Alberto Burgio
La radice profonda del razzismo in Europa
il manifesto, 1 ottobre 2010
È una buona cosa che, sullo sfondo della persecuzione razzista dei rom in Francia, si sia aperta una riflessione teorica sul razzismo. È tutt'altro che scontato che se ne sappia abbastanza (su ciò che lo produce e lo alimenta e, prima ancora, su ciò che il razzismo è) per reagire all'altezza dei suoi devastanti effetti attuali e potenziali. Gli interventi di Étienne Balibar e Jacques Rancière sul manifesto hanno fatto luce su aspetti rilevanti. Il primo si è incentrato sul nesso tra cittadinanza ed esclusione, mettendo in risalto come esso operi anche nel quadro dell'Europa comunitaria; il secondo ha insistito sulla natura artificiale (non spontanea) di un razzismo frutto dell'iniziativa di «imprenditori politici».
Entrambi condividono una prospettiva politico-centrica e meriterebbero un approfondimento: in particolare Rancière sembra sbarazzarsi troppo precipitosamente della scaturigine sociale della paura (e del risentimento) che l'intervento politico alimenta e incanala contro gruppi umani rappresentati come pericolosi. Ma lo spazio è tiranno e, piuttosto che dedicarlo a un confronto interno, conviene utilizzarlo per ampliare lo spettro della discussione, prospettando un'ipotesi differente e complementare, incentrata sulle dinamiche sociali responsabili della produzione di stereotipi inferiorizzanti: un'ipotesi per dir così socio-centrica.
Quando parliamo di razzismo siamo soliti pensare ai margini della società o a popolazioni straniere. Il razzismo appare al senso comune una faccenda riguardante gli «altri», i «diversi» (o i «devianti»), insomma non-persone abitanti la periferia (fisica o morale) delle nostre metropoli. Naturalmente questo modo di pensare ha le sue buone ragioni. Oggi le «razze» (poco importa se rinominate con termini meno impresentabili come «etnie» o «culture») sono in primo luogo i migranti, variamente considerati invasori, nemici, delinquenti naturali, terroristi potenziali, barbari e così via connotando. Oppure sono i rom (e i sinti), cioè gli «zingari». O ancora gli ebrei (checché se ne dica, resiste il pregiudizio che li configura come una «razza»). In una parola, minoranze a vario titolo percepite come estranee al corpo (sano) della collettività. Come eccezioni (patologiche) rispetto alla norma e alla normalità. Tuttavia, se non vogliamo rimanere prigionieri del razzismo, non possiamo limitarci a sfogliare il catalogo dei gruppi umani trasformati in «razze», dobbiamo anche chiederci a che scopo il razzismo li «razzizza».
Con ogni probabilità, l'obiettivo è legittimare trattamenti discriminatori e persecutori che possono arrivare sino allo sterminio. La violenza che difficilmente la società accetterebbe di subire, appare tollerabile (motivata e giusta) se colpisce un gruppo raffigurato come portatore «per natura» di uno stigma morale. Quella violenza è percepita come legittima difesa poiché è messa in relazione alle caratteristiche perverse attribuite a quel gruppo. In una parola, il razzismo è la fabbrica delle identità negative, un operoso cantiere antropologico che, producendo stereotipi (cioè letteralmente creando le «razze»), sforna ininterrottamente argomenti utili a giustificare la violenza che una parte della società scarica su altre componenti più deboli e a vario titolo subordinate.
Se le cose stanno così, lo sguardo dovrebbe disinteressarsi del dito (gli argomenti specifici - tutti, indistintamente, pretestuosi - addotti dal razzista di turno) e rivolgersi alla luna che esso indica, cioè alla radice profonda di questa violenza. Dovrebbe cercare la fonte «strutturale» dell'insaziabile fame di discriminazione che ossessiona la nostra società, poiché soltanto così è possibile capire perché da due o tre secoli a questa parte l'occidente capitalistico non può fare a meno di inventare «razze» inferiori, parti infette dei corpi sociali che meritano di essere cauterizzate o addirittura amputate. E soltanto adottando questa prospettiva si può capire perché il razzismo torna sistematicamente in auge nelle fasi acute di crisi economica e sociale, quando le dinamiche riproduttive esasperano la propria connotazione gerarchica, mobilitando un surplus di violenza e di brutalità.
