L'ennesima boutade di Mister B : "I miei figli dicono di sentirsi come dovevano sentirsi le famiglie ebree in Germania durante il regime di Hitler. Abbiamo davvero tutti addosso" ha suscitato il ricercato clamore, seguito da una rettifica pro forma a mo' di autoassoluzione del provocatore di Arcore. Ora - e questa volta si levano numerose voci di condanna - che si erano sinora abitualmente attenute ad una prudente e "diplomatica" fin de non recevoir. E, ancora oggi, non mancano reti TV e giornali che, per servilismo, o per opportunismo, o pavidità, si dilettano nell'arte dell'eufemismo, definendo "benevolmente" le violente provocazioni Berlusconi, come semplici "gaffes" o "sfoghi". Da diversi anni, questo blog ha segnalato alcune tessere ([inequivocabili] del puzzle montato dal solito Mr. B.
Nella convinzione che chi non ha memoria non ha futuro, incidenze rinvia per memoria il breve elenco dei post che ha pubblicato nel corso del tempo sul "caso":
Per ingannare il mondo, assumi il suo aspetto, abbi il benvenuto nell'occhio, nella mano, nella lingua, appari come il fiore innocente ma sii la serpe che vi si cela sotto. Macbeth, I,1
Cos’è che ha spinto Gaetano, Christian, Carmine, il gruppo del Rione Monti a picchiare in modo selvaggio Alberto Bonanni? Per il sindaco Alemanno «si tratta più correttamente di un problema di violenza da ultrà, da stadio». Come dire che i tatuaggi, il braccio alzato, le croci celtiche con l’aggressione di sabato scorso c’entrano poco. Il pestaggio avvenuto al Rione Monti obbedisce ad altre regole. A prescindere dalle fotografie che ritraggono i giovani arrestati nell’atto di fare il saluto fascista. Oppure - su facebook - dietro uno striscione con scritti slogan deliranti. Gli stessi che qualche giorno prima sfilavano dietro la statua della Madonna alla processione.
Perfeziona il concetto Alemanno: «A Roma ci sono delle bande attive più o meno colorate dal punto di vista politico, quindi dobbiamo essere molto attenti e molto vigili. Sappiamo che esistono delle sacche violente che devono essere attentamente vigilate e represse proprio per evitare quello che è successo a Monti».
E n c i c l o p e d i a d e l l a n e o l i n g u a
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T
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Tenerezza
[rif: i ragazzi di...]
«A metà della via ... c'è un presidio di ragazzi di Forza nuova. Fanno tenerezza questi fascistelli che incorporano un triste clichè di provincia, le testoline rasate e gli sguardi finto truci, non fanno paura. Anzi, invece provocano in me della tenerezza. Ognuno a quell'età trova una scusa per liberare i suoi istinti bestiali ...»
A. Ferracuti, ,“Ronde anomale”, il manifesto, 22 settembre 2009
anche i morti non saranno al sicuro dal nemico,
se egli vince. Walter Benjamin
Ho letto con fastidio, ma senza sorpresa, le agenzie di domenica 6 settembre, che riferivano:
«penso che siauna occasione irripetibile per modificare la denominazione di Piazzale Loreto aMilano in Piazza dell'Unità d'Italia'. Alessandra Mussolini, deputata del Pdl, «suggerisce di dare il nome di Piazza Unità d'Italia a Piazzale Loreto a Milano. La proposta è stata avanzata a seguito dell'ipotesi del cambio della denominazione di Piazza Venezia a Roma. "Se per il 150°anniversario dell'Unità d'Italia si è deciso di incidere nella toponomastica"- afferma ». L' «ipotesi di Mussolini » (junior) non brilla per originalità: di fatto non è altro che la riedizione, riadattata , in occasione delle celebrazioni dell'unità d'Italia, di una «idea » lanciata senza esito, nella tarda primavera del 2005 da Stefano Zecchi , assessorealla Cultura di Milano, il quale aveva proposto di cambiare il nome di Piazzale Loreto in Piazza della Concordia:
La biografia di Vincenzo La Russa, fratello del ministro Ignazio, santifica il leader del Msi. Tacendo sul bando contro i partigiani e sdoganando Salò. Una revisione piena di errori e omissioni sugli anni ’60 e ’70.
Sono tali e tanti i silenzi, le reticenze e le omissioni della biografia di Giorgio Almirante curata da Vincenzo La Russa (Giorgio Almirante. Da Mussolini a Fini, Mursia, p. 247, 17 euro), che potrebbe addirittura sorgere il sospetto che si stia parlando di un’altra persona. Davvero scoperto e grossolano appare il tentativo, tutto politico, di santificare il leader del neofascismo italiano, in spregio alle conoscenze storiche pacificamente acquisite.
