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Una mattina viene una staffetta a dirci che un aviatore americano è sceso col paracadute in campagna, verso Rio Saliceto. Aldo e altri partono subito con la staffetta e lo trovano l’americano. Stava in mezzo al paracadute bianco come in un letto matrimoniale e perdeva sangue da una gamba. Quando vede i nostri pensa che siano fascisti e mostra la ferita, che lo fa gridare, ma i miei dicono, partigiani, e allora l’americano ride contento. Lo prendono a braccia, avvoltolano il paracadute e con la macchina tornano a casa.
L’americano è un tipo a suo modo, bacia Genoveffa come sua mamma, quando vede il letto comodo e pulito che lo aspetta, riesce a gridacchiare urrà e ci si sdraia. I figli gli mettono la gamba sulla spalliera e Ferdinando, che aveva organizzato una infermeria, pulisce la ferita e la fascia con la tela migliore, quella che filava la madre. Poi a pranzo gli portano il pollo lesso, per rimetterlo s che è magro, e lui mangia la carne e sputa la pelle. – Ah – dice con la pelle fra le dita e fa un ghignaccio con la bocca e indica lo stomaco. Non gli piace la pelle al putino, e io mi arrabbio perché il pollo era come oro, allora, e nessuno di noi ne mangiava. Eppure pollo ne ebbe poi sempre, e Genoveffa ne faceva comprare, quando non potevamo ammazzare i nostri. Ma la pelle non ha imparato mai a mangiarla, così la toglievamo e la mangiavamo noi. Il ragazzo rifaceva sangue e si cambiava giorno per giorni nel viso, così si alzò presto, voleva cominciare a impalare l’italiano. Veniva giù in cucina e con le donne chiedeva come si chiama questo e quello, così metteva insieme le parole e faceva discorsi buffi. Aveva capito che eravamo comunisti ma faceva finta di niente, chissà prima cosa pensava lui che fossero i comunisti. Poi venne da noi anche un russi, pure lui in cerca di imparare qualche parola d’italiano, e l’americano qualche parola di russo, e il russo qualche parola di americano. Il russo lavorava molto nei campi e quando passava qualcuno nella strada si nascondeva dietro le siepi. Poi vennero neozelandesi e canadesi, c’erano tutti gli alleati. Una sera dopo cena, ci mettiamo a cantare canzoni ognuna del proprio paese e d’improvviso viene fuori il canto dell’Internazionale. La sapevano tutti e la cantavano nella loro lingua, ma quella sera c’era una lingua sola e un cuore solo: l’Internazionale.
L’americano è un tipo a suo modo, bacia Genoveffa come sua mamma, quando vede il letto comodo e pulito che lo aspetta, riesce a gridacchiare urrà e ci si sdraia. I figli gli mettono la gamba sulla spalliera e Ferdinando, che aveva organizzato una infermeria, pulisce la ferita e la fascia con la tela migliore, quella che filava la madre. Poi a pranzo gli portano il pollo lesso, per rimetterlo s che è magro, e lui mangia la carne e sputa la pelle. – Ah – dice con la pelle fra le dita e fa un ghignaccio con la bocca e indica lo stomaco. Non gli piace la pelle al putino, e io mi arrabbio perché il pollo era come oro, allora, e nessuno di noi ne mangiava. Eppure pollo ne ebbe poi sempre, e Genoveffa ne faceva comprare, quando non potevamo ammazzare i nostri. Ma la pelle non ha imparato mai a mangiarla, così la toglievamo e la mangiavamo noi. Il ragazzo rifaceva sangue e si cambiava giorno per giorni nel viso, così si alzò presto, voleva cominciare a impalare l’italiano. Veniva giù in cucina e con le donne chiedeva come si chiama questo e quello, così metteva insieme le parole e faceva discorsi buffi. Aveva capito che eravamo comunisti ma faceva finta di niente, chissà prima cosa pensava lui che fossero i comunisti. Poi venne da noi anche un russi, pure lui in cerca di imparare qualche parola d’italiano, e l’americano qualche parola di russo, e il russo qualche parola di americano. Il russo lavorava molto nei campi e quando passava qualcuno nella strada si nascondeva dietro le siepi. Poi vennero neozelandesi e canadesi, c’erano tutti gli alleati. Una sera dopo cena, ci mettiamo a cantare canzoni ognuna del proprio paese e d’improvviso viene fuori il canto dell’Internazionale. La sapevano tutti e la cantavano nella loro lingua, ma quella sera c’era una lingua sola e un cuore solo: l’Internazionale.
Alcide Cervi, I miei sette figli; a cura di Renato Nicolai,
Editori Riuniti, IX edizione – marzo 1956, p. 69-70
Editori Riuniti, IX edizione – marzo 1956, p. 69-70