Negli
ultimi trent’anni il revisionismo dell’estrema destra europea è sempre
stato anzitutto un «revisionismo storico», animato dalla nostalgia del
passato nazifascista e applicato perciò a un ampio intervallo di tempo
(Δt, leggi «delta ti») tra i fatti e la loro mistificante «revisione».
Ma ogni aspirazione totalitaria ambisce a una manipolazione per Δt tendente a zero.
Mentre,
dopo il delitto Matteotti, i Fascisti invitavano alla «pacificazione
nazionale», stavano preparando un regime violento, oppressivo e
guerrafondaio.
Mentre
i Nazisti attuavano lo sterminio di massa degli ebrei europei,
pubblicamente negavano di aver mai avuto idee simili e giunsero persino a
fare un film di propaganda sul campo di Theresienstadt in cui i
prigionieri assistono a concerti, giocano a calcio, lavorano nei
giardini delle proprie case e si rilassano al sole.
Mentre si consumava il terribile eccidio di Marzabotto, sul «Resto del Carlino» venivano ufficialmentesmentite le voci di un massacro come menzogne prive di ogni fondamento.
Ecco
che ora, nel suo tentativo di imitare in piccolo il Fascismo, anche
CasaPound si produce in un revisionismo per Δt tendente a zero
manipolando in modo sistematico le informazioni di Wikipedia su episodi
recenti di squadrismo.
Sono
decine gli episodi di violenza neofascista smorzati e poi rimossi in
modo minuzioso, attento e preciso per non destare alcun sospetto. Le
operazioni vengono effettuate da quella che Gianluca Iannone, presidente
di CasaPound, definisce come una «task force di pronto intervento nel mondo di internet». Leggi l’intervento di Dario Lapenta suECN antifa o suLa Meteora.
La
Germania pare che non abbia scrittori comici nel periodo nazista.
Questo è un segno grave. La sciagura peggiore che possa capitare a un
popolo, che il regime totalitario ha trasformato in marionette, è quella
di non accorgersi del suo stato, in una parola di non ridere. Non
scoprire il comico negli automatismi della dittatura significa
appartenere alla massa degli automi perfetti. La prova del comico a quei
tempi era definitiva come quella di stare ritti su un piede per chi ha
bevuto troppo vino. Ricordo un mio amico nel quale la sensibilità si era
acuita a tal punto da fargli correre seri rischi. Le fotografie di
certi grandi personaggi, atteggiati visibilmente a una tronfiezza, a un
velleismo, a una romanità di terz’ordine suscitavano in lui un bisogno
di ridere profondo e penoso come certi attacchi di tosse o conati di
vomito.
Vitaliano Brancati, Il comico nei regimi totalitari (1954)
Nel dicembre del 2008 il Consiglio
comunale di Bologna ha approvato un ordine del giorno che chiedeva «la
messa fuorilegge del movimento politico Forza Nuova, per ricostruzione
del partito fascista e per inottemperanza delle norme previste dalla
legge Mancino, essendo stati diversi dirigenti e militanti di Forza
Nuova più di una volta coinvolti in episodi di violenza razzista e
fascista».
Ma oggi, con l’avanzare della crisi
economica, il clima è cambiato. Istituzioni e centri di potere fanno a
gara nel promuovere una cultura nazionalista e autoritaria, favorendo
fra l’altro la riorganizzazione della destra.
A Bologna negli ultimi mesi la Questura
di Bologna ha espressamente vietato l’ingresso nel centro storico a
manifestazioni antifasciste e antirazziste: ai Rom e Sinti che
commemoravano la rivolta antinazista del 16 maggio 1944, agli occupanti della Notte Rossa che rivendicavano «casa, reddito e dignità»…
Invece, ogni volta che i camerati di
Forza Nuova vogliono sfilare e fare saluti romani al grido di «Boia chi
molla», la Questura di Bologna concede loro le più prestigiose piazze
del centro storico: Piazza Santo Stefano, Piazza Galvani, Piazza San
Domenico, e sempre con un enorme schieramento di blindati e uomini neri
col manganello in mano…
Non importa se i camerati di Forza Nuova a volte nemmeno si presentano, se sono in tre o quattro a sventolare le loro bandierine nere, se li devono trasportare a Bologna in autobus da altre regioni italiane. Perché quello che importa a Forza Nuova e alla Questura di Bologna è provocare.
Ora Forza Nuova annuncia che terrà a Bologna un corteo nazionale il 17 ottobre prossimo con lo slogan «Ordine contro il caos».
È inaccettabile che, autorizzando anche
questo corteo, la Questura di Bologna continui a contrapporsi al sentire
diffuso di questa città: una città che rifiuta l’antisemitismo,
l’islamofobia, l’omofobia, il razzismo, il sessismo, il militarismo e lo
squadrismo; una città che – dalla strage del 2 agosto 1980 alla banda
della Uno bianca – ha pagato a caro prezzo le strategie autoritarie dei
neofascisti e delle loro sponde negli apparati dello Stato.
Ormai ogni anno si dedicano celebrazioni a questo argomento sempre più
di matrice neofascista con parate inquietanti in Lombardia come in
altre parti d’Italia.
Interveniamo oggi per dire la nostra opinione critica. E crediamo che
sia il caso di tornare ad affrontare in maniera un po’ più approfondita
questo tema.
Nel 2004 il governo di centrodestra, con l’avallo del centrosinistra,
stabilì di celebrare il 10 febbraio (anniversario del Trattato di pace
che nel 1947 aveva fissato i nuovi confini con la Jugoslavia) una
“Giornata del Ricordo” per celebrare “i martiri delle foibe e dell’esodo
istriano, fiumano e dalmata”. Una ricorrenza situata a dieci giorni
dalla “Giornata della Memoria” (istituita nel 2000 per il ricordo dalla
Shoah e di tutte le vittime e i perseguitati del nazifascismo). In
questi anni il senso comune ha portato a fare di tutto un polverone,
cosicché si parla correntemente di “foibe” come “olocausto degli
italiani”.