Il punto è che la «razza inferiore» (quella di chi - stando alle mitologie razziste - ruba o stupra per incoercibili propensioni «naturali» o è «per natura» refrattario alla civilizzazione) incarna e mette in scena non soltanto le ragioni della propria discriminazione, ma anche, soprattutto, la legittimità del discriminare come meccanismo generale della relazione sociale. Certo, la violenza che si scatena contro i rom cacciati via da una palude infestata dai topi all'altra, evitati come appestati sugli autobus e sui treni e finalmente deportati oltre confine nel nome della sicurezza e sanità del corpo sociale, è diversa da quella che gli italiani (o i francesi) doc - quanti tra loro lavorano sotto padrone o nemmeno riescono a trovare un lavoro - sono costretti a subire. Questi ultimi sono (ancora) protetti da qualche diritto. Ma un denominatore comune c'è, e consiste nel dipendere dall'arbitrio altrui. Per questo è importante che assistano alla cacciata dei rom, spettacolo estremamente istruttivo che rammenta (e rappresenta come una condizione inemendabile) la loro radicale subalternità.
Che cosa imparano, a guardar bene, da questo spettacolo che colpisce ai margini della società ma si rivolge al grosso della popolazione, alle «genti meccaniche» cui non è toccata la buona sorte di illustri natali? Apprendono la terribile lezione della modernità: la loro condizione di homines œconomici, di individui soli, costretti a combattere, a proprio rischio e pericolo, la guerra quotidiana degli egoismi individuali. Ciò che il razzismo si incarica di portare a termine mettendo in scena il destino degli ultimi è, in altre parole, l'atomismo sociale e lo sradicamento della solidarietà, fattore antimoderno per antonomasia, incompatibile con lo scatenamento degli «spiriti animali» del capitalismo.
In questo senso - per quanto paradossale ciò possa apparire - se vogliamo capire quale ruolo il razzismo giochi sulla scena europea (e perché esso svolga ancora una funzione così importante), è indispensabile leggere correttamente vicende come quelle di Pomigliano e di Melfi, nelle quali il padrone dichiara in modo esplicito di voler negare qualsiasi diritto a chi per sopravvivere è costretto a vendere il proprio tempo di vita. Gli operai debbono tornare ad essere cose, levarsi dalla testa di essere persone e, soprattutto, membri di un soggetto collettivo. E affinché intendano la musica, niente è più utile del mostrare loro che fine fanno quelli con i quali la buona società si arrabbia per davvero.
Ma se la sorte riservata ai margini serve a educare il centro, allora il problema è la reazione del centro. Non si tratta di stabilire se il razzismo sia o meno spontaneo, certo che non lo è. Il punto è che il razzismo sarà senso comune, benché inculcato dall'alto, finché i corpi sociali assimileranno docilmente la lezione che esso impartisce: la fondatezza delle gerarchie sociali, la legittimità della violenza che esse decretano, la moralità della riduzione a cose dei subordinati. Oggi, esattamente come nel secolo scorso, il problema chiama dunque in causa proprio gli «uomini comuni», spesso complici, più o meno inconsapevoli, della violenza razzista.
Entrambi condividono una prospettiva politico-centrica e meriterebbero un approfondimento: in particolare Rancière sembra sbarazzarsi troppo precipitosamente della scaturigine sociale della paura (e del risentimento) che l'intervento politico alimenta e incanala contro gruppi umani rappresentati come pericolosi. Ma lo spazio è tiranno e, piuttosto che dedicarlo a un confronto interno, conviene utilizzarlo per ampliare lo spettro della discussione, prospettando un'ipotesi differente e complementare, incentrata sulle dinamiche sociali responsabili della produzione di stereotipi inferiorizzanti: un'ipotesi per dir così socio-centrica.
Quando parliamo di razzismo siamo soliti pensare ai margini della società o a popolazioni straniere. Il razzismo appare al senso comune una faccenda riguardante gli «altri», i «diversi» (o i «devianti»), insomma non-persone abitanti la periferia (fisica o morale) delle nostre metropoli. Naturalmente questo modo di pensare ha le sue buone ragioni. Oggi le «razze» (poco importa se rinominate con termini meno impresentabili come «etnie» o «culture») sono in primo luogo i migranti, variamente considerati invasori, nemici, delinquenti naturali, terroristi potenziali, barbari e così via connotando. Oppure sono i rom (e i sinti), cioè gli «zingari». O ancora gli ebrei (checché se ne dica, resiste il pregiudizio che li configura come una «razza»). In una parola, minoranze a vario titolo percepite come estranee al corpo (sano) della collettività. Come eccezioni (patologiche) rispetto alla norma e alla normalità. Tuttavia, se non vogliamo rimanere prigionieri del razzismo, non possiamo limitarci a sfogliare il catalogo dei gruppi umani trasformati in «razze», dobbiamo anche chiederci a che scopo il razzismo li «razzizza».
