IL PANTHEON DELLA DESTRA REPUBBLICANA Il fascismo rimesso in parentesi dal «Partito degli Italiani»*
di Gianpasquale Santomassimo
Fra i tre fascismi che sono al governo (il fascismo storico dei missini, il fascismo «naturale» e qualunquista degli elettori di Berlusconi, il fascismo razzista e xenofobo della Lega) soltanto il primo ha avviato da tempo - e inevitabilmente - una evoluzione e un ripensamento, che lo conducono oggi a celebrare, con lo scioglimento nel Pdl, il compiersi di una proposta politica che si lascia «alle spalle il Novecento con le sue ideologie totalitarie». Più ancora che l'evoluzione del partito in sé, che è apparso sospeso e lacerato a mezza via tra innovazioni accettate e richiami identitari riaffioranti, ha colpito negli ultimi anni l'accelerazione del percorso personale di Gianfranco Fini, che ha teso a presentarsi come interprete di una nuova destra «moderna» e repubblicana, sempre più distante dal punto di partenza e sempre più vicina al modello di una destra europea incarnata dall'esperienza gaullista più che dalla tradizione democristiana. Su cosa sia oggi la cultura del partito che si scioglie si sono interrogati i giornali, in tono tra il divertito e il serioso. Va detto però che molti osservatori si sono abbandonati a un assemblaggio inevitabilmente pittoresco tra dichiarazioni ufficiali, bancarelle di libri in esposizione nei congressi, «rivalutazioni» ardite di un organo negli ultimi tempi molto immaginifico quale il Secolo d'Italia. Viene fuori così un quadro dove Julius Evola si mescola a Vasco Rossi e nell'ombra sogghigna Wil Coyote. Prendiamo però la cosa sul serio, come è giusto fare, e atteniamoci al documento ufficiale, che come tutti i documenti va analizzato attentamente, di là del suo valore intrinseco.
Esiste la breve documentazione cinematografica di un intervento di Lenin ad un congresso della Terza Internazionale. Tre membri della delegazione italiana – Bombacci, Graziadei e Serrati – si distinguono alle spalle di Vladimir Il’ic. Riconoscibile per la barbetta, le lenti pesanti, c’è Karl Radek. In altra inquadratura, non appena Lenin ha finito di parlare Radek gli si volge ridendo, poi sopra le carte del tavolo lancia avanti le mani. Ho potuto confrontare due copie della medesima pellicola. Sulla seconda ha operato la censura di Stalin. Una macchia copre le facce dei nostri socialisti. In quanto a Radek, condannato nel 1938, il viso è scomparso, non le mani. Esse si agitano accanto a quelle di Lenin. Rammento di aver veduto a Ravenna i segni d’una epurazione di quattordici secoli fa. Teodorico, goto e ariano, aveva ordinata l’esecuzione di mosaici in Sant’Apollinare Nuovo. Una trentina d’anni più tardi Giustiniano cattolico riconsacrava la chiesa a san Martino di Tours «martello degli eretici», e faceva cancellare le immagini di Teodorico e della suacorte effigiate nell’atto di uscire dal Palatium. Sostituendovi tendaggi ed elementi architettonici i mosaicisti dell'arcivescovo Agnello dimenticarono alcune tracce delle figure. La «condanna della memoria» ha lasciato contro le colonne qualche mano appesa a mezz’aria come quelle che si vedono svolazzare nelle sedute spiritiche. Vien fatto di chiedersi se siano solo due casi di lavoro mal eseguito.
Franco Fortini, Verifica dei poteri, (1965), Einaudi, Torino, 1989, p. 91 .
Il Festival Sociale che si svolgerà a Bologna dal 29 maggio al 2 giugno, avrà come sede principale il Parco delle Caserme Rosse. Pubblico di seguito ampi brani del testo della convocazione, risultato (probabilmente provvisorio) di un diffuso reticolo di incontri, scambi, riunioni etc. che cooperano alla formazione e trasformazione dell'iniziativa.
