Ribelli in paradiso Sacco,
Vanzetti e il movimento anarchico negli Stati Uniti
un
libro di PAUL AVRICH A cura di Antonio
Senta
Ne discutono Antonio Senta e Andrea
Cavalletti
A partire dal celebre caso di Sacco e
Vanzetti, i due anarchici “giustiziati” nel 1927, Avrich ci offre un intenso
spaccato dell’America di inizio 900. I protagonisti delle vicende narrate sono i
lavoratori, spesso italiani, quasi sempre anarchici, che vivono sulla propria
pelle l’oppressione dei padroni, delle polizie private e dello stesso Stato,
colpevole di difendere e legittimare lo sfruttamento capitalista attraverso le
sue leggi. Un’analisi storica chiara e dettagliata della battaglia che vide
fronteggiarsi il capitalismo americano e gli emigrati italiani, donne e uomini
che all’America avevano affidato le speranze per un riscatto sociale da troppo
tempo atteso.
Paul Avrich (1931-2006). Considerato forse il massimo
storico dell’anarchismo nasce a New York da una famiglia originaria di Odessa.
Compie studi in Russia che lo porteranno alla stesura di The Russian Anarchists
(1967) e Kronstadt, 1921 (1970). Rientrato a New York insegna al Queens College
e si interessa alla storia degli anarchici negli Stati Uniti. Tra le sue opere,
pubblicate dalla Princeton University, ricordiamo Anarchist Voices: An Oral
History of Anarchism in America (1995) e naturalmente Sacco and Vanzetti, The
AnarchistBackground, oggi tradotto per la prima volta in Italia.
Ieri sera su Rai Uno è andato in onda uno scempio, di cui la Rai
dovrebbe chiedere scusa, e i politici o chiunque approvi sul servizio
pubblico operazioni di questo tipo dovrebbe chiedere il conto. Insegno
storia da cinque anni nei licei, e tutto il lavoro che io, come
centinaia di migliaia di insegnanti di liceo e università, faccio per
cercare di raccontare, far conoscere, semplificare, provare a
condividere e indagare insieme, gli anni Settanta viene smerdato da una
roba coma la trilogia-fiction intitolata “Anni spezzati”. Uno dei
prodotti peggiori realizzati in Italia negli ultimi anni: un film non
solo pessimo da un punto visto artistico e anche tecnico, ma risibile da
quello documentario e storico. Un prodotto nocivo, venefico,
viscidamente diseducativo.
Chi l’ha scritto, Graziano Diana (anche regista) con due autori alle
prime armi – Stefano Marcocci e Domenico Tomassetti – ha evidentemente
ritenuto opportuno prescindere da qualunque serietà di documentazione
storica, appoggiandosi a riduzioni da sussidiario copiato male – non
dico Wikipedia (che in molti casi è fatta molto meglio). Nei titoli
d’apertura non dichiara nemmeno un nome di un consulente storico, nei
titoli di coda ne cita tre, nessuno dei quali storico di professione
(Adalberto Baldoni, Sandro Provvisionato e Luciano Garibaldi – la cui
bibliografia è pubblicata da piccolissimi editori in odore di
post-fascismo tipo Nuove Idee o Ares). Nelle interviste Diana dice che
ha ascoltato le voci dei parenti delle vittime della violenza politica
anni ’70: non so chi abbia ascoltato né come l’abbia fatto, ma quello
che ne ha tratto sono degli sloganucci stereotipati che farebbero
passare un bignami per un saggio storico complesso. Nelle interviste
Diana dice di aver voluto raccontare quella storia dalla parte di chi,
le istituzioni incarnate nelle forze dell’ordine, cercava il dialogo tra
rossi e neri: non so che libri abbia letto sulle forze dell’ordine e le
istituzioni italiane di quegli anni, non so su quali testi si sia
formato la sua idea sugli apparati dello Stato, i politici, i partiti, i
vari movimenti, ma se l’avesse scritta Cossiga nel sonno o Claudio
Cecchetto, per dire, questa fiction, ci avrebbe messo più complessità.
