lunedì 19 febbraio 2007

E. Balibar - I. Wallertsein: Razza nazione classe

Étienne Balibar – Immanuel WallersteinRazza nazione classe. Le identità ambigue, Roma, Edizioni Associate, 1991
[
Race nation classe. Les identités ambiguës, Paris, La Découverte, 1988]

Nell’ambito dei movimenti italiani l’attenzione per questo lavoro è antecedente alla traduzione integrale del libro: nel 1989 il n. 3/4 di
Notebook aveva proposto due saggi di Balibar compresi in questo volume di confronto incontro con Wallerstein.
È di indubbia rilevanza il fatto che questa discussione di portata internazionale sui nessi tra alcuni nuclei problematici di dirompente attualità venga a prodursi all’incrocio tra due distinte, e correlate, esperienze critiche del marxismo, il cui carattere “non ortodosso” ha specifiche connotazioni: tensione permanente, in Balibar, a dissociare “gli elementi di analisi teorica e quelli di ideologia millenarista amalgamati nell’unità contraddittoria del marxismo” (p. 187); distinzione, in Wallerstein, di un Marx studioso di differenti sistemi storici, in rottura con i presupposti antropologici del pensiero liberale borghese, da un Marx universalista, implicato in una lettura “progressiva” del ruolo storico del capitalismo, nel quadro di un modello evolutivo-lineare di “crescita” dei modi di produzione (pp. 137-139).

Etienne Balibar, nell’intervento alla presentazione dell’edizione italiana del libro [“Identità ambigue”, in
Autonomia, n. 49, maggio 1991, da cui citiamo ampiamente] ha sottolineato i due “sensi complementari” in cui è proposta la nozione di identità ambigua.
Il primo – “più sociologico, o meglio strutturale” – è relativo al permanente processo di costruzione e distruzione delle identità di razza, nazione e classe nel quadro dei rapporti gerarchici che definiscono l’economia mondo capitalistica e che comportano “una tensione obiettiva permanente tra universalismo e particolarismo, vale a dire che nessuna di queste identità, fra di loro opposte, può esser considerata naturale [...] Tutte sono per necessità delle identità incompiute”; e “gli apparati, le istituzioni che lavorano a fissare l’una o l’altra di queste identità [...] devono operare in permanenza, produrre un effetto di riduzione della complessità, che non può essere che provvisorio, anche se in certi casi dura a lungo, ma che naturalmente deve rappresentarsi come eterno in termini naturalisti e naturaleggianti”.
Il secondo senso — “più politico” — concerne “l’ambivalenza intrinseca di ogni affermazione discorsiva o pratica dell’identità”. In ragione di questa ambiguità, la valenza di rottura o di integrazione sistemica di ogni specifica “spinta identitaria” è decisa congiunturalmente. “Ma sulla congiuntura pesa sempre il posto definito dalla struttura mondiale”.
In un contesto internazionale investito da radicali mutazioni, che ribaltano posizioni storicamente consolidate — “Mentre l’Europa ha esportato per tre secoli nel mondo intero i suoi modelli politici e le conseguenze degli affrontamenti tra le sue nazioni e i suoi ‘blocchi’, essa diviene ora il luogo in cui si cristallizzano i problemi sociali del mondo intero” [Balibar, “La Communauté européenne vue du dessous”, in
Le monde diplomatique, febbraio 1991] – un compito maggiore della nostra epoca sarà quello di “sviluppare delle categorie teoriche e politiche per analizzare, diagnosticare e trattare collettivamente l’ambivalenza dei movimenti culturali di oggi” [in Autonomia, cit.].

Il libro, che ha il suo fulcro nella “questione scottante:
qual è la peculiarità del razzismo contemporaneo?” (p. 13), su cui è concentrata l’attenzione di queste rapide note, ha come punto di attacco quello che Taguieff ha chiamato l’effetto di ritorsione del nuovo razzismo differenzialista, che non procede più dal postulato di una differenza biologica tra le “razze”, ma prende alla lettera le premesse del culturalismo antropologico – che era stato uno dei pilastri della critica al colonialismo, al razzismo e all’etnocentrismo europei – in un investimento politico di segno inverso, incentrato sulla difesa delle “identità” culturali nella loro supposta intangibilità (ciò che non esclude la possibilità di riprendere e “spostare di un gradino il biologismo”.
L’analisi estremamente complessa e puntuale di Balibar, oltre a questo primo effetto di ritorsione (operante una “destabilizzazione delle difese dell’antirazzismo tradizionale”), focalizza un secondo effetto “più subdolo e quindi più efficace”: in modo circolare, il differenzialismo si propone come “spiegazione” dei comportamenti razzisti, “
naturalizza non l’appartenenza ad una razza, ma il comportamento razzista”. Questo “metarazzismo”, o “razzismo di seconda posizione”, può così “presentarsi come vero antirazzismo e quindi come vero umanesimo” (pp. 33-37.
Si coglie bene, in questa prospettiva — oltre alla ragione principale della difficoltà di criticare il nuovo razzismo culturalista [cfr. pp. 31 e 70] — l’importanza della discussione sull'universalismo.
“L’universalismo e il razzismo possono sembrare a prima vista strani compagni, se non addirittura concetti praticamente antitetici: l’uno aperto, l’altro chiuso; l’uno tendente all’eguaglianza, l’altro alla polarizzazione; l’uno votato al discorso razionale, l’altro intriso di pregiudizio. Tuttavia, il fatto che abbiano camminato tenendosi per mano, che si siano diffusi e abbiano prevalso in concomitanza con l’evoluzione del capitalismo storico, dovrebbe suggerirci di guardare più da vicino ai modi con cui queste due dottrine hanno potuto convivere”. Questo brano de
Il capitalismo storico [(1983), Einaudi, 1985, p. 71] di Immanuel Wallerstein pone il problema, in prossimità del paragrafo dedicato a “L’ambivalenza dei movimenti antisistemici” che, nella sua stessa formulazione, sembra preludere a questa discussione delle identità ambigue.

Nel secondo capitolo di
Razza nazione classe, Wallerstein considera la coppia terminologica in base alla sua funzionalità all’economia mondo capitalistica: universalismo (tendenza alla mercificazione illimitata, meritocrazia) e razzismo (“etnicizzazione” della forza-lavoro, minimizzazione dei costi politici ed economici del suo sfruttamento), intrattengono un rapporto complementare, e di reciproca compensazione contro la tendenza agli estremi del termine opposto (il quadro è naturalmente più complesso di questa telegrafica sintesi, e occorre in ogni caso ricordare che l’autore non prefigura un equilibrio statico, ma un andamento “a zig-zag” di crescente ampiezza e instabilità).
Raccogliendo la sfida dell’attuale “razzismo universalistico” Balibar cerca invece di “pensare a un’unità ancora più profonda tra i due lati”: “Ciò di cui si tratta è il ‘legame interno’ che si è stabilito tra le nozioni di umanità, di specie umana, di progresso culturale dell’umanità, e i ‘pregiudizi’ antropologici riguardanti le razze o le basi naturali della schiavitù. È la nozione stessa di razza, il cui significato moderno comincia a delinearsi nel periodo dei Lumi – questa grande fioritura dell’universalismo – e la modifica non accidentalmente, esteriormente alla sua ‘essenza’, ma intrinsecamente» [“Razzismo: un altro universalismo” in
Problemi del socialismo, n. 2, 1991, pp. 39 e 37].
Da un lato, “l’universalismo, quando cessa di essere una semplice parola, una filosofia possibile, per diventare un sistema di concetti espliciti, non può non includere al centro di se stesso il suo contrario. Impossibile definire il logos senza farlo dipendere da una gerarchia antropologica e ontologica, anche nel filosofo più ‘laico’” (ivi, p. 38).
Dall’altro “qualsiasi razzismo teorico si riferisce ad
universali antropologici [...] In tutti questi universali scopriamo l’insistenza di un’unica ‘questione’: quella della differenza tra umanità e animalità, il cui carattere problematico è riutilizzato per interpretare i conflitti della società e della storia” (Razza nazione classe, p. 68).
Suggerendo di pensare la relazione di razzismo e universalismo nei termini degli hegeliani contrari determinati – “il che fa sì appunto che ciascuno di essi modifichi l’altro ‘dall’interno’” [in
Problemi..., cit. p. 39] – Balibar turberà probabilmente le anime belle della cultura europea; ma la posta in gioco di questa provocazione è la costituzione di un’intelligenza collettiva adeguata alla provocazione del tempo.
Un tempo in cui, comunque, questa ricerca rimarrà un passaggio decisivo per le esperienze e i percorsi di un
effettivo antirazzismo.




rudy m. leonelli, 1991

in:
Invarianti. Per descrivere le trasformazioni,
anno V, n, 17-18, Estate-Autunno 1991.