. . .Ora che, con la crisi economica, il benessere va scemando, resta solo la stupidità, l’incultura, il perbenismo, l’arroganza, il grigiore di violenze e soprusi quotidiani. La marea dello “sviluppo” si ritira e lascia solo scorie e detriti.In questo quadro, il neofascismo si manifesta con nuove forme, alcune evidenti, altre molto più subdole e mascherate, tutte aggressive e violente. Cerca di ricostruirsi una legittimità sociale, utilizzando immaginari e slogan dell’ideologia politico-istituzionale della “sicurezza” che semplifica, nasconde, mistifica, propaganda miti razzisti e istiga all’odio sociale... La reazione della società civile diventa più difficile e complessa e, certamente, molte delle forme note dell’attivismo e della contestazione antifascista risultano superate dall’evolversi del panorama sociale.Diventa forte il bisogno di confrontare percorsi e condividere risorse e saperi con tutti coloro che sentono la necessita di opporsi ad una delle peggiori derive razziste, xenofobe e sessiste della politica e della società italiana. Portiamo nel cuore e nella mente l’impegno e il sacrificio di ieri dei nostri partigiani, i valori di giustizia sociale, di libertà ed eguaglianza che hanno animato la loro resistenza.Da qui il desiderio di rispondere, con le armi della cultura e della critica, alla violenza predicata e praticata...Sentiamo forte la necessità di non rimanere in silenzio in un clima generale di smobilitazione dei valori della Resistenza, dei diritti fondamentali dell’uomo e delle stesse basi della convivenza civile... invitiamo fin da ora singoli, gruppi, associazioni e movimenti a collaborare alla costruzione di questo festival sociale. Un grande momento di condivisione per socializzare percorsi, condividere e confrontare idee, proposte e risorse; l’occasione per sperimentare nuovi linguaggi e ridisegnare immaginari collettivi; per stimolare la nascita di nuove relazioni e dotarci di una “scatola degli attrezzi” per analizzare e agire nei confronti del fascismo che minaccia il nostro tempo... Vogliamo sperimentare un metodo nuovo già nella costruzione dell’evento, decentrato e partecipato, aperto ai contributi di quanti si riconoscono nella cultura e nei valori dell’Antifascismo...
Ma quel che è più importante sottolineare da subito, è che il luogo prescelto per i cinque giorni di incontri ed iniziative antifasciste, ha un'importanza storica enorme, non ancora sufficientemente conosciuta. Le Caserme Rosse sono state un grande e poco noto centro di detenzione, smistamento ed anche di eliminazione dei rastrellati.Il 27 febbraio di quest'anno, alla commemorazione di Caserme Rosse (tenuta ad un mese di distanza dal giorno della memoria, in modo da non sovrapporsi a quell'appuntamento fondamentale) sono state deposte corone di fiori su quello che ormai viene chiamato "il muro dei fucilati": un lato del muro di mattoni che perimetrano l'area in cui sono stati rinvenuti in aree circoscritte, diversi fori di proiettili, soparati ad altezza d'uomo, a distanza ravvicinata. In quell'occasione Armando Sarti, presisente della sezione ANPi Bolognina, ha reso pubblica la notizia del rinvenimento di un secondo muro, che aveva scoperto una ventina di giorni prima: il 9 febbraio.Ci ha accompagnato sul posto: è un muro di mattoni che per molti metri è crivellato di colpi, la maggior parte dei quali è concentrata in punti specifici. Zone in cui si è evidentemente sparato molto, ad altezza d'uomo, in certi punti, contro il muro...Superata l'emozione, ho cercato di documentare come potevo , ed ho fatto qualche foto con il cellulare.La meno peggiore, è questa:
Per fare il punto sullo stato delle ricerche e della ricostruzione di quanto è avvenuto a Caserme Rosse, pubblico - con la cortese autorizzazione dell'autore, che ringrazio vivamente - un testo scritto da Armando Sarti per il 65° anniversario dell'inizio delle deportazioni.