Noi riteniamo che in tutto questo ci sia un’operazione di confusione e
di ribaltamento dei fatti. L’obiettivo di raggiungere una “memoria
condivisa” attraverso una specie di “par condicio della storia”, per la
quale ricordiamo “tutte le vittime”, nasconde i giudizi di valore sulle
responsabilità storiche specifiche, in particolare quelle del regime
fascista italiano in collaborazione con il nazismo tedesco. Chi ha
provocato le tragedie della seconda guerra mondiale e chi, dopo averle
subite, ha reagito, diventano la stessa cosa.
Oggi, correntemente, con il nome di “foibe” ci si riferisce a due
periodi distinti: in Istria dopo l’8 settembre del 1943, fino all’inizio
dell’ottobre dello stesso anno, e a Trieste nel maggio 1945, dopo la
liberazione da parte delle truppe partigiane jugoslave (ufficialmente
alleate del fronte antinazista) e durante i 42 giorni di amministrazione
civile della città. In questi due periodi, secondo la vulgata corrente,
un numero imprecisato di persone, comunque “molte migliaia”, sarebbero
state uccise solo perché erano di nazionalità italiana e poi
“infoibate”, ossia gettate nelle cavità naturali presenti in quelle
zone. Si tratterebbe di una “pulizia etnica”, di un “genocidio
nazionale”. La responsabilità principale viene in genere attribuita ai
“titini”, ossia ai partigiani jugoslavi comunisti. Chi propone un esame
critico di questa versione viene chiamato “negazionista” o, ben che
vada, “riduzionista” (usando quindi le stesse categorie utilizzate per
chi nega o sminuisce la Shoah).
CasaPound Cremona, la sezione dell’organizzazione nell’ambito
lombardo probabilmente più consistente, fin dalla sua nascita nel
maggio 2013, seguendo una regola interna che a ogni sede corrisponda
un’intestazione propria, si è scelta il nome di «Stoccafisso».
Apparentemente un gioco. Nella città che fu del Ras Roberto
Farinacci, gran organizzatore di squadracce, questo particolare
è tutt’altro che innocuo. La storia racconta che sul finire del
«biennio rosso», quando i fascisti della bassa val Padana si videro
recapitare da alcune prefetture il divieto di detenere i
manganelli, ricorsero all’uso di pezzi di baccalà, stecche dure
lunghe più di un metro e mezzo da utilizzare come bastoni. Da qui la
scelta del nome, indicativo della natura di CasaPound, che
ispirandosi al primo movimento fascista, quello degli esordi, esalta
ostentatamente l’epopea delle aggressioni ai dirigenti e ai
militanti socialisti e comunisti come degli assalti alle sedi delle
camere del lavoro e delle leghe contadine. L’attacco preordinato
di domenica sera al centro sociale Dordoni di Cremona, non a caso, è
stato condotto seguendo gli antichi insegnamenti, concentrando
gruppi di picchiatori, anche provenienti da altre città (Parma e
Brescia), per colpire in forte superiorità numerica, senza
problemi.
Più volte CasaPound ha anche «mimato» in cortei per le vie di Roma le
«spedizioni punitive» del 1920–1921 sfilando su camion scoperti con
a bordo militanti agghindati con tanto di Fez. Le stesse
denominazioni con cui ha marchiato i propri punti di ritrovo o i
propri siti di riferimento, dalla libreria La Testa di Ferro (in
ricordo del giornale fondato nel 1919 da Gabriele D’annunzio al tempo
dell’impresa fiumana) al forum internet Vivamafarka (dal
romanzo-scandalo di Marinetti del 1909, Mafarka il futurista,
sottoposto in quegli anni a processo per oltraggio al pudore, in
cui si decantavano le gesta immaginarie di un re nero che amava la
guerra e odiava le donne), dicono di questa identificazione.
Non siamo di fronte a semplici suggestioni culturali. Dalle sue
fila, analizzando i fatti accaduti, solo negli ultimi tre anni,
provengono Gianluca Casseri che a Firenze nel dicembre 2011 ha
assassinato a colpi di pistola due ambulanti senegalesi, ferendone
gravemente un terzo, e Giovanni Ceniti, ex responsabile di Casa
Pound Novara, uno dei killer di Silvio Fanella ucciso a Roma
nell’estate scorsa. Un’organizzazione che la Cassazione, il 27
settembre 2013, nell’ambito di un procedimento a Napoli contro il
suoi dirigenti locali ha giudicato «ideologicamente orientata
alla sovversione del fondamento democratico del sistema».
Prima dell’aggressione di Cremona, solo qualche settimana fa, a fine
dicembre, se ne era verificata un’altra, con le stesse modalità, a
Magliano Romano, dove una ventina di squadristi di Casa Pound con i
passamontagna, armati di spranghe e bastoni, avevano aggredito i
tifosi dell’Ardita, un club di supporter della squadra romana di
calcio del quartiere San Paolo. Sette i feriti, con fratture,
escoriazioni ed ecchimosi.
L’incredibile impunità di cui gode Casa Pound è sotto gli occhi di tutti. È tempo di porre il problema.
La «Giornata della Memoria» in ricordo
dello sterminio nazista di sei milioni di ebrei giunge quest’anno
proprio mentre la Corte internazionale dell’Aja sta avviando un’indagine
preliminare sui possibili crimini di guerra
commessi nei Territori palestinesi e dopo che, quest’estate, si è
consumato l’ennesimo, insensato massacro della popolazione civile di
Gaza. In un mondo in cui lo stragismo diventa sempre più uno strumento
ordinario di lotta fra centri di potere.
