sicurezza di una “tesi” nel momento in cui la si sostiene» 7. In modo più specifico: la precedente problematizzazione, da parte di Balibar, del concetto di rottura epistemologica in Althusser, tesa a sottolinearne il carattere di rottura continuata, al tempo stesso irreversibile e incompiuta8, presiede direttamente a questo attraversamento della «totalità aperta» 9 degli scritti di Marx, come tracciato costellato da ripetute oscillazioni, punti di crisi, focolai di instabilità. Questo andamento sismico o scismatico della teoria non è semplicemente uno “svolgimento” interno ad essa, ma l’effetto della sua costante messa in tensione con altre pratiche, della sua “programmatica” implicazione in congiunture storiche.
Quanto alla congiuntura attuale, – in cui il libro si iscrive – il marxismo «è oggi una filosofia improbabile. Ciò attiene al fatto che la filosofia di Marx è nel corso del lungo e difficile processo di separazione dal “marxismo storico”, che deve attraversare tutti gli ostacoli accumulati da un secolo di utilizzazione ideologica. Ora, non si tratta per essa di ritornare al suo punto di partenza, ma al contrario di imparare dalla sua propria storia e di trasformarsi nel corso della traversata. Chi vuole filosofare oggi in Marx non viene soltanto dopo di lui, ma dopo il marxismo: non può accontentarsi di registrare la cesura provocata da Marx, ma deve anche riflettere sull’ambivalenza degli effetti che essa ha prodotto – sui suoi sostenitori come sui suoi avversari»10.
Ma, se l’impossibilità di «funzionare come impresa di legittimazione» è indicata come «una condizione quanto meno negativa» della vitalità del marxismo, sarà la condizione positiva a decidere della rilevanza presente e a venire di Marx. Essa «dipende dalla parte che i concetti di Marx giocheranno nella critica di altre impresa di legittimazione»11.
Sante Notarnicola, operaio, comunista, rapinatore di banche,
carcerato, scrittore, poeta, ha attraversato il 900 da ribelle e con l’antologia L'anima e il muro (Odradek) ci consegna la sua autobiografia in versi.
L’autore ne parla con Valerio Evangelisti e Giorgio Forni.
Questa scelta antologica di poesie scritte durante un trentennio diventa l’occasione per una particolare scansione della storia d’Italia, perché questi versi oscillano, lenti o vorticosi, tra l’anima e il muro di tante prigioni.
Corredato di un ampio saggio introduttivo e di note che ne inquadrano
la mole di rimandi alla cronaca e alla cultura di quegli anni che
l’autore riversa sulla pagina, L’anima e il muro, duellanti senza pace, ne raccoglie i momenti principali. Sante Notarnicola ha attraversato il Novecento italiano da ribelle: operaio, bandito, carcerato.
I tre tempi della sua vicenda biografica sono scanditi dalla poesia,
una vera e propria autobiografia in versi, contemporanea a quella
generazione che ingaggiò una guerra senza esclusione di colpi con lo
Stato lunga circa un ventennio. In disaccordo con la linea attendista
del Pci negli anni Cinquanta, rompe con il Partito e seguendo un
progetto di guerriglia diviene rapinatore con la famigerata Banda
Cavallero. Arrestato nel 1967 e condannato all’ergastolo, prosegue e
insieme inizia la sua vera attività politica. Da allora, la Storia
d’Italia s’incaricherà di fargli visita nelle varie patrie galere del
suo lungo soggiorno. Notarnicola la accoglierà a suo modo: animando il
movimento per i diritti dei detenuti sul finire degli anni Sessanta;
conoscendo e confrontandosi con lo stato maggiore della lotta armata,
dalle Br ai Nap a Prima Linea, tentando l’evasione e sperimentando sulla
pelle il regime di articolo 90 nelle carceri speciali. Dopo vent’anni,
otto mesi e un giorno si riaffaccerà alla vita esterna fino alla lenta
estinzione della pena. Poesie di lotta e inni rivoluzionari, gridi muti di rabbia e squarci di lirismo
nati in un contesto, come la carcerazione politica, dove la speranza
della libertà è una quotidiana collettiva eucarestia o non è.