L’idea di Alessandro Jacchia di raccontare attraverso lo sguardo di
un poliziotto romano (la sua voce off!) le vicende complicate che girano
intorno a Piazza Fontana, l’autunno del ’69, e la vicenda di Calabresi e
Pinelli non è nemmeno revisionista: non è un’idea. È la suggestione di
poter prendere la poesia di Pasolini su Valle Giulia, ricavarne
un’interpretazione puerile, e pensare di applicarla, a mo’ di pomata,
agli eventi di quegli anni: come se fosse una scelta narrativa, fino a
realizzare una specie di spottone con toni da soap-opera, colletti
larghi, sguardi fissi in camera ...
Nel discorso comune e in quello accademico, con poche eccezioni, viene
continuamente rimarcata la convinzione che una società di liber* ed
eguali sia sempre più inattuabile o addirittura impossibile. L'utopia,
che precisamente significa “qualcosa che non ha luogo” e non “qualcosa
di irrealizzabile”, è sepolta sotto i cumuli di macerie
dell'etnocentrismo.
L'idea che un gruppo umano possa vivere e convivere in assenza di
istituzioni di potere appare generalmente come qualcosa di inattuale,
addirittura innaturale. Ed è qui che la ricerca antropologica agisce
come meccanismo di disvelamento delle credenze e dei pregiudizi. Perché
il potere, inteso nella sua forma di comando/oppressione e obbedienza,
non è innato nell'umanità.
Pierre Clastres, antropologo eclettico e figlio intellettuale di Claude
Levi-Strauss, ci racconta di comunità che vivono in una “favola”, la cui
morale piomba vigorosa e differente: i personaggi non sono il braccio
dello Stato, le catene delle istituzioni, il tintinnio delle monete, ma
semplici individui privi di cravatta e muniti di un concetto
dell'esistente diametralmente opposto a quello della società
capitalista.
La loro vita non prevede alcun Dio, Stato, servi o padroni, né
l'indigenza antropomorfizzata, ma solo un benessere reale e morale
partorito dal rifiuto del dominio economico e politico.
Affinché la diversità non sia vittima di stereotipi e venga incorporata
all'interno di una prospettiva sociale versatile, il Collettivo
AutorganizzatoVolya presenta il libro L'anarchia selvaggia – Le società
senza Stato, senza fede, senza legge, senza re, edito da Eleuthera. Di
recentissima uscita, consiste in una raccolta di alcuni studi di Pierre
Clastres che verranno presentati da Valerio Romitelli (Dipartimento di
Storia, Culture, Civiltà, Unibo) e Rudy Leonelli (Dipartimento di
Filosofia, Unibo), con la partecipazione di Nicola Turrini, Marco Tabacchini, Elia Verzegnassi, che hanno
presentato il libro alla Biblioteca Domaschi - spazio culturale
anarchico di Verona.
Déjà
leader lycéen et anarchiste à Brest, il était arrivé à Sciences-Po Paris
en septembre, avait rejoint les antifascistes et s’était engagé contre
l’homophobie.
Questa è la storia di Gianni
Aricò, di Angelo Casile, di Annelise Borth, di Franco Scordo e di Luigi
Lo Celso che trovarono la morte a soli vent'anni in uno strano incidente
stradale sull'autostrada del Sole, nei pressi di Ferentino, la notte
tra il 26 e il 27 settembre 1970. Erano partiti dalla Calabria per
portare a Roma, ai compagni della Federazione Anarchica Italiana,
un dossier di contro-informazione misteriosamente scomparso dal luogo
dell'incidente. La loro vicenda e il dossier che avevano messo insieme
si intreccia con alcune delle pagine più oscure e insanguinate della
storia italiana collegate da un inquietante filo nero che parte da
piazza Fontana, passa per i moti di Reggio, la strage di Gioia Tauro, il
golpe Borghese. E ancora il caso Marini, l'omicidio De Mauro, la
tragica fine di Mastrogiovanni. Questa è la storia di cinque anarchici
che avevano scoperto cose che “avrebbero fatto tremare l'Italia”. Questa
è la storia di cinque ragazzi che capirono prima di altri che l'Italia,
un Paese che aveva sconfitto sul campo il fascismo, non lo aveva però
estirpato, consentendo a beceri individui assetati di potere e di sangue
di farlo rinvigorire e crescere fino ai giorni nostri dove convivono
vecchie e nuove dittature con la loro carica di violenza e disumanità.