Per gli Stati è sempre imbarazzante
ricordare che i campi di concentramento nazista rappresentavano la
«soluzione finale» per tutte le «diversità»: razziali, religiose,
sessuali, politiche, mentali… Un folle progetto di «purificazione» della
società che ogni tanto riaffiora in varie forme, magari travestito da
ossessione per la «sicurezza» o da odio per il «degrado». E non è un
caso che, da anni, ogni 27 gennaio si celebri una «memoria» dimidiata e
strumentale, un pasticcio politically correct, un rito di
autoindulgenza collettiva che non riesce nemmeno a interrogarsi sul
perché nell’Europa di oggi il fascismo è ancora un pericolo.
Crediamo sia giusto ricordare che,
accanto al genocidio degli ebrei, i nazisti perseguitarono e uccisero
persone affette da ritardo mentale, asociali, alienati, disabili,
mendicanti, omosessuali, zingari rom e sinti, donne e lesbiche, neri,
socialisti, comunisti, anarchici, apolidi, rifugiati della guerra di
Spagna. Solo una memoria integrale può infatti orientare la lotta contro
ogni forma di
Venerdì 16 maggio, alle ore 20,30, le Sezioni Anpi Corticella, Lame, Pratello, San Donato
organizzano e presentano:
“Testa per Dente,
crimini dell’occupazione italiana nei Balcani, occupazione
nazi-fascista e campi di internamento"
alle Caserme Rosse, via di
Corticella 147, Bologna: una mostra volta ad illustrare i temi
dell'occupazione italiana dei Balcani, dei crimini commessi e della
impunità di cui hanno goduto i responsabili degli stessi crimini nel
dopoguerra
Si potrà inoltre assistere a una conferenza che
traccerà un quadro della problematica dei tantissimi campi di
internamento istituiti sotto il fascismo. Saranno presenti:
Alessandra Kersevan, storica e saggista, autrice dei libri "Lager italiani" e "Un campo di concentramento fascista" , Davide Conti,
storico, collaboratore della Fondazione Lelio Basso, autore tra l'altro
dei llibri:"Criminali di guerra italiani" e "L'occupazione italiana dei
Balcani", Luca Alessandrini - Istituto Storico Parri Emilia-Romagna Jadranka Bentini, Testimone, figlia di Vinka, Capitana Partigiana croata.
Sala dell’Ex- Refettorio, Via S. Isaia 20 Con il libro su Alba dorata, di Dimitris Deliolanes, l'Istituto per la storia e le memorie del '900 Parri-ER inaugura 900 storie, un nuovo ciclo di presentazioni di libri, film e altri materiali audiovisivi sulla storia del XX secolo e del tempo presente.
Déjà
leader lycéen et anarchiste à Brest, il était arrivé à Sciences-Po Paris
en septembre, avait rejoint les antifascistes et s’était engagé contre
l’homophobie.
Le
mercredi 5 juin 2013, en sortant d'un magasin de vêtements, près de la
gare Saint-Lazare, Clément Méric, jeune syndicaliste âgé de 18 ans et
militant antifasciste a été battu à mort par des membres de l'extrême
droite radicale. Venu de Brest pour ses études à Sciences Po, il a été
victime du contexte de violences d'extrême droite qui s'est développé
ces derniers mois. Il est décédé des suites de ses blessures, dans la
nuit, à l'hôpital de la Pitié-Salpêtrière. Toutes nos pensées vont à sa
famille et à ses proches auxquels nous exprimons toute notre solidarité.
Ses ami-e-s et camarades.
* * *
Mercoledì
5 giugno 2013, uscendo da un negozio di abbigliamento, nei pressi della
gare Saint-Lazare, Clément Méric, sindacalista diciottenne e
attivista antifascista è stato picchiato a morte dai membri
dell'estrema destra radicale. Venuto a Brest per i suoi studi a Scienze politiche, è stato vittima del contesto di estrema violenza di destra intensificatosi negli ultimi mesi. È morto per le ferite, nella notte, presso
l'ospedale Pitié-Salpêtrière. Tutti i nostri pensieri vanno alla sua
famiglia e ai suoi cari ai quali esprimiamo la nostra solidarietà.
Vittorio Emiliani Quando Toscanini non eseguì Giovinezza
A CHI ha proposto di far cantare Giovinezza a Sanremo si dovrebbe ricordare che il rifiuto di eseguirla prima delle opere opposto dal grande Arturo Toscanini fu la ragione fondamentale del suo esilio in America. Mussolini stesso lo convocò e gli chiese di eseguirla alla Scala alla prima di Turandot di Puccini il 25 aprile 1926, ma il maestro oppose un muto diniego fissando per tutto l' incontro il soffitto. Per questo rifiuto venne aggredito e malmenato a Bologna in prossimità del Teatro Comunale nel 1931 e decise che non avrebbe più diretto in Italia finché ci fosse stato il fascismo. Né diresse più a Bayreuth dopo l' avvento di Hitler, né a Salisburgo dopo l' annessione dell' Austria alla Germania nazista. Per poterlo avere sul podio in Europa gli crearono il festival di Lucerna, ma chi si mosse in auto da Milano - ricordava Camilla Cederna - venne segnalato e schedato alla frontiera. Insomma, non è questione di canzonette. Almeno per chi ha ancora un po' di memoria storica.
La storia:Toscanini si era rifiutato di eseguire «Giovinezza» al Teatro comunale. Qualcuno lo colpì e Leo Longanesi commentò Bologna 1931. Schiaffo fascista a «un uomo schifoso, un rudere...»
