mercoledì 6 ottobre 2010

Friedrich Nietzsche - Difetto ereditario dei filosofi



Tutti i filosofi hanno il comune difetto di partire dall’uomo attuale e di credere di giungere allo scopo attraverso un’analisi dello stesso. Inavvertitamente «l’Uomo» si configura alla loro mente come una æterna veritatis, come un’identità fissa in ogni vortice, come una misura certa delle cose. Ma tutto ciò che il filosofo enuncia sull’uomo, non è in fondo altro che una testimonianza sull’uomo di un periodo molto limitato. La mancanza di senso storico è il difetto ereditario di tutti i filosofi; molti addirittura pendono di punto in bianco la più recente configurazione dell’uomo, quale essa si è venuta delineando sotto la pressione di determinate religioni, anzi di determinati avvenimenti politici, come la forma fissa dalla quale si debba partire. Non vogliono capire che l’uomo è divenuto e che anche la facoltà di conoscere è divenuta; mentre alcuni di loro si fanno addirittura fabbricare, da questa facoltà di conoscere, l’intero mondo. Ora tutto l’essenziale dell’evoluzione umana è avvenuto in tempi remotissimi, assai prima di quei quattromila anni che all’incirca conosciamo e durante i quali l’uomo non può essere gran che cambiato. Ma nell’uomo attuale il filosofo vede «istinti» suppone che essi appartengano ai fatti immutabili dell’uomo e possano quindi fornire una chiave alla comprensione del mondo in generale: tutta la teologia è basata sul fatto che dell’uomo degli ultimi quattro millenni si parla come di un uomo eterno, al quale tendono naturalmente tutte le cose del mondo. Ma tutto è divenuto; non ci sono fatti eterni: così come non ci sono verità assolute. Per conseguenza il filosofare storico è da ora in poi necessario, e con esso la virtù della modestia.

Friedrich Nietzsche, Menschliches, AllzumenschlichesUmano troppo umano, Adelphi, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, vol. I, parte prima, § 2

venerdì 1 ottobre 2010

Alberto Burgio: La radice profonda del razzismo in Europa


Alberto Burgio
La radice profonda del razzismo in Europa
il manifesto, 1 ottobre 2010
È una buona cosa che, sullo sfondo della persecuzione razzista dei rom in Francia, si sia aperta una riflessione teorica sul razzismo. È tutt'altro che scontato che se ne sappia abbastanza (su ciò che lo produce e lo alimenta e, prima ancora, su ciò che il razzismo è) per reagire all'altezza dei suoi devastanti effetti attuali e potenziali. Gli interventi di Étienne Balibar e Jacques Rancière sul manifesto hanno fatto luce su aspetti rilevanti. Il primo si è incentrato sul nesso tra cittadinanza ed esclusione, mettendo in risalto come esso operi anche nel quadro dell'Europa comunitaria; il secondo ha insistito sulla natura artificiale (non spontanea) di un razzismo frutto dell'iniziativa di «imprenditori politici».

Entrambi condividono una prospettiva politico-centrica e meriterebbero un approfondimento: in particolare Rancière sembra sbarazzarsi troppo precipitosamente della scaturigine sociale della paura (e del risentimento) che l'intervento politico alimenta e incanala contro gruppi umani rappresentati come pericolosi. Ma lo spazio è tiranno e, piuttosto che dedicarlo a un confronto interno, conviene utilizzarlo per ampliare lo spettro della discussione, prospettando un'ipotesi differente e complementare, incentrata sulle dinamiche sociali responsabili della produzione di stereotipi inferiorizzanti: un'ipotesi per dir così socio-centrica.

Quando parliamo di razzismo siamo soliti pensare ai margini della società o a popolazioni straniere. Il razzismo appare al senso comune una faccenda riguardante gli «altri», i «diversi» (o i «devianti»), insomma non-persone abitanti la periferia (fisica o morale) delle nostre metropoli. Naturalmente questo modo di pensare ha le sue buone ragioni. Oggi le «razze» (poco importa se rinominate con termini meno impresentabili come «etnie» o «culture») sono in primo luogo i migranti, variamente considerati invasori, nemici, delinquenti naturali, terroristi potenziali, barbari e così via connotando. Oppure sono i rom (e i sinti), cioè gli «zingari». O ancora gli ebrei (checché se ne dica, resiste il pregiudizio che li configura come una «razza»). In una parola, minoranze a vario titolo percepite come estranee al corpo (sano) della collettività. Come eccezioni (patologiche) rispetto alla norma e alla normalità. Tuttavia, se non vogliamo rimanere prigionieri del razzismo, non possiamo limitarci a sfogliare il catalogo dei gruppi umani trasformati in «razze», dobbiamo anche chiederci a che scopo il razzismo li «razzizza».

