giovedì 4 novembre 2010

M. Foucault : Gaston Bachelard


Michel Foucault

Piéger sa propre culture




Ce qui me frappe beaucoup chez Bachelard, c’est en quelque sorte qu’il joue contre sa propre culture, avec sa propre culture. Dans l’enseignement traditionnel – et pas seulement, dans l’enseignement traditionnel, dans la culture que nous recevons –, il y a un certain nombre de valeurs établies, des choses qu’il faut dire et d’autres qu’il ne faut pas dire, d’œuvres qui sont estimables et puis d’autres qui sont négligeables, il y a les grands et les petits, il y a la hiérarchie enfin, tout ce monde céleste avec les Trônes, les Dominations, les Anges et les Archanges !... Tout ça est très hiérarchisé. Eh bien, Bachelard fait se déprendre en lisant tout cet ensemble de valeurs, et il fait s’en déprendre en lisant tout et en faisant jouer tout contre tout.

Il fait penser, si vous voulez, à ces joueurs d’échecs habiles qui arrivent à prendre les gros pièces avec des petits pions. Bachelard n’hésite pas à opposer à Descartes un philosophe mineur ou un savant… un savant, ma foi, un peu… un peu imparfait ou fantaisiste du xviiie siècle. Il n’hésite pas à mettre dans la même analyse les plus grands poètes et puis un petit mineur qu’il aura découvert comme ça au hasard d’un bouquiniste… En faisant cela, il ne s’agit pas du tout pour lui de reconstituer la grande culture globale qui est celle de l’Occident, ou de l’Europe, ou de la France. Il ne s’agit pas de montrer qui c’est toujours le même grand esprit qui vit, fourmille partout, qui se retrouve le même ; j’ai l’impression, au contraire, qu’il essaie de piéger sa propre culture avec ses interstices, ses déviances, ses phénomènes mineurs, ses petits couacs, ses fausses notes.

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Michel Foucault, «Piéger sa propre culture»

- in «Gaston Bachelard, le philosophe et son ombre», Le Figaro littéraire, n° 1376, 30 septembre 1972, p. 16.

- M. Foucault, Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994, vol. II, texte n° 111, p. 382

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Vidéo : « Foucault : Gaston Bachelard » (02/10/1972)
Producteur : Office national de radiodiffusion télévision française
Réalisateur : Jean-Claude Bringuier


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post correlati:
Gaston Bachelard - Portrait d'un philosophe

mercoledì 3 novembre 2010

La Bella, la Bestia e l’Umano - una presentazione a Bologna

Presentazione del libro di Annamaria Rivera




La Bella, la Bestia e l’Umano

Sessimo e razzismo senza escludere lo specismo


Ne discutono con l'autrice:

Alberto Burgio -
Università di Bologna

Vincenza Perilli -
Marginalia



giovedì 11 novembre
ore 18
a
la
Feltrinelli International, via Zamboni 7/b
Bologna



venerdì 22 ottobre 2010

Zapruder 23: sul colonialismo italiano

Brava gente.
Memoria e rappresentazioni del colonialismo italiano


è uscito il numero 23 della rivista
Zapruder


a cura di Elena Petricola e Andrea Tappi

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martedì 19 ottobre 2010

Nonostante Auschwitz


Nonostante Auschwitz
Il "ritorno" del razzismo in Europa
un saggio di

Alberto Burgio
Roma,
DeriveApprodi, 2010



Tonino Bucci
La bestia si è risvegliata.
Il razzismo, come lavora e perché è efficace
[recensione per Liberazione, 10 ottobre 2010]



Gli episodi di violenza razzista oggi sono diventati un fenomeno della realtà quotidiana. La speranza che i genocidi del secolo scorso avessero creato una volta per tutte gli anticorpi contro la diffusione del razzismo a livello di massa si sta rivelando, purtroppo, una tesi consolatoria. Le cronache riferiscono abitualmente di immigrati arsi nel sonno, di ronde contro gli immigrati, di incendi appiccati nei campi rom, di lavoratori stranieri uccisi per aver reclamato qualche diritto fondamentale, di rivolte di quartieri contro gli immigrati accusati di spaccio e criminalità, persino di interi paesi come hanno dimostrato i fatti di Rosarno.