Li hanno fermati.
Il 2 settembre l'opera di Baj "I funerali dell'anarchico Pinelli"
rischia di ritornare nei bui scantinati dai quali è emersa dopo 40 anni
solo recentemente.
Quest'opera, dall'indubbio valore non solo artistico, appartiene
inequivocabilmente alla storia di Milano; una storia con la quale la
città tutta deve sicuramente ancora confrontarsi.
Chiediamo una testimonianza diretta da tutta la cittadinanza affinché l'opera rimanga fruibile a Milano negli anni a venire.
Un'opera d'arte è un modo per preservare la storia dalla sua riscrittura fissandola in una immagine.
Firmiamo per impedire che anche questo tassello ci venga strappato.
Pubblicato per la prima volta nel 1922 e da decenni introvabile, il «saggio di un anarchico sul fascismo» delinea il formarsi a Bologna di una cultura reazionaria di massa. Per Fabbri le violenze fasciste non erano un fenomeno isolato o episodico, ma una funzione fondamentale di quella «controrivoluzione preventiva» attraverso cui la borghesia aggrediva le conquiste operaie e disciplinava la società. Una tesi che contribuì al formarsi in Europa di una coscienza antifascista rivoluzionaria può fornirci ancora oggi una chiave di lettura degli avvenimenti attuali.
h 21.30 proiezione di
«Ombre nere sul terzo millennio» (61') di Flavio Novara (Associazione Alkemia)
Un'indagine sociale sui nuovi gruppi organizzati neofascisti come «Casa Pound» che fieramente si definiscono «fascisti del terzo millennio» e strutturano la loro base ideologica politica attraverso il rilancio dei principi basilari non solo del primo movimento fascista ma della Repubblica Sociale Italiana.
A seguire dibattito, con la partecipazione di Flavio Novara, regista del documentario.
È uscita, a cura dell'Assemblea Antifascista Permanente di Bologna, la riedizione de La controrivoluzione preventiva di Luigi Fabbri (Edizioni Zero in Condotta, Milano). Pubblicato per la prima volta nel 1922, con il sottotitolo editoriale "Saggio di un anarchico sul fascismo", il libro è riproposto ora con un'ampia introduzione.
* * *
Nel 1922 Luigi Fabbri compiva quarantacinque anni, era maestro elementare a Bologna e militante anarchico da oltre vent'anni. Aveva subìto per questo intimidazioni e bastonature e la sua riflessione sul fascismo è anzitutto quella di un testimone che ha visto una città «rossa» come Bologna diventare in pochi mesi la «culla» della reazione antiproletaria. Dinanzi a un fenomeno nuovo e difficile da interpretare, La controrivoluzione preventiva delinea il formarsi di una cultura reazionaria di massa promossa dallo Stato e dalla borghesia «con la triplice azione combinata della violenza illegale fascista, della repressione legale governativa e della pressione economica derivante dalla disoccupazione». Per Fabbri le violenze fasciste non sono un evento isolato, ma una funzione primaria della «controrivoluzione preventiva» attraverso cui la borghesia aggrediva le conquiste operaie e le libertà sociali. La tesi di quel saggio, riproposto ora a cura dell'Assemblea Antifascista Permanente di Bologna, ebbe fin da subito larga risonanza e contribuì al formarsi di una coscienza antifascista rivoluzionaria: il concetto di «controrivoluzione preventiva» attraversa infatti per intero la storia intellettuale del Novecento fino a Marcuse e Debord e può fornirci ancora oggi una chiave di lettura degli avvenimenti attuali.