Immaginiamoci Bologna, nel 1931, anno nono dell'era fascista. Il Teatro Comunale ha in programma un concerto diretto dal grande Arturo Toscanini, forse il più grande direttore d'orchestra del Novecento, carattere forte, scontroso, noto per il dominio ferreo dell'orchestra. La città si è preparata all'evento. Abiti da sera e divise fasciste, nero su nero, e belle dame, gente dell'alta borghesia e aristocratici. Perbacco, stasera c'è quello lì, quello che ci dà lustro all’estero, che non ha nascosto simpatie per il regime, almeno all'inizio. E stasera dirigerà la musica di Giuseppe Martucci, che a Bologna ha dato lustro e al quale il Podestà vuole rendere un grande omaggio. Bene, è tutto pronto, automobili e qualche carrozza hanno scaricato un pubblico scelto, che se ne intende. Naturalmente la serata si aprirà con la Marcia reale («Viva il Re-viva il Re-viva il Re- le trombe eroiche squillano» si cantava anche in coro) e con Giovinezza, con la quale si aprono tutte le trasmissioni radio e tutti gli eventi pubblici: «Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza» suonano le parole scritte da Salvator Gotta su una musica che il maestro Blanc aveva scritto per un’operetta che parlava di studenti. Poi Gotta aveva cambiato tutto e si incominciava con «Salve o popolo d'eroi» per finire a «Dell'Italia nei confini/son rifatti gli italiani/li ha rifatti Mussolini/ per la guerra di domani…». Evidentemente per Toscanini è troppo e fa sapere che non dirigerà quei brani. Apriti cielo! Grande trambusto e una mano che si protende a schiaffeggiare il maestro che se ne torna in albergo, seguito da grida e insulti. Chi lo ha schiaffeggiato? Una cronaca vuole che sia stato Leo Longanesi, l'inventore del motto «Mussolini ha sempre ragione». Che su Libro e moschetto dello stesso anno, sfogherà il suo livore scrivendo in prosa futurista che «il maestro celebre, dopo la sua morte sarà come tutti gli uomini destinato a marcire», «uomo schifoso… un rudere che molta gente, di dentro e di fuori, avrebbe voluto divenisse il deposito escrementizio di tutte le loro acidose e putrefacenti ire isteriche… gli osservo sulla guancia le impronte (ora metaforiche) dello schiaffo bolognese che lo fa degno del mio compassionevole sguardo e… gli sputo negli occhi». Toscanini risultò sgradito al regime quanto a lui risultò sgradito Mussolini e tutto il carnevale fascista. Se ne andò a dirigere per il mondo e in America e non tornò che a Liberazione avvenuta. L'11 maggio del 1946 dirigerà nuovamente alla Scala. Nel 1943 aveva diretto a New York l'Inno delle nazioni in cui aveva incluso anche l'Internazionale. Lo identificò come l'inno di tutti quelli che, a cominciare dall’Urss, avevano contribuito alla sconfitta del nazismo e del fascismo.
La biografia di Vincenzo La Russa, fratello del ministro Ignazio, santifica il leader del Msi. Tacendo sul bando contro i partigiani e sdoganando Salò. Una revisione piena di errori e omissioni sugli anni ’60 e ’70.
Sono tali e tanti i silenzi, le reticenze e le omissioni della biografia di Giorgio Almirante curata da Vincenzo La Russa (Giorgio Almirante. Da Mussolini a Fini, Mursia, p. 247, 17 euro), che potrebbe addirittura sorgere il sospetto che si stia parlando di un’altra persona. Davvero scoperto e grossolano appare il tentativo, tutto politico, di santificare il leader del neofascismo italiano, in spregio alle conoscenze storiche pacificamente acquisite.
Dopo poche pagine iniziali in cui si concentrano le origini familiari e i primi passi compiuti da giornalista al seguito di Telesio Interlandi (un autentico invasato razzista nei confronti del quale Almirante manterrà sempre «stima e devozione»), prima al quotidiano Tevere e poi come segretario di redazione al quindicinale La difesa della razza, si passa subito a narrare del ruolo svolto dal settembre 1943 in veste di capo di gabinetto di Fernando Mezzasoma al ministero della Cultura popolare nella Rsi. Circostanza che viene presentata come frutto di un incontro del tutto fortuito a Roma con lo stesso Mezzasoma. Così la sua elezione a segretario del Msi nel giugno 1947, raccontata come un accidente non previsto, avvenuta a pochi mesi dalla costruzione della formazione politica da parte di un gruppo di nostalgici della Repubblica di Salò, che lo innalzarono a tale carica essendo loro ben più compromessi con il passato ventennio o addirittura latitanti. È il caso di Pino Romualdi, la più importante figura del neofascismo di quel periodo, costretto ad operare nella clandestinità. In realtà Almirante, come ricorderà egli stesso anni dopo, giunse a questo ruolo portando in dote al Msi un intero movimento da lui fondato, il Movimento italiano di unità sociale (Mius), «che raccoglieva l’élite direttiva del fascismo». Fu lui a sottolinearlo nella sua storia del Movimento sociale italiano, scritta con Francesco Palamenghi-Crispi nel 1958. Non proprio, dunque, come si vorrebbe, un’elezione casuale. Sul terrorismo delle Sam (Squadre d’azione Mussolini) e dei Far (Fasci di azione rivoluzionaria), che precedettero e accompagnarono la fase iniziale del Msi, in buona parte composti e diretti dagli stessi missini, non una sola parola. Eppure gli attentati furono innumerevoli, spesso tutt’altro che dimostrativi, con tanto di morti e feriti. Ma siamo solo agli inizi. Tutta la vita politica di Almirante e del Msi viene, infatti, nel complesso collocata in un contesto volutamente depurato da tutti quegli elementi che potrebbero contraddire una ricostruzione di comodo. Si cita più volte l’importante lavoro di Giuseppe Parlato Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia, 1943-1948, edito dal Mulino nel 2006, forse la miglior ricerca su quel periodo da parte di uno storico di destra, ma, ad esempio, si tralascia clamorosamente di riprenderne la parte essenziale, minuziosamente documentata anche con carte tratte dagli archivi americani, relativa agli intensi rapporti intercorsi tra i dirigenti neofascisti, Pino Romualdi in testa, e i servizi segreti americani che appoggiarono, anche economicamente, e favorirono i chiave anticomunista la nascita del Msi. Una tessitura di contatti avviata ancor prima della fine della guerra, che consentì allo stesso Romualdi, il 27 aprile del 1945, di scampare a fucilazione certa. Queste le conclusioni di Giuseppe Parlato: «Da lì discendono una serie di legami che consentono di leggere la nascita del Msi in modo totalmente diverso: non un movimento di reduci, ma una forza atlantica e nazionale nel quadro della Guerra Fredda» (dall’intervista rilasciata a Simonetta Fiori apparsa su La Repubblica del 9 novembre 2006). Nulla di tutto ciò, neanche un cenno, nel libro di Vincenzo La Russa. Un approccio teso, il suo, da un lato a rileggere, all’opposto, il neofascismo italiano come un’area posta ai margini della vita politica e vessata dalla violenza comunista, mai attraversata da spinte eversive, frustrata nei suoi tentativi di inserimento nel sistema anche a causa del peso che vi ebbero i nostalgici del fascismo repubblichino (in ciò una critica) come Almirante, comunque conquistati al metodo democratico, dall’altro lato, a cercare di “salvare” proprio questa figura da ogni sospetto riguardo alla sua buona fede democratica, non si capisce bene quando acquisita. Forse da sempre.