A 65 ANNI DALLE PRIME DEPORTAZIONI DA CASERME ROSSE Il lager nazifascista di Bologna
Il 9 settembre 1943, già dal giorno seguente l’armistizio con gli Alleati, i tedeschi avevano occupato gran parte dell’Italia centrosettentrionale. A Roma l’8 settembre 1943 si svolsero combattimenti fra Carabinieri, militari italiani e civili da una parte, contro i tedeschi dall’altra. Questi ultimi in breve ebbero la meglio, infatti contro poche centinaia di uomini armati solo di armi leggere, i tedeschi poterono fare uso di carri armati e pezzi di artiglieria. Quegli episodi a Porta S. Paolo ed alla Magliana furono i primi atti di Resistenza. Epico è stato l’eccidio di Cefalonia, dove migliaia di soldati e di ufficiali italiani non si arresero ai tedeschi, non si fecero disarmare. Per questo Adolf Hitler diede ordine di fucilarli tutti quelli di Cefalonia: truppa, ufficiali, generali compresi. Altri coraggiosi atti di ribellione e di combattimento si svolsero a Trento, presso il ponte dei Cavalleggeri: reparti di fanteria italiani contro i tedeschi. Alcuni combattimenti si svolsero a Bologna, presso la stazione centrale fra militari italiani e tedeschi. Ma la mancanza di ordini di dettaglio e l’impreparazione portarono alla rapida sconfitta di ogni forma di resistenza ai nazisti, così i tedeschi catturarono interi reparti senza combattere ed iniziarono il rastrellamento sistematico delle vie di comunicazione sud-nord per catturare i militari italiani, anche quelli che si erano già privati della divisa. Il “tutti a casa” per molti si tradusse in “tutti al lager”. Già dal 9 settembre, a Caserme Rosse di Bologna, in via di Corticella alla Bolognina, tutta la grande caserma, in precedenza adibita a scuola allievi ufficiali, era completamente in mano ai tedeschi, come erano già in mano dei nazisti tutte le stazioni ferroviarie, le caserme, i centri di potere del Regno d’Italia (prefetture, questure, province e comuni). A Caserme Rosse iniziarono ad essere ammassati ogni giorno, a centinaia, a migliaia, uomini di tutte le armi dell’esercito, Carabinieri, uomini della marina e dell’aeronautica. Tutti questi uomini erano accomunati da un sentimento di ripulsa della guerra fascista a fianco dei tedeschi, che, da alleati, si erano prontamente trasformati in occupanti nemici, in feroci esecutori degli ordini provenienti da Berlino, dal quartier generale di Adolf Hitler. Il trattamento dei rastrellati di Caserme Rosse era disumano. Ogni atto di resistenza o tentativo di fuga o ribellione era punito con la fucilazione. Fra le camerate i nazisti passavano ed operavano delle selezioni, delle vere e proprie decimazioni. Per dare l’esempio ed intimidire gli uomini i tedeschi mettevano in fila i prigionieri, poi, passando in rivista gli uomini schierati sceglievano chi fucilare, anche senza ragiona alcuna, ma solo per alimentare il terrore. Questo avveniva prima della deportazione. Una realtà che si ripeteva nel tempo. Partiti con i vagoni bestiame i primi uomini, ne arrivavano altri, a sostituire i militari deportati in Germania e così via, per mesi, dal settembre a fine novembre-dicembre 1943. Ai tedeschi poi si affiancarono fra fine settembre e i primi di ottobre 1943 i primi uomini della repubblica di Salò. A fine 2006, sulla base di testimonianze di ex deportati e di segnalazioni di civili che sentivano sparare da fuori Caserme Rosse, è stato cercato e trovato il luogo dove venivano eseguite le fucilazioni: il “muro dei fucilati ignoti”, così abbiamo chiamato un tratto del muro di recinzione sul lato interno, a nord-est del campo. Un muro crivellato di colpi, davanti il quale è certo, che a perdere la vita è stato un numero imprecisato, ma molto alto, di prigionieri italiani. Scoperto il muro è stata avviata una ricerca delle salme delle vittime. Un primo momento di ricerca è stato presso il cimitero della Certosa di Bologna. Sono stati esaminati gli elenchi di tutti i morti dal settembre 1943 all’ottobre 1944, alla ricerca di morti ignoti o non riconosciuti. La ricerca è stata infruttuosa, perché -in effetti- sono state individuate vittime in un primo tempo sconosciute, ma risultate poi appartenenti ai fucilati del Poligono