Sante Notarnicola
(Castellaneta 1938), «operaio, comunista, rapinatore di banche,
carcerato, scrittore, poeta». Nel 1972 ha pubblicato con Feltrinelli la
sua semibiografia L’evasione impossibile (ristampata da Odradek a partire dal 1997). È autore di tre raccolte poetiche: Con quest’anima inquieta (Senza Galere, 1979), La nostalgia e la memoria (Giuseppe Maj, 1986) e l’ibrido Materiale interessante (Edizioni della Battaglia, 1997). Alcuni suoi versi compaiono nel volume collettivo Mutenye. Un luogo dello spirito (Odradek, 2001).
L'ennesima boutade di Mister B : "I miei figli dicono di sentirsi come dovevano sentirsi le famiglie ebree in Germania durante il regime di Hitler. Abbiamo davvero tutti addosso" ha suscitato il ricercato clamore, seguito da una rettifica pro forma a mo' di autoassoluzione del provocatore di Arcore. Ora - e questa volta si levano numerose voci di condanna - che si erano sinora abitualmente attenute ad una prudente e "diplomatica" fin de non recevoir. E, ancora oggi, non mancano reti TV e giornali che, per servilismo, o per opportunismo, o pavidità, si dilettano nell'arte dell'eufemismo, definendo "benevolmente" le violente provocazioni Berlusconi, come semplici "gaffes" o "sfoghi". Da diversi anni, questo blog ha segnalato alcune tessere ([inequivocabili] del puzzle montato dal solito Mr. B.
Nella convinzione che chi non ha memoria non ha futuro, incidenze rinvia per memoria il breve elenco dei post che ha pubblicato nel corso del tempo sul "caso":
A margine del libro di Valeria Pinto Valutare e punire, Ed. Cronopio, 2012
Oggi
niente sembra più ovvio del credere che tutto è informazione, perché la
vita stessa sarebbe al fondo comunicazione di informazioni. É così che
si giustifica l’altra credenza attualmente imperante che sia finalmente
giunta l’epoca di una “società della conoscenza”. Anche grazie alla
diffusione di internet si suppone infatti che tutto il sapere
globalmente esistente sia disponibile come molteplicità di informazioni
fruibili e scambiabili in “tempo reale”, offrendo opportunità senza
precedenti di cambiamento e sviluppo in ogni tipo di relazioni
intersoggettive.
I
presupposti biologici di questa credenza sono improntati a una visione
più neo-darwinista che classicamente darwinista. L’”egoismo” supposto
essere motore dell’evoluzione, infatti, non è tanto quello
dell’individuo vivente, quanto quello del “gene” (secondo la formula che
titola il noto libro di Dawkins). Ciò significa ritenere che i destini
del genere umano non dipendono da personaggi eccellenti, ma da comunità
di individui dotati di patrimoni genetici vincenti. Ma ciò significa
anche ammettere che ogni individuo con tali qualità possa trovarsi in
condizioni ambientali avverse, che gli impediscono di valorizzarsi come
meriterebbe, con un conseguente danno per tutto il genere umano.
Di
qui viene la necessità di una bio-politica volta, non solo a premiare i
meritevoli, ma anche ad aiutare quelli che non riescono a farsi valere
come tali, in quanto svantaggiati da un contesto avverso. In tal senso,
il mezzo più indicato pare essere il mercato in quanto regime di scambio
per eccellenza e quindi anche di comunicazione di informazioni tra
contesti diversi. Tra gli ultimi rimedi per estendere al massimo le
possibilità di inclusione dei meritevoli sfortunati resta poi la
filantropia di cui la maggioranza degli individui e delle comunità
vincenti si dimostrano particolarmente generosi. Estensione ovunque
possibile del mercato, della comunicazione e della filantropia sono in
effetti tra le cifre più distintive di tutta quella parte maggioritaria
della “Comunità internazionale” che segue il modello della “più grande
democrazia del mondo”: ove “grande” è sinonimo di massima qualità,
giustificata oggi soprattutto dal fatto di essere anche patria della
società della conoscenza ...