Nell’ambito delle attività di produzione culturale dell'Assemblea Antifascista Permanente, è in corso la riedizione di un saggio notevole e scintillante sul fascismo, edito “a caldo” nel 1922: La controrivoluzione preventiva di Luigi Fabbri.
Nel 1922 Luigi Fabbri compiva quarantacinque anni, era maestro elementare a Corticella in provincia di Bologna e militante anarchico da oltre vent’anni. La sua voce è anzitutto quella di un testimone che ha visto un’area «rossa» come Bologna e l’Emilia-Romagna diventare, nel volgere di pochi mesi, una roccaforte e anzi la «culla» del fascismo e della reazione antiproletaria. Si tratta di un’inchiesta a tutto campo che dalla cronaca minuta, narrata con gusto vivo del racconto, cerca di risalire alla forma sociale del fascismo come «controrivoluzione preventiva».
Nonostante alla fine del 1922 i fascisti distruggessero le copie ancora invendute del libro, tanto che oggi sopravvivono nelle biblioteche italiane meno di una trentina di esemplari dell’edizione originale, le tesi di quel saggio scritto in fretta negli ultimi tumultuosi mesi del 1921 ebbero fin da subito larga risonanza. Così, mentre il nome di Fabbri cade nell’oblio, il concetto di «controrivoluzione preventiva» attraversa invece per intero la storia intellettuale del Novecento fino a Marcuse e a Debord.
Ma, prima della ristampa de La Controrivoluzione preventiva, abbiamo pensato di portare in giro per Bologna quel testo con una lettura pubblica di vari brani, quelli che raccontano più vivacemente fatti ed episodi della violenza e dell’idiozia fascista (con breve introduzione e intermezzi musicali). Qualcosa a metà tra la presentazione di un libro che ancora non c’è e uno spettacolo di dilettanti.
sabato 25 aprile, alle ore 19 alVAG 61, via Paolo Fabbri 110
Catilina parla
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Letture da La controrivoluzione preventivadiLuigi Fabbri
l'assalto a Palazzo d'Accursio da: Luigi Fabbri, La controrivoluzione preventiva
-->
I fatti del 21 novembre a Bologna precipitarono questo processo di reazione.
Che qualcosa di grave si preparasse lo si sentiva nell’aria. Già durante i comizi elettorali si capiva che l’intransigenza formale ed elettorale dei socialisti a tendenza estremista avrebbe vinto, ma inutilmente. Il programma annunciato a Bologna era stravagante e impossibile, dato l’ambiente e l’atmosfera già mutati in tutta Italia; era un vero castello sulla sabbia. Inoltre la borghesia bolognese, non più timorosa dei socialisti e degli operai, non credeva più. Da più d’un mese non si facevano scioperi, e qualcuno tentato era apparso stentato e senza effetto. Durante la campagna elettorale un oratore radicale (poi divenuto fascista) mi assicurano che abbia in un comizio senza ambagi dichiarato, che se i bolscevichi avessero conquistato il comune, non si sarebbe permesso alla loro amministrazione di funzionare.
Dopo l’esito delle elezioni, che avevan dato una strabocchevole maggioranza ai socialisti estremi, questi erano assai preoccupati per la cerimonia dell’insediamento. Rinunciarvi, rinunciare all’esposizione della loro rossa bandiera, al loro comizio di vittoria oggi sembrerebbe facile; allora sarebbe parsa vigliaccheria, e sarebbe stata agli occhi di tutti la prima rinuncia al pomposo programma nel cui nome s’era vinto. Ma proprio questo volevano i fascisti: cacciare dalle piazze la folla operaia, far abbassare in segno di resa la bandiera rossa. Come uscirne?