Tutto ciò accade Nonostante Auschwitz, come recita il titolo del nuovo saggio di Alberto Burgio - sottotitolo Il ritorno del razzismo in Europa (DeriveApprodi, pp. 224, euro 17). L'ideologia razzista - o, per essere più precisi, quel vasto repertorio di suggestioni, immagini stereotipi e metafore che si potrebbe definire la koiné razzista - sta dilagando nelle società europee dall'alto e dal basso. Da un lato, assistiamo al ritorno del "razzismo di Stato", nella forma di una ideologia pubblica che ispira governanti, legislatori e amministratori locali nella loro azione politica. L'Italia, da questo punto di vista, è un laboratorio di punta in Europa nella legalizzazione del razzismo. Il reato di immigrazione clandestina ha reso operativo un meccanismo di "criminalizzazione" dei migranti, individuati come colpevoli solo per il fatto di rispondere allo stigma dello straniero. Nelle legislazioni europee si riaffaccia il dispositivo penale ottocentesco della «colpa d'autore», sotto forma di leggi che istituzionalizzano la discriminazione di interi gruppi umani (migranti, prostitute, omosessuali, zingari). La Francia di Sarkozy, solo per citare un altro caso recente, si è distinta per le espulsioni e i rimpatri forzati dei Rom. Il razzismo è la risorsa politica di partiti di governo. Basterebbe pensare al fenomeno della Lega, fucina di centinaia di amministratori locali che propagandano (e praticano) nei territori il modello razzista dei servizi sociali (scuole, mense, asili) per soli padani. Ma accanto al razzismo di Stato - e in simbiosi con esso - si è sviluppato un senso comune razzista, una subcultura di massa, un diffuso rancore collettivo alla ricerca di capri espiatori che non è più appannaggio di frange minoritarie della società. La manovalanza delle aggressioni ai danni di migranti, omosessuali, clochard e giovani dei centri sociali viene dalle sigle della destra radicale, dalle fasce giovanili delle periferie metropolitane o dalle curve degli stadi, ma il repertorio di valori cui attingono è però ormai un immaginario collettivo.

Eppure mai come oggi gli studi sulle ideologie razziste sono deboli, spesso incerti sulle categorie interpretative da adottare. Fare del razzismo un oggetto di studio è «un passo difficile, che mette in discussione anche convincimenti radicati nella cultura critica e in particolare nella storiografia». Nel senso che non si può procedere facendo l'inventario di tutto quel che affermano i testi letterari del razzismo, quelli - per inciso - in cui si parla esplicitamente di razza. Il metodo "filologico", «in apparenza impeccabile, è causa del più grave degli inconvenienti: costringe a muoversi dentro la prospettiva del discorso razzista che si intende criticare. E rischia quindi di restarvi imprigionato». Non solo, «muovere in questa ricerca dalla presenza del lemma "razza" (in quanto lo si considera costitutivo del discorso razzista)» significa anche farsi trovare spiazzati dalle nuove varianti del razzismo che non utilizzano la parola "razza" e che tuttavia sono a tutti gli effetti varianti dell'ideologia razzista. E' sufficiente che «una teoria razzista si mascheri sotto un lessico non-razzista (il che avviene non di rado, soprattutto nel secondo Novecento) perché essa scompaia dalla visuale di una critica feticisticamente legata al dato lessicale». «La traduzione del (forte) lessico razzista tradizionale nel (debole) registro culturalista (il passaggio dalla "razza" all'"etnia" e alla "cultura") ha seminato scompiglio tra storici e politologi». Questo disorientamento ha impedito a lungo di riconoscere e contrastare «le nuove forme di ideologia (e pratica) razzista, messe in atto da parte della "nuova destra" con la retorica del "rispetto per le culture altre", col risultato di abbandonare al proprio destino gruppi umani razzizzati per mezzo di retoriche nuove e a prima vista irreprensibili». Del resto, il discorso razzista non ha vincoli di coerenza né di verità. Non ha bisogno di dati di fatto, ma può fare e disfare, affermare e negare a proprio uso e consumo i criteri di assegnazione degli individui a una comunità da perseguitare.«Sono io a decidere chi è ebreo!», diceva Karl Lueger, sindaco antisemita della Vienna di fine Ottocento. L'ideologia «non funziona (non conquista credito e consenso) in base alla propria veridicità. La presa di una tesi ideologica dipende piuttosto dalla sua operatività, dalla capacità di rispondere a bisogni e di soddisfare pulsioni».

