mercoledì 12 maggio 2010

Riccardo Bonavita: letture critiche del razzismo italiano


Letteratura e razzismo
Riccardo Bonavita


Studente della “Pantera”, intellettuale comunista, partecipe delle mobilitazioni antirazziste prima e dopo Genova, Riccardo Bonavita (1968-2005) è stato anzitutto uno studioso di letteratura italiana, ma ha inteso coniugare la sua formazione con un’indagine acuta e originale della storia del razzismo politico italiano, partendo dalla tesi che la cultura razzista in Italia non sia una breve parentesi circoscritta alle leggi razziali fasciste del 1938, ma un accumulo di lunga durata che si struttura già nel primo Ottocento controrivoluzionario proprio attraverso la letteratura e la manipolazione dell’immaginario collettivo.

Oggi escono in volume, con il titolo “Spettri dell’altro. Letteratura e razzismo nell’Italia contemporanea”  (Bologna, il Mulino, 2010), alcuni saggi scritti tra il 1995 e il 2003 che avrebbero dovuto costituire la base di un lavoro più ampio, “I nemici immaginari”, di cui restano appunti, schede preparatorie, schemi di capitoli: il progetto era quello di uno studio dell’immaginario razzista italiano che avrebbe dovuto giungere fino al presente, allo studio delle pubblicità commerciali, dei depliant turistici, degli stereotipi dei media, ossia di quegli elementi comunicativi a larga diffusione che manipolano e orientano il senso comune di una società.

Si tratta dunque di un libro frammentario, ma capace di indagare i meccanismi costanti delle procedure razziste e della costruzione di un’identità autoritaria, suggerendo implicitamente le possibili strategie di contrasto.

Apre il volume un’analisi del riuso strumentale del pensiero di Leopardi all’interno di un periodico fascista come “La Difesa della Razza” che promosse e fomentò le violenze razziali del regime: ed è un’analisi di come la cultura conservatrice inventa la propria tradizione allineando i grandi del passato in una galleria di nobili antenati, un “mucchio indifferenziato e sacrale di roba di valore, che è il passato della patria” (F. Jesi, “Cultura di destra”), banalizzando la storia come natura e occultando i conflitti sociali che la percorrono.

Si tratta di un’operazione ripresa alla fine degli anni Novanta proprio dalla cultura berlusconiana e ora riproposta anche dai programmi scolastici del ministro Gelmini allorché esaltano gli scrittori italiani come momenti dell’“identità nazionale” e persino la tragedia greca come fondamento dell’“identità occidentale” (la rivolta di Antigone contro il potere potrà allora serenamente giustificare i crimini di guerra in Iraq, Afghanistan, ecc.). Del resto, fin dalla “discesa in campo” del 1994, Berlusconi ha insistito sul fatto che “la sinistra divide” e “la destra unisce”: un bel fascio “indifferenziato e sacrale”...

Seguono quattro saggi che prendono in esame “il razzismo nella narrativa dell’Italia fascista” e ne indagano anche le origini otto-novecentesche, nella convinzione che il razzismo sia un lento accumulo di immagini, luoghi comuni, schemi mentali, che fanno apparire “naturali” le classificazioni discriminatorie su cui si fonda l’esclusione e la violenza razzista.

Lo stereotipo dell’inferiore (l’africano) e quello dell’estraneo a ogni patria (l’ebreo) non sono dunque prodotti della legislazione coloniale fascista e delle leggi razziali del ’38, ma si producono a partire da “bacini di credenza” di lunga durata, da un “serbatoio di dispositivi retorici”, da un “giacimento di stereotipi, narrazioni, percezioni, assiologie, teorie scientifiche o pseudoscientifiche passibili di essere attualizzate, riprese e rifunzionalizzate”. Ciò implica due conseguenze che negli anni Novanta non erano affatto ovvie: 1) le procedure della “credenza” razzista dapprima diffondono una paura generica del “nemico immaginario” e poi identificano i tratti specifici, legali del soggetto da escludere, espellere, negare; 2) il “giacimento” sociale del razzismo (e sessismo) italiano, mai analizzato, mai sottoposto a critiche, resta un’energia distruttiva ancora potenzialmente funzionante e non meno aggressiva di quella del primo Novecento.

Perciò, scrive Bonavita, dinanzi all’immaginario razzista e alle politiche identitarie la prima necessità è quella della scomposizione storica e critica: “Il primo compito di chi analizza icone politiche di questo tipo consiste quindi nel compiere il processo inverso, ovvero nella decifrazione delle stratificazioni storiche accumulate dalla cultura e dalla ideologia proprio nei luoghi dove il razzista vuole mostrare all’opera la nuda natura. Solo così si può comprendere che [...] sta in realtà manipolando materiali culturali per ridisegnare i confini tra il «puro» e l’«impuro» e reinventare una nuova identità collettiva” (p. 82).