Con ogni probabilità, l'obiettivo è legittimare trattamenti discriminatori e persecutori che possono arrivare sino allo sterminio. La violenza che difficilmente la società accetterebbe di subire, appare tollerabile (motivata e giusta) se colpisce un gruppo raffigurato come portatore «per natura» di uno stigma morale. Quella violenza è percepita come legittima difesa poiché è messa in relazione alle caratteristiche perverse attribuite a quel gruppo. In una parola, il razzismo è la fabbrica delle identità negative, un operoso cantiere antropologico che, producendo stereotipi (cioè letteralmente creando le «razze»), sforna ininterrottamente argomenti utili a giustificare la violenza che una parte della società scarica su altre componenti più deboli e a vario titolo subordinate.
Se le cose stanno così, lo sguardo dovrebbe disinteressarsi del dito (gli argomenti specifici - tutti, indistintamente, pretestuosi - addotti dal razzista di turno) e rivolgersi alla luna che esso indica, cioè alla radice profonda di questa violenza. Dovrebbe cercare la fonte «strutturale» dell'insaziabile fame di discriminazione che ossessiona la nostra società, poiché soltanto così è possibile capire perché da due o tre secoli a questa parte l'occidente capitalistico non può fare a meno di inventare «razze» inferiori, parti infette dei corpi sociali che meritano di essere cauterizzate o addirittura amputate. E soltanto adottando questa prospettiva si può capire perché il razzismo torna sistematicamente in auge nelle fasi acute di crisi economica e sociale, quando le dinamiche riproduttive esasperano la propria connotazione gerarchica, mobilitando un surplus di violenza e di brutalità.
Il punto è che la «razza inferiore» (quella di chi - stando alle mitologie razziste - ruba o stupra per incoercibili propensioni «naturali» o è «per natura» refrattario alla civilizzazione) incarna e mette in scena non soltanto le ragioni della propria discriminazione, ma anche, soprattutto, la legittimità del discriminare come meccanismo generale della relazione sociale. Certo, la violenza che si scatena contro i rom cacciati via da una palude infestata dai topi all'altra, evitati come appestati sugli autobus e sui treni e finalmente deportati oltre confine nel nome della sicurezza e sanità del corpo sociale, è diversa da quella che gli italiani (o i francesi) doc - quanti tra loro lavorano sotto padrone o nemmeno riescono a trovare un lavoro - sono costretti a subire. Questi ultimi sono (ancora) protetti da qualche diritto. Ma un denominatore comune c'è, e consiste nel dipendere dall'arbitrio altrui. Per questo è importante che assistano alla cacciata dei rom, spettacolo estremamente istruttivo che rammenta (e rappresenta come una condizione inemendabile) la loro radicale subalternità.
Che cosa imparano, a guardar bene, da questo spettacolo che colpisce ai margini della società ma si rivolge al grosso della popolazione, alle «genti meccaniche» cui non è toccata la buona sorte di illustri natali? Apprendono la terribile lezione della modernità: la loro condizione di homines œconomici, di individui soli, costretti a combattere, a proprio rischio e pericolo, la guerra quotidiana degli egoismi individuali. Ciò che il razzismo si incarica di portare a termine mettendo in scena il destino degli ultimi è, in altre parole, l'atomismo sociale e lo sradicamento della solidarietà, fattore antimoderno per antonomasia, incompatibile con lo scatenamento degli «spiriti animali» del capitalismo.
In questo senso - per quanto paradossale ciò possa apparire - se vogliamo capire quale ruolo il razzismo giochi sulla scena europea (e perché esso svolga ancora una funzione così importante), è indispensabile leggere correttamente vicende come quelle di Pomigliano e di Melfi, nelle quali il padrone dichiara in modo esplicito di voler negare qualsiasi diritto a chi per sopravvivere è costretto a vendere il proprio tempo di vita. Gli operai debbono tornare ad essere cose, levarsi dalla testa di essere persone e, soprattutto, membri di un soggetto collettivo. E affinché intendano la musica, niente è più utile del mostrare loro che fine fanno quelli con i quali la buona società si arrabbia per davvero.
Ma se la sorte riservata ai margini serve a educare il centro, allora il problema è la reazione del centro. Non si tratta di stabilire se il razzismo sia o meno spontaneo, certo che non lo è. Il punto è che il razzismo sarà senso comune, benché inculcato dall'alto, finché i corpi sociali assimileranno docilmente la lezione che esso impartisce: la fondatezza delle gerarchie sociali, la legittimità della violenza che esse decretano, la moralità della riduzione a cose dei subordinati. Oggi, esattamente come nel secolo scorso, il problema chiama dunque in causa proprio gli «uomini comuni», spesso complici, più o meno inconsapevoli, della violenza razzista.
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