Dopo poche pagine iniziali in cui si concentrano le origini familiari e i primi passi compiuti da giornalista al seguito di Telesio Interlandi (un autentico invasato razzista nei confronti del quale Almirante manterrà sempre «stima e devozione»), prima al quotidiano Tevere e poi come segretario di redazione al quindicinale La difesa della razza, si passa subito a narrare del ruolo svolto dal settembre 1943 in veste di capo di gabinetto di Fernando Mezzasoma al ministero della Cultura popolare nella Rsi. Circostanza che viene presentata come frutto di un incontro del tutto fortuito a Roma con lo stesso Mezzasoma. Così la sua elezione a segretario del Msi nel giugno 1947, raccontata come un accidente non previsto, avvenuta a pochi mesi dalla costruzione della formazione politica da parte di un gruppo di nostalgici della Repubblica di Salò, che lo innalzarono a tale carica essendo loro ben più compromessi con il passato ventennio o addirittura latitanti. È il caso di Pino Romualdi, la più importante figura del neofascismo di quel periodo, costretto ad operare nella clandestinità. In realtà Almirante, come ricorderà egli stesso anni dopo, giunse a questo ruolo portando in dote al Msi un intero movimento da lui fondato, il Movimento italiano di unità sociale (Mius), «che raccoglieva l’élite direttiva del fascismo». Fu lui a sottolinearlo nella sua storia del Movimento sociale italiano, scritta con Francesco Palamenghi-Crispi nel 1958. Non proprio, dunque, come si vorrebbe, un’elezione casuale. Sul terrorismo delle Sam (Squadre d’azione Mussolini) e dei Far (Fasci di azione rivoluzionaria), che precedettero e accompagnarono la fase iniziale del Msi, in buona parte composti e diretti dagli stessi missini, non una sola parola. Eppure gli attentati furono innumerevoli, spesso tutt’altro che dimostrativi, con tanto di morti e feriti. Ma siamo solo agli inizi. Tutta la vita politica di Almirante e del Msi viene, infatti, nel complesso collocata in un contesto volutamente depurato da tutti quegli elementi che potrebbero contraddire una ricostruzione di comodo. Si cita più volte l’importante lavoro di Giuseppe Parlato Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia, 1943-1948, edito dal Mulino nel 2006, forse la miglior ricerca su quel periodo da parte di uno storico di destra, ma, ad esempio, si tralascia clamorosamente di riprenderne la parte essenziale, minuziosamente documentata anche con carte tratte dagli archivi americani, relativa agli intensi rapporti intercorsi tra i dirigenti neofascisti, Pino Romualdi in testa, e i servizi segreti americani che appoggiarono, anche economicamente, e favorirono i chiave anticomunista la nascita del Msi. Una tessitura di contatti avviata ancor prima della fine della guerra, che consentì allo stesso Romualdi, il 27 aprile del 1945, di scampare a fucilazione certa. Queste le conclusioni di Giuseppe Parlato: «Da lì discendono una serie di legami che consentono di leggere la nascita del Msi in modo totalmente diverso: non un movimento di reduci, ma una forza atlantica e nazionale nel quadro della Guerra Fredda» (dall’intervista rilasciata a Simonetta Fiori apparsa su La Repubblica del 9 novembre 2006). Nulla di tutto ciò, neanche un cenno, nel libro di Vincenzo La Russa. Un approccio teso, il suo, da un lato a rileggere, all’opposto, il neofascismo italiano come un’area posta ai margini della vita politica e vessata dalla violenza comunista, mai attraversata da spinte eversive, frustrata nei suoi tentativi di inserimento nel sistema anche a causa del peso che vi ebbero i nostalgici del fascismo repubblichino (in ciò una critica) come Almirante, comunque conquistati al metodo democratico, dall’altro lato, a cercare di “salvare” proprio questa figura da ogni sospetto riguardo alla sua buona fede democratica, non si capisce bene quando acquisita. Forse da sempre.
Che la Repubblica sociale e il fascismo fossero stati democratici? Il dubbio è lecito. Un esercizio spericolato, in definitiva, che per essere condotto ha bisogno di pesanti manipolazioni storiche. E queste davvero non mancano.
In particolare in questa biografia, salvo poche righe su Piazza Fontana, sembrerebbe non essere mai esistita la strategia della tensione con le sue stragi nere, in cui rimasero coinvolti e in alcuni casi condannati (si vedano le sentenze definitive per la strage di Peteano del 31 maggio 1972 e per la tentata strage del 7 aprile 1973 sul treno Torino-Roma) proprio quegli esponenti di Ordine Nuovo che Giorgio Almirante invitò «lui a rientrare» nel 1969 nel Msi. Ovviamente La Russa omette anche di ricordare il pesante coinvolgimento di Almirante in relazione a Peteano, quando fu rinviato a giudizio per favoreggiamento di Carlo Cicuttini (ex-segretario di una sezione missina), latitante in Spagna, al quale fece pervenire 34mila dollari affinché si sottoponesse a un’operazione alle corde vocali per vanificare il suo riconoscimento come autore della telefonata che attirò una pattuglia di carabinieri a Peteano, in provincia di Gorizia, dove aveva predisposto, insieme con Vincenzo Vinciguerra, un’autobomba che esplose all’apertura del cofano. Tre militi rimasero uccisi sul colpo. Carlo Cicuttini fu condannato all’ergastolo. Almirante evitò invece il processo beneficiando dell’amnistia nel febbraio del 1987.
Del bando rinvenuto nel giugno 1971 in un comune della provincia di Arezzo, firmato il 17 maggio 1944 dal capo di gabinetto Giorgio Almirante per conto del ministro Mezzasoma, in cui si minacciavano «gli sbandati» e gli appartenenti a bande partigiane di «fucilazione nella schiena», che suscitò nel Paese una forte ondata di sdegno, Vincenzo La Russa ne parla come di un semplice e dovuto adempimento burocratico. Come se Almirante fosse stato a Salò un semplice passacarte, quando invece collaborava con uno dei più fanatici ministri di Mussolini, e secondo diverse testimonianze era chiamato «il prete nazista» proprio dagli altri componenti del gabinetto per il suo acceso estremismo e il furore con cui si scagliava contro ogni pietismo.
Ma è proprio riguardo al nodo della violenza, «lui non incitava certo», che forse sarebbe il caso di ricordare a La Russa il famoso comizio di Almirante a Firenze, il 4 giugno 1972, in cui il segretario del Msi proclamò che i giovani di destra erano «pronti allo scontro frontale con i comunisti», e ancor prima la famosa intervista al settimanale tedesco Der Spiegel, il 10 dicembre 1969, solo due giorni prima della strage di Piazza Fontana, dove il segretario missino confessò che «le organizzazioni fasciste si preparano alla guerra civile… tutti i mezzi sono giustificati per combattere i comunisti… misure politiche e militari non sono più distinguibili». Non c’è male come “pacificatore”.
Di diversi episodi degli anni Settanta Vincenzo La Russa fa poi letteralmente strazio. Ricostruisce l’uccisione dell’agente Antonio Marino, avvenuta a Milano il 12 aprile 1973, nel corso di scontri provocati da una manifestazione missina, inventandosi di sana pianta la dinamica dei fatti. Non fu, infatti, mai lanciata una bomba contro alcuna camionetta di polizia, ma ben tre per colpire i cordoni degli agenti. Il poliziotto Marino morì perché raggiunto in pieno petto da una di queste e non perché esplose il tascapane con i candelotti lacrimogeni, che per altro non portava. Sarebbe bastato a La Russa leggere seppur sommariamente gli atti giudiziari o più semplicemente chiedere informazioni ai suoi fratelli, Ignazio e Romano, presenti alla manifestazione. Romano fu anche fermato dopo gli incidenti.
