Il soggetto produttivo.
Da Foucault a Marx
di Pierre Macherey
ed. ombre corte
Sandro Mezzadra
Quella potenza umana ridotta a merce
da: il manifesto,13 giugno 2013
Per organizzare il lavoro si producono «norme», che regolano comportamenti, ma anche limiti e resistenze
«Marx per me non esiste», dichiarò Michel Foucault in un dialogo del
1976 con la redazione della rivista Hérodote. E aggiungeva: «voglio dire
questa specie d'entità che s'è costruita attorno a un nome proprio, e
che si riferisce ora a un certo individuo, ora alla totalità di quel che
ha scritto, ora a un immenso processo storico che deriva da lui». C'è
qui una chiave per intendere il rapporto intrattenuto da Foucault con
Marx, tema che continua a essere al centro di molti studi e dibattiti
(si veda ad esempio il bel libro curato da Rudy Leonelli, Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, Bulzoni, 2010): la radicale distanza di Foucault
dal marxismo, inteso come compatto edificio dogmatico, si accompagnava
in lui alla diffidenza nei confronti di ogni tentativo di
«accademicizzare» Marx, di ridurlo a un «autore» come un altro.
Quest'ultima è un'operazione certo legittima, continuava Foucault
nell'intervista del 1976, ma equivale a «misconoscere la rottura che lo
stesso Marx ha prodotto». Quella rottura nel cui solco Foucault ha
continuato per molti versi a pensare - non senza produrre ulteriori
rotture, che lo hanno spesso condotto lontano da Marx.
Il lungo
saggio di Pierre Macherey, che la casa editrice ombre corte manda ora in
libreria nella forma di un piccolo libro (Il soggetto produttivo. Da
Foucault a Marx, pp. 95, postfazione di Toni Negri e Judith Revel, euro
10), interviene con grande originalità nel dibattito su questi temi. In
questione non è, nel lavoro di Macherey, la ricerca delle influenze di
Marx su Foucault, né l'alternativa tra l'«ipotesi di un Marx (già)
foucaultiano e quella di un Foucault (ancora) marxista». Memore della
lezione di Althusser, di cui fu uno dei collaboratori al tempo di
Leggere il Capitale (1965), Macherey propone piuttosto una lettura
«sintomatica» di alcuni testi di Marx, facendovi agire un insieme di
ipotesi avanzate da Foucault, in primo luogo a proposito del potere. E
al contempo, immergendole nella concettualità marxiana, punta a
precisare e a ridefinire lo statuto teorico delle ipotesi di Foucault.
Gestire i corpi L'indagine
di Macherey prende le mosse dalla definizione di «bio-potere» offerta
da Foucault in La volontà di sapere (1976). È lo stesso linguaggio qui
utilizzato da Foucault - «l'investimento del corpo vivente, la sua
valorizzazione e la gestione distributiva delle sue forze» - a segnalare
lo scarto che la categoria di «bio-potere» determina nell'analisi del
potere. Più che nell'ambito tradizionalmente politico è sul piano
dell'«economia» che questa analisi deve ora situarsi: ma, commenta
Macherey, l'economia non appare qui in primo luogo incentrata «sui
valori dei beni scambiabili, sulla base di una economia delle cose; essa
si preoccupa piuttosto principalmente della gestione della vita, dei
corpi e delle loro 'forze'». Vita, corpi, forze: sono termini
essenziali nella critica marxiana dell'economia politica, e in
particolare in quel concetto di forza lavoro che ne costituisce
l'architrave. «L'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che
esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo»:
così Marx definisce la forza lavoro nel primo libro del Capitale, e già
Paolo Virno, in un libro di diversi anni fa (Il ricordo del presente,
Bollati Boringhieri, 1999), aveva invitato a guardare a questo concetto
per cogliere l'«origine non mitologica» della biopolitica foucaultiana.
Macherey, per parte sua, assume la definizione marxiana della forza
lavoro come filo conduttore di un'analisi del capitalismo che evidenzia
la natura cruciale dei conflitti che al suo interno investono la
produzione stessa di soggettività. Decisiva, a questo riguardo, è la
natura «potenziale» della forza lavoro, la distinzione fra le
attitudini e le facoltà che ne definiscono il concetto e il «lavoro»
vero e proprio: una volta ceduto al capitalista il diritto all'«uso»
della propria forza lavoro, il possessore di quest'ultima «diventa
actu», per citare ancora Marx, «quel che prima era solo potentia, forza
lavoro in azione, lavoratore». È in questa distinzione, che riprende e
riformula quella aristotelica tra potenza e atto, è nel «genio» con cui
il capitale sfrutta il differenziale tra ciò che il lavoratore «può
fare» e ciò che «concretamente fa» che Marx individua il «segreto» della
produzione del plusvalore - e dunque l'origine dello sfruttamento.