Testo selezionato dalla rubrica "Recensioni" del sito di Edizioni Associate
Feedback: ateismo scetticismo e religione, Kilombo, Newstin

sabato 10 febbraio 2007

altreragioni 1992 - 2000



“Una ho portato costante figura,
storia e natura, mia e non mia, che insiste
- derisa impresa, ironia che resiste,
e contesa che dura,”

Franco Fortini, 1956





In questi anni sono fiorite molte riviste che hanno sfidato la diffusa apatia politica. Esse sono state importanti, anche perché sono spuntate fin sotto i fili spinati dei “vincenti”. Dunque, raccogliersi per una riflessione collettiva è stato possibile; ma come fare perché questa non sia effimera? Molte pubblicazioni hanno chiuso, poche continuano. Tra queste ultime, “Altreragioni”, titolo che dobbiamo a Franco Fortini. Con i primi quattro numeri abbiamo cercato di dimostrare che una continuità è possibile, anche se ardua. La rivista non si appoggia né a partiti né a corporazioni. Essa è autofinanziata dal gruppo di discussione che la firma e che rimane una redazione aperta.
Scorrendo i sommari dei primi quattro numeri, lettrici e lettori si accorgeranno che “Altreragioni” si pone a sinistra, ma non vi siede: non fa parte della sinistra istituzionale, alla quale non concede sconti né per i suoi trascorsi, né per il suo presente. E’ una rivista che intende criticare l’esistente, cercando di sprovincializzare dibattiti che sovente si esauriscono in discorsi prevedibili. “Altreragioni” è uno strumento di riflessione per chi vuole connettere temi che di solito rimangono separati: come la ricerca può aiutare a costruire un punto di vista critico contro le pretese del liberalismo di porsi come linguaggio politico universale, contro la ferocia del mercato, del darwinismo sociale, e dei loro inevitabili esiti di guerra? Quali sono le conseguenze dello sfruttamento in tutte le sue sfaccettature (per colore, sesso, età, istruzione) compresa la spoliazione dell’ambiente? Quali sono i dispositivi che di fatto ci governano? Tra di loro quali sono i più incontrollati? Come demistificare le favole dei mezzi di comunicazione che ci bombardano quotidianamente? E’ possibile scorgere tendenze nell’attività umana che già oggi si contrappongano alla schiavitù salariale? Erano questi alcuni degli interrogativi che ci ponevamo all’inizio di questa rivista …


Il gruppo di discussione di altreragioni, 1995



*      *      *



Sommario dei dieci numeri di
altreragioni




altreragioni   1/92

Sergio Bologna Problematiche del lavoro autonomo in Italia (I)
Michela Bianchi Sistema previdenziale e caduta della solidarietà
Franco Graziani Partecipazione sotto sforzo
Riccardo Bellofiore Piano, capitale e democrazia. I termini di una discussione
Delio Cantimori Lettere inedite
Valerio Marchetti, Antonella Salomoni Una perestrojka della storia. Urss 1985-1991
Michele Pacifico Umberto Segre: la filosofia in presa diretta
Ferruccio Gambino Migranti nella tempesta: flussi di lavoratori senza diritti e di petrodollari nel Golfo Persico



altreragioni   2/93     

Lapo Berti L'Europa di Maastricht
Lapo Berti Moneta e unità europea
Andrea Fumagalli Gli accordi di Maastricht e l'economia italiana
Suzanne de Brunhoff Sette domande
Jean-Pierre Poitier Gli aspetti monetari del Trattato di Maastricht: alcune note sul dibattito in Francia prima del referendum del 20 settembre 1992
Gianni Losito La rappresentazione del processo di integrazione europea nei mezzi di comunicazione
Flaminia Cardini Rivedere Maastricht: l'Europa nelle televisioni
Marina Forti Migranti e immigrati nell'Europa di Schengen
Virgilio Ilari L'Europa di Maastricht e la questione della "Difesa europea"
Cronologia: dall’“Atto unico” al Trattato di Maastricht
Lo straniero Cultura dell’opposizione: si torna agli anni Cinquanta?
Giovanna Procacci Storie di rivoluzioni
Rudy Leonelli Gli eruditi delle battaglie. Note su Foucault e Marx
Dario Da Re, Rossana Mungiello, Dario Padovan Intellettuali, sinistra e conflitto del Golfo: un'interpretazione retrospettiva del dibattito
Germano Lombardi Ricordo
Giulia Contri Piscopo Freud e le guerre mondiali
Bruno Cartosio Stati Uniti: crisi sociale e mutazione capitalistica *
Sergio Bologna Problematiche del lavoro autonomo in Italia (II)


altreragioni   3/94

Lapo Berti Effetti disgregativi dell'integrazione economica europea
Robert Castel Una repubblica di piccoli azionisti
Andrea Fumagalli Il nuovo, il vecchio e le mistificazioni del presente
Ferruccio Gambino Senza alzare lo specchio sull’Italia
Le lotte degli studenti africani per il diritto al l'istruzione: Dario Padovan Premessa
Silvia Federici Le radici economiche della repressione della libertà universitaria in Africa
Comitato per la libertà accademica in Africa Una cronologia delle lotte degli studenti universitari africani: 1985 - 1993
Dalla ex-Jugoslavia: Nicole Janigro Presentazione
Rada Ivekovic Nazioni e ragioni*
Zarana Papic Nazionalismo, patriarcato e guerra
Ferruccio Gambino Industria e finanze estreme
Rudy Leonelli Metamorfosi di Marx
Mavì De Filippis Altri comunismi



altreragioni    4/95

George Caffentzis Rompiamo il silenzio sulla fine della Banca mondiale e del Fmi
Silvia Federici, George Caffentzis Fmi e Banca mondiale: cinquant’anni bastano! Proposta di manifesto per una rete antagonista internazionale
Ismael Ruíz Mocambo L’altra “terziarizzazione”: l’amazzonica. Banca mondiale e impresa a rete in Amazzonia orientale
Maristela Sena, Valter Zanin La parola a un ex-dannato della terra. Intervista con un ex-schiavo in Amazzonia
Devi Sacchetto Macchine elettorali e macchine da cucire nell'America centrale e dintorni
Andrea Fumagalli La politica economica del post-fordismo
Andrea Scacchi Sindacati confederali e governo: le ragioni dello scontro
Franco Graziani Per una sinistra di destra
Lavoro e non-lavoro: Andrea Fumagalli Presentazione
Enrico Pirovano Fabbrica integrata e flessibile
Cristina Morini Lavoro autonomo e settore editoriale in Italia
Franco Graziani Modelli organizzativi e relazioni industriali
Gino Tedesco L’autorganizzazione tra crisi e progetto
Dario Padovan Grande stampa statunitense su sottile ghiaccio italiano
Mavì De Filippis Franco Fortini “faber”
Massimiliano Tomba Adorno e il moderno
Rudy Leonelli Le sventure della virtù. Per la critica del post-antirazzismo
Mavì De Filippis La fabbrica del consenso