Sempre secondo l’autore, e qui siamo davvero oltre ogni limite, nell’aprile del 1975 «il giovane milanese Claudio Varalli» sarebbe stato addirittura «ucciso da estremisti di sinistra» (pag. 173, leggere per credere). Si potrebbe pensare a uno svarione, dato che Varalli militava nel Movimento lavoratori per il socialismo e che per il delitto fu condannato Antonio Braggion di Avanguardia nazionale. Ma solo poche righe più sotto troviamo scritto che nello stesso anno, a giugno, «Alceste Campanile, militante di Lotta Continua, viene trovato ucciso (si scoprirà dopo che il delitto era maturato nell’ambiente dell’estrema sinistra)».
Vale la pena di ricordare che l’assassino confesso di Alceste Campanile si chiama Paolo Bellini, ex militante di Avanguardia nazionale poi finito come killer al servizio di grandi organizzazioni criminali. Un caso ormai risolto da diversi anni. Noi non sappiamo da dove Vincenzo La Russa tragga le proprie informazioni. Qui non si tratta di spulciare polverosi archivi o di impegnarsi in estenuanti e difficili inchieste. Basterebbe a volte solo leggere i giornali.
Anche relativamente alle fotografieallagate al volume va citata una perla. In una di queste, a un certo punto, si ritrae Giorgio Almirante a Roma, il 16 marzo 1968, su una scalinata dell’Università La Sapienza, circondato da giovani con bastoni. La didascalia recita: «Almirante viene aggredito da alcuni studenti». L’episodio, che Vincenzo La Russa si guarda bene dal commentare, è relativo alla spedizione di circa trecento mazzieri missini, arrivati da tutta Italia, più qualche decina di bulgari reclutati nel campo profughi di Latina, guidati proprio da Almirante e Giulio Caradonna, che tentarono di sgomberare a forza alcune facoltà occupate. Una vicenda notissima, immortalata da centinaia di fotografie e più di un filmato, che ritrassero per altro Almirante sorridente attorniato dai suoi squadristi con tanto di mazze, spranghe e catene. Lui che «non incitava alla violenza». Finì semplicemente male. Gli studenti di sinistra si difesero e il nostro fu costretto a battere in ritirata protetto dalle forze di polizia. Tra i circa 160 fascisti fermati quel giorno figureranno, tra l’altro, anche Mario Merlino e Stefano delle Chiaie.
Una biografia, in conclusione, per molti versi inservibile. Forse non l’avrebbe apprezzata neanche Giorgio Almirante. Sarebbe stato davvero difficile riconoscersi anche per lui.
"Apprendiamo da La Nazione di Livorno di oggi che il presidente della provincia di Roma (PD, maggioranza allargata di centrosinistra) ha dato solidarietà, personale e a nome della sua amministrazione, a Teodoro Buontempo.
Non è la prima volta che il centrosinistra romano si mostra comprensivo con "il diritto ad esprimersi" dei fascisti. Durante Lazio-Livorno del 2005 l'allora sindaco Veltroni non ebbe niente da commentare in materia del gigantesco striscione "Roma è fascista" esposto in curva laziale. Si tratta di comportamenti gravi da parte del centrosinistra, che legittimano il fascismo, che rappresentano il contrario dello spirito antifascista della costituzione. Che è rigido, tende a neutralizzare ogni manifestazione di apologia del fascismo, proprio per impedire di dare cittadinanza a fenomeni che tendono alla distruzione di ogni espressione democratica ..."
di Francesco Raparelli
[da il manifesto, 31 gennaio 2009]
Ci sono alcune pagine di Nietzsche sulla «cattiva coscienza» che più di altre ci aiutano a capire la «questione Morucci», ma i giganti vanno scomodati di fronte alle cose serie e il caso dell’ex-Br (che sarà ospite del centro sociale neofascista Casa Pound) di certo non rientra tra queste. A cercare meglio, dietro la rabbia che immagino abbia colpito molti, c’è una biografia che per i movimenti, quelli di massa, ha avuto poco amore. Meglio i western.
Sono passati solo pochi giorni, dal divieto di Frati, pochi giorni da una questione che ha visto protagonista la Sapienza, Morucci e, suo malgrado l’Onda. Durante le feste natalizie, infatti, un docente di Scienze umanistiche ha deciso di invitare Morucci per parlare degli anni di piombo. Puntuale la replica del Rettore: l’iniziativa è stata vietata e in compenso Rettore e sindaco Alemanno hanno pensato bene di attaccare l’Onda («i trecento criminali»), di riproporre la questione del Papa e della libertà di parola. Il professore si difese chiamando in causa il consiglio poliziesco, Morucci fece finta di nulla, l’Onda rispose al meglio (era il 5 gennaio!). Oggi la musica cambia, a parlare è Iannone che presenta l’iniziativa di Casa Pound (di cui è portavoce), «oasi» del libero pensiero e della democrazia. Casa Pound e Morucci, infatti, sono accomunati da un problema comune e dallo stesso desiderio: interdetti dall’università, il problema; farla finita con «l’antifascismo ideologico», il desiderio. Sul desiderio Casa Pound ha già lavorato sodo in questi anni, con tutti gli strumenti tecnici a sua disposizione: per chi ha la memoria corta basta ricordare le cinte e i bastoni tricolore di Piazza Navona (29 ottobre 2008), quelli che colpivano con forza (altro che ideologia!) studenti e studentesse di non più di sedici, diciassette anni. Parlano le foto, parlano le ricostruzioni più oneste (Curzio Maltese primo fra tutti), parla la verità.
Ma a Morucci interessa poco la verità, tanto che – ci racconta Iannone sul Corriere della sera di ieri ‒ dopo i fatti del 29 ottobre ha chiamato proprio i giovani di Blocco studentesco e non certo gli studenti dell’Onda per esprimere la sua solidarietà. Sulla Stampa dello scorso maggio stessa cosa: nessuna difesa per gli studenti aggrediti in via De Lollis dai neofascisti di Forza nuova, piuttosto una condanna bipartisan. Verrebbe da diventare scortesi, fortunatamente la vita e la storia di Morucci non parlano più a nessuno. Ci spiace per le sue ambizioni pretesche (Ratzinger è interessato all’acquisto?) e per quanto riguarda i movimenti appartengono ad un’altra era, un’era in cui l’antifascismo è un fatto di realtà, non una patologia da nostalgici.