Con ogni probabilità, l'obiettivo è legittimare trattamenti discriminatori e persecutori che possono arrivare sino allo sterminio. La violenza che difficilmente la società accetterebbe di subire, appare tollerabile (motivata e giusta) se colpisce un gruppo raffigurato come portatore «per natura» di uno stigma morale. Quella violenza è percepita come legittima difesa poiché è messa in relazione alle caratteristiche perverse attribuite a quel gruppo. In una parola, il razzismo è la fabbrica delle identità negative, un operoso cantiere antropologico che, producendo stereotipi (cioè letteralmente creando le «razze»), sforna ininterrottamente argomenti utili a giustificare la violenza che una parte della società scarica su altre componenti più deboli e a vario titolo subordinate.

Se le cose stanno così, lo sguardo dovrebbe disinteressarsi del dito (gli argomenti specifici - tutti, indistintamente, pretestuosi - addotti dal razzista di turno) e rivolgersi alla luna che esso indica, cioè alla radice profonda di questa violenza. Dovrebbe cercare la fonte «strutturale» dell'insaziabile fame di discriminazione che ossessiona la nostra società, poiché soltanto così è possibile capire perché da due o tre secoli a questa parte l'occidente capitalistico non può fare a meno di inventare «razze» inferiori, parti infette dei corpi sociali che meritano di essere cauterizzate o addirittura amputate. E soltanto adottando questa prospettiva si può capire perché il razzismo torna sistematicamente in auge nelle fasi acute di crisi economica e sociale, quando le dinamiche riproduttive esasperano la propria connotazione gerarchica, mobilitando un surplus di violenza e di brutalità.

Il punto è che la «razza inferiore» (quella di chi - stando alle mitologie razziste - ruba o stupra per incoercibili propensioni «naturali» o è «per natura» refrattario alla civilizzazione) incarna e mette in scena non soltanto le ragioni della propria discriminazione, ma anche, soprattutto, la legittimità del discriminare come meccanismo generale della relazione sociale. Certo, la violenza che si scatena contro i rom cacciati via da una palude infestata dai topi all'altra, evitati come appestati sugli autobus e sui treni e finalmente deportati oltre confine nel nome della sicurezza e sanità del corpo sociale, è diversa da quella che gli italiani (o i francesi) doc - quanti tra loro lavorano sotto padrone o nemmeno riescono a trovare un lavoro - sono costretti a subire. Questi ultimi sono (ancora) protetti da qualche diritto. Ma un denominatore comune c'è, e consiste nel dipendere dall'arbitrio altrui. Per questo è importante che assistano alla cacciata dei rom, spettacolo estremamente istruttivo che rammenta (e rappresenta come una condizione inemendabile) la loro radicale subalternità.

Che cosa imparano, a guardar bene, da questo spettacolo che colpisce ai margini della società ma si rivolge al grosso della popolazione, alle «genti meccaniche» cui non è toccata la buona sorte di illustri natali? Apprendono la terribile lezione della modernità: la loro condizione di homines œconomici, di individui soli, costretti a combattere, a proprio rischio e pericolo, la guerra quotidiana degli egoismi individuali. Ciò che il razzismo si incarica di portare a termine mettendo in scena il destino degli ultimi è, in altre parole, l'atomismo sociale e lo sradicamento della solidarietà, fattore antimoderno per antonomasia, incompatibile con lo scatenamento degli «spiriti animali» del capitalismo.

