lunedì 16 marzo 2009

Michel Foucault - Parresia e pericolo

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… quando un filosofo si rivolge a un sovrano, a un tiranno, e gli dice che la sua tirannide è pericolosa e spiacevole, perché la tirannide è incompatibile con la giustizia, in quel caso il filosofo dice la verità, crede di stare dicendo la verità, e ancor più, corre un rischio (giacché il tiranno può adirarsi, può punirlo, può esiliarlo, può ucciderlo). Fu questa esattamente la situazione in cui si trovò Platone con Dionigi di Siracusa – sulla quale ci sono interessantissimi riferimenti nella Lettera settima di Platone, e anche nella Vita di Dionigi di Plutarco.
Quindi, come vedete, il parresiastes è qualcuno che corre un rischio. Naturalmente, non è sempre il rischio della vita. Quando, per esempio, qualcuno vede un amico che sta commettendo un errore e rischia di incorrere nelle sue ire dicendogli che sta sbagliando, costui sta agendo da parresiastes. In tal caso, certo, non rischia la vita, ma può irritare l’amico coi suoi rilievi, e conseguentemente l’amicizia può risentirne. Se, in una discussione politica, un oratore rischia di perdere la sua popolarità perché la sua opinione è contraria a quella della maggioranza, o perché può condurre ad uno scandalo politico, egli sta usando la parresia. La parresia dunque è legata al coraggio di fronte al pericolo: essa richiede propriamente il coraggio di dire la verità a dispetto di un qualche pericolo. E nella sua forma estrema, dire la verità diventa un «gioco» di vita o di morte.

Michel Foucault, Discourse and Truth. The Problematization of Parresia, 1985; trad. it. a c. d. Adelina Galeotti, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma, 1996, p. 7.

martedì 10 marzo 2009

Immagine e città. Conversazione con Roberto Dionigi (1984)


In questi giorni, il tema del provincialismo di Bologna è nuovamente riaffiorato nelle cronache locali *.
Ed è stato per me inevitabile riandare con la mente ad una conversazione dell’84 con Roberto Dionigi **.

È all’inizio degli anni Ottanta che Roberto Dionigi – oggi (ri)conosciuto come filosofo, o autore filosofico,ben più ampiamente di quanto non lo sia stato in vita – ha iniziato ad essere per me un pensatore rilevante, in seguito all’uscita di un suo «piccolo» e denso libro di lunga e laboriosa gestazione: Il doppio cervello di Nietzsche, pubblicato a Bologna da Cappelli Editore, nel 1982.
Proprio in quegli anni, (a distanza ravvicinata, ma comunque ormai inesorabilmente a distanza, dal ’77) sorse la proposta di un periodico cittadino, tra politica, culture e informazione, un po’ alla ricerca e all’esplorazione di un qualche possibile «dopo». Nella primavera dell’84, nacque Metro’ (sottotitolo: «quindicinale di informazione e spettacolo»).
Come contributo al primo numero, avevo pensato ad una sorta di intervista o colloquio con Roberto Dionigi, il quale accettò, anticipando francamente che, piuttosto che una discussione di «filosofia», avrebbe preferito sviluppare qualche considerazione sul rapporto tra la città e la sua immagine, con particolare riferimento al tema del supposto «provincialismo» di Bologna, che imperversava nelle cronache locali.
Così, frustrando apparentemente il mio interesse per la sua attività filosofica, Dionigi mi (ci) affidò queste sue «considerazioni inattuali» – alle quali rispose, fin troppo prevedibilmente, l’assordante silenzio dei media locali.
Nel ritrovare e riproporre quelle considerazioni, mi limito ad osservare che quel gesto non era altro che una forma di attività filosofica, che spingeva la filosofia oltre il circolo dell’interpretazione interna, in contatto con la non filosofia, nell’esercizio di un’interrogazione critica del presente, capace di misurarsi con la molteplicità e la specificità irriducibile dei giochi linguistici, che fanno parte determinate forme di vita [Wittgenstein, Ricerche filosofiche].
E di esporsi al rischio [Il doppio cervello di Nietzsche] di una presa di posizione.


***

Immagine e città
Conversazione con
Roberto Dionigi
[1984]


Le pagine locali dei quotidiani hanno dedicato ampio spazio alla discussione a proposito (e a sproposito) della «provincialità» e della «decadenza» di Bologna. Vorrei proporti di partire da qui, per arrivare – spero – altrove.