Commenta Macherey: «la metafisica funziona a condizione di prenderla per
il verso giusto, facendola entrare in fabbrica». La mercificazione
della potenza umana, ovvero il fatto che una classe di donne e uomini
sia costretta a rendere merce la propria forza lavoro (a vestire i panni
dei «possessori di forza lavoro»), è il fondamento del capitalismo. Le
conseguenze che ne derivano dal punto di vista della soggettività sono
evidentemente di enorme importanza. Il lavoratore appare un «soggetto
diviso», nel senso che, pur rimanendo «interamente padrone della propria
forza lavoro», ne ha alienato l'uso (il che porta Macherey a
sottolineare come il contratto di lavoro vada inteso propriamente come
un contratto di «locazione» della forza lavoro e non, secondo la lettera
del testo marxiano, come contratto di «compravendita»). Ma soprattutto
doppia appare la natura della stessa forza lavoro: quando il capitalista
acquista il diritto all'«uso» della forza lavoro, paga con il salario
quello che essa «è già», ne retribuisce per così dire il valore «a
riposo». Mentre quando la forza lavoro, sotto il suo comando, viene
messa al lavoro, essa non è semplicemente «forza produttrice» ma forza
produttiva, ovvero creatrice di valore in eccesso rispetto a quello
corrisposto originariamente dal capitalista al suo possessore. E
soprattutto, la «forza lavoro» come forza produttiva appare come
«portatrice di potenzialità sulle quali possono essere esercitati una
pressione e un controllo atti a intensificare tali potenzialità».
Rapporti di forze Si
vede bene, in questo senso, come il concetto marxiano di forza lavoro
apra immediatamente lo spazio per indagare le operazioni del
«bio-potere». Lavorando sulla traccia del riferimento esplicito a Marx
in uno dei primi testi di Foucault in cui compare questo concetto (la
conferenza tenuta a Bahia nel 1976, «Le maglie del potere»), Macherey
rilegge in modo molto efficace alcuni concetti e temi marxiani - dal
«lavoro sociale» alla «cooperazione», dal «dispotismo» di fabbrica al
«campo di lavoro» - per mostrare come lo svolgimento della problematica
della forza lavoro determini un'implicazione reciproca di «bio-potere» e
produzione di soggettività. Si potrebbe perfino dire, annota Macherey,
che «la produzione industriale capitalistica inventa l'essenza umana,
sotto forma di forza produttiva, per sfruttarla». Sono in particolare le
figure collettive assunte dal lavoro (a partire da quella del «lavoro
sociale») a determinare l'entrata in scena di tecnologie di potere del
tutto immanenti alla cooperazione produttiva, e che dunque soltanto per
una sorta di paradossale illusione ottica possono essere considerate
come parte di una «sovra-struttura». Leggendo in particolare i
capitoli del primo libro del Capitale dedicati alla cooperazione e alla
giornata lavorativa, Macherey svolge considerazioni di grande interesse
sul tema foucaultiano della «società di norme», lavorando sul doppio
significato (descrittivo e prescrittivo) del termine «norma». La
produzione di norme per la razionalizzazione dell'organizzazione del
lavoro (ovvero per l'intensificazione della sua «produttività») appare
da questo punto di vista un terreno essenziale di analisi, per
comprendere tanto la tendenza delle norme a porsi come una «seconda
natura», come un habitus «che orienta i comportamenti umani senza
apparire alla coscienza come il principio che li dirige», quanto i
limiti e le «resistenze» con cui quella tendenza necessariamente si
scontra. Capitale e potere (lo notano nella loro postfazione Negri e
Revel) sono in fondo definiti da Marx e Foucault in termini di «rapporti
di forze», e l'elemento della lotta ne è dunque costitutivo. Se un
appunto si può muovere al lavoro di Macherey è di non aver svolto fino
in fondo questo aspetto del suo discorso, di aver indicato con grande
precisione il terreno su cui opera il «bio-potere» nel capitalismo ma di
non aver intrapreso (riservandola forse a un'occasione successiva)
l'analisi delle modalità con cui l'eccesso costitutivo del «lavoro vivo»
marxiano può essere appropriato dai suoi soggetti come base di una
diversa «forza produttiva», di una cooperazione nel segno
dell'eguaglianza e della libertà. Non è certo una questione che si
presti a scorciatoie analitiche o politiche, ma proprio oggi - di fronte
a un capitalismo che pare esaltare la duttilità e la «flessibilità»
della forza lavoro marxiana, rovesciandole nella crisi in precarietà e
immiserimento di massa - mi sembra indispensabile ribadirne l'urgenza.
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