... in questo voglio essere caparbio come
nelle altre oppinioni mie. Et perché io non mancai mai a quella repubblica, dove
io ho possuto giovarle, che io non l'habbi fatto, se non con le opere, con le
parole, se non con le parole, con i cenni, io non intendo mancarle anco in
questo ...
Mi chiedevo: perché parlare con loro? Comprano il sapere per venderlo. Vogliono sentire dove c’è sapere a buon mercato da vendere a caro prezzo. Perché dovrebbero voler sapere ciò che parla contro la compra e la vendita?
Vogliono vincere, Contro la vittoria non vogliono saper nulla. Non vogliono essere oppressi, vogliono opprimere. Non vogliono il progresso, vogliono il vantaggio.
Sono obbedienti a chiunque prometta loro il comando. Si sacrificano affinché resti la pietra sacrificale.
Che devo dir loro, pensavo. Questo voglio dir loro, pensavo. Questo voglio dir loro, decisi.
[Das will ich sagen - Questo voglio dir loro] trad it. a c. d. Cesare Cases in Bertolt Brecht, Poesie, Einaudi Torino, 1960
Presidio di Forza Nuova in Bolognina. Gli Antifascisti li cacciano dalla piazza
L'iniziativa è stata
organizzata dal movimento politico di estrema destra nel luogo simbolo
della sinistra. Le reazioni di Pd e Sel hanno costretto a spostare
l'incontro. E' nata una contro manifestazione dei collettivi locali.
Mattia Piras, coordinatore FN: "Dopo anni di buonismo e lassismo questa
quartiere è diventato una zona nera e gli abitanti sono costretti a
barricarsi in casa"
L’idea
era quella di “occupare gli spazi e le piazze” della Bolognina, “da
anni nelle mani di spacciatori, immigrati e tossicodipendenti”.
L’obiettivo dei militanti di Forza Nuova, in
particolare, era presidiare Piazza dell’Unità, situata appena fuori
dalle mura di Bologna, per strapparla, almeno per una sera, “al
degrado”. “Dopo anni di buonismo, di tolleranza e di demagogia politica
di accoglienza – spiega Mattia Piras, coordinatore di Forza Nuova
Bologna – la situazione del quartiere è ormai sotto gli occhi di tutti. È una zona ‘rossa’,
o per meglio dire ‘nera’, ormai comandata da gang multietniche che, tra
spaccio spudorato, degrado e violenze di ogni tipo, costringono i
residenti (i pochi italiani rimasti) a barricarsi in casa, minacciati e
accerchiati al primo tentativo di reazione”. Da qui il presidio:
bandiere, volantini e un banchetto per protestare contro il “lassismo”
di “partiti e istituzioni”, che agevolano “il degrado”, per poi
rivelarsi “pronti a gridare allo scandalo quando il crimine ha già
colpito le sue vittime”.
In realtà, però, non è andata proprio
come il partito di estrema destra aveva auspicato. Perché ad essere
“cacciati” dalla piazza simbolo della Resistenza partigiana sono stati
proprio loro, una decina di forzanuovisti, arrivati appena tramontato il
sole, costretti a spostare il luogo del presidio altrove a causa delle
proteste nate proprio a poche ore dall’annuncio della manifestazione.
Gli “antagonisti” di Casa Pound Milano se la sono spassata questa estate
dalle parti di Portofino, festeggiando alla grande in una mega villa,
alla fine di luglio, ospiti di Massimiliano Lucchini, della omonima
dinastia di industriali e banchieri. Vuoi vedere che da lì arriva anche
qualche soldo? Il nostro è ovviamente solo un sospetto.Della partita facevano parte l'industriale Lorenzo Castello detto "il
Cileno" (già vice presidente di Destra per Milano), l'industriale Moreno
Pracemi di Roccabruna (uno dei titolari della Trezzi Tubi Spa di
Vimodrone), Giacomo Trezzi, il responsabile nazionale dei "motociclisti"
di Casa Pound (candidato alle ultime elezioni politiche al Senato, come
Francone Pascucci) e Luca Repentaglia, il suo vice. Con loro anche
Marco Clemente, il vero capo di Casa Pound in Lombardia, e Marchino
Arioli, il segretario regionale.