C’è un senso comune, questo della provincialità di Bologna, che poi ha tante varianti. Si dice, che so io: «Bologna è la città del consumo culturale e non della produzione culturale». Oppure ci sono quelli che dicono: «Ah! Com’era bella la Bologna di Dozza! ah, quella sì che era una vera Bologna, poi è decaduta». Bene, su questo, proprio, io credo il contrario: che definire provinciale una città significa affermare una relazione tra com’è una città e come s’immagina che altre siano; senza però mai definire come è prodotta la differenza dalle altre città rispetto a quella di cui si parla.
Io credo che, invece, se c’è qualcosa di provinciale, come dire, la ragione del provincialismo di Bologna, è fondamentalmente il provincialismo di coloro che ne parlano. Che non è il provincialismo dei suoi abitanti. E allora dov’è, per me, l’anima, il cuore, il segreto di questo «provincialismo»? È un curioso patto, o una verità giudicata di senso comune, io la chiamo di senso volgare, che questa città è rilevante solo se politicamente rilevante. Politicamente in senso stretto, in quello, cioè, del teatro del politico. E del suo complemento – come diremmo in logica – che in questo caso è «ciò che non è politico». Ma che cos’è il «non politico» in questo quadro provinciale? Il divertissement, cioè il folklore, ciò che comunque garantisce breve durata.


Qualcosa come l’effimero.

Sì, ma un effimero di povera lega. Non è l’effimero che viene prodotto, ma, prima ancora che si produca qualcosa di effimero, c’è uno schema di interpretazione per cui si tollera ciò che non è politico solo se, diciamo così, dà garanzie di durare abbastanza poco. Perché si ritiene che il quadro normale – e questo è il provincialismo di coloro che rappresentano la città – sia un quadro che, in fondo, ruota attorno al palazzo del governo. Con una presentazione in questo senso piatta, fino ad arrivare a dei momenti di non-informazione di ciò che accade. Perché viene giudicata irrilevante una cosa («tanto domani non c’è»), per cui: o ne parlo perché ho la certezza che domani non ci sia, o non ne parlo perché tanto so che domani non c’è più. In entrambi i casi s’è un’aspettativa di effimero, e non è altro che la riproduzione del volto politico di Bologna, il cuore di quello che viene chiamato il suo provincialismo. Ma questa non è la realtà di Bologna, questo è il modo dominante delle letture della realtà di Bologna.


Il che, se vogliamo, sottende un’idea del «politico» non solo stretta, ma addirittura legata a quadretti umanistici (la figura epica del sindaco) e a un’idea dell’amministrazione politica, e del suo contesto di problemi, come centro e rappresentazione della vita e della cultura della città. Quasi che la città potesse essere «compresa» nel suo politico, inteso in termini classici.

Forse. Non lo so. È un giudizio molto duro. Mi auguro che qualcuno non la pensi così, anche se sicuramente qualcuno la pensa così come tu dici, su questo non v’è dubbio.
Ma proprio, direi, in tono leggermente diverso dal tuo, che è non accettare che ciò che non è politico rappresenti la città. Ma soprattutto, cosa ancor più grave, è che il non politico non viene assunto come rappresentativo in senso forte della realtà di una città. Mi riferisco a quel «non politico» di cui dicevo prima, che non è divertimento, che non è il folklore, le salsicce in piazza…


Tutto ciò, in qualche modo, produce la provincialità di Bologna, in quanto disincentiva tutte le iniziative che tendono ad uscire da questo quadro, o quadretto.

È evidente. C’è un rapporto tra il reale e la sua produzione di immagine. Cioè chi dice «Bologna è provinciale» è un riproduttore del suo provincialismo, e al tempo stesso non prende in considerazione quanto questo sia un suo giudizio. E non una descrizione dei fatti.
Non voglio dire con questo che ogni cosa che accade a Bologna deve essere parlata, ci sono cose che servono solo per farsi compagnia, per carità! Però manca questo principio di attenzione a promuovere ciò che si produce, assumendosi il rischio di appoggiare un’iniziativa, e quanto meno una consapevolezza che, se non ne parli, ti assumi anche tu la tua responsabilità di occultare e di tacere. Ciò che non trovo più è il senso di questo giudizio che mi sembra venir meno ormai nei mass media, per cui non si parla più di niente, direi quasi, e non trovo più questa relazione all’interno della notizia che non sia la relazione della notizia politica o, ripeto, di vago folklore; di sociologismo da quattro soldi, di fesserie descrittive e consolatorie, per cui uno si rilegge sul giornale.


Credo che sia importante riferirsi anche alla tua esperienza diretta, come organizzatore del convegno «Teoria dei sistemi e razionalità sociale», convegno che è entrato nel circuito dell’informazione, ma in modo, a mio avviso, alquanto riduttivo.