Che la Repubblica sociale e il fascismo fossero stati democratici? Il dubbio è lecito. Un esercizio spericolato, in definitiva, che per essere condotto ha bisogno di pesanti manipolazioni storiche. E queste davvero non mancano.
In particolare in questa biografia, salvo poche righe su Piazza Fontana, sembrerebbe non essere mai esistita la strategia della tensione con le sue stragi nere, in cui rimasero coinvolti e in alcuni casi condannati (si vedano le sentenze definitive per la strage di Peteano del 31 maggio 1972 e per la tentata strage del 7 aprile 1973 sul treno Torino-Roma) proprio quegli esponenti di Ordine Nuovo che Giorgio Almirante invitò «lui a rientrare» nel 1969 nel Msi. Ovviamente La Russa omette anche di ricordare il pesante coinvolgimento di Almirante in relazione a Peteano, quando fu rinviato a giudizio per favoreggiamento di Carlo Cicuttini (ex-segretario di una sezione missina), latitante in Spagna, al quale fece pervenire 34mila dollari affinché si sottoponesse a un’operazione alle corde vocali per vanificare il suo riconoscimento come autore della telefonata che attirò una pattuglia di carabinieri a Peteano, in provincia di Gorizia, dove aveva predisposto, insieme con Vincenzo Vinciguerra, un’autobomba che esplose all’apertura del cofano. Tre militi rimasero uccisi sul colpo. Carlo Cicuttini fu condannato all’ergastolo. Almirante evitò invece il processo beneficiando dell’amnistia nel febbraio del 1987.
Del bando rinvenuto nel giugno 1971 in un comune della provincia di Arezzo, firmato il 17 maggio 1944 dal capo di gabinetto Giorgio Almirante per conto del ministro Mezzasoma, in cui si minacciavano «gli sbandati» e gli appartenenti a bande partigiane di «fucilazione nella schiena», che suscitò nel Paese una forte ondata di sdegno, Vincenzo La Russa ne parla come di un semplice e dovuto adempimento burocratico. Come se Almirante fosse stato a Salò un semplice passacarte, quando invece collaborava con uno dei più fanatici ministri di Mussolini, e secondo diverse testimonianze era chiamato «il prete nazista» proprio dagli altri componenti del gabinetto per il suo acceso estremismo e il furore con cui si scagliava contro ogni pietismo.
Ma è proprio riguardo al nodo della violenza, «lui non incitava certo», che forse sarebbe il caso di ricordare a La Russa il famoso comizio di Almirante a Firenze, il 4 giugno 1972, in cui il segretario del Msi proclamò che i giovani di destra erano «pronti allo scontro frontale con i comunisti», e ancor prima la famosa intervista al settimanale tedesco Der Spiegel, il 10 dicembre 1969, solo due giorni prima della strage di Piazza Fontana, dove il segretario missino confessò che «le organizzazioni fasciste si preparano alla guerra civile… tutti i mezzi sono giustificati per combattere i comunisti… misure politiche e militari non sono più distinguibili». Non c’è male come “pacificatore”.
Di diversi episodi degli anni Settanta Vincenzo La Russa fa poi letteralmente strazio. Ricostruisce l’uccisione dell’agente Antonio Marino, avvenuta a Milano il 12 aprile 1973, nel corso di scontri provocati da una manifestazione missina, inventandosi di sana pianta la dinamica dei fatti. Non fu, infatti, mai lanciata una bomba contro alcuna camionetta di polizia, ma ben tre per colpire i cordoni degli agenti. Il poliziotto Marino morì perché raggiunto in pieno petto da una di queste e non perché esplose il tascapane con i candelotti lacrimogeni, che per altro non portava. Sarebbe bastato a La Russa leggere seppur sommariamente gli atti giudiziari o più semplicemente chiedere informazioni ai suoi fratelli, Ignazio e Romano, presenti alla manifestazione. Romano fu anche fermato dopo gli incidenti.
Sempre secondo l’autore, e qui siamo davvero oltre ogni limite, nell’aprile del 1975 «il giovane milanese Claudio Varalli» sarebbe stato addirittura «ucciso da estremisti di sinistra» (pag. 173, leggere per credere). Si potrebbe pensare a uno svarione, dato che Varalli militava nel Movimento lavoratori per il socialismo e che per il delitto fu condannato Antonio Braggion di Avanguardia nazionale. Ma solo poche righe più sotto troviamo scritto che nello stesso anno, a giugno, «Alceste Campanile, militante di Lotta Continua, viene trovato ucciso (si scoprirà dopo che il delitto era maturato nell’ambiente dell’estrema sinistra)».