Un progetto di legge, numero 1360, e un colpo di mano che metterà il Parlamento di fronte alla scelta di equiparare i partigiani che combatterono contro il fascismo e il nazismo, contro la guerra praticata da Benito Mussolini a fianco di Adolf Hitler, per la liberazione dell’Italia da un’infame dittatura interna ed esterna, con i miliziani della Repubblica di Salò, le truppe irriducibili che volevano continuare a tenere il Paese a ferro e fuoco, quelli che consegnarono migliaia di ragazzi italiani nelle mani dei rastrellatori tedeschi e gli ebrei del ghetto di Roma, di Venezia, di Torino, di Milano, nelle mani dei loro torturatori e di chi li avrebbe avviati ai lager e ai forni crematori.
Il progetto di legge - firmato in sostanza da parlamentari del "Popolo delle libertà" come Nicola Cristaldi, ex presidente dell’Assemblea regionale siciliana, o dal vicesindaco di Milano Riccardo De Corato, noti eredi del Fuan, del Movimento sociale italiano e di Alleanza nazionale, ma anche da qualche esponente (che poi ha ritirato la firma) del Partito democratico di dubbia memoria storica come Paolo Corsini, ex sindaco di Brescia, che pure ha scritto il libro Da Salò a Piazza della Loggia ed è stato presidente del suo gruppo in Commissione Stragi - è in discussione ora, al rientro dalle vacanze natalizie, al primo punto dei lavori in corso alla Commissione Difesa della Camera dei deputati, il cui presidente Edmondo Cirielli (sì, proprio lui, anch’egli proveniente dai vertici irpini di An, nonché dall’alta formazione militare dell’Accademia della Nunziatella) ne è anche il relatore. Tanto per dire quale rilievo e importanza venga attribuito a una tale proposta dal centrodestra, più precisamente dall’"ala nera" del centrodestra, suscitando peraltro molti dubbi e distinguo, espressi in Commissione, tra le file della Lega.
Si tratta infatti di un nuovo capitolo di quel processo di omologazione (tutti ugualmente buoni oggi, tutti ugualmente cattivi ieri, o tutti eroi posti sullo stesso altarino), di ricostruzione di una verginità ideologica e di "revisionismo storico", ovvero di riscrittura della realtà storica per come quelli di noi che hanno un po’ più di sessant’anni hanno vissuto e ricordano assai bene e con molto dolore, cui hanno contribuito non poco le prese di posizione, in nome di una presunta "memoria condivisa" e declamata "riconciliazione nazionale", molti rappresentanti "al di sopra di ogni sospetto" del centrosinistra, come l’ex presidente della Camera Luciano Violante ...
La vecchia intuizione secondo cui più la democrazia si fascistizza, più i fascisti si democratizzano, sta trovando ormai piena conferma: dopo il neofascismo divenuto postfascismo, siamo giunti al paradosso dell'antifascismo fatto proprio da chi fino ad ieri lo combatteva. Per questo può essere utile chiedere soccorso alla storia recente. In qualche archivio della Rai è sicuramente conservata la registrazione di una vecchia Tribuna Politica, se il ricordo non inganna, risalente al 1972 in cui l'allora segretario del Movimento Sociale Italiano, Giorgio Almirante, rispose polemicamente ad un giornalista affermando di essere "antifascista" ed anzi "il primo antifascista d'Italia". Giorgio Almirante, al quale oggi s'intitolano persino strade, aveva alle spalle una significativa carriera sotto il segno del fascio, contrassegnata in particolare dal suo impegno come segretario di redazione de La difesa della razza su cui, tra l'altro, ebbe a scrivere che "in fatto di razzismo e antigiudaismo gli italiani non hanno avuto né avranno bisogno di andare a scuola da chicchessia". Firmatario quindi nel 1938 del Manifesto del Razzismo Italiano, durante la Repubblica di Salò fu capo di gabinetto del Ministero della cultura popolare e nel 1944 si rese responsabile di un bando repubblichino in cui si prometteva la fucilazione per "gli sbandati e gli appartenenti alle bande". Nel dopoguerra, era stato uno dei principali artefici della ripresa delle attività squadriste e della riorganizzazione neofascista (formalmente vietata dalla Costituzione), tanto da essere stato quasi ininterrottamente per un quarantennio il segretario del principale partito erede del ventennio mussoliniano e della Repubblica Sociale, l'Msi (1). La sua dichiarazione di "antifascismo" provocò all'epoca un certo scalpore, ma anche ovvie proteste tra i nostalgici del littorio e i più oltranzisti dell'estrema destra. Da allora la tesi della "pacificazione nazionale" e dell'equiparazione morale dei partigiani e dei militi fascisti come ugualmente patrioti è stata portata avanti dalla destra in modo pressoché corale, proprio sulla falsariga almirantiana. Simile processo è stato comunque possibile anche grazie alla costante criminalizzazione della Resistenza e alla parallela indulgenza verso i crimini nazifascisti: operazione questa a cui si è perfettamente adattata la storia romanzata di Giampaolo Pansa. Questa pagina di storia serve per meglio inquadrare e comprendere le recenti professioni di "antifascismo" recitate da Gianfranco Fini che, tra l'altro, proprio Almirante designò come successore alla guida del Msi, poi divenuto Alleanza Nazionale e quindi oggi componente del PdL.
E n c i c l o p e d i a d e l l a n e o l i n g u a
.
S
Soggettivamente
(dal loro punto di vista, credendo)
«Farei un torto alla mia coscienza se non ricordassi che altri militari in divisa, come quelli della Nembo dell'esercito della Rsi, soggettivamente, dal loro punto di vista, combatterono credendo nella difesa della patria, opponendosi nei mesi successivi allo sbarco degli anglo-americani e meritando quindi il rispetto, pur nella differenza di posizioni, di tutti coloro che guardano con obiettività alla storia d'Italia».
Dichiarazione del ministro della Difesa, 8 settembre 2008
La manovraa tenaglia volta a riabilitare il segretario del MSI Giorgio Almirante non è partita con la pubblicazionedei suoi discorsi parlamentari o con la proposta di Alemanno di dedicargli una via di Roma. Per inquadrare la vicenda dobbiamo risalire al 2003, quando il presidente della Regione Lazio Storace invitò gli amministratori locali a intitolare al nostro una via in ogni comune. Viterbo, guidata da una destra zelante, gli ha consacrato addirittura una frondosa circonvallazione inaugurata alla presenza di Donna Assunta. A Corato, in Puglia, c’è una piazza; ma sono almeno una quindicina le vie Almirante italiane, che spesso hanno destato proteste di cittadini, raccolte firme, censure delle associazioni antifasciste e delle sinistre.