Era stato un convegno non banale, sia per i temi che trattava; sia per le intelligenze, nazionali e non, che vi partecipavano. La stessa produzione del convegno era interessante: due dipartimenti universitari che vanno a un rapporto con l’ente locale, questo almeno poteva avere un interesse anche per chi è orientato verso la «politica». Ebbene, questo convegno si è trovato non solo al di sotto di un’informazione culturale competente, ma anche al di sotto della semplice informazione «di servizio», cioè della semplice comunicazione della «scaletta» degli interventi, con nomi, date, orari, argomento delle singole relazioni. A questo convegno è stato dato un minor rilievo di quanto non ne avrebbe avuto un torneo di briscola in una Casa del Popolo.


Più in generale esiste un problema di moduli della comunicazione, di un linguaggio che, anche quando parla di qualcosa che folklore non è, ne parla come se fosse folklore, banalizzandolo, appiattendone la radicalità.

Su questo sono, almeno nei miei termini, d’accordo. C’è una perdita della molteplicità di criteri della rilevanza di ciò che accade. Ciò che sento che manca, che mi piacerebbe chiamare con questa parola «borghese», è un rispetto per il rischio che l’altro corre quando fa qualcosa. Rispetto non vuol dire condividere, ma – relativamente all’ambito di volta in volta diverso in cui qualcosa accade – misurarsi con il rischio di quel gesto, per promuoverlo o anche per aggredirlo. Certo, sono d’accordo con te, non per trattarlo con sufficienza o con bonomia, o per appiattirne la sua stessa capacità d’urto. Ma questo forse è chiedere troppo. Ma comunque c’è un dato di fondo: che c’è qualcosa che precede il consenso e il dissenso, vecchi valori: è questa forma di rispetto che non soffoca il rischio di ciò che l’altro fa a partire dal fatto che l’ambito in cui questo accade viene giudicato «banale». Io parto dall’idea che non vi sono ambiti di vita «banali». Non vi è nessuna forma di vita banale.

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NOTE


  - Il tema del provincialismo di Bologna è riemerso con l’intervista a Fausto Anderlini: «Alla scoperta di “Bolokistan” dove i partiti si autodissolvono», il Bologna, 6 marzo 2009, p. 27.
[*]- Su Roberto Dionigi e le sue opere vedi Quodlibet.

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«Immagine e città. Conversazione con Roberto Dionigi», a cura di Rudy M. Leonelli, in Metro’, anno I, n. 1, 3 febbraio 1984.

mercoledì 4 marzo 2009

Mauro Raspanti: Lo spettacolo della violenza di fronte al dolore degli altri

COSE DI QUESTO MONDO 2009
Giovedì 5 marzo 2009 ‐ ore 20.30

Mauro Raspanti ‐ Centro Furio Jesi



LO SPETTACOLO DELLA VIOLENZA
DI FRONTE AL DOLORE DEGLI ALTRI

Biblioteca della Scuola di Pace - via Lombardia 36 - Bologna




Per informazioni e adesioni:
segreteria: 051491953

lunedì 2 marzo 2009

Dall'auto nera al taxi rosa - Souvenir dell'automobilismo völkisch

Qualche giorno fa, la prima pagina di Repubblica - Bologna ha pubblicato una sorta di annuncio corredato dall'icona di un'auto smagliante di allegri colori, il lancio di un servizio di "taxi rosa" da parte di un noto gruppetto di esperti della cinghia, che in questo modo intendono forse camuffare la loro vera passione sotto una più protettiva cintura di sicurezza.

Un vero "servizio"...




Anche incidenze non intende sottrarsi al compito di immortalare questo "evento", rievocando alcune immagini storiche dell'automobilismo
-->völkisch che, in stretto legame con la costutuzione programmata del "tempo libero" e "ricreativo", fu uno degli assi strategici della politica sociale del III Reich, supportato dalla creazione dell'apposita organizzazione Kraft durch Freude, e tradotto, tra l'altro, nella messa in cantiere di un'appposita vettura KdF.
Dalla campagna di lancio di questa vettura, incidenze ha scelto due immagini in tema.


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vedi anche: ... vulva taxi...


venerdì 27 febbraio 2009

Jacques Prévert: Les prodiges de la liberté

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I prodigi della libertà


Fra i denti di una trappola
La zampa di una volpe bianca
E sangue sopra la neve
Sangue della volpe bianca
Che fugge su tre zampe
Nel sole che tramonta
Con stretta tra i suoi denti
La lepre ancora viva.

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Les prodiges de la liberté


Entre les dents d'un piège
La patte du renard blanc
Et des traces sur la neige
Les traces du renard blanc
Qui s'enfuit sur trois pattes
Dans le soleil couchant
Avec entre les dents
Un lièvre encore vivant.


[trad. it. di Ivos Margoni]