mercoledì 21 marzo 2007

Il Grande Dialogo


Dopo la battuta in cerchio gli accerchianti invitano gli accerchiati a un colloquio. Si cerca il Nuovo Inizio. Il Grande Dialogo. Invece delle pubbliche bastonate il tè dietro porte imbottite. Lo scopo dell'esercitazione è dichiarato insieme all'invito: le pecore bianche devono essere separate da quelle nere, si deve spezzare la solidarietà

Hans Magnus Enzensberger,
Palaver



Ho recepito la scelta di organizzare a Bologna un convegno legato al ‘77 come un'implicita sollecitazione ad affrontare problemi che hanno un'importanza strategica in questa città, ma non soltanto per questa città. Per questo vorrei partire da questioni emerse sul piano locale, cercando poi di intravedere almeno il profilo di problematiche più estese. L’attenzione alla dimensione microfisica dei poteri e degli affrontamenti non va confusa con un angusto “localismo”, ma può fornire un punto di attacco per una riflessione in termini di strategie.
La rilevanza di Bologna nel ‘77 è nota, ma questa stessa notorietà comporta semplificazioni e scarsa problematizzazione: la “storia” diventa fruibile e si banalizza... Come contrastare questi reiterati tentativi di normalizzazione? Credo che non si tratti di istituirsi come memoria, testimoniare una “verità” del movimento che andrebbe restaurata, ripristinata nella sua originaria autenticità: il rischio della sterilità o della produzione di miraggi è fin troppo evidente. E’ forse più interessante rovesciare la prospettiva e chiedersi che cosa c’è in gioco nelle operazioni di riscrittura, direttamente sollecitate o benevolmente accolte da quelle stesse istituzioni che avevano estirpato e cancellato il movimento in quegli anni.
La peculiarità della situazione bolognese introduce un punto di vista asimmetrico sulle questioni discusse oggi, una sorta di eccezione che può forse aiutare a riformulare i problemi, o almeno a mostrarne aspetti meno evidenti.
Bologna città modello – oggi “città delle idee” – negli anni Settanta esibiva l’efficacia del controllo sociale realizzato sul piano dell’amministrazione locale come emblema e garanzia per la candidatura del Pci al governo del paese. Di qui la forte carica simbolica attribuita ai conflitti o alla loro assenza, un supplemento che “doppia” – e in parte occulta – una dimensione più pragmatica: quella di un vero e proprio laboratorio amministrativo in cui si sperimentano soluzioni che possono poi assumere una portata più generale. Ad esempio: tutto il discorso del Pci sull’alleanza coi ceti medi aveva una matrice empirica nel patto sociale tra bottegai, piccoli e medi imprenditori e movimento operaio realizzato su scala locale. Così come le politiche sociali e in particolare i “Piani giovani” collaudati a Bologna forniscono ancora oggi uno schema esportabile nelle regioni che un tempo erano chiamate “rosse”. La stessa figura del “city manager” che sancisce la subordinazione delle aziende comunali a criteri d’impresa è stata introdotta a Bologna prima di essere ripresa nei programmi delle neonate amministrazioni locali leghiste. E sarebbe necessario riflettere sul fatto che il 7 aprile ha tra i suoi presupposti materiali la connessione – istituita nell’inchiesta bolognese sui “fatti di marzo” – tra veline di partito, testimoni ad hoc e spezzoni di magistratura.
Se Bologna è stata e, in modo diverso, è tuttora importante, dobbiamo cercare di capire la dissimmetria cui alludevo sopra: nelle sue linee portanti la storia del ‘77 bolognese non viene riscritta attraverso il pentimento e la dissociazione – il carattere anomalo del movimento (quel radicale e massificato rifiuto dell’omologia che aveva determinato l’assenza politica delle ipotesi di “attacco al cuore dello Stato” e più in generale la scarsa incisività della forma “organizzazione combattente”) ha reso l’esperienza bolognese relativamente impermeabile a quel tipo di trattamento. Qui la storia non si riscrive nella sfera dello scambio tra deposizione indotta e fine della prigionia, ma nell’annessione di un ceto al governo locale o alle sue diramazioni, e nell’esercizio di un potere modulare che dispensa spazi per operazioni culturali, iniziative creative, etc. e che – attraverso una complessa rete di strumenti politici, economici, finanziari e mediali – può incentivare e promuovere diverse forme di partecipazione, di cooperazione “sociale” e di autoimprenditoria. Lo svuotamento e la manipolazione della storia sono ottenute con un procedimento clean: non gli interrogatori ma le interviste ai “leader”, non i verbali ma gli instant book...