Vale la pena di ricordare che l’assassino confesso di Alceste Campanile si chiama Paolo Bellini, ex militante di Avanguardia nazionale poi finito come killer al servizio di grandi organizzazioni criminali. Un caso ormai risolto da diversi anni. Noi non sappiamo da dove Vincenzo La Russa tragga le proprie informazioni. Qui non si tratta di spulciare polverosi archivi o di impegnarsi in estenuanti e difficili inchieste. Basterebbe a volte solo leggere i giornali.
Anche relativamente alle fotografieallagate al volume va citata una perla. In una di queste, a un certo punto, si ritrae Giorgio Almirante a Roma, il 16 marzo 1968, su una scalinata dell’Università La Sapienza, circondato da giovani con bastoni. La didascalia recita: «Almirante viene aggredito da alcuni studenti». L’episodio, che Vincenzo La Russa si guarda bene dal commentare, è relativo alla spedizione di circa trecento mazzieri missini, arrivati da tutta Italia, più qualche decina di bulgari reclutati nel campo profughi di Latina, guidati proprio da Almirante e Giulio Caradonna, che tentarono di sgomberare a forza alcune facoltà occupate. Una vicenda notissima, immortalata da centinaia di fotografie e più di un filmato, che ritrassero per altro Almirante sorridente attorniato dai suoi squadristi con tanto di mazze, spranghe e catene. Lui che «non incitava alla violenza». Finì semplicemente male. Gli studenti di sinistra si difesero e il nostro fu costretto a battere in ritirata protetto dalle forze di polizia. Tra i circa 160 fascisti fermati quel giorno figureranno, tra l’altro, anche Mario Merlino e Stefano delle Chiaie.
Una biografia, in conclusione, per molti versi inservibile. Forse non l’avrebbe apprezzata neanche Giorgio Almirante. Sarebbe stato davvero difficile riconoscersi anche per lui.
di Francesco Raparelli
[da il manifesto, 31 gennaio 2009]
Ci sono alcune pagine di Nietzsche sulla «cattiva coscienza» che più di altre ci aiutano a capire la «questione Morucci», ma i giganti vanno scomodati di fronte alle cose serie e il caso dell’ex-Br (che sarà ospite del centro sociale neofascista Casa Pound) di certo non rientra tra queste. A cercare meglio, dietro la rabbia che immagino abbia colpito molti, c’è una biografia che per i movimenti, quelli di massa, ha avuto poco amore. Meglio i western.
Sono passati solo pochi giorni, dal divieto di Frati, pochi giorni da una questione che ha visto protagonista la Sapienza, Morucci e, suo malgrado l’Onda. Durante le feste natalizie, infatti, un docente di Scienze umanistiche ha deciso di invitare Morucci per parlare degli anni di piombo. Puntuale la replica del Rettore: l’iniziativa è stata vietata e in compenso Rettore e sindaco Alemanno hanno pensato bene di attaccare l’Onda («i trecento criminali»), di riproporre la questione del Papa e della libertà di parola. Il professore si difese chiamando in causa il consiglio poliziesco, Morucci fece finta di nulla, l’Onda rispose al meglio (era il 5 gennaio!). Oggi la musica cambia, a parlare è Iannone che presenta l’iniziativa di Casa Pound (di cui è portavoce), «oasi» del libero pensiero e della democrazia. Casa Pound e Morucci, infatti, sono accomunati da un problema comune e dallo stesso desiderio: interdetti dall’università, il problema; farla finita con «l’antifascismo ideologico», il desiderio. Sul desiderio Casa Pound ha già lavorato sodo in questi anni, con tutti gli strumenti tecnici a sua disposizione: per chi ha la memoria corta basta ricordare le cinte e i bastoni tricolore di Piazza Navona (29 ottobre 2008), quelli che colpivano con forza (altro che ideologia!) studenti e studentesse di non più di sedici, diciassette anni. Parlano le foto, parlano le ricostruzioni più oneste (Curzio Maltese primo fra tutti), parla la verità.
Ma a Morucci interessa poco la verità, tanto che – ci racconta Iannone sul Corriere della sera di ieri ‒ dopo i fatti del 29 ottobre ha chiamato proprio i giovani di Blocco studentesco e non certo gli studenti dell’Onda per esprimere la sua solidarietà. Sulla Stampa dello scorso maggio stessa cosa: nessuna difesa per gli studenti aggrediti in via De Lollis dai neofascisti di Forza nuova, piuttosto una condanna bipartisan. Verrebbe da diventare scortesi, fortunatamente la vita e la storia di Morucci non parlano più a nessuno. Ci spiace per le sue ambizioni pretesche (Ratzinger è interessato all’acquisto?) e per quanto riguarda i movimenti appartengono ad un’altra era, un’era in cui l’antifascismo è un fatto di realtà, non una patologia da nostalgici.
l'assalto a Palazzo d'Accursio da: Luigi Fabbri, La controrivoluzione preventiva
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I fatti del 21 novembre a Bologna precipitarono questo processo di reazione.
Che qualcosa di grave si preparasse lo si sentiva nell’aria. Già durante i comizi elettorali si capiva che l’intransigenza formale ed elettorale dei socialisti a tendenza estremista avrebbe vinto, ma inutilmente. Il programma annunciato a Bologna era stravagante e impossibile, dato l’ambiente e l’atmosfera già mutati in tutta Italia; era un vero castello sulla sabbia. Inoltre la borghesia bolognese, non più timorosa dei socialisti e degli operai, non credeva più. Da più d’un mese non si facevano scioperi, e qualcuno tentato era apparso stentato e senza effetto. Durante la campagna elettorale un oratore radicale (poi divenuto fascista) mi assicurano che abbia in un comizio senza ambagi dichiarato, che se i bolscevichi avessero conquistato il comune, non si sarebbe permesso alla loro amministrazione di funzionare.