Da questo sguardo alla toponomastica italiana risulta evidente come la battaglia Almirante si sia già consumata e che Roma capitale sia solo la ciliegina. Si vuole Almirante tra i padri della patria, “pacificatore”, statista: ma la proposta parte sempre da esponenti di AN, ansiosi di pagare tributo alla memoria del primo segretario del mai dimenticato Movimento sociale. Per sviare le proteste, Alemanno ha corretto il tiro affermando che la via sarà dedicata al segretario del MSI solo con l’assenso della comunità ebraica romana.
Questa uscita apparentemente conciliante nasconde delle insidie.
Perché solo la comunità ebraica? Almirante nel 1938 era redattore de Ladifesa della razza, il giornale che invocava la persecuzione fascista degli ebrei. Nonostante la gravità dei suoi scritti antiebraici è noto che egli successivamente li abiurò con un atto di pubblico pentimento e questo fattore potrebbe addirittura rivelarsi un vantaggio. Se rimangono nell’ombra le vittime concrete, i deportati e i fucilati, si rischia di fermarsi alle scelte di campo ideali, che con una ammenda diventano peccati veniali. E’ una sottile perfidia chiamare la comunità ebraica al ruolo di arbitro unico su un personaggio che ha avuto incarichi direttivi nella Repubblica Sociale Italiana ed è stato coinvolto in vicende gravissime, costellate di lutti.
Tutta Roma e l’intera collettività italiana dovrebbe trovare un moto di sdegno e invece quasi nessuno ha avvertito l’obbligo di reagire anche solo mediante una rilettura storica della figura di Almirante mentre il ritorno in scena avviene con una strategia tanto collaudata da parere orchestrata: il più fortunato e frequente stilema è quello della par condicio viaria: una via ad Almirante, una, per ipotesi, a Berlinguer o Craxi. Anche Alemanno ha seguito la scia. Francesco Merlo, sulla Repubblica del 27 maggio, parlava con ironia di guerra civile toponomastica e nell’incipit dell’articolo, scriveva: «La via di Roma che il sindaco Alemanno devotamente vorrebbe intitolargli non solo rischia di condannarlo per sempre a quell'idea di fucilatore che a sinistra avevamo di lui». Cos’è questa storia del fucilatore cui Merlo allude senza spiegare? Buttata lì così non si capisce e nessuno pare aver voglia di alzare il sipario sui molti fatti controversi che hanno coinvolto Almirante. Partiamo dall’estate 1971. Si rinviene negli archivi di Massa Marittima un bando datato maggio 1944 con in calce la firma di Almirante: il proclama ribadiva la pena di morte per i giovani che non avessero risposto alla chiamata alle armi nell'esercito repubblichino e decretava: «Tutti coloro che non si saranno presentati saranno considerati fuori legge e passati per le armi mediante fucilazione nella schiena». All’affissione del manifesto era seguita di pochi giorni la terribile strage di minatori a Niccioleta nel Comune di Massa Marittima, proprio il luogo dove il bando era stato rinvenuto. Il testo venne fatto circolare con il commento di "Almirante Fucilatore di partigiani". Si profilava la responsabilità quanto meno morale su fatti archiviati con un rapido processo nel dopoguerra, dove gli unici condannati dal tribunale di Pisa erano stati alcuni fascisti locali. Almirante querelò con rabbia tutti coloro che avevano pubblicato la notizia, in primis l’Unità. La sua linea difensiva era improntata al negazionismo: il leader dell’Msi sosteneva fosse un falso storico costruito dalla sinistra. I processi gli diedero torto e Almirante si trovò nella scomoda posizione di passare da accusatore a imputato. Nel 1978 arrivò la sentenza definitiva della Cassazione che assolveva l’Unità e condannava Almirante al risarcimento dei danni, anche perché nel frattempo l’autenticità del bando era stata confermata dal ritrovamento negli archivi di Stato di un telegramma del maggio 1944, spedito dal ministero della Cultura Popolare alla prefettura di Lucca, che riproduceva il bando e il capo di gabinetto (Almirante) ne sollecitava l’affissione in tutti i comuni della provincia.
Il processo ebbe una appendice di sangue: il pubblico ministero che aveva istruito il caso, Vittorio Occorsio, venne freddato in un agguato per mano di terroristi neri. Carlo Ricchini - ai tempi delle vicende giornalista all’Unità - ha donato le carte di questa lunga battaglia processuale all’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell'Età Contemporanea (ISGREC) che ha costituito un fondo.
Nonostante recentemente Repubblica(Fiori il 29 maggio 2008) abbia rilanciato le affermazioni di Ricchini: «Ci apparve subito evidente che era stata scoperta una prova della partecipazione diretta di Almirante alla repressione antipartigiana, da lui tenuta nascosta…» rimane ancora una volta in ombra la strage della Niccioleta, mai destinata agli onori della cronaca. Che sia per via del coinvolgimento di Almirante? La vicina città di Grosseto pochi anni fa voleva titolare una via ad Almirante e l’ISGREC è intervenuto nell’occasione con una memoria indirizzata alla Giunta della città, come ci ha ricordato la direttrice dell’istituto, Luciana Rocchi, firmataria del documento. In questo si poneva l’accento su un ulteriore aspetto: l’attività diretta di Almirante contro gli ebrei, provata da un documento dell’estate del 1944: lo Schema di disposizioni alla stampa e alla radio per la propaganda in materia razziale. Scrive L’ISREG: «con questo schema di disposizioni Almirante dà il suo contributo all’attuazione delle persecuzioni …» agevolando la deportazione degli ebrei dall’Italia nei campi di sterminio tedeschi che produsse oltre 6000 vittime, una trentina delle quali grossetane.
Ma torniamo ai martiri della Niccioleta. Si trattava di lavoratori della miniera di pirite situata nella omonima località che avevano organizzato turni di guardia agli impianti per scongiurare saccheggi e distruzioni ad opera dei nazifascisti in ritirata. Furono scoperti e denunciati da delatori fascisti locali. Difendevano la miniera. Quello fu il pretesto per massacrarli. Sei minatori (in odore di antifascismo) furono massacrati subito, il 13 giugno sul piazzale dello spaccio aziendale. Gli altri furono tradotti a Castelnuovo Val di Cecina e il giorno seguente ne furono assassinati 77. L’ISGREC – ci informa Luciana Rocchi – ha recentemente inaugurato a Castelnuovo un museo diffuso, realizzando grandi pannelli collocati nei luoghi della memoria.