di Tiro di via Agucchi, dove un plotone di fascisti era sempre in servizio, soprattutto in servizio dei tedeschi, per servirli delle fucilazioni di partigiani ed antifascisti di cui loro avevano bisogno. Al Poligono, con una viltà infinita, i fascisti fucilarono per conto dei tedeschi -soprattutto- 270 uomini e donne, operai, contadini, preti, militari e civili, Carabinieri, austriaci e tedeschi (gente che aveva indossato la divisa nazista), tutti oppositori del regime, tutti antifascisti, nel periodo che è andato dall’8 settembre alla Liberazione. Successivamente la ricerca è stata rivolta al ritrovamento ed all’esame di immagini scattate dall’alto dai ricognitori Alleati. Gli angloamericani, ma anche i francesi, i sudafricani ed i brasiliani fotografarono Bologna, prima e dopo le decine di bormbardamenti che colpirono la città. Nel maggio scorso, all’Istituto dei Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna è stata trovata una foto inglese della prima parte del 1944, della RAF, in cui ben si vede Caserme Rosse. Un archeologo dell’Università di Bologna, Xabier Gonzalez Muro, spagnolo di etnia Basca, con specializzazione in topografia antica ha individuato sul terreno all’interno del campo di Caserme Rosse, a poca distanza dal muro dei fucilati, un’area di circa 800 metri quadri, parallela alla recinzione del campo, a lato di via Saliceto vecchia, una serie di 16-18 scavi, lunghi 15-20 metri, larghi 2-2,5 metri ed altrettanto distanti fra loro. Sedici scavi erano già chiusi al momento dello scatto della fotografia, mentre due risultavano ancora aperti, evidentemente in attesa di altri corpi. Nell’agosto scorso il procuratore della repubblica di Bologna, dott. Luigi Persico ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di reato di omicidio plurimo con sevizie (aggravante quest’ultima che impedisce la prescrizione del reato). Attendiamo quindi che l’inchiesta possa chiarire gli esatti contorni della tragedia di Caserme Rosse, il “lager di Bologna” come è stato chiamato nelle pubblicazioni degli scritti di don Giulio Salmi, che fu cappellano dei prigionieri fra la fine del febbraio 1944 ed i primi di ottobre dello stesso anno, qualche giorno prima del bombardamento del 12 ottobre che provocò morti e feriti in Caserme Rosse ed un totale di 400 morti in tutta Bologna. Don Giulio Salmi conteggiò in oltre 35.000 i prigionieri transitati da Caserme Rosse nel solo periodo maggio-settembre 1944. Questi erano per la massima parte civili, donne e uomini, anche partigiani rastrellati durante le stragi nazifasciste, fra cui quelle di S. Anna di Stazzema e di Marzabotto. Nel primo periodo settembre-dicembre 1943 passarono per Caserme Rosse un altissimo numero di militari, fra cui anche i Carabinieri. Venne poi l’accanimento verso le classi ‘23, ‘24 e ‘25 le ultime leve di Salò, anche per loro Caserme Rosse riservò un trattamento bestiale: anche questi uomini diventarono schiavi di Hitler, non in Germania ma in Italia, militari senza paga a fianco della organizzazione di lavori nazista Todt. Se non obbedivano prontamente agli ordini tedeschi, anche per loro era minacciata e prevista la fucilazione, pur essendo militari di Salò in divisa, comandati dai loro ufficiali italiani. Da una idea di Danilo Caracciolo e Roberto Montanari, autori e registi di documentari storici, sono già partite le riprese di un film-documentario su questa terribile storia, dal titolo “A Bologna c’era un lager... il campo di concentramento delle Caserme Rosse” che percorrerà i 13 mesi di funzionamento del più grande ed imponente campo in Italia per la selezione ed il transito di prigionieri da deportare in Germania, con una ferocissima repressione dell’opposizione, del dissenso, della Resistenza, che solo recentemente è iniziata ad emergere in tutta la sua tragica verità. Anche da Caserme Rosse, dal sacrificio degli oppositori del regime fascista sono venute, con la Resistenza e la Liberazione, le conquiste della democrazia, della libertà, della Repubblica e della Costituzione, la legge fondamentale di tutti gli italiani; una Costituzione profondamente antifascista in cui ben chiari sono i diritti ed i doveri del cittadino.