Dopo l’esito delle elezioni, che avevan dato una strabocchevole maggioranza ai socialisti estremi, questi erano assai preoccupati per la cerimonia dell’insediamento. Rinunciarvi, rinunciare all’esposizione della loro rossa bandiera, al loro comizio di vittoria oggi sembrerebbe facile; allora sarebbe parsa vigliaccheria, e sarebbe stata agli occhi di tutti la prima rinuncia al pomposo programma nel cui nome s’era vinto. Ma proprio questo volevano i fascisti: cacciare dalle piazze la folla operaia, far abbassare in segno di resa la bandiera rossa. Come uscirne?
Alcuni socialisti, che allora tenevano il mestolo in mano, scesero a indecorosi patteggiamento con la questura, e forse promisero più di ciò che i loro seguaci avrebbero mantenuto; ma parve alla vigilia del 21 novembre, giorno convenuto per l’insediamento, che le cose potessero passar lisce, quando fu noto in questura e affisso alle cantonate un manifestino a macchina, in cui i fascisti annunciavano battaglia per l’indomani, avvertendo le donne e i ragazzi di star lontani dal centro e dalle vie principali. I socialisti ormai non potevan più ritirarsi decentemente; è naturale che i più bollenti (e furon purtroppo anche i più scriteriati, stando almeno ai risultati) pensassero ad improvvisare una qualche difesa contro gli annunciati ed eventuali assalti. Ormai solo un miracolo poteva evitare la tragedia. Il miracolo non avvenne; al contrario!
-->21 novembre 2008: giornata "agitata" a Bologna: uno sciopero fortemente partecipato dei lavoratori Atc, il centro città bloccato, l'entrata degli scioperanti Comune, il parapiglia con i vigili e - dulcis in fundo - l'irruzione a Palazzo d'Accursio della polizia contro l' "invasione" degli ospiti non invitati [vedi: (gli scioperanti) Dire, Rdb Cub, il pane e le rose ]. Su questo sfondo animato, c'è un particolare che ha attirato la mia attenzione e mi ha condotto a decidermi di rieditare qualche pagina di un bel libro di Luigi Fabbri.In quella calda giornata di novembre in consiglio comunale, dai banchi del centrodestra è partito - per voce di tal Patrizio Gattuso (PdL) - un sonoro "basta coi comunisti!" che ha suscitato la comprensibilissima indignazione ed ira del consigliere di sinistra Valerio Monteventi.
Perché assegno tanta importanza a un enunciato stolido e banale - originale, con i tempi che corrono, come un ennesimo duplicato: monotono, ricorrente e inflazionato? E' che per enunciare provocatoriamente il "suo" banale e stolido slogan nella sala del Consiglio comunale di Bologna, il signor Gattuso ha scelto proprio il giorno sbagliato o, forse, nella logica sua e del suo gruppo, il giorno "giusto".
Sta di fatto che la data del 21 novembre ha, per il consiglio comunale di Bologna, un'importanza storica: 88 anni fa, i fascisti, dopo aver anticipatamente minacciato pubblicamente guerra nel caso in cui la bandiera rossa fosse stata innalzata o esibita in occasione della cerimonia d'insediamento dell'amministrazione socialista uscita dalla vittoria alle elezioni comunali, il 21 novembre 1920 passarono all'atto, aprendo il fuoco contro Palazzo d'Accursio e sulla folla, provocando una prevedibile e premeditata carneficina.
Una storia che, proprio il nel giorno in cui il consigliere Gattuso ha emesso il "suo" basta coi comunisti! (che, come come sappiamo, avendo avuto energici - ma che dico: energumenici! - precursori, rasenta il citazionismo) è stata ricordata dall'ANPI ANPPIAcon un incontro pubblico e commemorata con la deposizione di corone: al sacrario dei Caduti Partigiani, alla lapide che ricorda il giovane Anteo Zamboni, trucidato dai fascisti, e alla lapide che - nel cortile di Palazzo d'Accursio, ricorda, appunto, l'assalto fascista del 21 novembre e le vittime che ha provocato.
Di qui, al punto d'intersezione tra la storia e l'attualità, la mia scelta di riproporre alcune pagine del lucido e oggi, credo, più che mai illuminante libro di Luigi Fabbri.
Bologna culla del fascismo
I.
Autunno 1920
da Luigi Fabbri, La controrivoluzione preventiva [*]
Ma fino ad un certo momento il fascismo sembrò relativamente indipendente finché i fascisti eran pochi e i socialisti eran potenti ed in auge. Aveva il suo nucleo centrale più forte a Milano con ramificazioni un po’ dovunque, ma non era preponderante in alcun luogo, – e tanto meno lo era a Bologna; dove invece tutto ad un tratto divenne forte, tanto che proprio da qui, come forza politica coercitiva e violenta cominciò ad estendersi in tutta Italia. Ebbe ragione non so più qual fascista a scrivere, in una polemica, che se è vero che il fascismo è nato a Milano la sua culla è stata Bologna.
* * *
A Bologna il fascismo è diventato forte prima che altrove; sia perché il caso e gli errori dei socialisti più li aiutarono, sia perché i fascisti bolognesi furono primi; malgrado il linguaggio sbarazzino e pseudo-sovversivo, del loro giornale, a stringere rapporti di collaborazione ed aiuto con quella forza conservatrice ch’è la polizia, mettendo da parte in pratica ogni fisima d’opposizione politica.
Nei primi mesi, dall’ottobre in poi, il fascismo ebbe nella polizia bolognese l’alleata più evidente, anche ufficialmente, godendo della protezione aperta del questore e di quella appena larvata del Prefetto [1]. I commissari di P. S. se n’andavano pel Corso sotto braccio coi capi fascisti, guardie regie e fascisti se n’andavano a spasso insieme,; e in Questura i fascisti eran come a casa loro, e questurini e guardie regie stavano alla sede del Fascio come in un loro corpo di guardia. Mi è stato assicurato che anche pel rifornimento e trasporto delle sua armi, il fascio più d’una volta s’è servito dei camions della questura e militari.