Quasi in contemporanea, per tragica ironia, AN ha tappezzato Milano di manifesti per Almirante: “un grande italiano, un esempio da seguire”. Ma come si studia a scuola con Manzoni, si può essere grandi anche nel male. Forse bisognerebbe tappezzare Milano col bando Almirante. Sul blog Incidenze due lunghi post sono consacrati alla disamina della figura di Almirante: il secondo in particolare narra attraverso i documenti gli eventi del famigerato bando e della Niccioleta.
Occorre continuare. Perché le grandi manovre revisionistiche che stanno intensificandosi con l'avvento della destra al potere, in Italia e a Roma,scatenate dall'apologia di Almirante imbastita da ANcome "esempio da seguire" non sono un fatto episodico, ma una strategia. Sotto i discorsetti obbligati di Fini, in sede istituzionale, di condanna di "alcune frasi" (sic!) di Almirante, continua a scorrere l'ampio fiume delle revisioni e delle rivalutazioni di questo preteso "grande italiano". In particolare, riguardo albando della Prefettura di Grosseto del 17 maggio 1944, circolano, ad esempio in molti siti delle destre, "post", neo o vetero fasciste, ricostruzioni che (tradendo involontariamente l'imbarazzo per i propri scheletri nell'armadio) minimizzano, negano o mistificano con i classici espedienti dell'eufemismo, della reticenza e talvolta della falsificazione. Non solo, ma queste cose si diffondono in particolare in rete fin troppo facilmente mistificano, al punto che ne troviamo tracciaanche nella voce "Giorgio Almirante" di Wikipedia, in cui (oggi) leggiamo:
Divenuto il principale simbolo della destra anticomunista, fu spesso attaccato dalle forze della sinistra soprattutto estrema, che lo accusarono anche di esser stato un "fucilatore"[citazione necessaria] durante il suo passato nella Repubblica sociale Italiana. Almirante rispose a queste accuse per vie legali ed editoriali, pubblicando Autobiografia di un fucilatore: «Un titolo doppiamente bugiardo, poiché non è un'autobiografia, né io sono un fucilatore»
Sorvolando rapidamente sul fatto che la sola versione qui fornita a smentita della qualifica Sorvolando rapidamente sul fatto che la sola versione qui fornita a a smentita della qualifica di fucilatore di partigiani o anche di massacratore , lanciata con forza da l'Unità e da il manifesto((non citati) di fucilatore (o anche di massacratore, etc.) di partigiani, rivolta ad Almirante, contro l'Unità è quella dello stesso, colpisce che qui si riferisca che intentato laconicamente, intentato su denuncia di Almirante stesso l'Unità e i giornali che avevano ripubblicato il bando del '44. "Almirante rispose a queste accuse per vie legali", senza dire nulla del "processo per "falso". Viene totalmente taciuto cheAlmirante e il suo MSI scatenarono una vasta e violenta campagna sostenendo che il documento era un "falso" manipolato dai comunisti. Questo fatto, che rende la misura della statura morale, della dignità e del senso di responsabilità di questo "esempio da seguire" e della funzione revisionista e negazionista svolta del suo partito (come pure l'esito della sua denuncia) nella voce di Wikipedia, sono maldestramente nascosti sotto il tappeto striminzito di una frase reticente e vaga:
"Negli anni 70 il ritrovamento del volantino in un archivio storico susciterà roventi polemiche."
Come ogni altro utente di Wikipedia, avrei potuto modificare questa voce, ma nell'urgenza attuale, mi sembra più utile e produttivo sollevare il problema (del quale, il caso di questa voce di Wikipedia non è che un sintomo, certo, rilevante) per sollecitare una riflessione su come i revisionismi si diffondano agevolmente in rete, e chiedersi se sia possibile, e come, contrastare, nei limiti del possibile, il fenomeno.
Mi sembra prioritario, in questo momento, cercare di contribuire a chiarificare alcuni aspetti spesso trascurati legati alla vicende storiche e poi giudiziarie del bando del 1994.
A questo scopo ripropongo due testi documentati e avvincenti di Nedo Barzanti, che trovato nel sito del PdCI di Grosseto: il primo, sullastrage di Niccioleta, il secondo, sulprocessointentato da Almirante contro L'Unità e i giornali che avevano ripubblicato il bando.
I muri di Milano sono tappezzati di manifesti firmati Alleanza Nazionale con la faccia di Giorgio Almirante. "Un grande italiano. Un esempio da seguire", si legge sul manifesto, facendo riferimento al ventesimo anniversario della morte del fondatore dell'MSI, e a una messa che sarà celebrata in una chiesa del centro.
A nome della sezione milanese dell'ANED esprimo la più sdegnata condanna di questo manifesto. Giorgio Almirante fece parte per 5 anni, dal primo all'ultimo numero, della redazione della rivista fascista La difesa della razza, principale veicolo nel nostro paese di quella politica razzista che sfociò tra il '43 e il '45 nella deportazione e nello sterminio di migliaia di uomini, donne e bambini ebrei. E fu altissimo esponente della RSI, arrivando a firmare il famoso manifesto in cui si prometteva la "fucilazione nella schiena" degli "sbandati ed appartenenti a bande" che non si fossero piegati alla leva della repubblica di Mussolini, al soldo dell'alleato nazista.
Il manifesto milanese ci parla della cultura politica di forze che oggi occupano altissime cariche istituzionali. Le lacrime di fronte al museo Yad Vashem di Gerusalemme sono archiviate; le critiche al fascismo, come "male assoluto", pure: oggi è cambiato il vento, e AN rivendica con orgoglio una storia fatta anche di disonore.
I superstiti dei lager e i familiari dei Caduti esprimono la loro protesta per una iniziativa che riporta indietro di decenni il dibattito politico nel nostro paese.