La riabilitazione tardiva del ‘77, che ha avuto una soglia importante nell’87 con le contestate celebrazioni del decennale[1], si inscrive interamente in questo copione: le istituzioni emettono un confortante “non capimmo”, riducendo il proprio storico impegno liberticida[2] all’estenuante metafora del ritardo, e - simmetricamente - i protagonisti procedono all’invenzione retrospettiva dell’autonomia buona, letteralmente: l’autonomia creativa e nonviolenta(!).
E’ un’operazione che, proprio in virtù della sua rozzezza, adempie ad alcuni compiti fondamentali: scongiura ogni riflessione critica degna di questo nome, garantisce che il salto nel “nuovo” non metta in discussione il vecchio, celebra la continuità di un ceto al potere che, per soprammercato, annette alla sfera dell'amministrazione (centrale e diffusa) nuovi operatori “politici”, “sociali” e “culturali”, che mettono a disposizione saperi ed esperienze utili al governo della città e dei possibili conflitti.
Ma due sono a mio avviso le poste in gioco fondamentali – di portata non locale e strettamente interdipendenti – messe in gioco da questa storicizzazione: da un lato occorre cancellare il violento documento dello scontro tra un insieme di gruppi sociali (universitari, settori operai radicalizzati, ampie fasce di pubblico impiego, etc.) e il movimento operaio ufficiale, impegnato nella politica dei “sacrifici” e della “solidarietà nazionale”, in quell’opera di razionalizzazione della spesa pubblica e di disciplinamento del lavoro che costituisce l’antefatto, la premessa storica dell’appoggio a Ciampi e degli accordi del luglio ‘92 e ‘93. Dall’altra parte occorre preservare uno schema di trattamento dei movimenti che permette di imputare i caratteri non riducibili del conflitto non a condizioni materiali, ma ad una volontà “eversiva” precostituita: non esistono “buoni” se non ci sono da qualche parte dei “cattivi”. Reintrepratare il ‘77 come un'istanza di partecipazione creativa (o di aggiornamento “culturale”...) a suo tempo “incompresa” e oggi valorizzabile, permette di tratteggiare un quadretto edificante nel quale la sinistra istituzionale non si è “veramente” scontrata con un’opposizione sociale massificata e diffusa, ma ha responsabilmente combattuto alcune sette sovversive (oggi si dice: “bolsceviche”) infiltrate nei movimenti, cadendo qua e là in qualche svista, in qualche eccesso, che non è rilevante, non è strutturale, non è ripetibile e dev’essere dimenticato.
E’ la Fine delle ideologie: tra eufemismi e embrassons-nous la storia effettiva è finalmente superata.
A margine, un’avvertenza di Debord: “... Inoltre, molti ammettono che si tratta di un'invasione civilizzatrice, peraltro inevitabile, e hanno perfino voglia di collaborarvi”[3].
Gli altri fenomeni sui quali vorrei svolgere qualche breve considerazione concernono diverse e più recenti iniziative della creatività cittadina: da un lato la spettacolare apertura di rapporti trasversali con la nuova destra e, dall’altro, l’introduzione di testi dei revisionismo storico nella rete telematica Ecn, in vista di un “uso anticapitalistico di Faurisson” (!).
Di queste operazioni distinte mi interessa qui evidenziare qualche carattere comune. Lo sfondo: l’orizzonte piatto della fine della storia e/o delle ideologie (matrice “universale” di tutte le grandi semplificazioni), e la volgarizzazione e banalizzazione della critica ai fenomeni identitari. Uno dei procedimenti di legittimazione: la psicologizzazione del nazi.
Nell’ambito delle giustificazioni del revisionismo telematico viene prodotto, tra altri, questo “argomento”: poiché i nazi “si sentono forti” perché “credono” (sic) di essere autori/eredi dell’olocausto, la negazione della verità storica dello sterminio mediante camere a gas sarebbe un modo per combattere i nazi stessi[4], privandoli astutamente della loro “forza”! Ma se, piuttosto che alla destrezza psicologica dei revisionisti nostrani, ci rivolgiamo alla materialità dei rapporti, vediamo che la cultura neonazista (e prima ancora nazista[5]) è impegnata da sempre nel lavoro di negazione: dai primi collaborazionisti all'attuale propaganda naziskin[6] il motivo della negazione costituisce un importante filo conduttore, un prezioso indice di “continuità nel rinnovamento”.
Non siamo quindi nel paradosso, ma nel paralogismo: un elemento di coincidenza con la strategia nazi – la negazione – viene surrettiziamente presentato come “anti”.
Analogo è l’argomento prodotto per motivare i rapporti intrattenuti con la destra (“Elementi”, “Trasgressioni”, “L'Italia settimanale”, il circolo “Lo Hobbit” di Bologna, e infine il ballo “terapeutico” coi nazi a Roma[7]). Stabilita l’equazione psicologizzante: “nazismo uguale orrore del contatto”, gli incontri con la destra vengono spacciati come un modo per “curare” il “fascismo”, caratterizzato in termini psicopatologici.