Se si guarda alla «genealogia storica» del razzismo, si scopre che la sua esplosione è solo in parte riconducibile alla globalizzazione degli ultimi due decenni. E' vero che sono aumentati i flussi migratori, che la crisi economica ha accentuato i conflitti tra "nativi" e "migranti", che il globale ha fatto irruzione nella dimensione locale delle nostre vite. Eppure, «se gli avvenimenti dell'ultimo ventennio spiegano l'esplosione del razzismo, non consentono invece di comprenderne la riemergenza. Per impiegare una metafora abusata, indicano il detonatore, ma non dicono nulla dell'esplosivo». L'ipotesi di Burgio è che il razzismo sia «un ingrediente fondamentale», una «tara congenita» della modernità europea o, per dirla in altro modo ancora, una «normale patologia» inerente alla vita quotidiana. Il Moderno non è stato solo un processo di emancipazione e di uguaglianza, ma al suo interno ogni conquista progressiva è avvenuta all'ombra di spinte regressive. La modernità ha innescato meccanismi di spaesamento, inquietudini, dissoluzione delle vecchie gerarchie, proletarizzazione dei ceti medi, sentimenti crescenti di insicurezza. «Se dovessimo individuare un denominatore comune a questo complesso di dinamiche, propenderemmo senz'altro per la paura». Su questa base, «la crisi moderna genera una forte domanda di colpevoli e nemici: stranieri o infedeli, malvagi, devianti o cospiratori, ai quali attribuire la responsabilità della propria sventura e sui quali scaricare il proprio rancore».

Ma qual è, appunto, il modus operandi, la maniera in cui il razzismo svolge la sua funzione compensativa di queste pulsioni sociali insoddisfatte? Qual è la logica che fa della "razza" un dispositivo capace di colpire e "razzizzare" in potenza qualunque gruppo umano? La procedura "razzizzante" consiste nell'attribuire un aspetto fisico, un «corpo», a un set di qualità morali (negative), assegnate per natura a una comunità umana, designata come bersaglio di discriminazione e violenza. Il razzista "inventa" corpi per i propri stereotipi. Anche quando si tratta di colpire gruppi umani che non presentano aspetti somatici distintivi, come dimostra il caso classico dell'antisemitismo. L'antisemita non si limita a dire che gli ebrei sono avidi, lussuriosi, ipocriti e così via, ma deve anche aggiungere, per l'economia del proprio discorso, che gli ebrei hanno evidenze fisiche, il naso adunco, i capelli crespi, le unghie quadrate. Siamo in presenza di costrutti simbolici, di un vero e proprio montaggio, la cui regola è quella dell'essenzialismo. Le ideologie razziste sono «teorie essenzialiste», «individuano una (presunta) essenza invariabile ("naturale") del gruppo umano che rappresentano come "razza"». Non potrebbe essere altrimenti: il razzismo ha bisogno che i presunti caratteri negativi di un gruppo umano durino nel tempo affinché quel gruppo possa ricoprire stabilmente il ruolo di capro espiatorio. I meccanismi della «devianza» e della «stigmatizzazione» che Burgio descrive, dimostrano che il razzismo è in grado di colpire chiunque. La costruzione del «nemico interno» ha avuto largo seguito nella sfera politica - si pensi ai comunardi marchiati come "negri" e ai bolscevichi definiti ebrei (e viceversa) - così come è stata applicata verso le figure marginali della società, dagli omosessuali ai malati di mente. Quel che rende il razzismo una ideologia (e una pratica) «totalitaria e paradossalmente inclusiva» deriva dalla sua capacità di costruire e legittimare «modelli sociali complessivi, rigidamente gerarchici, che assegnano un luogo ben determinato a tutte le componenti della popolazione».

L'ideologia razzista è stata un veicolo dell'egemonia della destra tra i ceti popolari e ha contribuito, in parte, alla frattura tra la sinistra ("sempre lì a difendere gli immigrati") e il suo popolo, che s'è gettato tra le braccia della Lega. Sarebbe il caso di non dimenticarsene.

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domenica 17 ottobre 2010

Roberta Cavicchioli su "Foucault-Marx" [per Recensioni Filosofiche]

Leonelli, Rudy (a cura di)
Foucault-Marx. Paralleli e Paradossi.
Roma, Bulzoni, 2010, pp. 146, € 13,00, ISBN 9788878704763