Eccoli quasi tutti ritratti in una bella fotografia per celebrare
l’evento. Quando si dice far vita da “rivoluzionari”!
* * *
Sintetizzandoil senso dell'evento storico (ormai un genere ricorrente...), incidenzesi limita a rievocare un folgorante fotomontaggio dada di John Heartfield, [16 ottobre 1932]
L'operazione Condor
Grazie sia alla decisione di Clinton di mettere fine nel novembre del
2000 al segreto di Stato sui documenti, soprattutto Cia e Fbi,
riguardanti il Cile, che all'azione di alcuni magistrati argentini che
stanno ancora indagando sull'assassinio del generale cileno Carlos Prats
(fuggito in Argentina dopo essersi opposto al colpo di Stato di
Pinochet) e di sua moglie, avvenuto a Buenos Aires il 30 settembre 1974,
molti nuovi elementi stanno emergendo. In particolare sul ruolo svolto,
negli anni '70, da gruppi di neofascisti italiani arruolati come sicari
e torturatori dalle peggiori dittature sudamericane. Per inquadrare
meglio il contesto è indispensabile soffermarci sulla cosiddetta
"operazione Condor". Terrore pianificato
Con questo nome era definito il piano di repressione ed eliminazione
fisica degli oppositori politici comunemente progettato dalle dittature
latino-americane negli anni '70 e '80. Un'operazione su vasta scala,
finanziata e protetta dagli Stati Uniti, su cui è stata ormai acquisita
qualche tonnellata di documenti d'archivio. Le forze armate del
cosiddetto "cono-sud" (Argentina, Brasile, Paraguay, Bolivia e Uruguay)
organizzarono, infatti, nel quadro di accordi fra eserciti americani e
servizi segreti militari, fin dai primi anni '70, una gigantesca
struttura di controllo continentale dei "sovversivi" di ogni paese per
poi colpirli, con tutti i mezzi, spesso attraverso i cosiddetti
"squadroni della morte" allestiti dalle stesse forze armate. Dopo il
colpo di Stato dell'11 settembre 1973 anche il Cile entrò a pieno titolo
nel piano. Il generale Pinochet dette poteri assoluti al colonnello
Manuel Contreras ai vertici della Dina, il servizio segreto cileno,
appositamente modellato per "estirpare il cancro comunista".
Nasce così l'"operazione Condor", volta alla soppressione degli
oppositori, dai militanti di sinistra ai sindacalisti, dai religiosi ai
giornalisti e agli uomini di cultura. Il tutto nel quadro di una
spaventosa repressione che conterà alla fine 50 mila assassinii, 35 mila
persone scomparse, 40 mila prigionieri. Per alcune operazioni fuori dal
Cile la Dina allestirà anche una sezione "estera" affidando, come
vedremo, compiti esecutivi soprattutto a terroristi di estrema destra
italiani.
A margine del convegno dal titolo “I
situazionisti: teoria, arte e politica”, tenutosi all’Università di Roma
3 lo scorso 30 maggio, abbiamo intervistato Anselm Jappe, tra i
relatori di questa giornata insieme, tra gli altri, a Mario Perniola
(1). Si è parlato della recente mostra degli archivi Debord alla
Bibliothèque Nationale de France e dell’attualità, o meglio della
feconda inattualità, dell’opera del pensatore francese.
Dopo aver partecipato al collettivo tedesco Krisis, Anselm
Jappe insegna attualmente estetica all’EHESS di Parigi, e all’Accademie
d’Arte di Frosinone e di Tours. Ha studiato a fondo la corrente
situazionista, ed è autore di numerosi articoli e volumi, in francese,
tedesco e italiano, tra cui spiccano: Crédit à mort (Paris 2011), Contro il denaro (Milano 2012) e i due importanti volumi Guy Debord (Paris2001, ried. Roma 2013) e L’avant garde inacceptable (Paris 2004).