Come dimostra anche il romanzo coloniale e antisemita dell’epoca fascista, nel pensiero razzista tutto è appiattito su un “sistema di opposizioni” pseudonaturalistiche (appunto: “puro-impuro”) che struttura “l’intero campo dell’immaginario”: la costruzione autoritaria dell’identità implica sempre una “negazione dell’altro” e, per combatterla, si tratta di mostrare l’eterogeneità storica di ogni presunta “tradizione” unitaria e “credenza” indiscussa.

Resta l’esigenza di capire l’esplodere delle pratiche del razzismo di Stato in determinate fasi storiche: perché i lenti accumuli del razzismo diffuso si fanno a un tratto leggi discriminatorie e violente, si traducono in rastrellamenti di polizia, lager, deportazioni? Nell’analizzare la letteratura fascista, Bonavita offre due risposte simili e sovrapponibili.

Da una parte, fin dalla metà degli anni Venti la martellante campagna fascista per costruire l’“uomo nuovo” aveva bisogno di “controtipi” propagandistici: figure semplificate che additassero comportamenti negativi o “inferiori” attribuiti ora all’africano (scarso senso della famiglia, dell’onore, della parola data, ecc.), ora all’ebreo (rapacità economica, egoismo, ateismo, antipatriottismo, ecc.).

Così oggi, allo stesso modo, la necessità di ricomporre la famiglia tradizionale proietta le condotte predatorie e violente di mariti e fidanzati su tipi etnicamente caratterizzati: il “rumeno”, lo “straniero”, ecc. L’acutizzarsi delle pratiche razziste corrisponde a un programma di pedagogia sociale che deve occultare le contraddizioni e le diseguaglianze reali.

Ma il libro non offre solo un esame dei “controtipi” razziali. Per capire la seconda risposta, prendiamo un caso esemplare illustrato nel volume: quello di Giovanni Papini (1881-1956), da giovane incendiario anticlericale e nichilista, poi dal 1921 reazionario neocattolico e fascista.

Nel 1921 Papini pubblicava un best-seller intitolato “Storia di Cristo” riprendendo, con toni di accesa violenza verbale, la leggenda dell’“Ebreo errante” dedito solo ad accumulare “l’oro che cade dall’orifizio escrementizio di Satana”. In opere successive, dal “Dizionario dell’omo salvatico” del ’23 fino a “Gog” e alla “Leggenda del Gran Rabbino” del ’31, Papini si scagliava ossessivamente contro “negri”, “comunisti” e “giudei”, ritraendo questi ultimi come un misto di avidità, affarismo, lerciume, sadismo, depravazione: e sono testi che verranno riciclati dalla propaganda fascista per dar slancio operativo alle leggi razziali del ’38.

Eppure proprio il giovane Papini, nel lontano 1906, aveva fatto l’elogio del “vagabondaggio” e della “diversità” paragonandosi persino a un “Ebreo errante” della cultura: “l’amore della diversità, l’amore del cambiamento”, “i nostri viaggi di Ebrei erranti della cultura”, scriveva. Vi è nel razzismo un tentativo autoritario e malato di negare una parte di sé: l’apertura all’altro, la solidarietà, la conoscenza, l’eros: “attaccare l’Altro”, scrive Bonavita, “per rinnegare una parte di sé”.

Il razzismo è sempre una forza anche autodistruttiva che giunge infine a una grande, tragica festa di morte. Per combatterlo efficacemente, occorre anzitutto mostrare quanto gli “spettri dell’altro” siano il rito sacrificale e lugubre di un disciplinamento oppressivo delle identità.


Sancho Panza
.

sabato 8 maggio 2010

D: [va] da sé, dunque ...


E n c i c l o p e d i a
d e l l a
n e o l i n g u a

D

[va] da sé, dunque ...





«Sono fascisti, fascisti sociali che credono nella Carta di Verona. Sono fascisti del nuovo millennio, come Gianfranco Fini definiva se stesso una ventina di anni fa. Va da sé che se devono menar le mani le menano. Ultimamente è successo spesso, anche se a Napoli il 1° maggio è stato uno di loro a rischiare la vita. Menano dunque. Ma sempre controvoglia. Il dettaglio è tutt’altro che secondario».