Su un piano di fondo – per così dire “di metodo” – ritengo che questa operazione possa essere letta a partire dalle essenziali osservazioni di Balibar relative al “ritorno in favore della ‘psicologia delle folle’ come spiegazione generale dei movimenti irrazionali di aggressività e violenza collettiva, in particolare della xenofobia” (ritorno col quale si accordano così facilmente le teorie del razzismo differenzialista”. Mi sembra che anche qui si possa cogliere il funzionamento del doppio gioco analizzato da Balibar: “da una parte si offre alla massa una spiegazione della sua ‘spontaneità’ e, dall’altra, questa stessa massa viene implicitamente svalorizzata come ‘primitiva’”[8]
Secondariamente, anche nell’infelice scelta di cooperare al “dialogo” con la Nuova destra nella presunzione di cimentarsi in un rapporto “critico”, un minimum di responsabilità intellettuale esigerebbe quanto meno un’attenta conoscenza dell’interlocutore, mentre risultano bizzarre le “conoscenze” che hanno permesso di presentare Alain de Benoist come un “ex-marxista” che avrebbe “maturato” (sic) posizioni antisemite[9]! Infine, nei confronti di diversi enti, gruppi e figure della sinistra, la nuova destra – da “Elementi” a “Trasgressioni", fino a “L’Italia settimanale” – non si caratterizza per l’orrore del contagio, ma per la programmatica promozione del contatto[10].
Anche in questo caso, quindi, la psicologizzazione sommaria del “nazi” serve a presentare come “contrario” alla destra un elemento coincidente con la sua stessa strategia[11]. “Immagino la nostra destra – affermava con lungimiranza l’attuale direttore de “L’Italia settimanale” all’inizio degli anni Ottanta – come un compasso, con l’asse saldamente orientato nel suo centro e con il lapis che s’allarga per cerchi concentrici verso ogni altra cultura, mai respingendo il dialogo, anzi cercando la provocazione”[12].
Qui sorge un’ulteriore questione: la politica del “dialogo” con la destra si presenta, nella sinistra più o meno istituzionale che la sostiene, come ostile allo “stalinismo” e si propone come “superamento” – talora come liquidazione – della rituale cultura antifascista. Ma è proprio nei Congressi degli scrittori antifascisti a metà degli anni Trenta – le “grandi iniziative congiunte della burocrazia culturale sovietica e dei compagni di strada occidentali” – che il fascismo "è fatto sinonimo di mera barbarie: assenza di cultura. E’ quello che brucia i libri, non quello che li scrive...”[13]. La politica di apertura alla “destra intellettuale” potrebbe essere letta come il più coerente prolungamento dell’antifascismo culturale a egemonia staliniana; ne conserva, infatti, i presupposti, ribaltandone gli esiti: se il fascismo è caratterizzato dall’assenza di cultura, la “destra culturale” non può essere – in quanto “culturale” – nemica... Del resto la “grande trovata” di quell’antifascismo “è questa: che la cultura – tutta la cultura – si identifica con la liberazione dell'umanità”...[14]
Altre considerazioni di fondo: i mocollaborazionismo, vimenti, o ciò che viene considerato tale, stanno vivendo i primi sintomatici guasti prodotti dall’ibridazione tra il regresso all’etica dell’intenzione e l’apologia incondizionata della “comunicazione”. Tutto è lecito alla luce di questi criteri; lo spettacolo della cultura alternativa – grande o piccolo che sia – deve continuare... Ma non è certo che i nuovi imperativi (“comprendere” e “comunicare”) siano meno rovinosi dei vecchi dogmi. E’ necessario pensare a nuove forme di sottrazione, rifiuto e interruzione della comunicazione (Deleuze).
Ancora: la variopinta possibilità di riciclaggio dei funzionari politico-mediali è qualcosa di più e di diverso dal vecchio “opportunismo” e dal trasformismo storico. Essa attiene, piuttosto, a quella che Debord chiama la costituzione di un eterno presente: “Un aspetto della scomparsa di ogni conoscenza storica oggettiva si manifesta a proposito di qualsiasi reputazione personale, divenuta malleabile e rettificabile a piacere...”[15] Sarebbe illusorio pensare che questi fenomeni riguardino esclusivamente la comunicazione “ufficiale”: la comunicazione “altra” è continuamente intersecata, sondata, bombardata, illuminata, lavorata dai grandi e piccoli media interni al sistema che pretende di contestare. Si scorpora così nei movimenti un ceto che, per esperienza diretta o mimetismo, apprende a insabbiare a colpi di “novità” il proprio operato precedente. Ma lo stesso pragmatismo militante, se non è armato di senso storico, può trovare nelle perpetue urgenze del momento, in qualche Realpolitik, nell’iniziativa “sociale” e/o nell'impresa mediale, i propri bravi interessi a convenire e obliare.