… quando un filosofo si rivolge a un sovrano, a un tiranno, e gli dice che la sua tirannide è pericolosa e spiacevole, perché la tirannide è incompatibile con la giustizia, in quel caso il filosofo dice la verità, crede di stare dicendo la verità, e ancor più, corre un rischio (giacché il tiranno può adirarsi, può punirlo,può esiliarlo, può ucciderlo). Fu questa esattamente la situazione in cui si trovò Platone con Dionigi di Siracusa – sulla qualeci sono interessantissimi riferimenti nella Lettera settima di Platone, e anche nella Vita di Dionigi di Plutarco.
Quindi, come vedete, il parresiastes è qualcuno che corre un rischio. Naturalmente, non è sempre il rischio della vita. Quando, per esempio, qualcuno vede un amico che sta commettendo un errore e rischia di incorrere nelle sue ire dicendogli che sta sbagliando, costui sta agendo da parresiastes. In tal caso, certo, non rischia la vita, ma può irritare l’amico coi suoi rilievi, e conseguentemente l’amicizia può risentirne. Se, in una discussione politica, un oratore rischia di perdere la sua popolarità perché la sua opinione è contraria a quella della maggioranza, o perché può condurre ad uno scandalo politico, egli sta usando la parresia. La parresia dunque è legata al coraggio di fronte al pericolo: essa richiede propriamente il coraggio di dire la verità a dispetto di un qualche pericolo. E nella sua forma estrema, dire la verità diventa un «gioco» di vita o di morte.
Michel Foucault, Discourse and Truth.The Problematization of Parresia, 1985; trad. it. a c. d. Adelina Galeotti, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma, 1996, p. 7.
In questi giorni, il tema del provincialismo di Bologna è nuovamente riaffiorato nelle cronache locali*.
Ed è stato per me inevitabile riandare con la mente ad una conversazione dell’84 con Roberto Dionigi **.
Èall’inizio degli anni Ottanta che Roberto Dionigi – oggi (ri)conosciuto come filosofo, o autore filosofico,ben più ampiamente di quanto non lo sia stato in vita – ha iniziato ad essere per me un pensatore rilevante, in seguito all’uscita di un suo «piccolo» e denso libro di lunga e laboriosa gestazione: Il doppio cervello di Nietzsche, pubblicato a Bologna da Cappelli Editore, nel 1982.
Proprio in quegli anni, (a distanza ravvicinata, ma comunque ormai inesorabilmente a distanza, dal ’77) sorse la proposta di un periodico cittadino, tra politica, culture e informazione, un po’ alla ricerca e all’esplorazione di un qualche possibile «dopo». Nella primavera dell’84, nacque Metro’ (sottotitolo: «quindicinale di informazione e spettacolo»).
Come contributo al primo numero, avevo pensato ad una sorta di intervista o colloquio con Roberto Dionigi, il quale accettò, anticipando francamente che, piuttosto che una discussione di «filosofia», avrebbe preferito sviluppare qualche considerazione sul rapporto tra la città e la sua immagine, con particolare riferimento al tema del supposto «provincialismo» di Bologna, che imperversava nelle cronache locali.
Così, frustrando apparentemente il mio interesse per la sua attività filosofica, Dionigi mi (ci) affidò queste sue «considerazioni inattuali» – alle quali rispose, fin troppo prevedibilmente, l’assordante silenzio dei media locali.