altreragioni   5/96

Andrea Fumagalli Lavoro e piccola impresa nell'accumulazione flessibile in Italia (I)
Devi Sacchetto Nodi di autonomia controllata: il tessile e abbigliamento nel Veneto
Mauro Moretto Una zona di esportazione di rango alto e precario
Luca Queirolo Palmas Toyota City e River Rouge nel cuore della Lucania. Voci operaie sul post-fordismo
Elena Mezentseva Le politiche dell'occupazione femminile in Russia fra ideologia ed economia
William Mc Tell Dinamica della crisi politica e mutamento della composizione di classe negli Stati Uniti
Joel Gilbert Chi ha perso un americano?
Giovanna Procacci Muri che crollano, speranze che restano
Sandro Mezzadra Da Seul a Brema e ritorno
Icspmo Dichiarazione di intenti dell'Istituto coreano per gli studi e la politica del movimento operaio
Mavì De Filippis Leggere scrivere raccontarsi



altreragioni   6/97

Rossana Mungiello Lavoro coatto a fine secolo in quattro grandi aree economiche
Lia Toller Gli sbarchi di migranti senza documenti al sud: modelli di differenzialismo nella fortezza europea
Stefano Visentin Umani, troppo umani. I diritti dell’uomo e la sovranità dello stato
Laura Corradi L’Internazionale della speranza. Taccuino dal Chiapas
Su-Dol Kang Corea del sud. Rivolta contro il liberismo
Antonio Casano La crisi e il governo della pace sociale
Andrea Fumagalli Lavoro e piccola impresa nel modello di accumulazione flessibile in Italia (II)
Massimiliano Tomba, Valter Zanin Fare storia per scagionare il presente
Rudy Leonelli Questioni di metodo. A proposito di Kulturkampf
Franco Graziani Angelo Dina. La partecipazione: un'utopia?
Altreragioni In memoria di John Merrington



altreragioni   7/98

Maurizio Merlo Sul residuo lavoro come forma industriale dell’attività
Devi Sacchetto Cuciture e strappi verso Est
Andrea Scacchi La contrattazione collettiva in Europa tra corporativismo conflittuale e corporativismo consociativo
• David Abraham Libertà senza uguaglianza: il legame tra diritti e proprietà in un regime di “cittadinanza negativa” (I)
Livio Quagliata Scomodi fantasmi
Alfredo Alietti Assalto all’Africa: i Grandi Laghi
George Caffentzis Il regime di proprietà intellettuale e la recinzione del sapere africano
Silvia Federici Sul futuro dell’università africana
Franco Graziani Virtuale e reale
Massimiliano Tomba, Valter Zanin Storia e sterminio. Per una critica del revisionismo storico
Rudy Leonelli, Luca Muscatello, Vincenza Perilli, Leonardo Tomasetta Negazionismo virtuale. Prove tecniche di trasmissione
Rudy Leonelli La fabbrica della negazione
Dario Padovan Teoria e prassi del razzismo italiano tra le due guerre



altreragioni   8/99

Giovanna Procacci La cittadinanza sociale di fronte alla crisi del welfare
David Abraham Libertà senza uguaglianza: il legame tra diritti e proprietà in un regime di “cittadinanza negativa” (II)
Alexander Brentel, Luigi Enzo, Stefano Mestriner, Graziano Merotto La subordinazione invisibile: lavorare nelle cooperative nel trevigiano
Andrea Fumagalli, Gino Tedesco Quattro schede sulla forma cooperativa: la situazione nel milanese
Davide Bubbico Natuzzi: “crescere insieme” per lavorare divisi
Valter Zanin Chi mangerà la prossima tigre?
Franco Graziani Risparmiare inquinando
Eugenia Parise Note su democrazia e globalizzazione
Dario Padovan Bio-politica, razzismo e scienze sociali. Politiche totalitarie e disciplinamento sociale durante il fascismo
Ab Incunabulis Documenti del Sessantotto
Ferruccio Gambino Forza-invenzione e forza-lavoro. Ipotesi
Vincenza Perilli L’innocenza di Eva
Ferruccio Gambino Guido Bianchini lungo i gironi del movimento operaio
Edoarda Masi Saluto a Primo Moroni
Laura Corradi In ricordo di Primo Moroni
Ferruccio Gambino Dal sottosuolo alla guerra
Louis Bridgeman, Dario Padovan, Valter Zanin Juguslavia: cronologia delle inavvertenze umanitarie (I)



altreragioni   9/99

Graziano Merotto, Devi Sacchetto, Valter Zanin Navi da crociera in zona di guerra
Beatrice Donini La via veneta all'equilibrio sociale: l'Ente bilaterale per l’artigianato veneto
Francesco Faiella Ruanda e Burundi: conflitti etnici e politiche imperiali nella regione dei Grandi Laghi (I)
Alfredo Alietti Tra comunità e globalizzazione: prospettive dell’economia informale in America Latina
Alberto Airoldi Lo sviluppo del lavoro per conto proprio a Cuba
Luigi Lollini Poesie ai nipoti
Rudy M. Leonelli Fonti marxiane in Foucault
Laura Corradi Comiso-Kosova, andata e ritorno
Paul Parin Saluto
Valter Zanin Nato e Jugoslavia: il Protettorato delle idee
Louis Bridgeman Kossovo: cronologia delle inavvertenze umanitarie (II)
Bernard Friot Quali risorse per i disoccupati?
Mavì De Filippis I barbari alle porte
Mavì De Filippis Il Centro studi Franco Fortini



altreragioni   10/00

Marco Antonio Pirrone Sociologia delle migrazioni e Mediterraneo. Un caso poco esplorato: il Medio Oriente (I)
Alessandro Simoncini Migranti, frontiere, spazi di confine. I lavoratori migranti nell’ordine salariale
Francesco Faiella Ruanda e Burundi: conflitti etnici e politiche imperiali nella regione dei Grandi Laghi (II)
Lauso Zagato La guerra jugoslava, ovvero: il sistema westfaliano è davvero morto in Kosovo?
Maurizio Fontana Dell’estendersi del lavoro precario
Maria Grazia Rossilli Modernizzazione europea: quali opportunità e quali diritti per le cittadine dell’Unione?
Liliane Kandel La parità: progresso, trappola o esca?
Toshi Kayano, Vincenza Perilli Confortanti silenzi
Ralph Raschen La bambina-lavavetri e gli altri undici discepoli dell’incrocio
Mavì De Filippis Il poeta di nome Fortini

venerdì 2 febbraio 2007

Foucault, Marx, marxismi

Il convegno di Bologna del 24 novembre 2005


Qual è stata l’incidenza di Marx e dei marxismi (il plurale è, per noi, d’obbligo) nella formazione di Foucault e nel percorso delle sue ricerche? E quanto il pensiero foucaultiano ha segnato lo sviluppo del marxismo occidentale?
Il convegno "Foucault, Marx , marxismi", organizzato dal Dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna presso la Scuola Superiore di Studi Umanistici, ha cercato di rispondere a questi interrogativi attraverso il confronto tra una pluralità di interventi accomunati dall’esigenza di dar corpo e determinazioni alla complessità di questi rapporti, spesso riconosciuta almeno in linea di principio, ma – in particolare in Italia – raramente esplorata nelle sue molteplici articolazioni.