Sul fronte delle conseguenze, invece, le cose hanno minore volatilità: una volta che l’aggancio è stabilito, il protagonista di turno può passare ad altro, mentre, per parte loro, il lavoro del revisionismo storico (da sempre “carsico” per cause di forza maggiore), o l’opera di legittimazione della Nuova destra (che conosce in Italia una fase di espansione) proseguono e possono venire rilevati da altri[16].
Lasciando perdere la questione del “revisionismo in rete” – il cui unico risultato rilevante è stato, dal mio punto di vista, l’abbandono della rete Ecn da parte di chi non intende cooperare aIl’introduzione nei movimenti del pensiero di Faurisson – è sulle aperture culturali alla nuova destra che vorrei svolgere qualche considerazione conclusiva: qui si giocano, infatti, le più grosse partite istituzionali.
C’è, nel discorso svolto fin qui, un’apparente contraddizione: strutture espresse da uno stesso ceto sono criticate da un lato per la ricostruzione “storica” del ‘77 subalterna alla sinistra istituzionale, dall’altro per i contatti con la destra più o meno “nuova”. Come possono coesistere questi due distinti rilievi?
E’ che il “dialogo” con la Nuova destra non ha nulla di estemporaneo né di “trasgressivo”, ma rientra pienamente nella riscrittura della costituzione di quella che – senz’altro schematicamente – chiamiamo “seconda Repubblica”: lo spazio politico dev’essere levigato. A questo fine occorre sgominare tutte le resistenze, comprese le “residue” pregiudiziali antifasciste. La sinistra di governo deve mostrare la propria disponibilità a liberarsi di questa ingombrante anomalia. Non si leggono altrimenti – fermandoci ai primi esperimenti spettacolari – la presenza del direttore del “Tg3” Alessandro Curzi[17] alla “Festa tricolore” e i reiterati riconoscimenti a Fini tributati dai conduttori dei dibattiti di Rai 3, così come sembra evidente che le parallele iniziative alternative sono fatalmente sussunte in questo orizzonte “sperimentale”.
Questa politica di normalizzazione (basata sulla tranquilla “sottovalutazione” della possibile saldatura tra il costituirsi di un blocco sociale reazionario, i processi di riorganizzazione corporativa del lavoro, la reintroduzione di procedure plebiscitarie[18], e una destra che – avendo letto e “rovesciato” Gramsci – ha imparato a ragionare e muoversi in una prospettiva di egemonia), potrebbe forse rivelarsi disastrosa[19].
Ma sarebbe tremendo se ciò avvenisse con l’ennesimo – e questa volta fatale – “ritardo”.



Rudy Leonelli, 1995
da Atti de convegno di Bologna, 12 - 13 marzo 1994, “Anni ’70 – anni ‘90”
in Vis-à-vis, n. 3, inverno 1995
(Intervento del 13 marzo 1994 al convegno “Anni ’70 - anni ‘90”)

 
NOTE:
[1] Vedi le pagine bolognesi de “L'Unità”, “la Repubblica”, “il Resto del Carlino” del marzo 1987, e gli articoli della stessa epoca che segnano la “rivalutazione” del ‘77 da parte de “il manifesto”.
Per comprendere il tipo di “investimento” sulla storia da parte dell'allora Pci (incamminato verso la “svolta della Bolognina”), è utile la lettura dell’apologetico pezzo di Franca Chiaromonte, Il filo riannodato, “Rinascita”, n. 2, febbraio 1990, dal quale stralcio alcuni brani: “Che strana e straordinaria città questa Bologna. Capace di ricucire con pazienza ferite e lacerazioni che altrove verrebbero azzerate nell’indifferenza. No, qui si rilesse la trama. E’ successo anche per quel momento di tragica rottura che fu il ‘77... Miracoli bolognesi: chi avrebbe mai detto che la ferita aperta nel 1977 si sarebbe mai rimarginata? E’ vero che qui l’ala creativa è stata da subito e dopo sempre molto presente …” II testo sottolinea con enfasi la concessione (da parte del Comune e del Pci) di spazi cultural-ricreativi alle cooperative alternative bolognesi animate da “ex ‘77” (ovviamente si tratta in gran parte degli enti che sì erano impegnati nella storicizzazione sedativa del ‘77).
Il carattere non locale di questa operazione di “remake” storiografico appare chiaramente nel simmetrico “aggiustamento” degli “archivi” del Pds. Vedi Pietro Folena, Ombre e nebbie [recensione a: G. Patter, I giorni dell'ombra, “L’Unità”, 17. 5. 1993), che assume come evidente la classificazione degli “autonomi” in distinte specie.