Nel ritrovare e riproporre quelle considerazioni, mi limito ad osservare che quel gesto non era altro che una forma di attività filosofica, che spingeva la filosofia oltre il circolo dell’interpretazione interna, in contatto con la non filosofia, nell’esercizio di un’interrogazione critica del presente, capace di misurarsi con la molteplicità e la specificità irriducibile dei giochi linguistici, che fanno parte determinate forme di vita[Wittgenstein, Ricerche filosofiche].
E di esporsi al rischio [Il doppio cervello di Nietzsche] di una presa di posizione.
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Immagine e città
Conversazione con
Roberto Dionigi
[1984]
Le pagine locali dei quotidiani hanno dedicato ampio spazio alla discussione a proposito (e a sproposito) della «provincialità» e della «decadenza» di Bologna. Vorrei proporti di partire da qui, per arrivare – spero – altrove.
C’è un senso comune, questo della provincialità di Bologna, che poi ha tante varianti. Si dice, che so io: «Bologna è la città del consumo culturale e non della produzione culturale». Oppure ci sono quelli che dicono: «Ah! Com’era bella la Bologna di Dozza! ah, quella sì che era una vera Bologna, poi è decaduta». Bene, su questo, proprio, io credo il contrario: che definire provinciale una città significa affermare una relazione tra com’è una città e come s’immagina che altre siano; senza però mai definire come è prodotta la differenza dalle altre città rispetto a quella di cui si parla.
Io credo che, invece, se c’è qualcosa di provinciale, come dire, la ragione del provincialismo di Bologna, è fondamentalmente il provincialismo di coloro che ne parlano. Che non è il provincialismo dei suoi abitanti. E allora dov’è, per me, l’anima, il cuore, il segreto di questo «provincialismo»? È un curioso patto, o una verità giudicata di senso comune, io la chiamo di senso volgare, che questa città è rilevante solo se politicamente rilevante. Politicamente in senso stretto, in quello, cioè, del teatro del politico. E del suo complemento – come diremmo in logica – che in questo caso è «ciò che non è politico». Ma che cos’è il «non politico» in questo quadro provinciale? Il divertissement, cioè il folklore, ciò che comunque garantisce breve durata.
Qualcosa come l’effimero.
Sì, ma un effimero di povera lega. Non è l’effimero che viene prodotto, ma, prima ancora che si produca qualcosa di effimero, c’è uno schema di interpretazione per cui si tollera ciò che non è politico solo se, diciamo così, dà garanzie di durare abbastanza poco. Perché si ritiene che il quadro normale – e questo è il provincialismo di coloro che rappresentano la città – sia un quadro che, in fondo, ruota attorno al palazzo del governo. Con una presentazione in questo senso piatta, fino ad arrivare a dei momenti di non-informazione di ciò che accade. Perché viene giudicata irrilevante una cosa («tanto domani non c’è»), per cui: o ne parlo perché ho la certezza che domani non ci sia, o non ne parlo perché tanto so che domani non c’è più. In entrambi i casi s’è un’aspettativa di effimero, e non è altro che la riproduzione del volto politico di Bologna, il cuore di quello che viene chiamato il suo provincialismo. Ma questa non è la realtà di Bologna, questo è il modo dominante delle letture della realtà di Bologna.
Il che, se vogliamo, sottende un’idea del «politico» non solo stretta, ma addirittura legata a quadretti umanistici (la figura epica del sindaco) e a un’idea dell’amministrazione politica, e del suo contesto di problemi, come centro e rappresentazione della vita e della cultura della città. Quasi che la città potesse essere «compresa» nel suo politico, inteso in termini classici.
Forse. Non lo so. È un giudizio molto duro. Mi auguro che qualcuno non la pensi così, anche se sicuramente qualcuno la pensa così come tu dici, su questo non v’è dubbio.
Ma proprio, direi, in tono leggermente diverso dal tuo, che è non accettare che ciò che non è politico rappresenti la città. Ma soprattutto, cosa ancor più grave, è che il non politico non viene assunto come rappresentativo in senso forte della realtà di una città. Mi riferisco a quel «non politico» di cui dicevo prima, che non è divertimento, che non è il folklore, le salsicce in piazza…
Tutto ciò, in qualche modo, produce la provincialità di Bologna, in quanto disincentiva tutte le iniziative che tendono ad uscire da questo quadro, o quadretto.