In questo senso - per quanto paradossale ciò possa apparire - se vogliamo capire quale ruolo il razzismo giochi sulla scena europea (e perché esso svolga ancora una funzione così importante), è indispensabile leggere correttamente vicende come quelle di Pomigliano e di Melfi, nelle quali il padrone dichiara in modo esplicito di voler negare qualsiasi diritto a chi per sopravvivere è costretto a vendere il proprio tempo di vita. Gli operai debbono tornare ad essere cose, levarsi dalla testa di essere persone e, soprattutto, membri di un soggetto collettivo. E affinché intendano la musica, niente è più utile del mostrare loro che fine fanno quelli con i quali la buona società si arrabbia per davvero.

Ma se la sorte riservata ai margini serve a educare il centro, allora il problema è la reazione del centro. Non si tratta di stabilire se il razzismo sia o meno spontaneo, certo che non lo è. Il punto è che il razzismo sarà senso comune, benché inculcato dall'alto, finché i corpi sociali assimileranno docilmente la lezione che esso impartisce: la fondatezza delle gerarchie sociali, la legittimità della violenza che esse decretano, la moralità della riduzione a cose dei subordinati. Oggi, esattamente come nel secolo scorso, il problema chiama dunque in causa proprio gli «uomini comuni», spesso complici, più o meno inconsapevoli, della violenza razzista.

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humor nero: la grande scelta finale...


Il party di compleanno di Silvio: barzellette sugli ebrei...




.... Infine, arriva la grande scelta finale, la barzelletta sugli ebrei: «Un ebreo racconta a un suo familiare: “Ai tempi dei campi di sterminio un nostro connazionale venne da noi e chiese alla nostra famiglia di nasconderlo, e noi lo accogliemmo. Lo mettemmo in cantina, lo abbiamo curato, però gli abbiamo fatto pagare una diaria”. “E quanto era, in moneta attuale?” “Tremila euro”. “Al mese?” “No al giorno” “Ah, però” “Bè, siamo ebrei, e poi ha pagato perché aveva i soldi, quindi lasciami in pace” “Scusa un’ultima domanda” “Tu pensi che glielo dobbiamo dire che Hitler è morto e che la guerra è finita?”».

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sabato 25 settembre 2010

Alain Badiou, Piccolo pantheon portatile



Enzo Di Mauro

Badiou, tombe a orologeria




Da Derrida a Deleuze, da Foucault ad Althusser, da Lacan a Canguilhem e Cavaillès, queste quattordici orazioni funebri di Alain Badiou si propongono quasi come un'intifada del pensiero in nome e per conto degli ultimi materialisti.



Come in ogni altro libro di Alain Badiou, anche nel Piccolo pantheon portatile (Il Melangolo, a cura di Tommaso Ariemma, traduzione di Luisa Bosi, pp. 142, € 15, 00) – un titolo che parrebbe lezioso se non venisse inteso in maniera letterale e trasparente – si mantengono bene in vista i segni di una indomabile passione per il reale, qui semmai illuminati da una temperatura emotiva altissima. Virilmente introiettato il lutto, l'acuto sentimento di perdita che ne anima le pagine e ne determina l'andatura si trasforma d'un sol colpo in gesto militante, in lampo di pensiero, in netto e risentito starsene nel campo aspro e seminato a pietre, chiuso a ogni orizzonte di conciliazione, precluso a ogni patto con chiunque si erga a campione della presunta «innocenza » (in verità un'impostura criminale) delle democrazie parlamentari e dei regimi liberali. Poiché, quella del filosofo nato a Rabat settantatré anni fa, è qui un'intifada in nome e per conto dei maestri, degli interlocutori, dei contraddittori e dei compagni di strada che se ne sono andati via per sempre, lasciando vuoto il paesaggio combattente dopo quell'estremo lembo di secolo – diciamo, all'incirca, l'arco di tempo che andò dal 1960 al 1980 – in cui s'accesero gli ultimi fuochi del materialismo e, in senso lato, del pensiero critico e radicale più irriducibile.

Resta quello, per Badiou, un lascito lanciato nel futuro, sebbene un trentennio di restaurazione lo abbia come posto in sonno, in attesa di attivo riutilizzo. Ebbene: se soltanto il sommo Bossuet non avesse messo il suo stile al servizio del potere e dei potenti, lo zelo politico all'autore gli avrebbe consentito senza rimorsi di intitolare il suo libro, assai semplicemente, Orazioni funebri. Ma resta quello il modello, quella l'intenzione per i quattordici epicedi dedicati ad altrettante figure centrali della filosofia francese. È un libro a suo modo straordinario, di quelli che solo a un sopravvissuto è dato di scrivere o di ordinare.