[2] A questo proposito, oltre alla consultazione dei sempre più irreperibili materiali di movimento e dei giornali dell’epoca, può essere di qualche utilità la lettura dei resoconti del dibattito interno al Pci. Un solo esempio: il generalmente ignorato volume I comunisti e la questione giovanile, atti della sessione del Comitato centrale del Pci, Roma 14-16 marzo 1977 [Editori Riuniti, Roma 1977] che – a dispetto delle posteriori riscritture – documenta crudamente l’effettivo atteggiamento del Pci nel ’77.
[3] Guy Debord, Commentari sulla società dello spettacolo (1988), tr. il. Sugarco, Milano 1990, p. 13.
[4] Sul funzionamento reale del negazionismo come dottrina di reclutamento-iniziazione rinvio ad una testimonianza, tratta dalla rivista “Race Traitor”, di prossima pubblicazione sul n. 5 della rivista “altreragioni”.
[5] Relativamente alla negazione occorre ridimensionare la pretesa originalità del revisionismo: la negazione non è qualcosa che nasce “dopo”, è – in origine – iscritta nell’olocausto come condizione di esercizio. Il nazionalsocialismo ha dovuto da sùbito affrontare problemi di consenso e di legittimazione: nell’agosto del 1941, Hitler si vide costretto a ritirare il programma di eutanasia “T4” (che comportava l’impiego di camere a gas nell’eliminazione delle “Ballastexistenzen, cioè della zavorra umana”: handicappati fisici e mentali) a causa delle resistenze di familiari dei “pazienti” e funzionari, e dell’opposizione di sacerdoti cattolici e protestanti. Il programma “14 f 13” prosegui con maggiore discrezione nei campi [cfr. Arno J. Mayer, La soluzione finale (1988), tr. it. Mondadori, Milano 1990, pp. 394-399]. Con la negazione, il revisionismo prolunga e riattiva una delle condizioni di possibilità dello sterminio.
Del resto la dipendenza epistemica dal nazionalsocialismo è, per il revisionismo, costitutiva: per essere “vero”, il revisionismo deve presupporre l’esistenza di un “complotto” ordito da Usa, Urss e “lobbies ebraiche” (o “sionismo”) ai danni della nazismo stesso (e della sua immagine). Questa “condizione di verità” del revisionismo ha come antecedente la tesi del “complotto ebraico-comunista-plutocratico” propria del regime nazista.
[6] Sui legami tra reti internazionali dell'estrema destra e revisionismo storico fornisce utili informazioni il recente libro di Michael Schmidt, Neonazisti, tr. it. Rizzoli, Milano 1993.
Aggiornamenti sulla situazione italiana sono stati presentati da Francesco Germinano, Diffusione e caratteristiche della letteratura negazionista in Italia [intervento al convegno “Il nazismo oggi. Sterminio e negazionismo”, organizzato dalla Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, 10 dicembre 1993.
[7] Su questi episodi e per una critica delle strategie della Nuova destra, vedi il volantone “Sulla Nuova destra – In risposta ai compagni di Roma” diffuso da: AAA - Agenzia Autonoma Acéphale, Bologna, 1 maggio 1993.
Le avances da parte di elementi ed enti della nuova destra hanno incontrato la disponibilità e la collaborazione delle seguenti strutture “alternative” bolognesi: la redazione di “A/traverso”, il settimanale “Mongolfiera”, l’editrice Synergon.
La variegata gamma dei rapporti “a destra” allacciati in questo ambito rende talvolta difficile un uso regolato dei termini “estrema destra”, “Nuova destra”, “destra radicale”, etc. Inoltre l’esistenza del connettore “L’Italia settimanale” rende più fluide le distinzioni (e meno certi i confini) tra le diverse “destre” e rende problematico il ricorso alle predenti classificazioni. Il mio intervento registra questa difficoltà impiegando le espressioni “destra” e “nuova destra” (con iniziale minuscola) laddove il ricorso ad un termine specifico sarebbe inadeguato o riduttivo.
Le iniziative del tipo “Balla coi nazi” [vedi: “Naziskin e estremisti rossi ballano insieme in discoteca. Manifesto di Bifo sulla tolleranza”, ne “il Resto del Carlino”, 23.4.1993, pag. 7] possono essere lette come un copia volgare della melliflua “pedagogia” propugnata nel 1986 da Pierre André Taguieff, ne quadro di un’estensiva (e dogmatica: l’unica strada buona…) concezione del “democrazia liberale”. Scrive Taguieff: “la strada – non la migliore, ma l’unica buona- è quella di non lottare frontalmente contro le forze impulsive riconosciute come ‘cattive’, ma di aggirarle, e di vincere in modo indiretto […] Di fronte al ‘razzismo’, cioè all’insieme delle passioni e pulsioni tese all’esclusione e alla discriminazione, una saggezza simile invita innanzitutto a tollerare ciò che appare intollerabile alo spirito, ma questo per meglio affermare le posizioni positive contrarie, inscriverle nella pratica e, in questo modo, vincere indirettamente i fenomeni cosiddetti ‘razzisti’. I paradosso è il seguante: per vincere il razzismo e convincere i suoi ‘sostenitori’, non bisogna ‘lottare contro il razzismo’ [La forza del pregiudizio (1986) tr. It., Il Mulino, Bologna, 1994, pp. 612-613].