Alcuni socialisti, che allora tenevano il mestolo in mano, scesero a indecorosi patteggiamento con la questura, e forse promisero più di ciò che i loro seguaci avrebbero mantenuto; ma parve alla vigilia del 21 novembre, giorno convenuto per l’insediamento, che le cose potessero passar lisce, quando fu noto in questura e affisso alle cantonate un manifestino a macchina, in cui i fascisti annunciavano battaglia per l’indomani, avvertendo le donne e i ragazzi di star lontani dal centro e dalle vie principali. I socialisti ormai non potevan più ritirarsi decentemente; è naturale che i più bollenti (e furon purtroppo anche i più scriteriati, stando almeno ai risultati) pensassero ad improvvisare una qualche difesa contro gli annunciati ed eventuali assalti. Ormai solo un miracolo poteva evitare la tragedia. Il miracolo non avvenne; al contrario!
-->21 novembre 2008: giornata "agitata" a Bologna: uno sciopero fortemente partecipato dei lavoratori Atc, il centro città bloccato, l'entrata degli scioperanti Comune, il parapiglia con i vigili e - dulcis in fundo - l'irruzione a Palazzo d'Accursio della polizia contro l' "invasione" degli ospiti non invitati [vedi: (gli scioperanti) Dire, Rdb Cub, il pane e le rose ]. Su questo sfondo animato, c'è un particolare che ha attirato la mia attenzione e mi ha condotto a decidermi di rieditare qualche pagina di un bel libro di Luigi Fabbri.In quella calda giornata di novembre in consiglio comunale, dai banchi del centrodestra è partito - per voce di tal Patrizio Gattuso (PdL) - un sonoro "basta coi comunisti!" che ha suscitato la comprensibilissima indignazione ed ira del consigliere di sinistra Valerio Monteventi.
Perché assegno tanta importanza a un enunciato stolido e banale - originale, con i tempi che corrono, come un ennesimo duplicato: monotono, ricorrente e inflazionato? E' che per enunciare provocatoriamente il "suo" banale e stolido slogan nella sala del Consiglio comunale di Bologna, il signor Gattuso ha scelto proprio il giorno sbagliato o, forse, nella logica sua e del suo gruppo, il giorno "giusto".
Sta di fatto che la data del 21 novembre ha, per il consiglio comunale di Bologna, un'importanza storica: 88 anni fa, i fascisti, dopo aver anticipatamente minacciato pubblicamente guerra nel caso in cui la bandiera rossa fosse stata innalzata o esibita in occasione della cerimonia d'insediamento dell'amministrazione socialista uscita dalla vittoria alle elezioni comunali, il 21 novembre 1920 passarono all'atto, aprendo il fuoco contro Palazzo d'Accursio e sulla folla, provocando una prevedibile e premeditata carneficina.
Una storia che, proprio il nel giorno in cui il consigliere Gattuso ha emesso il "suo" basta coi comunisti! (che, come come sappiamo, avendo avuto energici - ma che dico: energumenici! - precursori, rasenta il citazionismo) è stata ricordata dall'ANPI ANPPIAcon un incontro pubblico e commemorata con la deposizione di corone: al sacrario dei Caduti Partigiani, alla lapide che ricorda il giovane Anteo Zamboni, trucidato dai fascisti, e alla lapide che - nel cortile di Palazzo d'Accursio, ricorda, appunto, l'assalto fascista del 21 novembre e le vittime che ha provocato.
Di qui, al punto d'intersezione tra la storia e l'attualità, la mia scelta di riproporre alcune pagine del lucido e oggi, credo, più che mai illuminante libro di Luigi Fabbri.
Bologna culla del fascismo
I.
Autunno 1920
da Luigi Fabbri, La controrivoluzione preventiva [*]
Ma fino ad un certo momento il fascismo sembrò relativamente indipendente finché i fascisti eran pochi e i socialisti eran potenti ed in auge. Aveva il suo nucleo centrale più forte a Milano con ramificazioni un po’ dovunque, ma non era preponderante in alcun luogo, – e tanto meno lo era a Bologna; dove invece tutto ad un tratto divenne forte, tanto che proprio da qui, come forza politica coercitiva e violenta cominciò ad estendersi in tutta Italia. Ebbe ragione non so più qual fascista a scrivere, in una polemica, che se è vero che il fascismo è nato a Milano la sua culla è stata Bologna.