Dell’autorità militare vera e propria non parlo. Essa è assai più guardinga; ma è noto che quasi tutti gli ufficiali sono fascisti e che lo Stato Maggiore dell’esercito non è estraneo al fascismo.
[…]
Ma, per tornare a Bologna come culla del fascismo, dirò che tutti questi coefficienti non sarebbero valsi a far crollare le posizioni socialiste ed a formare la potenza fascista senza alcune circostanze fortuite e soprattutto senza certi errori più gravi dei socialisti. Le scaramucce nella piazza di Bologna del 20 settembre 1920 e lo stesso conflitto sanguinoso del 14 ottobre, quando una folla andò a fare una dimostrazione alla carceri per solidarietà con le vittime politiche, vicino alla caserma delle guardie regie [2] non erano riusciti a scuotere la preponderante forza socialista. Lo sbandamento di questa cominciò la notte del 4 novembre, in cui per pochi fascisti fattisi all’uscio e nell’atrio della Camera Confederale del lavoro in atto aggressivo e minaccioso di giovani armati, l’allora segretario on. Bucco, che pure era circondati da un certo numero non trovò di meglio che telefonare per soccorso alla questura filofascista! La polizia venne, ed in numero, ma per arrestare i socialisti e far fare una figura ancora più ridicola al deputato Bucco… La fortezza era ormai smantellata: i fascisti vi avevano in certo modo libero ingresso.
Se quella sera i socialisti fossero stati un po’ più prudenti – mi dicono che a mezzanotte circa il portone della Camera del Lavoro era ancora aperto; senza alcuna ragione, quasi per invitare il nemico ad entrare – e nel tempo stesso, se realmente assaliti, si fossero energicamente difesi con la forza che avevano e senza esclusione di colpi, forse la Camera del lavoro di Bologna sarebbe stata invasa allora invece che tre mesi dopo, ma probabilmente sarebbe stata la prima e l’ultima in Italia. Essa sarebbe stata invasa non dai fascisti ma dalla forza pubblica; la quale, avendo lei presa l’iniziativa, avrebbe tolto al governo la maschera d’una inesistente neutralità, resa impossibile l’indegna commedia recitata poi, tolta al fascismo la direzione delle operazioni antisocialiste. Se reazione fosse venuta, avrebbe preso un carattere statale, e la lotta avrebbe conservato il suo carattere tradizionale di conflitto fra sudditi e governo, senza deviare verso la insensata, feroce ed inutile guerriglia di fazioni che seguì.
Ma inutile far delle ipotesi su dei se retrospettivi. Il fatto sta, che quell’episodio penoso e ridicolo insieme fece capire alle autorità politiche ed ai fascisti che tutta la vantata preparazione rivoluzionaria, di cui Bucco ed atri menavan vanto, era un bluff, e che l’esercito socialista, già in ritirata sul terreno economico e politico, non solo aveva smessa l’offensiva ma non sapeva neppure profittare della forza del numero, di cui disponeva indiscutibilmente, per difendersi con la propria azione diretta. Se si fosse subito resistito con l’energia e la violenza necessarie, e la necessaria concordia, ai primi assalti fascisti, il fascismo sarebbe morto sul nascere. Invece, avendo il proletariato preferito riparare dietro la legalità, anche questa debole trincea fu in più punti demolita dal nemico, giacché – visto che i socialisti risultavano i più deboli – polizia e forza pubblica non ebbero più alcun scrupolo a palesarsi alla luce del sole alleati del fascismo; e l’offensiva combinata delle forze illegali e legali, cui si aggiungeva poco più tardi anche la magistratura, incominciò.
Né valse ad arrestarla l’esito delle elezioni amministrative della fine d’ottobre e del principio di novembre 1920, favorevoli i socialisti che vi guadagnarono circa 3000 comuni. Anzi questo fu una spinta di più alla classi dirigenti per incoraggiare il fascismo summa via dell’illegalità. Capitalismo e governanti – dei governanti, non questo o quel ministro personalmente, certo l’alta burocrazia, i prefetti, i questori, ecc. – prima riluttanti, capirono che il fascismo era una buona arma e gli assicurarono subito tutti i propri aiuti, in danaro e armi, chiudendo gli occhi sugli atti illegali, e dov’era necessario assicurandogli le spalle con l’intervento della forza armate che, col pretesto di rimetter l’ordine, correva a dar mano ai fascisti dove questi invece di darle cominciavano a prenderle.
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NOTE:
[*] Luigi Fabbri, La controrivoluzione preventiva (riflessioni sul fascismo), Collana "V. Vallera", Pistoia, 1975 [prima edizione 1922 - Editore Licinio Cappelli],
[1] Tale cooperazione dura tutt'ora un po' dappertutto , ma viene alcun poco dissimulata per ragioni di governo. Alla Vecchia Camera del lavoro di Bologna le guardie regie mandate a proteggerla, e ricoverate in un salone della stessa in una notte di pioggia scrivevano nella scorsa primavera sui muri, fra tante minacce contro i socialisti e gli anarchici: "Presto il Fascio e la Regia bruceranno anche questa Camera"
[2] Si è parlato a tal proposito, e le guardie regie vi credettero sul serio, di un vero e proprio assalto popolare e rivoluzionario alla Caserma. In processo questa diceria non fu confermata da alcuna prova; ed infatti nessuna intenzione del genere aveva la folla. Il conflitto avvenne casualmente nei dintorni; e chi si è recato da quelle parti una volta sola capisce quanto impossibile e pazzesco sarebbe stato un proposito simile di assalto, oltre che inutile e sproporzionato ad ogni scopo.