[8] Étienne Balibar, Esiste un neorazzismo?, in E. Balibar – I. Wallerstein, Razza nazione classe. Le identità ambigue (1988) tr. It. Edizioni Associate, Roma, 1990, p. 35. Balibar ricorda che i razzismo è “un rapporto sociale, e non solo un delirio dei soggetti razzisti” ed invita a non usare incautamente la categoria di delirio “da un lato perché rischia di mascherare ‘attività di un pensiero che sempre comporta i razzismo, dall’altro perché la nozione di delirio collettivo è sempre al limite della contraddizione in termini" [Razzismo e nazionalismo, in Razza nazione classe, cit., pp. 53,75-76].
[9] Così Franco Berardi Bifo sulle pagine di “Mongolfiera”, a commento della propria partecipazione ad uno dei molteplici incontri “a destra” (presentazione bolognese della rivista “Elementi”, organizzata dal circolo “Lo Hobbit”).
Riproduco il brano in questione: “Alain de Benoist - un ex-marxista che dopo il ‘68 ha scritto un libro dal titolo Marx è morto, ha maturato posizioni reazionarie di tipo neopagano ed antisemite” [Franco Berardi, Il risveglio della bestia, “Mongolfiera”, n. 151, 29 luglio 1991, p. 47J.
Qui la prolifica immaginativa del Berardi, liberata dagli opprimenti vincoli della Storia e da ogni sorta di rozza dogmatica materialista (in specie “marxista”) procede a un’innovativa applicazione del celebre metodo “fischi per fiaschi” nell’evidente confusione tra il post-neofascista (o neo-postfascista?) Alain de Benoist, maître à penser della Nouvelle droite, e l’estraneo Jean-Marie Benoist, che fu collaboratore di Claude Lévi-Strauss e di Emmanuel Le Roy Ladurie al Collège de France, “nuovo filosofo” e sfortunato candidato giscardiano contro Marchais in Vali de Marne nel 1978, e autore di un Marx est mort [Gallimard, Paris 1970; ora riedito da P.U.F., Paris 1994].
La gaffe è tanto più incresciosa in quanto Bifo aveva in tempi non lontani stabilito la propria (retrospettiva) vicinanza ai nouveaux philosophes [vedi, in N. Balestrini e P. Moroni, L’orda d’oro, Sugarco, Milano 1988, cap. 10, p. 344, le affermazioni relative a “un certo percorso parallelo” tra la rivista “A/traverso” e “i nuovi filosofi alla Henry-Levy e alla Glucksmann...”].
Relativamente alla genealogia di “Elementi” – equindi ad Alain de Benoist e al Grece (Groupement de recerche et d'etudes sur la crvilisation européenne) – nell’ambito della Nuova destra europea, traduco un brano da Anne-Marie Duranton-Crabol, L’Europe de l’extrême droite. De 1945 à nos jours, Edition Complexe, Bruxelles 1991, pp. 68-70:
“In molti paesi d’Europa, e soprattutto in Germania, si ha una visione molto ampia della Nuova destra. Organizzata anzitutto intorno alla rivista Junges Forum (1964), la Neue Rechte ha ricevuto l’appoggio della decana, Nation Europa, e attratto la clientela di gruppi o individui m rottura con la NPD [Nationaldemokratische Partei Deutschlands] giudicata da essi inefficace e timorata Lo stesso slancio che fece sorgere i movimenti sociali, da cui e nata la corrente verde-alternativa, verrà ugualmente a rafforzare la Nuova Destra, del resto molto ascoltata quando la questione tedesca si pose con forza a proposito degli euromissili. Vi si distinguono tre sensibilità: neoconservatrice nella zona di influenza di (Crirticon e Mut; biologizzante nelle pagine di Neue Anthropologie, completamente impregnata di razziologia nordica; goscizzante, d’ispirazione nazional-rivoluzionaria, di cui gli scritti di Wir selbst (nata nel 1979) offrono il modello più sconcertante, al modo della contemporanea Aufbruch, un “ponte” gettato tra destra e sinistra.
Ai margini di queste tre aree, e partecipando un po’ di ciascuna, una Nuova destra, qualificata come ‘non conformista’ (K. Schönekas), si è sviluppata a partire dalla DESG (Deutsch-Europaische Studiengesellschaft), dall’inizio degli anni Settanta. Funziona sul modello del GRECE francese, al punto che una rivista chiamata Elemente viene pubblicata dal 1986 dal seminario Thulé, prolungamento della DESG e nocciolo attuale della Neue Rechte. I legami tra la Francia e la Germania sono esemplari dei contatti annodati dalla Nuova destra francese su scala europea.