Dario Venegoni
presidente dell'ANED di Milano
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... a Roma:
dal sitoaldo dice 26 x 1[24/o5/08]: fascisti: roma avrà via almirante
[24/08] A vent’anni dalla scomparsa, il sindaco di Roma Gianni Alemanno - l’uomo con la celtica al collo, primo sindaco di destra nella capitale - vuole intitolare una via al leader storico dell’Msi Giorgio Almirante, redattore della rivista La difesa della razza e mai pentito repubblichino di Salò. Motivo: «E’ stato il precursore della moderna destra democratica in anni tormentati in cui era difficile superare il ghetto in cui era rinchiuso l’Msi». No della sinistra romana. Agnostico il Pd: per Nicola Zingaretti «la scelta riguarda il Consiglio comunale». Di Almirante, il 28 maggio, Luciano Violante e Gianfranco Fini presenteranno alla camera la raccolta dei discorsi parlamentari.
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Ma ripensando a Grosseto...
".... impadronirsi di un ricordo come esso balena nell'istante di un pericolo"[**]
La rapida sequenza tra il manifesto milanese di AN, inneggiante ad Almirante: "Un grande italiano. Un esempio da seguire", e l'annuncio del neo sindaco di Roma di voler dedicare una strada a questo personaggio, ha sollecitato la memoria. E, scavando qua e là, ho ritrovato un precedente in cui la proposta di intitolare una via ad Almirante, nel 2005, veniva duramente criticata con questa motivazione: "... appare assolutamente inesistente nel caso di Giorgio Almirante quella condizione di personaggio da proporre come esempio per le nuove generazioni ..."
Avendo alla mente questa frase tratta dal documento dell'Istituto storico grossetano della Resistenza e dell'età contemporanea, che riproduco integralmente di seguito, è difficile non leggere nelle attuali "grandi manovre" di AN (celebrazione dell'esempio - intitolazione di una strada, tendenzialmente in ogni città) un preciso disegno di violenta revisione della storia teso rovesciare e liquidare la cultura storica e politica che ha animato questo lucido documento, che contestava l'intitolazione di una strada rifiutando l' "esempio":
PERCHÉ NO AD UN INSERIMENTO DI GIORGIO ALMIRANTE NELLA TOPONOMASTICA GROSSETANA
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La proposta di intitolazione di una strada della città di Grosseto a Giorgio Almirante torna all’ordine del giorno delle scelte del Comune di Grosseto. Fu sostenuta dal vicesindaco Andrea Agresti, già nel 2002, nel quadro di una proposta generica giustificata con la necessità di assicurare una memoria attraverso la toponomastica cittadina a vari politici italiani (si propose anche il nome di Enrico Berlinguer, nel quadro di una supposta “par condicio”). Seguì una discussione pubblica, interrottasi nel momento in cui il silenzio dell’Amministrazione fece supporre un abbandono del proposito. Ritenevamo che le argomentazioni che molti cittadini grossetani avevano opposto a quel progetto avessero dissuaso l’Amministrazione comunale. Non è così.
Ci sembra allora indispensabile dare di nuovo diffusione ad argomenti e documenti, che dovrebbero suggerire a chiunque abbia rispetto per la Costituzione e la prassi democratica di abbandonare ogni incertezza sulla legittimità e opportunità di una scelta, che a nostro giudizio oltrepassa i limiti del decoro per questa città.
La vicenda politica di Giorgio Almirante si sviluppa attraverso tre fasi: gli anni del regime fascista, la breve stagione della Repubblica Sociale Italiana, il lungo periodo dell’Italia repubblicana.
Fuori da ogni intento di ricostruzione biografica completa, è opportuno segnalare alcune tappe significative, documentabili attraverso fonti d’archivio o scritti comparsi sulla stampa:
1. L’impegno nella campagna razziale negli anni del regime
2. Le responsabilità sempre in materia di discriminazione e persecuzione razziale e le manifestazioni di intransigenza e durezza nello svolgimento di un ruolo dirigente nella RSI
3. La sostanziale continuità tra l’impegno politico fascista e quello successivo alla nascita dell’Italia repubblicana e democratica
1.
Giorgio Almirante fu dal 20 settembre 1938 segretario di redazione della rivista “Difesa della razza”, quindicinale che vive tra 1938 e 1943 ed è l’espressione più diretta del razzismo del regime ( i redattori sono tutti firmatari del “Manifesto della razza”, che apre la strada alla legislazione razziale del regime fascista ). Fu anche caporedattore del “Tevere”, periodico distintosi per una campagna antiebraica “estremista, sfrenata, azzardosa”(A. Lyttelton) già prima delle leggi razziali.
Delle procedure di riciclaggio nel paese del trasversalismo reale
Rudy M. Leonelli e Vincenza Perilli in Invarianti, n. 35, 2001
La contestazione della globalizzazione economica, una volta svincolata dall’ideologismo, è l’occasione per un rompete le righe tra destra e sinistra. In apparenza, è il contrario: e la sinistra più conservatrice può compiacersi di trovarvi un cambio d’abito, in extremis. Ma le schermaglie più immediate non contano molto. La destra non ammette la TobinTax, la sinistra ne fa la propria bandiera. Del resto, non è facile immaginare come il governo di centrosinistra, se fosse durato, avrebbe affrontato la gestione del G8: meno o più dialogo, meno o più polizia? La destra politica non è meno prigioniera della sinistra, oltre che di interessi materiali costituiti, di pregiudizi ideologici e riflessi condizionati. Il “trasversalismo” che l’annuncio ecologista si era ripromesso, e non ha saputo mantenere, è oggi alla portata di una politica fattiva, tanto più quanto meno in soggezione a pensieri e abitudini ereditate.
Adriano Sofri, “Se la povertà fa scandalo”, La Repubblica, 17 luglio 2001.