* * *
A Bologna il fascismo è diventato forte prima che altrove; sia perché il caso e gli errori dei socialisti più li aiutarono, sia perché i fascisti bolognesi furono primi; malgrado il linguaggio sbarazzino e pseudo-sovversivo, del loro giornale, a stringere rapporti di collaborazione ed aiuto con quella forza conservatrice ch’è la polizia, mettendo da parte in pratica ogni fisima d’opposizione politica.
Nei primi mesi, dall’ottobre in poi, il fascismo ebbe nella polizia bolognese l’alleata più evidente, anche ufficialmente, godendo della protezione aperta del questore e di quella appena larvata del Prefetto [1]. I commissari di P. S. se n’andavano pel Corso sotto braccio coi capi fascisti, guardie regie e fascisti se n’andavano a spasso insieme,; e in Questura i fascisti eran come a casa loro, e questurini e guardie regie stavano alla sede del Fascio come in un loro corpo di guardia. Mi è stato assicurato che anche pel rifornimento e trasporto delle sua armi, il fascio più d’una volta s’è servito dei camions della questura e militari.
Dell’autorità militare vera e propria non parlo. Essa è assai più guardinga; ma è noto che quasi tutti gli ufficiali sono fascisti e che lo Stato Maggiore dell’esercito non è estraneo al fascismo.
[…]
Ma, per tornare a Bologna come culla del fascismo, dirò che tutti questi coefficienti non sarebbero valsi a far crollare le posizioni socialiste ed a formare la potenza fascista senza alcune circostanze fortuite e soprattutto senza certi errori più gravi dei socialisti. Le scaramucce nella piazza di Bologna del 20 settembre 1920 e lo stesso conflitto sanguinoso del 14 ottobre, quando una folla andò a fare una dimostrazione alla carceri per solidarietà con le vittime politiche, vicino alla caserma delle guardie regie [2] non erano riusciti a scuotere la preponderante forza socialista. Lo sbandamento di questa cominciò la notte del 4 novembre, in cui per pochi fascisti fattisi all’uscio e nell’atrio della Camera Confederale del lavoro in atto aggressivo e minaccioso di giovani armati, l’allora segretario on. Bucco, che pure era circondati da un certo numero non trovò di meglio che telefonare per soccorso alla questura filofascista! La polizia venne, ed in numero, ma per arrestare i socialisti e far fare una figura ancora più ridicola al deputato Bucco… La fortezza era ormai smantellata: i fascisti vi avevano in certo modo libero ingresso.
Se quella sera i socialisti fossero stati un po’ più prudenti – mi dicono che a mezzanotte circa il portone della Camera del Lavoro era ancora aperto; senza alcuna ragione, quasi per invitare il nemico ad entrare – e nel tempo stesso, se realmente assaliti, si fossero energicamente difesi con la forza che avevano e senza esclusione di colpi, forse la Camera del lavoro di Bologna sarebbe stata invasa allora invece che tre mesi dopo, ma probabilmente sarebbe stata la prima e l’ultima in Italia. Essa sarebbe stata invasa non dai fascisti ma dalla forza pubblica; la quale, avendo lei presa l’iniziativa, avrebbe tolto al governo la maschera d’una inesistente neutralità, resa impossibile l’indegna commedia recitata poi, tolta al fascismo la direzione delle operazioni antisocialiste. Se reazione fosse venuta, avrebbe preso un carattere statale, e la lotta avrebbe conservato il suo carattere tradizionale di conflitto fra sudditi e governo, senza deviare verso la insensata, feroce ed inutile guerriglia di fazioni che seguì.