La prima domanda è d’obbligo: non si può parlare di Guy Debord
oggi senza menzionare la grande mostra a lui dedicata alla BNF (“Guy
Debord, un art de la guerre”), in cui sono esposti i suoi archivi
recentemente dichiarati “tesoro nazionale”. All’annuncio dell’evento, si
è subito sviluppato un dibattito tra i lettori di Debord, divisi tra
chi ha salutato positivamente la scelta e chi, invece, ha denunciato
come reazionaria la scelta di mettere Debord “in mostra”, in
contraddizione con il principio di marginalità dell’opera debordiana.
Lei come si colloca rispetto a questo evento?
Anselm Jappe – Mi
sembra una grande opportunità il fatto che gli archivi di Debord siano
ora a disposizione del pubblico. Molto peggio se fossero stati dispersi
tra diverse mani, o venduti a un collezionista privato: solo in questo
modo si poteva garantire una reale disponibilità di questo fondo.
Inoltre, penso sia un bene che lo Stato francese, invece di finanziare
un altro carro armato, abbia usato i suoi soldi per acquisire questi
archivi. Per questo mi risulta difficile comprendere il dibattito sulla
cosiddetta récupération di Debord, dal momento che ormai oggi, a
vent’anni dalla sua morte, egli è senz’altro diventato un classico, e
sarebbe molto artificiale volerlo tenere ancora in una zona di
marginalità. Quel che conta sono i contenuti della sua opera, non il
modo in cui essa viene proposta.
Del resto, Debord stesso ha sempre ricordato quanto sia stato
importante per lui, da giovane, leggere certi autori, come Baudelaire,
Apollinaire o Lautréamont. Anche questi autori erano ormai dei classici,
negli anni ’50. Non è certo questo statuto a impedire un eventuale
effetto sovversivo di un’opera.
Quale interesse può avere la mostra alla BNF per un ricercatore o
per lo studioso dell’opera di Debord? Si aprono nuove prospettive di
studio o spunti per l’attualizzazione del suo pensiero? A. J. – La mostra offre molto materiale già noto, ma
anche molte cose inedite e nuove per il ricercatore. Per esempio, una
buona parte delle migliaia di schede di lettura di Debord, che ho
consultato.Queste schede confermano, intanto, un dato
già noto, e cioè che Debord fosse un accanito lettore, ma mostrano anche
un vero e proprio lavoro certosino di ricopiatura di lunghi estratti
dei libri letti, che francamente si ignorava. Inoltre, si possono
trovare negli archivi molti cartoncini con note e osservazioni di vario
tipo, dall’Internazionale Situazionista alla sua vita privata.
L’interesse principale per il ricercatore è senz’altro costituito da
questa miriade di schede di lettura, in quanto esse permettono di sapere
con certezza che cosa ha letto Debord e a che cosa si è interessato nei
vari periodi della sua vita. A volte le schede sono commentate,
soprattutto quelle stilate in vista della redazione de La società dello spettacolo,
l’opera principale di Debord, uscita nel 1967. Per esempio, per me è
stata una sorpresa scoprire che Debord lesse con molta attenzione Il dispotismo orientale
di Karl August Wittfogel, sinologo e storico tedesco-americano. Su
questo libro Debord aveva effettivamente scritto una breve nota di
lettura nella rivista «Internationale Situationniste», ma soltanto
leggendo le schede di lettura mi sono potuto rendere conto di quanto
l’opera di Wittfogel abbia inciso nell’elaborazione del concetto di
“spettacolo”. In particolare per quanto riguarda l’identificazione degli
amministratori cibernetici e burocratici della società dello spettacolo
con l’antica casta di ingegneri e preti che governavano l’Egitto e la
Mesopotamia. E penso che ci saranno molte alte sorprese in questo
archivio, di cui ho soltanto cominciato il lavoro di vagliatura.