Nel dicembre 2000, a pochi giorni dall’esplosione di un ordigno tra le mani del terrorista neofascista Andrea Insabato davanti alla redazione romana de il manifesto, usciva sulle pagine di questo quotidiano un toccante articolo in forma di lettera aperta allo stragista mancato, dal titolo “Caro Andrea, pensaci…”:
Ma c’è una cosa che mi ha fatto scattare un meccanismo di vicinanza, che mi ha preoccupato e intrigato insieme: il discorso delle varie etnie sfigurate che vediamo vivere male nelle metropoli e campagne occidentali. Gli schiavi che seguono il trionfo di Cesare sono oggi extracomunitari, ma anche le varie etnie sfigurate delle nostre regioni. Odio la globalizzazione anche per questo […] Anch’io amo la purezza, ma non quella delle razze umane. Mi sono sentito una pena dentro quando ho visto la tua faccia sui giornali. Un isolato, un cane sciolto di destra. Una pena scandalosa. Molti isolati e cani sciolti di sinistra come te, quando a Nizza combattono la globalizzazione, muovono da sentimenti, bada solo sentimenti molto simili ai tuoi. Su quei sentimenti ha lavorato la cultura, una cultura diversa dalla tua, che è legata all’istinto ed è imbevuta di idealismo. Hai creduto che il manifestosia un simbolo di tutto quello che non ti piace che esista. E ti sei sbagliato di grosso. L’attenzione da sempre alla multietnicità di quel giornale non va nella direzione dell’impuro[2].
Che il cosiddetto movimento antiglobalizzazionefosse una grande occasione per il superamento della dicotomia destra /sinistra è, come si vede, idea che precede i “fatti di Genova”, al punto che già la ricerca di un trait d’union tra l’autore e il bersaglio di un attentato trovava proprio nel “no global” lo spazio di un incontro possibile sulla base di un comune sentire.
Il sermone indirizzato al presunto cane sciolto Insabato[3], piuttosto che nel clima natalizio ‑ che, come si impara da bambini, rende tutti più buoni ‑ si inscrive in un paradigma di pacificazione che ha per assiomi l’etica dell’intenzione e l’imperativo di comunicazione. Il celebre discorso di Luciano Violante sulle motivazioni ideali dei “ragazzi di Salò”[4] non è che la punta di un iceberg la cui massa, al di sotto della schiuma delle dichiarazioni di circostanza, disegna un corpo frastagliato ma omogeneo. La “trasversalità” è, per nascita e vocazione, senza confini: passa dentro e fuori le istituzioni, nel “politico” e nel “sociale”, nell’amministrativo e nel “creativo”.
A tratti, il flusso trasversale sembra subire una brusca interruzione e l’archiviata opposizione destra/sinistra, fascismo/antifascismo, è improvvisamente ripescata. Così nel ’94, prima vittoria elettorale della destra, così nel finale della campagna elettorale 2001 e di nuovo, con toni più accesi, dopo Genova, quando D’Alema parla di “clima cileno” e, di seguito, l’uomo immagine delle Tute bianche di “nazistelli in divisa”[5]. Di regola questi ritorni “storici” si caratterizzano per l’elusione dello spessore della storia: metafore inarticolate il cui orizzonte non oltrepassa l’effetto del momento. Aperture di dialogo e risvegli intermittenti scandiscono il moto oscillatorio della lingua costitutivamente biforcuta delle sinistre “post”.
Quando eventi di particolare gravità impongono riflessioni sottratte all’orizzonte ridotto della cronaca, vengono prodotte “analisi” che, come i duplicati di armi descritti da Debord, mancano sempre del percussore[6].
Un'intervista al capogruppo dei senatori Ds – rilasciata a il manifesto all'indomani dell'attentato al quotidiano – può illustrare questa tipologia. La domanda di rito: “I fatti di questi giorni ci obbligano a ritornare sull’analisi della destra italiana. Non c’è stato troppo ottimismo, nel centrosinistra, sulla sua costituzionalizzazione e troppa facilità nella sua legittimazione?” riceve la risposta appropriata: “Autocriticamente ritengo di sì. Tutti, la sinistra e l’insieme delle forze democratiche, abbiamo sottovalutato quel che negli ultimi mesi è avvenuto nella destra italiana”. Le “sottovalutazioni” in questione concernono quattro punti: il separatismo della Lega, il peso dell’alleanza elettorale del centrodestra col Msi-Fiamma tricolore di Pino Rauti, la politica del Vaticano (dalla lettera pastorale di Biffi alla visita di Haider) e, infine:
Quarto ma non ultimo: abbiamo sottovalutato la campagna sul revisionismo storico. Che ha tenacemente e meditatamente messo in discussione tre momenti cruciali della costruzione dello Stato nazionale e della Repubblica: l’unità d’Italia, col processo al Risorgimento allestito in agosto al meeting di Rimini; la Resistenza, col rovesciamento del valore fondativo dell’antifascismo nel “dovere morale” dell’anticomunismo; la Costituzione, con la volontà della destra non di riformarla ma di stracciarla, a partire dalla sua concezione del federalismo[7].
“Un’analisi tutta da rifare”, commenta l’intervistatrice. Ma è una conclusione esorbitante in rapporto alla pochezza della diagnosi che, riducendo il problema a una sorta di svista, per di più limitata a pochi mesi, opera una duplice minimizzazione: della portata del pericolo di destra, in particolare dell’offensiva revisionista, e delle responsabilità delle sinistre che, da ormai più di un decennio, non si sono limitate a “sottovalutare”, ma si sono adoperate a rivalutare e valorizzare.
È il progetto di costituzione di un paese normale, elaborato alle origini della Nuova Destra tedesca, che sintetizza la strategia adottata dalla sinistra di governo italiana nel corso degli anni Novanta. Condizione essenziale di questo progetto è l’opera di revisione della storia efficacemente criticata da Klinkhammer:
in Italia negli ultimi anni è stata fortemente auspicata una “conciliazione nazionale”, considerata un elemento fondamentale per una società “postfascista”. Il “superamento” del passato fascista da parte di una presunta società postfascista presuppone però l’offuscamento dei lati negativi di questo passato[8].
Il processo di pacificazione, abbellimento e “armonizzazione” della storia si è necessariamente articolato nel Grande Dialogo[9]tra destra e sinistra, promosso da quest’ultima come elemento innovatore al di là della “residua” pregiudiziale antifascista, nella ripresa più o meno consapevole della strategia da tempo messa a punto dalla Nuova Destra.
Di qui il vizio congenito delle “mobilitazioni” periodiche e dei relativi rituali autocritici, che devono correggere i singoli “guasti” prodotti da questa strategia senza mai metterne in discussione i presupposti. La figura dell’impostore inverosimile[10], capace di svolgere, alternativamente o simultaneamente, i ruoli di agitatore e imbonitore, è un ingranaggio indispensabile di questo marchingegno e riceve immancabilmente la meritata promozione mediatica. In contropartita ogni critica radicale di questo impianto incontra una censura non dichiarata e tanto più efficace.