Ma inutile far delle ipotesi su dei se retrospettivi. Il fatto sta, che quell’episodio penoso e ridicolo insieme fece capire alle autorità politiche ed ai fascisti che tutta la vantata preparazione rivoluzionaria, di cui Bucco ed atri menavan vanto, era un bluff, e che l’esercito socialista, già in ritirata sul terreno economico e politico, non solo aveva smessa l’offensiva ma non sapeva neppure profittare della forza del numero, di cui disponeva indiscutibilmente, per difendersi con la propria azione diretta. Se si fosse subito resistito con l’energia e la violenza necessarie, e la necessaria concordia, ai primi assalti fascisti, il fascismo sarebbe morto sul nascere. Invece, avendo il proletariato preferito riparare dietro la legalità, anche questa debole trincea fu in più punti demolita dal nemico, giacché – visto che i socialisti risultavano i più deboli – polizia e forza pubblica non ebbero più alcun scrupolo a palesarsi alla luce del sole alleati del fascismo; e l’offensiva combinata delle forze illegali e legali, cui si aggiungeva poco più tardi anche la magistratura, incominciò.
Né valse ad arrestarla l’esito delle elezioni amministrative della fine d’ottobre e del principio di novembre 1920, favorevoli i socialisti che vi guadagnarono circa 3000 comuni. Anzi questo fu una spinta di più alla classi dirigenti per incoraggiare il fascismo summa via dell’illegalità. Capitalismo e governanti – dei governanti, non questo o quel ministro personalmente, certo l’alta burocrazia, i prefetti, i questori, ecc. – prima riluttanti, capirono che il fascismo era una buona arma e gli assicurarono subito tutti i propri aiuti, in danaro e armi, chiudendo gli occhi sugli atti illegali, e dov’era necessario assicurandogli le spalle con l’intervento della forza armate che, col pretesto di rimetter l’ordine, correva a dar mano ai fascisti dove questi invece di darle cominciavano a prenderle.
_______________________
NOTE:
[*] Luigi Fabbri, La controrivoluzione preventiva (riflessioni sul fascismo), Collana "V. Vallera", Pistoia, 1975 [prima edizione 1922 - Editore Licinio Cappelli],
[1] Tale cooperazione dura tutt'ora un po' dappertutto , ma viene alcun poco dissimulata per ragioni di governo. Alla Vecchia Camera del lavoro di Bologna le guardie regie mandate a proteggerla, e ricoverate in un salone della stessa in una notte di pioggia scrivevano nella scorsa primavera sui muri, fra tante minacce contro i socialisti e gli anarchici: "Presto il Fascio e la Regia bruceranno anche questa Camera"
[2] Si è parlato a tal proposito, e le guardie regie vi credettero sul serio, di un vero e proprio assalto popolare e rivoluzionario alla Caserma. In processo questa diceria non fu confermata da alcuna prova; ed infatti nessuna intenzione del genere aveva la folla. Il conflitto avvenne casualmente nei dintorni; e chi si è recato da quelle parti una volta sola capisce quanto impossibile e pazzesco sarebbe stato un proposito simile di assalto, oltre che inutile e sproporzionato ad ogni scopo.
Oggi, 7 novembre (25 ottobre secondo l'antico calendario giuliano che vigeva all'epoca in Russia) è l'anniversario della
Rivoluzione d'ottobre. Incidenze ricorda questo evento con le parole di un grande anarchico italiano:
-->
Armando Borghi
Noi facemmo della rivoluzione russa
la nostra stella polare
-->
Ebbene sì, noi siamo qui a proclamarlo: noi facemmo della rivoluzione russa la nostra stella polare. Esultammo alle sue audacie, alla sua vittorie sanculotte, ai suoi rischi. Alzi la mano chi abbia una questione di patriottismo, di quello di sana pianta, da sollevare sulla frontiera della rivoluzione nei secoli. Ci si indichi, chi patriota non da operetta, non abbia dato e chiesto sangue, entusiasmo e persino denaro per il trionfo della sua idea nel mondo, facendo di questa idea, dovunque sorgesse la voce di Spartaco, il centro della sua patria.