Manlio Iofrida ha esplorato uno dei periodi più trascurati dalla letteratura critica: il Foucault che, all’inizio degli anni ’50, si iscrive al PCF, e le cui posizioni filosofiche oscillano tra due poli : la psicologia esistenziale di Biswanger (di filiazione heideggeriana) e un marxismo ortodosso in cui trovano spazio elementi di osservanza sovietica (in particolare Pavlov). Due poli rappresentati da due opere del ’54: l’Introduzione a Malattia mentale ed esistenza di Biswanger e Maladie mentale et personnalité. Affrontando il nodo della coesistenza di questi poli, Iofrida ha messo in luce un retroterra comune, che attraversa molteplici marxismi dell’epoca: dalle ascendenze surrealiste, all’opera di Bataille e del Blanchot del dopoguerra, al poeta e resistente René Char; una “nebulosa” in cui diversi orientamenti legati a Marx intersecano riferimenti a Nietzsche e Heidegger. Iofrida ha poi riesaminato le questioni poste dal saggio di Pierre Macherey (in Critique, n. 471-472, 1986) sulle trasformazioni che, con la riedizione del ’64, Foucault ha apportato al testo della Maladie del ’54, e ha esplicitato un unico punto di dissenso da Macherey: nel ’64 Foucault non avrebbe sostituito Marx con Heidegger; quanto piuttosto sostituito a un marxismo di osservanza sovietica un marxismo “nietzscheano-heideggeriano”. Non un cancellazione di Marx, ma l’esordio di un diverso rapporto con Marx, non più soggetto all’ortodossia.

Partendo dal corso del 1976 (Bisogna difendere la società), Guglielmo Forni Rosa ha notato che i riferimenti di Foucault al marxismo non sono omogenei e sono riferibili a diversi marxismi. Foucault distingue il riconoscimento dell’importanza di Marx dalla critica del marxismo come istituzione ancorata ad apparati di potere (partito, Stato). In questo senso, il rifiuto del marxismo come scienza potrebbe essere inteso non tanto come contestazione della legittimità del marxismo a comparire tra le scienze sociali del XIX secolo, ma come critica degli effetti di potere propri a un discorso scientifico. Un punto di forte prossimità a Marx è la concezione foucaultiana dell’individuo come prodotto storico e sociale e non come un dato naturale, sottolineata nel ’76 dall’opposizione “barbaro”/“selvaggio”. Nel rifiuto della dialettica quale forma di pacificazione di un sapere storico-politico “bellicoso”, prevale l’impossibilità di una “uscita dalla storia” in termini di conciliazione.

Sviluppando una lettura del corso del ’76 che ne privilegia le dimensione autoreferenziale (Foucault problematizza riflessivamente la griglia della “battaglia perpetua” che percorre i suoi testi degli ani ’70), Rudy M. Leonelli – con una rielaborazione delle tesi proposte in un saggio pubblicato in Altreragioni (n. 9, 1999) – ha sottolineato che l’intensificazione della lettura interna conduce paradossalmente al suo oltrepassamento, aprendo il problema cruciale del rapporto con Marx, inteso come condizione storica di esistenza della ricerca foucaultiana. L’analisi di questo rapporto è ostacolata tanto dal “gioco” di Foucault che usa frequentemente Marx senza citarlo, quanto a diverse imprecisioni nelle citazioni. Il caso più importante è quello della conferenza del 1976 “Le maglie del potere”, in cui Foucault indica luoghi del Capitale come un punto di riferimento per un’uscita dalla concezione giuridica del potere. Con il riferimento (erroneo) al II libro del Capitale, Foucault si riferisce in realtà a brani del tomo 2 del primo libro, (IV sezione). Solo se si individua il Marx al quale si riferisce Foucault, diviene possibile leggere l’analisi delle tecnologie del potere in termini produttivi come una generalizzazione delle analisi marxiane.

Stefano Catucci ha ricordato che la rilevanza politica di Foucault si è affermata a partire dalle frasi del 1966 (Le parole e le cose) che contestavano la rottura epistemica di Marx in rapporto all’economia politica ricardiana. In seguito Foucault ha cercato non tanto di “ritrattare” questa tesi, ma di circoscriverne la portata, sottolineando la rottura imprescindibile costituita dagli scritti storici di Marx. Alla radice della critica foucaultiana del marxismo, stanno in primo luogo i deludenti esiti dell’esperienza sovietica. Il Foucault più recente, nel corso del 1978, Sicurezza, territorio, popolazione, ha individuato la deficienza fondamentale della cultura socialista nell’assenza di un’autonoma concezione della “governamentalità” – che si è manifestata nella riduzione delle esperienze di governo socialista nell’alternativa tra la subalternità al liberalismo (il socialismo come “antidoto” o “correttore” di quest’ultimo) e lo stato di polizia. Il fatto che la valutazione delle esperienze di socialismo al potere sia stata generalmente posta in termini di fedeltà ad un testo, è al tempo stesso l’indice della mancanza di una concezione autonoma, e un modo di evitare il problema attraverso l’esegesi accademica del testo, verso la quale Foucault ha costantemente mantenuto un atteggiamento critico.

Marco Enrico Giacomelli – riprendendo le tesi che ha proposto in un saggio pubblicato nel numero monografico “Marx et Foucault” di Actuel Marx (n. 36, 2004) – ha evidenziato diverse corrispondenze tra le ricerche dell’operaismo italiano e le genealogie di Foucault. L’inchiesta sul cremonese di Montaldi (1956) inaugura un atteggiamento “partecipante”, in opposizione alla pretesa “neutralità” del ricercatore. Consci dell’obsolescenza degli schemi interpretativi del movimento operaio, gli operaisti privilegiano il terreno dell’inchiesta, poi tradotto nel concetto di conricerca (elaborato da Guiducci, e sviluppato da Alquati). Esperienze accomunabili a Foucault per il primato della pratica, il riferimento al sottoproletariato e la percezione del carattere disseminato del potere (il tema della società-fabbrica nell’operaismo). In rapporto all’attualità, Giacomelli sottolinea la fecondità della pratica dell’inchiesta, oltre i limiti delle impostazioni che, insistendo unilateralmente sul passaggio “epocale” al lavoro immateriale, sottovalutano le dimensioni del comando capitalistico.

Alberto Burgio ha affermato la possibilità di leggere tanto Marx quanto Foucault come due diverse imprese fondamentalmente critiche: è nel segno della critica che può collocarsi il rapporto tra i due. L’esigenza di staccarsi dalla vulgata che vuole un Foucault senza (o contro) Marx, deve farci chiedere da dove proviene: in primo luogo da Foucault stesso che, contestando il ricorso rituale e intimidatorio a Marx, usa Marx senza citarlo, e spesso laddove Marx è per lui più importante. Identificare questo Marx non citato è decisivo in quanto ci permette non solo di capire meglio Foucault e il suo rapporto con Marx, ma anche Marx stesso. Foucault ha ricordato l’importanza di Marx per lo sviluppo del concetto produttivo di potere, riguardo sia al potere disciplinare che alla storia della sessualità. La derivazione marxiana è esplicita, così come è decisivo il ruolo dei rapporti capitalistici. Contro le ricorrenti letture economicistiche di Marx, Foucault ci ricorda che Marx è un eccezionale analista dei rapporti di potere. Di più, Foucault mette in campo un concetto di egemonia che rinvia chiaramente a Gramsci. Ma, precisate queste vicinanze, resta il limite dell’analisi molecolare del potere che, secondo Burgio, non riesce a rendere conto delle crescenti divaricazioni e gerarchizzazioni.

rudy m. leonelli, novembre 2005

Una versione abbreviata di questo resoconto è stata pubblicata dal quotidiano Liberazione, 26 novembre 2005, p. 3, con il titolo:
Foucault, contro Marx. Anzi con...
 
(ripubblicato dalla Rassegna stampa de l'ernesto, da Essere comunisti, dalla rassegna sull'operaismo curata dal sito Prc Pescara)

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sabato 27 gennaio 2007

Un revisionismo normale

Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo "come propriamente è stato". Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell'istante di un pericolo.
(Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia)

Premessa
 Il titolo di un libro di Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, non costituisce soltanto un'adeguata designazione dei negazionisti, araldi della "dottrina secondo la quale il genocidio praticato dalla Germania nazista nei confronti degli ebrei e degli zingari non è esistito, ma appartiene al mito, alla diceria, alla truffa"[1][1].   
Dice anche che la memoria può morire, e non di morte naturale.
Affrontare la questione della memoria a partire dalla sua estremità negativa, la cancellazione, può far emergere la sua materialità. Pensata a fronte della sua possibile sparizione, la memoria si rivela non come una sedimentazione continua, ma come una formazione storica; non una "facoltà" ma un'attività, non un patrimonio pacificamente ricevuto e posseduto ma un compito, un'arma e una posta in gioco.