Por una sociedad libre y sin
violencia ni delincuencia ,sin cadenas de drogadiccion ni
alcoholismo,contra la ignorancia y la mediocridad. Tengo un sueño
;que es ver a la gente por las calles disfrutando con su familia, en un
mundo de oportunidades e igualdad para todos ,valores y principios que
Dios nos regala para vivir bajo sus consejos....."recordar es un acto de
justicia" ..........(el ladron no puede robar la luz de la luna en la
ventana) gracias por visitar...chelo gonzalez
40 anni fa, lo
scrittore era nelle forze di sicurezza socialiste che difesero Santiago
dal golpe di Pinochet. «Quel giorno la mia gioventù finì violentemente. E
da allora il Cile non è più uscito dalla dittatura»
Quarant'anni fa iniziò la dittatura
militare in Cile. Possiamo dire che oggi tutto quello che prese il
potere in quel momento è stato superato, o ci sono ancora dei resti del
sistema nei posti di comando del paese e della società civile?Nessuno
che conosca la storia può sostenere che tutto ciò sia stato superato. A
partire dall'11 settembre '73 in Cile è stata installata una feroce
dittatura che ha eliminato qualsiasi tradizione democratica. Per quanto
imperfetta, la democrazia cilena aveva pur sempre distinto il paese come
un esempio in tutto il continente americano. Inoltre, è stato imposto
un modello economico ben preciso. Il Cile è stato il primo luogo in cui
sono state messe in pratica le politiche neo-liberali teorizzate da
Friedman e dalla Scuola di Chicago. Un esperimento che per poter
funzionare aveva bisogno di una nazione governata da un despota, senza
alcuna opposizione, senza partiti politici, senza sindacati, senza
organizzazioni sociali e con un sistema dei media completamente
asservito alla dittatura e al suo programma economico. Uno stato si
governa attraverso l'ordinamento dettato dalla propria Costituzione e
oggi, a quarant'anni di distanza dal golpe, il Cile ha ancora la stessa
Costituzione che approvò la dittatura. Una carta che ha permesso
l'esistenza non solo di una tirannia politica, ma anche di una tirannia
economica, che emargina la maggioranza delle persone, che privatizza la
sanità e l'educazione, che regala le risorse nazionali all'avidità delle
multinazionali e lo fa impunemente, al di sopra di qualsiasi meccanismo
di controllo statale, sia sul bilancio delle risorse, che sul bilancio
fiscale. Ogni paese cambia, perché il mondo è in movimento, ma in Cile
il movimento è stato circolare, ritornando inevitabilmente alla legalità
imposta dalla dittatura.
I media cileni e diverse
personalità pubbliche nazionali hanno usato frequentemente nelle ultime
settimane la parola «perdono». Crede che le vittime della dittatura di
Pinochet siano pronte a perdonare? La società è arrivata a una
riconciliazione?Il perdono è una categoria morale, si
perdona o meno solamente dopo che il colpevole ha chiesto scusa. In Cile
sono stati commessi crimini di stato, in nome dello stato, uno stato
che però non ha mai chiesto scusa a nessuno, tanto meno alle sue
vittime. Neanche chi fu direttamente responsabile, ovvero i militari e i
civili che misero in piedi la dittatura, ha mai chiesto scusa a
chicchessia. Stiamo parlando di più di 3mila desaparecidos e i loro
famigliari, delle centinaia di migliaia di persone torturate, delle
migliaia che furono obbligate all'esilio, dei milioni che rimasero
esclusi dal sistema quando il disegno economico della dittatura ha
liquidato l'industria nazionale e quando il «libero mercato» ha
sostituito tutto il sistema produttivo con le merci importate. Per nulla
di tutto questo si è mai chiesto scusa. La società cilena non si è
riconciliata perché solo una società malata potrebbe riappacificarsi con
coloro che eliminarono un modo di essere, di vivere e avere un progetto
di vita.
Una geografia cangiante per il filosofo di Treviri
RIVISTE · L'ultimo numero del Ponte dedicato alla ripresa degli studi marxiani nel mond
Da Pechino a Parigi, da Brasilia a Mosca. Una raccolta
di saggi sul rinnovato interesse per Marx «Il Ponte», una delle poche
riviste militanti ancora esistenti nel nostro paese, ha dato alle stampe
un numero speciale dedicato all'attualità di Marx, curato da Roberto
Fineschi, Tommaso Redolfi Riva e Giovanni Sgro'.