Si tratta di articoli a volte molto brevi, in altri casi di testi (conferenze o saggi) più esaustivi e distesi – in entrambi i casi composti quasi sempre a caldo, sotto l'effetto della commozione, dell'improvvisa mancanza. Non si tratta tanto di frequentare la morte da vicino («se la filosofia ha un qualche compito, è quello di allontanare il calice delle passioni tristi, di insegnarci che la pietà non è un sentimento onesto, né il lamento è la ragione di aver ragione, né il vittimismo è ciò a partire da cui articolare il nostro pensiero”), quanto piuttosto di rendere onore a ciò che resta dei processi di verità così raggrumati nel percorso pensante di quelle vite. Di ognuna di esse Badiou coglie il punto nevralgico, gli inciampi, le fratture, l'ambito del discorso più prossimo e prezioso al tempo a venire.Ma pure a muoverlo agisce un sentimento arioso e verticale, come egli annota nel concludere l'introduzione: «Fui legato ad alcuni da amicizia, con altri ebbi qualche discussione. Ma sono felice di dire qui, in barba agli intrugli che vogliono farci ingoiare oggi, che questi quattordici filosofi scomparsi li amo tutti, ebbene sì. Sì, li amo».

Quanto vi è di avventuroso in tale piegatura intima e sentimentale appare facile intuire. Letture, discussioni, apprensioni, battaglie – tutto confluisce nella formazione di un intellettuale come Badiou, così stretto al respiro del suo tempo e al tratto di Novecento che gli è toccato in sorte di attraversare e che, al finire di esso, egli ha avvertito l'urgenza e la necessità di indagarne il significato in una serie di seminari svolti al Collège international de philosophie negli anni tra il 1998 e il 2001(Il secolo è stato poi pubblicato da Feltrinelli nel 2006). Già lì, nello spazio aperto del suo Novecento, oltre agli omaggi, commoventi per il lettore, a Osip Mandel'štam, Jean Genet, Paul Celan, Pessoa, Brecht , Malevic, troviamo i maestri e i compagni di viaggio a lui più prossimi, molti dei quali in teoria dolente formano la costellazione resistente del suo piccolo pantheon.

Allora eccola la compagine dei senza paura: Jacques Lacan (1901-1981), Georges Canguilhem (1904-1995) e Jean Cavaillès (1903-1944), Jean Paul Sartre (1905-1980), Jean Hyppolite (1907-1968), Louis Althusser (1918-1990), Jean François Lyotard (1924-1998), Gilles Deleuze (1925-1995), Michel Foucault (1926-1984), Jacques Derrida (1930-2004), Jean Borreil (1938-1992), Philippe Lacoue-Labarthe (1940-2007), Gilles Châtelet (1945-1999) e Françoise Proust (1947-1998). È questa la linea di una ricerca materialistica, eretica quanto eterogenea, che ha investito o almeno sforato di sé la pratica dell'agire politico che più ha coinvolto e interessato Badiou, e in proposito basterà leggere, senza essere particolarmente né specialmente votati alla filosofia, l'opera sua per ritrovarne ovunque sparsi i nomi e le idee. Tra le cose notevoli, qui – dove, tra l'altro, quando è il caso, non si trascura il ritratto e persino l'aneddotica più curiosa – spicca ad esempio la rivendicazione tutta in positivo dell'ultimo Lacan, il più criticato dalla vulgata giornalistica, nella cui estrema pratica clinica invece, e proprio a partire dal cruciale assioma secondo il quale non bisogna cedere di un solo millimetro rispetto al proprio desiderio, si farà più stringente l'indagine intorno al rapporto col reale e alla dialettica del soggetto («per un marxista francese contemporaneo, Lacan ha la stessa funzione che aveva Hegel per un rivoluzionario tedesco del 1840»).