1. Strategie
Nel composito schieramento revisionista, il negazionismo sembra occupare, a prima vista, una posizione marginale[2].
Focalizzando l'attenzione sul punto cruciale dello sterminio perpetrato dai nazionalsocialisti (e collaboratori) si distinguono due principali correnti: da un lato un revisionismo relativizzatore, accademicamente e mediaticamente presentabile e sovente - ma non senza contestazioni - accettato che, senza ricusare la realtà storica del genocidio, tende a eluderne o eliderne la specificità; dall'altro, il sedicente "revisionismo olocaustico", il negazionismo, più o meno emarginato, che fonda il suo carsico attivismo sull'obiettivo di "confutare" questa realtà.
Assunta in modo rigido - come disgiunzione assoluta di due sfere indipendenti, non comunicanti, reciprocamente estranee - questa distinzione diviene fuorviante, precludendo l'accesso alla dimensione strategica di questi fenomeni.
In un intervento sulla rivista fondata da Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir - «Les Temps Modernes», che mantiene alta e viva l'attenzione critica su questi problemi - Robert Redeker respinge
l'ingannevole distinzione tra revisionismo e negazionismo, essa non ha nessuna pertinenza, il fine perseguito in entrambi i casi si rivela lo stesso, andando il negazionismo direttamente allo scopo, mentre il revisionismo prende per raggiungerlo la via traversa e più paziente della minimizzazione. Il revisionismo in senso stretto, relativizzando ciò che dopo di lui il negazionismo verrà a cancellare, appare come una propedeutica del negazionismo. C'è coalescenza del revisionismo e del negazionismo.[3]
Dal fatto che il negazionismo non sia così isolato come potrebbe sembrare, o piacere, derivano alcune conseguenze. La prima è che la strategia del silenzio, l'idea che sia sufficiente e utile non parlarne, evitando di fornirgli una senz'altro immeritata pubblicità, è ormai da tempo, nella migliore delle ipotesi, una compensazione illusoria. La seconda è che l'analisi dei contesti e delle sinergie che presiedono al suo funzionamento e alla sua riproduzione diviene indispensabile. E urgente.
Natacha Michel sottolinea che il negazionismo non potrebbe incedere senza l'autorizzazione fornitagli da una varietà di revisionismi circostanti:

quello di Furet a proposito della rivoluzione francese, quello che procede alla criminalizzazione delle rivoluzioni del secolo, quello che destituisce il militante come soggetto a profitto della marionetta, quello che abbassa il repubblicanesimo anti-vichyista, ecc. La sola questione che pone il negazionismo è di sapere come è compatibile, rovinato ogni dispositivo di pensiero, e in una volontà di rifare la storia, con le categorie ambienti [4].[4]

In questa prospettiva, alcuni fenomeni altrimenti relegabili nella dimensione del bizzarro e dell'irrilevante divengono comprensibili e sensati. Per esempio il fatto che Ernst Nolte, qualche negazionista italiano ed altri inizino a convenire segnala il superamento di una soglia: dal concatenamento immanente dei discorsi "revisionisti relativizzatori" e negazionisti, sottolineato da Redeker, al coinvolgimento dei soggetti di discorso. [5][5].
Alla cerniera tra i fatti e la riflessione storico-politica si è situata una dimensione decisiva della filosofia contemporanea. È nel riferimento ai fatti, alla loro infima materialità, che Foucault individua il differenziale tra una critica improntata all'armonia prestabilita con le istituzioni e un'altra, più interessante e certo meno confortevole. La critica attiva dei revisionismi, che comporta la necessità di "abbassarsi" a registrare, tentare di decriptare e cartografare eventi non sempre grandi per risonanza e dimensioni , seguire i reticoli mobili e spesso sottili dei fatti (discorsivi e non), è destinata a urtare robusti e molteplici ostacoli. In una parola è scomoda. Essa porta così in rilievo l'esistenza di qualcosa come un interdetto ufficioso ma efficace, che getta una luce diversa sulle istituzioni, sul loro funzionamento e sui loro confini.
Un evento minore, incorporeo come un "convegno che avrebbe dovuto tenersi..."[6] [6] e al tempo stesso materiale come un testo che raccoglie relazioni non pronunciate, presuppone delle condizioni e comporta delle conseguenze.
Tra queste, la più importante è la rottura formale della separazione che sosteneva la legittimazione culturale del revisionismo relativizzatore di Nolte e il suo complemento: il posticcio alone "sovversivo" di cui si ammantava il negazionismo. Al definitivo eclissarsi di questa dicotomia, occorre ricordare che la sua presunta evidenza non è stata da tutti condivisa. Nel 1987, in pieno Historikerstreit[7],[7] Vidal-Naquet osservava con folgorante tempestività: "È grave vedere uno storico come Nolte utilizzare argomenti dell'arsenale revisionista. Come Rassinier, Faurisson o Kern" [8][8] La congiunzione tra i due filoni non è altro che il tardivo riconoscimento di una parentela più lontana: l'attenuazione del genocidio e la sua negazione occupano spazi diversi ma comunicanti e parzialmente sovrapposti.
A fronte della buona coscienza esterrefatta perché un professore emerito dell'Università di Berlino tesse l'elogio della scientificità dei metodi negazionisti, le Tesi di Benjamin balenano come un ricordo nell'istante di un pericolo:

lo stupore perché le cose che viviamo sono ancora possibili (...) è tutt'altro che filosofico. Non è l'inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l'idea di storia da cui proviene non sta più in piedi [9][9].

Uno rapido sguardo critico ad alcune delle motivazioni fornite da Nolte a sostegno della legittimazione dei negazionisti, esposte in un testo del 1993, Streitpunkte [10][10], permette di evidenziare alcune poste in  gioco decisive di questa operazione:

Nolte riduce polemicamente il rifiuto del dialogo coi negazionisti a una sola motivazione: il legame del negazionismo col "vecchio nazionalsocialismo" e col "neonazismo" (le eufemistiche virgolette su questi due termini sono dello stesso Nolte). Attraverso questa riduzione egli rimuove il nucleo della questione: un dibattito coi negazionisti presuppone che lo sterminio perpetrato per mezzo delle camere a gas venga fatto regredire dal piano della realtà storica a quello delle "opinioni" e delle "ipotesi". È l'inaccettabilità di questo presupposto a motivare l'inaccettabilità del dialogo, e proprio su questo punto Nolte è particolarmente minimizzatore.
L'immagine della collocazione politico-ideologica dei negazionisti fornita da Nolte non è altro che una sommaria riproduzione dell'immagine di sé fornita dalla propaganda negazionista. Non c'è, a questo livello, alcun distacco critico: nulla è detto dei rapporti tra "l'uomo di sinistra" Rassinier e i nazisti e fascisti europei, così come la connotazione dell'editrice negazionista Vieille Taupe è dedotta semplicisticamente dalla sua etichetta: "la vecchia talpa è la rivoluzione". Nolte non dice nulla della tortuosa (ma documentabile e documantata) storia di questa impresa "rivoluzionaria" che è giunta a partecipare ai meeting del partito di Le Pen, né dei legami della stessa con i neonazisti francesi. Limitandosi a decretare il carattere "scientifico" del negazionismo, Nolte separa artificiosamente in esso la propaganda dalla scienza, mentre non fa che riprodurre la propaganda stessa.
Nolte pretende così, in quanto storico, di sancire la scientificità di una "scienza" (qui, di una "scienza" che ha per oggetto la storia) senza porre il problema della capacità di questa "scienza" di pensare la propria storia: su questo piano, accuratamente evitato, il negazionismo è particolarmente vulnerabile, non potendo rendere conto della propria genesi e costituzione in termini altri dall'idealità.[11]