È evidente. C’è un rapporto tra il reale e la sua produzione di immagine. Cioè chi dice «Bologna è provinciale» è un riproduttore del suo provincialismo, e al tempo stesso non prende in considerazione quanto questo sia unsuo giudizio. E non una descrizione dei fatti.
Non voglio dire con questo che ogni cosa che accade a Bologna deve essere parlata, ci sono cose che servono solo per farsi compagnia, per carità! Però manca questo principio di attenzione a promuovere ciò che si produce, assumendosi il rischio di appoggiare un’iniziativa, e quanto meno una consapevolezza che, se non ne parli, ti assumi anche tu la tua responsabilità di occultare e di tacere. Ciò che non trovo più è il senso di questo giudizio che mi sembra venir meno ormai nei mass media, per cui non si parla più di niente, direi quasi, e non trovo più questa relazione all’interno della notizia che non sia la relazione della notizia politica o, ripeto, di vago folklore; di sociologismo da quattro soldi, di fesserie descrittive e consolatorie, per cui uno si rilegge sul giornale.
Credo che sia importante riferirsi anche alla tua esperienza diretta, come organizzatore del convegno «Teoria dei sistemi e razionalità sociale», convegno che è entrato nel circuito dell’informazione, ma in modo, a mio avviso, alquanto riduttivo.
Era stato un convegno non banale, sia per i temi che trattava; sia per le intelligenze, nazionali e non, che vi partecipavano. La stessa produzione del convegno era interessante: due dipartimenti universitari che vanno a un rapporto con l’ente locale, questo almeno poteva avere un interesse anche per chi è orientato verso la «politica». Ebbene, questo convegno si è trovato non solo al di sotto di un’informazione culturale competente, ma anche al di sotto della semplice informazione «di servizio», cioè della semplice comunicazione della «scaletta» degli interventi, con nomi, date, orari, argomento delle singole relazioni. A questo convegno è stato dato un minor rilievo di quanto non ne avrebbe avuto un torneo di briscola in una Casa del Popolo.
Più in generale esiste un problema di moduli della comunicazione, di un linguaggio che, anche quando parla di qualcosa che folklore non è, ne parla come se fosse folklore, banalizzandolo, appiattendone la radicalità.
Su questo sono, almeno nei miei termini, d’accordo. C’è una perdita della molteplicità di criteri della rilevanza di ciò che accade. Ciò che sento che manca, che mi piacerebbe chiamare con questa parola «borghese», è un rispetto per il rischio che l’altro corre quando fa qualcosa. Rispetto non vuol dire condividere, ma – relativamente all’ambito di volta in volta diverso in cui qualcosa accade – misurarsi con il rischio di quel gesto, per promuoverlo o anche per aggredirlo. Certo, sono d’accordo con te, non per trattarlo con sufficienza o con bonomia, o per appiattirne la sua stessa capacità d’urto. Ma questo forse è chiedere troppo. Ma comunque c’è un dato di fondo: che c’è qualcosa che precede il consenso e il dissenso, vecchi valori: è questa forma di rispetto che non soffoca il rischio di ciò che l’altro fa a partire dal fatto che l’ambito in cui questo accade viene giudicato «banale». Io parto dall’idea che non vi sono ambiti di vita «banali». Non vi è nessuna forma di vita banale.
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NOTE
- Il tema del provincialismo di Bologna è riemerso con l’intervista a Fausto Anderlini: «Alla scoperta di “Bolokistan” dove i partiti si autodissolvono», il Bologna, 6 marzo 2009, p. 27.
[*]- Su Roberto Dionigi e le sue opere vedi Quodlibet.
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«Immagine e città. Conversazione con Roberto Dionigi», a cura di Rudy M. Leonelli, in Metro’, anno I, n. 1, 3 febbraio 1984.