Dovevamo chiedere al popolo russo di presentarci il certificato di legittimità della sua rivoluzione? Se era matura? Se era esattamente al suo ciclo storico; se era la rivoluzione russa che aveva bisogno di noi o noi che avevamo bisogno di essa per avviare la nostra rivoluzione?
Noi guardammo alla rivoluzione russa con l’occhio dei nostri bisnonni della Rivoluzione Partenopea nei confronti della Rivoluzione Francese. Ma quello che pochi ricorderanno è questo: che anche i guerrafondai del 1914 e seguenti, in un primo tempo furono entusiasti della rivoluzione russa, aspettando da quella parte una ripresa giacobina della guerra. Fu Arturo Labriola, dopo il ritorno dalla sua missione intesista in Russia, a dare l’allarme nel campo interventista contro l’abbaglio di una rivoluzione russa invocante la super guerra. Mussolini lasciava traccia della sua infallibilità nel suo quotidiano su questo tema: «Questa volta la rivoluzione aveva dei muscoli. Doveva vincere e ha trionfato propagandosi dalle vie della Neva alla città santa del Kremlino; ha completamente trionfato. Storiche giornate che iniziano un’era nuova» [1].
Una altro genialissimo, tra i mentecatti ravveduti, Gustavo Hervé, da Parigi ricalcava le orme di Mussolini sulla famosa rivoluzione russa invocante la super guerra dell’Intesa. La prova delle cose venne tentata quando sui Carpazi Kerensky si improvvisò gran maresciallo e il suo esercito prese un gran sacco di botte.
Un indice del fenomeno che covava sotto la quiete apparente imposta dai rigori di guerra si ebbe in occasione della venuta in Italia dei cosiddetti «argonauti della pace», che erano già i rappresentanti dei soviet. Fu uno straripamento meraviglioso di folle inneggianti alla Russia. A Roma ne allibirono. I delegati russi ne restarono stupiti. Io ricordo di averli sorpresi con le lagrime agli occhi nel comizio di Firenze. «Siamo venuti a scoprire la rivoluzione in Italia », diceva Goldenberg, capo della missione russa, nel grande comizio tenutosi nella casa del popolo di Rifredi, dove lo stesso Morgari aveva pronunciato un discorso infiammato. La prima grande colpa della rivoluzione russa fu quindi, non la sua dittatura, ma il suo «no» alla guerra. La dittatura nella guerra ad oltranza non avrebbe fatto schifo alla democrazia dell’Intesa.
Per lungo tempo il temine stesso di «bolscevismo» non era chiaro. Lo si prendeva come sinonimo di rivoluzione sociale. Scriveva il repubblicano Oliviero Zuccarini: «Il bolscevismo è diventato il bau bau agitato da tutte le inquiete coscienze conservatrici. Siete rivoluzionari, dunque siete bolscevichi! Ogni rivoluzionario per non sentirsi attribuire idee e motivi bolscevichi russi dovrebbe rinunciare ad essere rivoluzionario» [2] .…
Che dire poi dei socialriformisti i quali in ogni occasione di moti e di rivolte avevano sulle labbra l’accusa di dittatura contro i movimenti di proteste e di agitazioni. Non era da questo pulpito che potevamo aspettarci una predica seria contro la dittatura.
da: Armando Borghi, La rivoluzione mancata
Edizioni Azione Comune, Milano 1964
[riedizione a cura dei gruppi d’Azione Carlo Pisacane, del libro di A. Borghi,
L’Italia tra due Crispi. Cause e conseguenze di una rivoluzione mancata,
“uscito nel 1925, semiclandestino in Francia e ignorato in Italia"].
_______________
NOTE
[1]Il Popolo d’Italia; 17 maggio 1917
[2] Olivero Zuccarini, Pro e contro la Dittatura, Libreria Politica Moderna, Roma 1920.