In un paese normale.
In Italia, nel corso di questo decennio fin de siècle, il negazionismo si trova ad operare in una situazione radicalmente mutata.
Nel dopoguerra la letteratura negazionista è restata a lungo un genere minore a circolazione ridotta, relegato ai ristretti circuiti dell'estrema destra, che hanno realizzato le prime traduzioni italiane delle opere del paradossale capostipite: il pacifista Paul Rassinier .
Soltanto all'inizio degli anni Ottanta, sulla scia del "caso Faurisson"[12] [11]che offre una inedita notorietà spettacolare alle "tesi" negazioniste, iniziano a comparire in Italia i primi articoli ed opuscoli prodotti in frange minori dell'estrema sinistra ispirate al bordighismo, ad alcune correnti libertarie e/o al situazionismo, ma scarsamente rappresentative di queste tendenze. Si tratta di un fenomeno confidenziale, che non riesce a coinvolgere in modo significativo l'estrema sinistra italiana.
Negli anni Novanta il "dibattito" culturale europeo è rapidamente saturato dai revisionismi circostanti e dalle culture ambienti che hanno come effetto collaterale il disserramento del negazionismo. Di più, come ogni altro paese storicamente (cor)responsabile dell'impresa genocida, l'Italia trascina e cerca di risolvere e finalmente archiviare specifici problemi di identità nazionale. Come sottolinea Lutz Klinkhammer:

in Italia negli ultimi anni è stata fortemente auspicata una 'conciliazione nazionale', considerata un elemento fondamentale per una società 'postfascista'. Il 'superamento' del passato fascista da parte di una presunta società postfascista presuppone però l'offuscamento dei lati negativi di questo passato [12].[13]

La "grande esigenza di sottoporre determinate interpretazioni della storia nazionale a un processo di armonizzazione", che comporta operazioni di "abbellimento" del passato[14] [13] costituisce l'indispensabile articolazione sul piano storiografico del progetto di costituzione di un paese normale. Questo slogan, che il pubblico italiano ha conosciuto come parola d'ordine della sinistra di governo, ha però a sua volta una storia. La genealogia delle procedure di pacificazione della storia conduce a ridimensionare drasticamente la presunzione di originalità della cultura politica italiana. Mark Terkessidis sottolinea che, già nel 1980, Armin Mohler, precursore della Neue Rechte, sosteneva la necessità per i tedeschi di "tornare a essere una nazione normale come le altre: una nazione indivisa, non solo fisicamente vitale, ma anche abbastanza armonica interiormente"[15]. L'obiettivo di divenire una "nazione normale", che istituisce un rapporto "armonico" col proprio passato, è da tempo una posta in gioco decisiva del revisionismo storico tedesco:

La storia non deve più essere oggetto di scontro, deve essere integrata come un elemento 'normale' all'interno della nazione e deve costituire una stabile "identità nazionale" [15].[16]

La sutura della memoria, chiudere le lacerazioni aperte e latenti nella storia moderna, e quelle più specifiche della "storia patria", è ormai divenuto, anche in Italia, un programma statale. La trasmissione del sapere - della storia, certo, ma non solo - è investita da questa operazione. Ma se le relazioni di potere e sapere non passano sopra, ma attraverso di noi, ad ogni snodo della trasmissione del sapere in cui (emittenti e/o riceventi) siamo collocati, esistono resistenze possibili.
Annunciata sul piano metapolico, la "trasgressione delle vecchie appartenenze", (destra/sinistra, fascismo/antifascismo, etc.), è rapidamente e prevedibilmente divenuta normativa e il negazionismo, che in questo campo ha svolto, fin dai tempi di Rassinier, un ruolo pionieristico, si trova nella paradossale posizione del creditore che può reclamare il legittimo pagamento di un debito.
Nel 1996 le cerimonie ufficiali dello Stato italiano giungono ad accomunare retrospettivamente coloro che - in onestà d'intenti - hanno sostenuto la macchina dello sterminio o l'hanno combattuta [16].[16].[ Lo stesso anno, in tutt'altra dimensione, il moto sinistrorso, che disloca le traduzioni italiane di Rassinier dalle storiche editrici di estrema destra alla nuova edizione "di sinistra", si compie giustificandosi con analogo argomento: l'ex deportato, legandosi a (vecchi e neo) fascisti e nazisti europei, non ha fatto altro che collaborare con onest'uomini di estrema destra (o, con eufemismo supplementare, reputati tali...[17.[16]).[18] Generalmente inosservata, la formazione di un luogo comune a due spazi distanti e distinti, il discorso ufficiale e al suo preteso "altro", è indice di una nuova egemonia che non è, semplicisticamente, il risultato della decisione sovrana delle "classi dominanti", ma l'effetto di una molteplicità di trasformazioni disperse che hanno reso normale il revisionismo.
Il negazionismo non si sostiene sulla "qualità" delle proprie tecniche di "confutazione" delle prove del genocidio, ma su quelle che poteremmo chiamare, con Wittgenstein, "somiglianze di famiglia":

Non posso caratterizzare queste somiglianze meglio che con l'espressione "somiglianze di famiglia"; infatti queste somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono e s'incrociano nello stesso modo: corporatura, tratti del volto, modo di camminate, temperamento, ecc. ecc. E dirò: i 'giochi' formano una famiglia [18].[19]
Il "gioco" negazionista non è identico a nessuno dei "giochi" revisionisti normalmente ammessi, ma condivide tratti, presupposti, gruppi di enunciati e segmenti di regole con ciascuno di essi. Probabilmente è qui la forza del moto che lo trasporta insensibilmente, ma inesorabilmente, dal regno dell'inaudito verso il mondo del già-sentito. Non è nella tecnica del discorso negazionista, ma nel vuoto di memoria che lo circonda, il "segreto" che rende possibile il prodigio di un iceberg rovesciato: la negazione in senso stretto è una punta sommersa, mentre la grande massa del corpus discorsivo è già fuori, nell'aria e nella luce del tempo.