Karl Marx 2013 - questo il titolo della raccolta (Il Ponte editore,
pp. 288, euro 20) - si segnala come uno strumento importantissimo per
comprendere l'odierna ricezione del pensiero marxiano. Il volume
restituisce una mappa orientativa del marxismo globale, ripartita per
aree geografiche, alcune di queste sconosciute a gran parte del
dibattito italiano: possiamo leggervi, a titolo d'esempio, una sintesi
dello stato degli studi marxiani in Russia (a firma di Alekcandr V.
Buzgalin e Andrei I. Kolganov), una ricognizione interessante delle
posizioni in campo nel marxismo accademico in Cina e del loro rapporto
con la politica governativa (redatta da Hu Daping), un resoconto della
riflessione su Marx prodotta in Brasile (secondo l'ottica di Joao
Quartim Moraes). Non mancano le ricostruzioni del marxismo occidentale,
con analisi relative alla situazione del marxismo in Giappone, Francia,
Germania, Inghilterra e Italia, scritte da Sergio Cámara Izquierdo e
Abelardo Mariña Flres, Guglielmo Carchedi, Frank Engster e Jan Hoff,
Stéphane Haber, Reyuji Sasaki e Kohei Saito, oltre che dai tre curatori.
Tutti gli scritti, come nota Fineschi nelle pagine introduttive,
dimostrano un interesse vivo per l'opera di Marx, specie in un momento
storico contrassegnato dalla crisi del capitalismo e dall'inasprirsi
delle lotte sociali. Alcuni motivi della tradizione marxista sembrano
aver ritrovato cittadinanza nel dibattito odierno. All'interesse
specificamente culturale per Marx non sembra però, almeno per il
momento, accompagnarsi «un uso più esplicitamente politico del suo
pensiero». E, in effetti, rileggendo le diverse ricognizioni proposte
dal volume, è facile constatare come i diversi marxismi in campo
risentano - come è giusto che sia - della propria appartenenza
nazionale, che ovviamente ha conformato, secondo limitati aspetti e
interessi, il dibattito e la discussione. Così, pare evidente constatare
che almeno nei paesi europei la riflessione resta in qualche modo
bloccata sul doppio crinale, spesso non convergente, di una
considerazione storicistica dell'esperienza teorica-politica di Marx e
di un'analisi logico-categoriale dei concetti messi in campo dalla sua
opera; oppure risulta ferma allo scontro tra un marxismo dialettico,
dunque sensibile a una logica della continuità tra Hegel e Marx, e un
marxismo di stampo postoperaista, legato in qualche modo alle esperienze
filosofiche franco-italiane.
Diverso, forse, il caso di paesi come la Cina, dove il perenne
confronto con l'ortodossia ideologica del Partito si accompagna a una
curiosità evidente per le sorti del marxismo occidentale più recente,
che produce di certo curiose sinergie e letture inaspettate (la piega
ontologico-esistenziale di certo marxismo cinese, ad esempio). E tutto
ciò si colloca - nota ancora Fineschi - in un quadro storico che non può
tener conto di una novità rilevante per gli studi marxiani: la
pubblicazione della nuova edizione storico-critica delle opere di Marx
ed Engels, la cosiddetta seconda Mega , che ha, in alcuni casi,
ribaltato molte delle acquisizioni consolidatesi in decenni di
interpretazione e commento. Si pensi all'Ideologia tedesca - di cui,
nel nostro poco informato paese, continuano a stamparsi edizioni
«unitarie», anche di recente -, che «si è dimostrata non essere altro
che una serie di articoli raccolti per un progetto di rivista poi mai
realizzato e rimasti insieme, non una «opera».
La disomogeneità geografica delle ricezioni di Marx nel mondo
riflette ovviamente la crisi del marxismo come strumento politico. Se ne
restituisce la vitalità nei termini di approfondimento filologico e
scientifico, il volume segnala però quest'inefficienza sul piano della
pratica. C'è da chiedersi dunque se, in tempi di diffusione radicale
della testualità e della cultura in tutti gli ambiti della realtà - con
evidente svalutazione dell'una e dell'altra -, anche Marx e il marxismo
siano diventati beni culturali da far rivivere solo nelle pagine di
un'accademia separata dal mondo.
