di Christian Raimo, 9 gennaio 2014
Ieri sera su Rai Uno è andato in onda uno scempio, di cui la Rai
dovrebbe chiedere scusa, e i politici o chiunque approvi sul servizio
pubblico operazioni di questo tipo dovrebbe chiedere il conto. Insegno
storia da cinque anni nei licei, e tutto il lavoro che io, come
centinaia di migliaia di insegnanti di liceo e università, faccio per
cercare di raccontare, far conoscere, semplificare, provare a
condividere e indagare insieme, gli anni Settanta viene smerdato da una
roba coma la trilogia-fiction intitolata “Anni spezzati”. Uno dei
prodotti peggiori realizzati in Italia negli ultimi anni: un film non
solo pessimo da un punto visto artistico e anche tecnico, ma risibile da
quello documentario e storico. Un prodotto nocivo, venefico,
viscidamente diseducativo.
Chi l’ha scritto, Graziano Diana (anche regista) con due autori alle
prime armi – Stefano Marcocci e Domenico Tomassetti – ha evidentemente
ritenuto opportuno prescindere da qualunque serietà di documentazione
storica, appoggiandosi a riduzioni da sussidiario copiato male – non
dico Wikipedia (che in molti casi è fatta molto meglio). Nei titoli
d’apertura non dichiara nemmeno un nome di un consulente storico, nei
titoli di coda ne cita tre, nessuno dei quali storico di professione
(Adalberto Baldoni, Sandro Provvisionato e Luciano Garibaldi – la cui
bibliografia è pubblicata da piccolissimi editori in odore di
post-fascismo tipo Nuove Idee o Ares). Nelle interviste Diana dice che
ha ascoltato le voci dei parenti delle vittime della violenza politica
anni ’70: non so chi abbia ascoltato né come l’abbia fatto, ma quello
che ne ha tratto sono degli sloganucci stereotipati che farebbero
passare un bignami per un saggio storico complesso. Nelle interviste
Diana dice di aver voluto raccontare quella storia dalla parte di chi,
le istituzioni incarnate nelle forze dell’ordine, cercava il dialogo tra
rossi e neri: non so che libri abbia letto sulle forze dell’ordine e le
istituzioni italiane di quegli anni, non so su quali testi si sia
formato la sua idea sugli apparati dello Stato, i politici, i partiti, i
vari movimenti, ma se l’avesse scritta Cossiga nel sonno o Claudio
Cecchetto, per dire, questa fiction, ci avrebbe messo più complessità.
L’idea di Alessandro Jacchia di raccontare attraverso lo sguardo di
un poliziotto romano (la sua voce off!) le vicende complicate che girano
intorno a Piazza Fontana, l’autunno del ’69, e la vicenda di Calabresi e
Pinelli non è nemmeno revisionista: non è un’idea. È la suggestione di
poter prendere la poesia di Pasolini su Valle Giulia, ricavarne
un’interpretazione puerile, e pensare di applicarla, a mo’ di pomata,
agli eventi di quegli anni: come se fosse una scelta narrativa, fino a
realizzare una specie di spottone con toni da soap-opera, colletti
larghi, sguardi fissi in camera ...
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