Ma poi per ognuno vi è un tratto che si prova a definirlo, a riassumerlo, a storicizzarlo, a glorificarlo in uno stemma imperituro. Sartre, a cui il diciottenne Badiou deve intanto l'iniziazione «a ogni delizia filosofica», è il compagno d'azione e di idee con i suoi trent'anni «di puntuale militanza nella rivolta, di equilibrata metamorfosi di posizioni, di colpi bene assestati» e il cui peso nella storia letteraria può paragonarsi a quello di Voltaire, di Rousseau e di Victor Hugo, «scrittori, questi, che non cedono». O la «singolarità esistenziale » di Hyppolite, «traghettatore » di Hegel in terra di Francia (mirabile, anche per i tedeschi, la sua traduzione della Fenomenologia della spirito), e poi «organizzatore, nel senso di colui che recluta, che sa porre le domande migliori e stringere alleanze anche con persone molto lontane da lui», lettore insonne, fumatore imbattibile fino all'autocombustione. E, ancora, Althusser, per il quale «le questioni del pensiero provengono dallo scontro, dalla linea del fronte, dai rapporti di forza. Il chiodo della rue d'Ulm mal si accordava sia con il tempo della meditazione sia con quello del ritiro. Lì non esisteva che il tempo dell'intervento, circoscritto, agitato, come precipitato verso una fine ineluttabile. L'altro tempo, infinito, era quello del dolore. Purtroppo».

Ma ciò che forse indica il senso vero e l'anima del pantheon di Badiou è la lettura sovrapposta o a incastro di Canguilhem e di Cavaillès, il cui perimetro viene circoscritto nella breve, intensissima monografia del primo dedicata al secondo e intitolata Vita e morte di Jean Cavaillès, pubblicata nel 1976. Quella vita e quella morte camminano tenendosi per mano. Il giovane filosofo e matematico che militò nella Resistenza e che venne torturato e assassinato dai nazisti ad Arras diventa l'emblema, limpido e insieme misterioso, di un punto di contatto, comunque invincibile, che possiamo chiamare etica dell'azione. Appunto: tombe risolute e temerarie quelle che ci consegna Badiou. Imbottite di esplosivo.

da Alias n. 38 del 25 settembre 2010


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Petit panthéon portatif

Ceux qui, aux alentours de 1965, avaient entre vingt et trente ans, ont alors rencontré un nombre exceptionnel de maîtres dans le champ de la philosophie. Les anciens comme Sartre, Lacan ou Canguilhem, étaient encore en pleine activité ; d'un peu plus jeunes, comme Althusser, déployaient leur œuvre, et toute une génération, les Deleuze, Foucault, Derrida, entrait dans l'arène.
Tous ces maîtres, aujourd'hui, sont morts. La scène philosophique, largement peuplée d'imposteurs, est autrement composée, ne tirant sa consistance que de ceux, jeunes et moins jeunes, qui, les formulant à neuf dans leur propre langue, savent être fidèles aux questions qui nous animèrent il y a quarante ans. Je crois juste de rassembler les analyses et hommages qu'au long des années, quand ils disparaissaient, j'ai consacrés à ceux à qui je dois la signification, toujours inhumaine autant que noble et combattante, du mot «philosophie». Je n'ai pas toujours eu avec ces contemporains capitaux des rapports simples et sereins : la philosophie, comme le dit Kant, est un champ de bataille. Mais, considérant aujourd'hui les innombrables «philosophes» médiatiques, je puis dire que j'aime tous ceux dont je parle dans ce livre. Oui, je les aime tous.

martedì 21 settembre 2010

Italo Calvino: «Da noi, niente va perduto ...» [da Militant]

Venticinque anni fa moriva Italo Calvino [Santiago de la Vegas, 15 settembre 1923 - Siena, 19 settembre 1985] uno dei più grandi scrittori italiani del 900. Recentemente ci siamo riletti Il sentiero dei nidi di ragno, il suo bellissimo romanzo sulla lotta partigiana vista attraverso gli occhi di Pin, un ragazzino che quasi per caso (o forse no) si trova a militare dalla parte giusta, dalla parte della storia. Ne riproponiamo un passo ...

Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qui si risolve qualcosa, là si ribadisce la catena. Quel peso di male che grava sugli uomini del Dritto, quel peso che grava su tutti noi, su me, su te, quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta ad uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto. ma allora c’è la storia.C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur senza saperlo, noi per redimercene, loro per rimanerne schiavi. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta al riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.