Esiste, forse, una deriva culturalista che rischia di rendere
sterile il portato politico del marxismo, ed essa rappresenta una
pericolosa forma d'integrazione nel sistema culturale del tardo
capitalismo. È auspicabile, anche grazie ai nuovi strumenti
bibliografici a nostra disposizione, che all'aggiornamento della teoria
marxista si leghi un'autocoscienza critica della propria posizione e
presenza nel mondo capitalistico: e ciò potrà essere possibile in
un'ottica capace di tenere assieme le diverse realtà del marxismo, senza
che queste si riducano a una sorta di corpo in frammenti incapace di
ricostruire la sua originaria unità.
L’idea che il marxismo propaghi semplicemente
il soddisfacimento della fame, della sete e del soddisfacimento
dell’impulso sessuale dell’individuo non si confuta certo
affermando che in verità esso è più fine, nobile, profondo,
interiore. Giacché l’indignazione, la solidarietà, l’abnegazione
sono «materialistiche» quanto la fame; la lotta per il
miglioramento della sorte dell’umanità implica egoismo e
altruismo, fame e amore come elementi naturali di serie causali. È
ovvio: la teoria materialistica non possiede alcun motivo logico
probante per il sacrificio della vita. Essa non inculca né con la
Bibbia né con il bastone, alla solidarietà e alla consapevolezza
della necessità della rivoluzione non sostituisce nessuna «filosofia
pratica», nessuna motivazione del sacrificio. Piuttosto è essa
stessa il contrario di ogni morale «idealistica» di questo genere.
Essa libera dalle illusioni, svela la realtà e spiega l’accadere.
Non dispone di argomenti logici che provino l’esistenza di valori
«superiori», ma certamente neppure di argomenti contro il fatto che
mettendo in gioco la propria vita uno contribuisca a realizzare
valori «inferiori», ossia un’esistenza sopportabile per tutti.
L’«idealismo» comincia proprio dove questo comportamento non si
accontenta di una spiegazione naturale di se stesso, e afferra invece
la stampella dei valori «oggettivi», dei doveri «assoluti» o di
una qualunque altra copertura e «canonizzazione» ideale, ossia dove
il rivoluzionamento della società vien fatto dipendere dalla
metafisica – invece che dagli uomini.
Max Horkheimer, Dämmerung trad it. di Giorgio Backhaus. Crepuscolo: appunti presi in
Germania 1926-1931, Einaudi, Torino 1977
Classe,di Andrea
Cavalletti, in virtù della forza intempestiva della sua
problematica fondamentale, riassunta nettamente dalla breve parola che – sola –
costituisce il titolo completo del libro, segna di fatto un sensibile scarto rispetto a forme più o
meno generiche di contestazione del potere, e/o di
riemergenti espressioni di un anticapitalismo ridotto a mera protesta
morale.
Ed è
probabilmente proprio per il suo
carattere inattuale, che lo
distanzia dal panorama culturale e politico corrente, che Classe (come ha affermato, tra altri, per es. Umanità Nova) è stato da sùbito, un avvenimento.
Affrontandoquesto libro incisivo,
necessariamente complesso e impegnativo (soprattutto in ragione di quello che
Damiano Palano ha definito «il raffinato percorso compiuto da Cavalletti» nel tentativo
di «scorgere l’elemento distintivo della classe»),vengono proposti alladiscussione alcuni nodi problematici salienti:
I)un
tentativo di specificazione del concetto chiave di solidarietà,
concepito ed agito in termini materialisti, estraneo a supposti valori
«superiori», come è stato chiarito da autori ed esperienze della scuola di
Francoforte;
II)alcuni
possibili approfondimenti del rapporto Foucault-Marx configurato nella chiara
esposizione di Cavalletti concernente la biopolitica come forma del governo
della popolazione;
III)la conclusione sviluppa alcune considerazioni essenziali
sull’importanza dei concetto di reattivo (di ascendenza nietzscheana)magistralmente
riattivato da Gilles Deleuze, che svolge un ruolo decisivo in Classe.