Attingendo l’essenziale delle sue risorse nel vivaio costituito dalla ‘Federazione degli studenti nazionalisti’ e dal mensile Europe Action (1963-67), la Nuova destra francese si è costituita nel 1968 per mezzo di una rivista, Nouvelle École, e di una struttura militante, il GRECE. Poiché condividevano la convinzione dei ‘giovani Francesi’ che il tempo del nazionalismo malinconico e vergognoso era passato, Armin Mohler e Henning Eichberg, due pensatori della Neue Rechte in formazione, incoraggiarono gli scambi tra ribelli del campo della destra dei due paesi. D’altra parte, negli anni Settanta, il GRECE e la sua nuova pubblicazione Éleménts (pour la civilisation européenne) erano già sciamati in Belgio con l’intermediazione di Emile Lecerf, il cui incontro con la Francia risaliva alla guerra d’Algeria.
Apparsa più tardivamente, quando la ‘strategia della tensione’ conosceva una battuta d’arresto, la Nuova destra italiana forma identità maggiormente in crescita del suo omologo francese nella sfera ideologica e più diversificata della sua genitrice tedesca quanto ai modi d'espressione. In disaccordo profondo con ciò che essa stima essere il conformismo del MSI, la Nuova Destra evolve entro un’analisi metafisica della crisi italiana – decadenza inerente all’atomizzazione della società civile e alla perdita dei punti di riferimento nati dall'universalismo – e il rifiuto di portare all'estremo l’ispirazione evoliana sottesa da un tale approccio, il rifiuto assoluto dei mondo moderno. Gli imperativi contraddittori di un atteggiamento malagevole non mancano di ripercuotersi nelle relazioni con la Nuova destra francese: segnate da forti convergenze – dal 1978 appariva in Italia una pubblicazione rispondente al nome Elementi – esse non sono meno conflittuali, a tal punto lo scientismo di Alain de Benoist, poi il suo ostentato nominalismo, hanno inquietato gli spiritualisti al di là delle Alpi, pronti a denunciare il relativismo e la confusione che ne seguivano”.
Duranton-Crabol è inoltre autrice di uno studio specifico sul Grece: Visages de la Nouvelle droite. Le GRECE et son histoire, Presses de la FNSP (Fondation nationale des sciences politiques), Paris 1988.
Sugli stessi temi, e in particolare su Alain de Benoist, il recente libro di Pierre-André Taguieff; Sur la Nouvelle droite. Jalons d’une analyse cntique, Descartes & Cie, Paris 1994, fornisce un’ampia bibliografia. Utile dal punto di vista documentario, il testo è fortemente segnato dal tono reattivo col quale l’autore replica all’appello contro le collaborazioni culturali ed editoriali con La destra apparso su “Le Monde” il 13 luglio 1993 (inizialmente firmato da 40 intellettuali, l’appello è stato ripubblicato su “Le Monde” del 13 luglio 1994 con più di 1500 adesioni). Nel libro, Taguieff si scaglia enfaticamente contro la “legge dei sospetti”, la “polizia del pensiero”, il “maccartismo”, la “caccia alle streghe”, etc. Sono in gran parte gli stessi termini adottati nella campagna lanciata dal Grece per attaccare gli intellettuali ostili al “dialogo” [vedi P. Videlier, A peine masqués s’avancent les falsificateurs du passé. De la collaboration au ‘révisionnisme’, “Le Monde Diplomatique", gennaio 1994].
Per alcune osservazioni critiche sul lavoro di Taguieff vedi P. P. Poggio, Un pensiero etnicamente corretto, “il manifesto”, 25 ottobre 1994. Rinvio inoltre al mio Le sventure della virtù. Per la critica del post-antirazzismo, in “altreragioni”, n. 4.
[10] Sul rilevante fenomeno delle collaborazioni e cooperazioni tra la Nuova destra e le sinistre (istituzionali e non), sono disponibili diverse notizie frammentarie e ricerche parziali, ma si avverte la mancanza di un’aggiornata e articolata documentazione complessiva.
[11] Il termine “strategia” – è ancora necessario precisarlo? – si riferisce alla composizione instabile di forze eterogenee e non ad un “complotto”, così come “coincidenza” non significa “identità”. Mi limito qui a rilevare alcune grossolane mistificazioni dell’antirazzismo creativo.
[12] Marcello Veneziani, Per una cultura dell’intervento, in Al di là della destra e della sinistra, atti del convegno su “Nuova destra. Costanti ed evoluzione di un patrimonio cultuarale” tenuto a Cison di Valmarino (TV) dal 12 al 14 marzo 1981, LEDE, Roma 1982, p. 39 [traggo la citazione da Marco Revelli, Panorama editoriale e temi culturali della destra militante, in Nuova destra e cultura reazionaria negli anni ottanta, atti del convegno tenuto a Cuneo dal 19 al 21 novembre 1982, “Notiziario” dell'Istituto storico della Resistenza in Cuneo e provincia, n. 23, giugno 1983, p. 59. Notizie sui partecipanti al convegno di Cison di Valmarino fornite alla voce “LEDE (Libreria Editrice d'Europa)” nell’Elenco delle case editrici in appendice al citato intervento di Revelli].