Negazione, navigazione.
Il negazionismo naviga in rete. Diventa una nuova e imprevedibile forma di segreto pubblico.[16].[20].[19]
Il dosaggio di escursioni esplicite e forme di implicitazione ha, per questa impresa, carattere strutturale. Le iniziative editoriali che, oltre alle tradizionali collane di estrema destra, hanno visto sorgere un'editrice che affianca alla pubblicazione di testi di estrema sinistra una serie di opere negazioniste nate, letteralmente, a destra e a manca, sono circondate da una nebulosa di episodi "minori": dalla circolazione più o meno informale di testi anonimi o pseudonimi, a varie forme di "concessione", slittamento linguistico e concettuale, reperibili nei testi prodotti da diversi aggregati. Le forme allusive, fluide, intermittenti, costituiscono un indispensabile genere di accompagnamento. La moltitudine di episodi disparati è generalmente percepita come un ammasso di casi sconnessi: volta a volta si tratterebbe di un'eccezione irrilevante e priva di significato. A questa dislessia, si può opporre una prospettiva che veda il caso particolare come indice della tendenza, così "come il cader di una goccia rappresenta la direzione della pioggia"[23].[16].[21]
Lo scandalo non è una risposta adeguata, ma un effetto previsto, calcolato, reiterato. Come se la compiuta "violazione dei tabù" potesse ripetersi indefinitamente, monotona, petulante, trascinata in un attivismo inerte dal moto della propria inflazione: utopia realizzata del perpetuo lancio pubblicitario dello stesso prodotto.
Che il negazionismo, apparentemente così arcaico, navighi nel più avanzato universo telematico è un ultimo, estremo paradosso non solo di questa corrente, ma del nostro tempo.
Il problema non concerne semplicemente la possibilità di aggirare i divieti legali[21],[22] in Italia inesistenti, ma più radicalmente la logica del mezzo e la sua ideologia: la fruibilità di oggetti avulsi dalla loro storia, la circolazione di una massa di informazioni tutte egualmente raggiungibili e quindi difficilmente selezionabili, l'apologia della deregulation comunicativa: la possibilità di dire (e all'occorrenza negare) tutto e il contrario di tutto, di cui non si sospetta la stupefacente parentela con l'assoluta impossibilità di dire qualcosa, la "libera" fluttuazione e il collage arbitrario di enunciati privi di contesto. Emmanuel Chavaneau ha osservato come il negazionismo, adattandosi con facilità all'aria del tempo, possa partecipare a giusto titolo alla "hit parade della felicità in serie" accessibile a domicilio per mezzo di Internet, nella multiforme offerta di certezze a buon mercato [22].[23]
Un problema centrale è costituito dall'articolazione dei più banalizzati motivi anti-identitari con l'interazione telematica: la trionfale apologia di una "democrazia virtuale" basata sullo scambio di messaggi tra individui e gruppi che "indossano" identità fittizie e indefinitamente cangianti[23].[24] Come ha recentemente dimostrato l'eccellente libro di Nadine Fresco sul capostipite del negazionismo, già in Rassinier la "revisione" della storia è doppiata da una costante "autorevisione": Rassinier ha ininterrottamente modificato e falsificato la propria biografia politica, costruendo un personaggio fittizio ai fini di legittimare la falsificazione negazionista della storia[24].[25] Gli epigoni hanno non soltanto riprodotto questo procedimendo, tramandando in modo acritco la (auto)biografia fittizia del Maestro, ma ne hanno rilanciato i metodi, e non a caso hanno trovato nel carnevale virtuale delle identità fittizie un ambiente particolarmente adatto alla propagazione.
C'è materia sufficiente per leggere con rinnovata attenzione le Tesi di filosofia della storia: "Nulla ha corrotto la classe operaia tedesca come l'illusione di nuotare nella corrente. Lo sviluppo tecnico era la corrente in cui credeva di nuotare". È stata questa, secondo Benjamin, una delle cause dello sfacelo successivo.[25].
 [26]
Il dinamismo cosciente della storia

Il testo di Vladimir Jankélévitch appare al nuovo senso comune come il relitto di una bizzarra civiltà scomparsa:

Ma Auschwitz, ripetiamolo, non è argomento di discussione; Auschwitz esclude i dialoghi e le conversazioni letterarie; e la sola idea di confrontare il Pro e il Contro ha qui qualcosa di vergognoso e di derisorio; questo confronto è un'indecenza nei confronti dei suppliziati. Le "tavole rotonde", come si dice, sono fatte per i giochi ai quali si dedicano ogni estate i nostri brillanti conversatori durante le loro vacanze; ma i campi della morte sono incompatibili con questo genere di dibattiti e di cicalecci filosofici, Del resto il nazismo non è un'"opinione", e non dobbiamo prendere l'abitudine di discuterne con i suoi avvocati[27][26].

Quest'etica - che segnala l'esistenza di un limite all'indiscriminata proliferazione del "dialogo" - ci lascia responsabili della sua traduzione in un tempo che non è più quello della sua enunciazione. Nel 1974, Foucault, partecipando a una discussione critica della moda rétro, caratterizzata dal successo di film come Cognome e nome Lacombe Lucien, di Louis Malle,[28] aveva fatto alcune osservazioni importanti sulla memoria e sui conflitti che la investono:

È in atto un vero e proprio scontro. E qual è la posta in gioco? Ciò che si potrebbe chiamare grosso modo memoria popolare (...) La storia popolare era, fino ad un certo punto, più viva, più chiaramente formulata, ancora nel XIX secolo, in cui esisteva per esempio, tutta una tradizione di lotte che venivano riportate sia oralmente, sia con dei testi, delle canzoni, ecc. Dunque, una serie di meccanismi è stata messa in moto (la "letteratura popolare", la letteratura a buon mercato, ma anche l'insegnamento scolastico) per bloccare questo dinamismo della memoria popolare e si può dire che il successo dell'impresa sia stato relativamente grande (...) Ora, la letteratura a buon mercato non basta più. Ci sono dei mezzi molto più efficaci: la televisione e il cinema. E credo che fosse un modo di ricodificare la memoria popolare, che esiste, ma che non ha alcun mezzo per esprimersi. Allora, si mostra alla gente non quello che sono stati, ma quello che devono ricordare di essere stati. Poiché la memoria è comunque un grosso fattore di lotta (in effetti è proprio in una sorta di dinamismo cosciente della storia che le lotte si sviluppano) si tiene in pugno la memoria della gente, il suo dinamismo, e anche la sua esperienza, la conoscenza delle lotte precedenti. Bisogna non si sappia più cos'è la resistenza...[29][27].

Queste considerazioni, senza dubbio datate, si situano in un punto critico che partecipa di un processo più ampio e, a distanza di un quarto di secolo, hanno soltanto valore indicativo per una possibile analisi critica della cultura attualmente egemone. Ma assegnano alla memoria una valenza storica non contingente: la genealogia non è l'opposizione della storia alla memoria , ma l'accoppiamento delle conoscenze erudite e della memorie "locali" (estranee al sapere comune e al buon senso) delle lotte e dei luoghi "speciali" come il carcere, il manicomio ecc. La memoria non ha in questa prospettiva una funzione di pacificazione, ma di rottura: si insedia nella distanza e nel conflitto, riattivandoli.[30][28].
Nel caso estremo dei campi di sterminio non sorprende che il buon senso, per il quale il genocidio è "assurdo" e "incredibile", sia uno dei ritornelli argomentativi preferiti dalla pseudo (Nolte permettendo)-scienza negazionista nella sua guerra di annientamento della memoria dei deportati e della memoria storica.[31][31].
Dalla Scuola di Francoforte a Foucault e oltre, non senza considerevoli spostamenti e radicali riformulazioni, l'attività filosofica è stata sfigurata dallo sterminio. Il tracciato di "una filosofia presente, inquieta, mobile lungo tutta la sua linea di contatto con la non-filosofia",[32] l'ha incontrato come un luogo inevitabile, che le ha imposto un'inquietudine permanente.
In un tempo in cui "il razzismo non è in regressione, ma in progresso",[33][31] emerge da La volontà di sapere, come da una sorta di pagine postume pubblicate in vita, una linea di problematizzazione che conduce al modo in cui il mito nazista del sangue si è trasformato "nel più grande massacro di cui gli uomini possano, a tutt'oggi, avere memoria"[32].[34]  Da oltre mezzo secolo, la riflessione sulla storicità della ragione ha come condizione di esistenza e come problema irrinunciabile la memoria di questa lacerazione.
In questo spazio, i "problemi" che il negazionismo pretende di porre sono irricevibili. Esso può costituire un problema come oggetto, eventualmente come minaccia, non come interlocutore. Nessuna problematizzazione degna di questo nome può prendere sul serio la caricaturale deduzione "marxista" secondo la quale i campi di sterminio non possono essere esistiti in quanto non compatibili con le esigenze di sfruttamento capitalistico della forza-lavoro. Così come l'interpretazione del nazismo come irruzione metafisica del Male - che costituisce il bersaglio polemico (e il modello rovesciato) del negazionismo - ha molto a che vedere con il l'enorme lavoro storico e filosofico contemporaneo che non configura il nazismo come l'assolutamente Altro della nostra normalità. Strategicamente offensivo e tatticamente trasgressivo, il negazionismo è da questo punto di vista ideologicamente sedativo: la sua tendenza a eliminare o rendere evanescente la storia mira a ristabilire una pace terrificante laddove l'analisi delle forme storiche della razionalità moderna nei loro complessi rapporti con il razzismo e le sue trasformazioni hanno introdotto un'inesauribile tensione critica e autocritica nel nostro pensiero e nelle nostre pratiche.
Mantenere viva questa tensione non è mai semplicemente, questione di difesa della memoria, ma di una sua riattivazione. Non possiamo affermare  la consapevolezza critica del  passato senza turbare il presente.