Lanfranco Pace:
"Ecco perché ho firmato l'appello in favore dei fascisti solari di CasaPound"
da Il Foglio, 7 maggio 2010

________________________________
L'immagine è tratta da: Indymedia Italia

lunedì 3 maggio 2010

dibattito sul nazifascismo - 6 maggio, Bologna



«La non analisi del fascismo è uno dei fatti politici più importanti di questi ultimi trent'anni»
Michel Foucault, 1977


«Cari amici, è bene ricordare date significative che hanno chiuso quell'episodio straordinario, nuovo per la storia italiana, che è stata la lotta di Liberazione. Però, stiamo attenti: non basta un giorno all'anno. In questa situazione, la Resistenza va ricordata coi fatti e con gli atti per ogni giorno che noi trascorriamo su questa terra che ci sostiene»
Renato Romagnoli, partigiano, 24 Aprile 2010 Xm24

* * *


Che cosa è stato il nazifascismo? Un incidente di percorso nel luminoso cammino civile dell'Europa?
oppure qualcosa che ha radici profonde e insondate nella storia e nella cultura europee?
E' un fenomeno sconfitto e archiviato per sempre, oppure qualcosa che potrebbe ripetersi con pari violenza, pur in forme nuove e aggiornate?

Considerazioni a partire da due libri e rispettivi autori:
Luigi Fabbri, La Controrivoluzione Preventiva: riflessioni sul fascismo, ZIC, 2009.
Valerio Romitelli, L'odio per i partigiani: come e perché contrastarlo, Napoli, Cronopio, 2007.

Interverranno:
Marco Fincardi (Dipartimento di Storia, Univ. di Venezia)
Rudy M. Leonelli (Dipartimento di Filosofia, Univ. di Bologna)
Valerio Romitelli (Dipartimento di Storia, Univ. di Bologna)
a seguire, spazio al dibattito

giovedì 6 maggio, dalle ore 16
Giardino Dubcek - Facoltà di Scienze politiche
Strada Maggiore 45 - Bologna
(in caso di maltempo l'iniziativa si terrà presso l'aulaC, sempre a
Scienze Politiche)
__________________________
organizzato da Aula C Staffetta
.

lunedì 26 aprile 2010

L'amore impossibile. Bologna, 27.4


L'amore impossibile.
Filosofia e letteratura da Rousseau a Lévi-Strauss

di Guglielmo Forni Rosa

(Marietti, 2010)



Ne discutono con l'autore:


Alberto Bertoni
Alberto Burgio
Giorgio Forni



martedì 27 aprile
ore 17,30

Biblioteca Comunale dell'Archiginnasio
Sala dello Stabat Mater
piazza Galvani 1, Bologna


.

mercoledì 21 aprile 2010

Michel Foucault, il corpo vivo della filosofia

-->



... Quanto a coloro per i quali crearsi dei problemi, cominciare e ricominciare, cercare, sbagliare, riprendere tutto da cima a fondo, e trovare ancora il modo di esitare a ogni passo, coloro, insomma, per i quali lavorare in modo problematico e in un continuo travaglio intellettuale, equivale a una posizione dimissionaria, be’, non siamo, chiaramente, dello stesso pianeta.

… il motivo che mi ha spinto era molto semplice. Spero anzi che, agli occhi di qualcuno, possa apparire sufficiente di per sé. È la curiosità; la sola specie di curiosità, comunque, che meriti d’esser praticata con una certa ostinazione: non già quella che cerca di assimilare ciò che conviene conoscere, ma quella che consente di smarrire le proprie certezze. A che varrebbe tanto accanimento nel sapere se non dovesse assicurare che l’acquisizione di conoscenze, e non, in un certo modo e quanto è possibile, la messa in crisi di colui che conosce? Vi sono dei momenti, nella vita, in cui la questione di sapere se si può pensare e vedere in modo diverso da quello in cui si pensa o si vede, è indispensabile per continuare a guardare o a riflettere. Mi si potrà forse obiettare che questi giochetti personali è meglio lasciarli dietro le quinte, e che, nel migliore dei casi, fanno parte di quei lavori di preparazione che si estinguono spontaneamente non appena han preso forma. Ma che sa è dunque la filosofia, oggi – voglio dire l’attività filosofica – se non è lavoro critico del pensiero su se stesso? Se non consiste, invece di legittimare ciò che si sa già, nel cominciare a sapere come e fino a qual punto sarebbe possibile pensare in modo diverso? Vi è sempre un che di derisorio nel discorso filosofico quando pretende dall’esterno, di dettar legge agli altri, dir loro dov’è la loro verità o come trovarla, o quando trae motivo di vanto dall’istruir loro il processo con ingenua positività; ma è suo pieno diritto esplorare ciò che ciò che, nel suo stesso pensiero, può essere mutato dall’esercizio di un sapere che le è estraneo. La “prova” – che va intesa come prova modificatrice di sé nel gioco della verità e non come appropriazione semplificatrice di altri a scopi di comunicazione – è il corpo vivo della filosofia, se questa è ancor oggi ciò che era un tempo, vale a dire un’“ascesi”, un esercizio di sé nel pensiero.

Michel Foucault, L’usage des plaisirs, Gallimard, Paris 1984, tr. it. di L. Guarino, L’uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano 1984, p. 13-14.
.