Il settimanale diretto da Veneziani trasferisce sul piano delle comunicazioni di massa il progetto di un “ponte gettato tra destra e sinistra” coltivato dalla Nuova destra europea. E’ eloquente, al riguardo, il resoconto di una presentazione: Destra, sinistra e verdi con L’Italia [“L’Italia settimanale”, 20 gennaio 1993]: “Prosegue il calendario delle presentazioni de L’Italia settimanale. Lo scorso 12 Gennaio si e' svolto a Firenze, nel Caffè Giubbe Rosse di Piazza Italia, un incontro organizzato congiuntamente da tre associazioni di eterogenea ispirazione politico-culturale: Attraverso [sic, A/traverso], Il Verde, L’Arpa”.
[13] Franco Moretti, Compagni di strada, in A. Berardinelli - C. Di Girolamo (a c. d.), La cultura del 900, Mondatori, Milano 1981, pp. 27I-272.
[14] ibid., p. 271.
[15] G. Debord, Commentaires..., cit., p. 24. Ma anche altri luoghi del testo,in particolare il par. IV, sono al riguardo fondamentali.
[16] A conferma di queste considerazioni ricordo un piccolo fatto concreto: alla vigilia delle elezioni politiche del ‘94, a Bologna, l’assessore comunale alla “trasparenza” ha partecipato alla presentazione (organizzata dal circolo “lo Hobbit”) del libretto di un autore della Nuova destra, edito da Synergon. Lo stesso autore aveva in precedenza trovato ospitalità sulle pagine di “Mongolfiera” [cfr. rispettivamente il libello e l’articolo di Valerio Zecchini: George Orwell e i mondi virtuali, Synergon, Bologna 1993 e Sweet and tender hooligan, in “Mongolfiera” 25 maggio 1993].
Così l'Amministrazione comunale subentra negli “spazi” preventivamente perlustrati dalla sinistra “alternativa”
.
[17] E’ lo stesso Curzi che, in un editoriale del “Tg 3”, rievoca l’epopea dell’antifascismo come “secondo risorgimento”, istituendo un parallelo tra i blocchi di Crotone (a proposito dei quali enfatizza emblematicamente la partecipazione dei commercianti a fianco degli operai) e gli scioperi nelle fabbriche del nord del marzo ‘43, letti come prodromo della “ricostruzione nazionale”. La sconcertante parodia togliattiana ripropone integra la concezione del ruolo nazionale della lotta operaia, espressione e guida degli “interessi del Paese”.
Il caso mi sembra di particolare interesse, in quanto mostra la paradossale compatibilità tra dialogo col Msi e iconografia della Resistenza (definitivamente svuotata della propria specificità per mezzo della ripetuta e strumentale “applicazione” metaforica alle successive, eterogenee “esigenze del momento”).
Il transito dalla codificazione patriottica dell’antifascismo, istituita nella storiografia “nazionale” del Pci, alla nascente politica del “dialogo” è reso possibile dalla conservazione e dall’estensione dello storicismo conciliatore soggiacente. Ma è altresì evidente che quella cultura – predisposta alle “grandi confluenze” tra diverse “tradizioni ideali” – subisce, in questa nuova torsione (o distorsione), l’irruzione, la pressione e l’innesto di elementi estranei che dovrebbero essere dettagliatamente analizzati.
[18] Cfr. “Riflessioni al presente”, in R. Baldi, La Repubblica di Salò e il pericolo .fascista. Riflessioni al presente, “Vis-à-vis”, n. 2, 1994.
[19] Due frasi - tratte da prefazioni di Daniel Guérin a Fascisme et grand capital – perimetrano con lucida anticipazione lo spazio del problema cruciale del presente. Marzo 1945: “domani, le grandi ‘democrazie’ potrebbero riporre con tutta naturalezza l’antifascismo nel magazzino degli attrezzi usati. Già fin d’ora questa parola magica, che ha fatto insorgere i lavoratori contro l’hitlerismo, viene considerata con sospetto e avversata non appena serve a riaggregare tra loro gli avversari del sistema capitalistico” – Novembre 1956: “Non bisogna... lasciarsi ipnotizzare dal pericolo di un ritorno offensivo del fascismo ‘puro’: la controrivoluzione potrebbe riapparire in altre forme” [D. Guérin, Fascismo e gran capitale (1936, 1945), tr. it. Erre emme ed., Roma 1994, pp. 40 e 50].

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