rudy m. leonelli,
Un revisionsmo normale”
in Luca Verri (a c. d.),
Santarcangelo di Romagna,
Fara editore, 1999







NOTE:


[1]1. Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1993 (ed. or. 1987), p. 77.
[2]2. Per un primo e articolato orientamento bibliografico sulle differenti tendenze revisioniste e la relativa letteratura critica rinvio alla bibliografia essenziale curata da Cesare Bermani in appendice a C. Bermani, S. Corvisieri, C. Del Bello, S. Portelli, Guerra civile e stato. Per una revisione da sinistra, Roma, Odradek, 1998, pp. 82-100.
[3]3. R. Redeker, "La toile d'araignée du révisionnisme", «Les Temps Modernes», (1996) 589, p. 1.
[4]4. "Le négationnisme: histoire ou politique?", in N. Michel (a c. d.), S. Lindeperg, M. Chaillou, D. Daeninckx, P. Lartigue, J. C. Milner, S. Lazarius, F. Dominique, Ph. Beck, F. Regnault, N. Fresco, J.-P. Faye, M. Deguy, A. Badiou, Paroles à la bouche du présent,        Marseille, Al Dante, 1997, p. 10.
[5]5. Mi riferisco a F. Abbà, R. Gobbi, E. Nolte, F. Berardi (Bifo), F. Coppellotti, C, Saletta, Revisionismo e revisionismi, Genova, Graphos, 1996; presentato dall'editrice negazionista quale raccolta delle "relazioni di un convegno che si sarebbe dovuto svolgere a Trieste nei giorni 8 e 9 marzo 1996".
[6]6. Vedi nota precedente.
[7]7. I più importanti documenti della "disputa tra gli storici" (Historikerstreit) intorno al passato nazionalsocialista che, nel 1986-87, ha visto la contrapposizione all'offensiva da parte di storici revisionisti come Nolte, A. Hillgruber, K. Hildebrand, M. Srtürmer    da parte di J. Habermas e storici come M. Broszat e W. Mommsen, sono raccolti in traduzione italiana in G. E. Rusconi (a cura di), Germania: un passato che non passa. I crimini nazisti e l'identità tedesca, Torino, Einaudi, 1987. Per un resoconto critico è di particolare interesse A.-H. Wehler, Le mani sulla storia. Germania: riscrivere il passato?, trad. it. Firenze, Ponte alle Grazie, 1989.
[8]8. P. Vidal-Naquet,Gli assassini della memoria, cit., p. 122.
[9]9. W. Benjamin"Tesi di filosofia della storia", tr. it. in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1962 (ed or. 1955), p. 79.
[10]10. E. Nolte, Controversie. Nazionalsocialismo, bolscevismo, questione ebraica nella storia del Novecento, tr. it. parziale, Milano, Il Corbaccio, 1999.
[12]11. Per una cronologia del cosiddetto "affaire Faurisson", che ha portato alla ribalta l'ideologo negazionista a partire dalla pubblicazione del suo testo Le problème des chambres à gaz' ou 'La rumeur d'Auschwitz'" su «Le Monde» del 29.12 1978, p. 8
 1978, p. 8, vedi V. Pisanty, L'irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo, Milano, Bompiani, 1998, pp. 15-17.
[13]13. L. Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Roma, Donzelli, 1997, p. VII.
[14]14. Ivi, pp. VII-VIII.
[15]15. A. Mohler, Vergangenheitbewältigung, Krefeld, 1980, p. 88 ss., cit. in M. Terkessidis, Kuturkampf. L'Occidente e la Nuova Destra, tr. it., Milano, Marco  Tropea editore, 1996, p.149.
[16]16. M. Terkessidis, op. cit., p. 156.
[17]17. Cfr. C. Bermani, Il nemico interno. Guerra civile e lotta di classe in Italia (1943-1976), Roma, Odradek, 1997, pp. 74-80.
[18]18. Cfr. il mio "La fabbrica della negazione", art. cit.
[19]19. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, tr. it., Torino, Einaudi, 1974 (ed. or. 1953), § 67, p. 47.
[20]20. In un caso liminare ma sintomatico, all'inizio degli anni Novanta la propaganda negazionista ha rinnovato in ambito telematico la vecchia tattica degli pseudonimi, creando personaggi fittizi, in seguito dissimulati e qua e là riaffioranti tra le parodistiche notti e nebbie del no name. Cfr. R. Leonelli, L. Muscatello, V. Perilli, L. Tomasetta, "Negazionismo vituale: prove tecniche di trasmissione", altreragioni, (1998) 7, pp. 175-181.
[21]21. I. Nievo, Le confessioni d'un italiano, Milano, Mondadori, 1981, pp. 4-5.
[22]22. Questo aspetto importante, ma a mio avviso non esaustivo, è l'unico evidenziato nel breve paragrafo dedicato a "La propaganda su Internet" del libro di Valentina Pisanty, L'irritante questione delle camere a gas, cit., p. 23: "Il canale informatico si rivela un'ottima soluzione contro la censura che, in alcuni paesi europei, colpisce gli scritti dei negazionisti. Come si sa, infatti, lo spazio informatico è aperto a tutti e, anche se si decidesse di rifiutare l'accesso alla rete a un sito ritenuto ideologicamente pernicioso, esistono molti modi per aggirare il divieto".
[23]23. "L'illusion d'une vie sans histoire", in A. Bihr, G. Caldiron, E. Chavaneau, D. Daeninckx, G. Fontenis, V. Igounet, T. Maricourt, R. Martin, P, Piras, C. Terras, Ph. Videlier, Négationnistes: les chiffoniers de l'histroire, Villeurbanne - Paris, Golias -Syllepse, 1997, p. 210.
[24]24. Per una critica degli effetti di questa pratica e della sua ideologia nell'ambito della comunicazione politica vedi Thomás Maldonado, Critica della ragione informatica, Milano, Feltrinelli, 1998. Per una critica dei profeti dell'era digitale vedi anche F. Graziani, ""Virtuale e reale", «Altreragioni», (1998) 7, pp. 157-161.
[25] 25. N. Fresco, Fabrication d'un antisémite, Paris, Seuil, 1999.
[26] 26. W. Benjamin, "Tesi di filosofia della storia", cit., p.81.
[27] 27. V. Jankélévitch, Perdonare?, Firenze, La Giuntina, 1987 (ed. or. 1971), pp. 25-26.
[29] 28. "Anti-rétro Conversazione con Michel Foucault", trad. it., AAVV. Passato ridotto, a cura di G. Gori, Firenze, La casa Usher, 1982, p. 19.
[30] 29. Cfr. M. Foucault, "Corso del 7 gennaio 1976", in "Bisogna difendere la società", Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 11-25.
[31] 30. Non avendo interesse a replicare agli argomenti "tecnici" dei negazionisti, risparmio esempi che chiunque sia in grado di sopportarne la lettura può facilmente rinvenire nella prosa "scientifica" di questi esperti.
[32]31.  M. Foucault, L'ordine del discorso, tr. it., Milano, Feltrinelli, 1972, p. 57.
[33]32. E. Balibar, "Prefazione" a E. Balibar - I. Wallerstein, Razza nazione classe. Le identità ambigue, trad. it., Roma, Edizioni associate, 1990, p. 20.
[3433. M. Foucault, La volontà di sapere, tr. it., Milano, Feltrinelli, 1978, p. 133.