Recensione di Roberta Cavicchioli

in Recensioni Filosofiche,
Numero 53 -
nuova serie - ottobre 2010

Il volume collettaneo, Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, sviluppa e ordina gli spunti scaturiti da una giornata di lavori dedicata a Foucault, Marx, marxismi, ospitata dalla Scuola Superiore di Studi Umanistici di Bologna, cinque anni or sono.
Decisi ad esplorare le possibilità di dialogo, contatto e contaminazione fra due approcci critici alla società che si implicano vicendevolmente e, tuttavia, non riescono a sottrarsi a un confronto animato, i sei relatori hanno deciso di riorganizzare i loro interventi. Ad essi si è poi aggiunto un settimo sodale, Etienne Balibar, che, condividendo le premesse dell’impresa, ha messo a disposizione la versione integrale dell'intervista rilasciata a l’Humanité nel ventennale della morte di Michel Foucault .
Come si inferisce facilmente dal contesto, l’oggetto dell'indagine condotta è il rapporto del filosofo francese con l'eredità marxiana, quell'eredità ingombrante che, sovente e con accenti polemici, Foucault lamentava di aver trascurato per dedicarsi a problemi "più cogenti"- un'eredità che trova nella riflessione foucaultiana interpretazioni originali ed esiti sorprendenti.
L'indicazione contenuta nel titolo è forte: non si vuole innescare il gioco delle appartenenze e fare di Foucault un nipote più o meno devoto. Contrastando il persistere di una storia delle idee che tende a produrre un’uniformità fittizia fra gli autori, si cercano le somiglianze di famiglia proprio nella discontinuità e nelle rotture. Il tentativo riesce, almeno nella misura in cui fornisce al lettore uno spaccato della storia dei movimenti culturali afferenti alla Sinistra; riapre problemi interpretativi non secondari circa la ricezione dell’insegnamento marxiano; chiama in causa autori come Gramsci, Lukács, Sartre, Althusser, uscendo dalla logica segregante di un soliloquio di Foucault su Marx.
Eloquente la premessa del curatore, Rudy Leonelli, che, prese le distanze da un'ermeneutica di maniera, invita a procedere per paralleli e paradossi, rintracciando nell'opera foucaultiana i temi e i problemi posti dalla teorizzazione marxiana e marxista, senza omissioni. Esprimendo una posizione non condivisa dalla totalità dei redattori, Leonelli sostiene che Foucault abbia riattivato i percorsi di ricerca marxiani nel senso della “generalizzazione”. Con generalizzazione si allude alla dislocazione di un sapere dal suo contesto di nascita, al quale è inizialmente incorporato, a un altro: rintracciarne esempi probanti, mette in campo una “genealogia della genealogia” e impone di restituire la parola ai testi. Una feconda circolazione di concetti che coinvolge le nozioni di produzione materiale e simbolica, controllo, dominazione, lotta - per citare solo alcune delle anticipazioni marxiane che incontrano in Foucault un’evoluzione sorprendente.
Colpiva Foucault la concezione della guerra come economia generale di armati e non armati: non è un caso che nella costruzione del mito della battaglia perpetua, su cui si diffonde nel corso del 1976, individui la condizione di emergenza di un immaginario politico moderno che fa la sua comparsa nel discorso dei Levellers per trovare una sistematizzazione negli storici della Restaurazione, Thierry e Guizot dai quali lo stesso Marx avrebbe mutuato la categoria della lotta di classe.
Orienta l’analisi degli autori la certezza paradossale che Foucault possa insegnare molto su Marx, naturalmente a patto che si esca dall’alternativa di una micropolitica cripto o anti-marxista. Ed è vero il contrario: il confronto con la tradizione marxista permette di cogliere elementi importanti della strategia politica foucaultiana.
Ne è certo Balibar che, già nel suo La paura delle Masse, (1997), aveva individuato in Marx e Foucault i due maggiori esponenti della politica della trasformazione delle strutture di potere/dominazione. Valutazione, questa, che trova supporto in un esame non superficiale della riflessione marxiana; riducendo il marxismo alla sussunzione dell’individuo nella massa, se ne perde completamente la valenza emancipatoria, l’afflato libertario soffocato nelle epifanie del totalitarismo. Recuperando questa profondità, si arriva a ricomporre la frattura fra la teoria macropolitica delle strutture collettive avanzata da Marx e il pensiero micropolitico, espressione di un individualismo libertario che in Foucault è mitigato dall’influenza esercitata dalla ricerca sociologica.
Alberto Burgio ravvisa nel concetto di contropotere l’elemento che accomuna Foucault a Marx; la collettivizzazione delle resistenze individuali ribadisce la necessità di “non essere governati”, formulata alla “Société française de philosophie” il 27 maggio 1978. È in particolare nei suoi studi in ambito psichiatrico che Foucault arriva a cogliere il rapporto fra la funzione strutturante del modo di produzione e l’emergere di forme di soggettivazione resistenti o alternative all’interno di uno script definito dal potere, mostrando un'evidente prossimità con il metodo marxiano; riconoscere tale prossimità significa, nuovamente, sottrarre Marx a una lettura deterministica ed economicistica. Elargisce tale indicazione di percorso lo stesso Foucault, che abbandona una concezione appropriativa del potere per definirlo in rapporto alla guidance, una capacità di indirizzo essenziale all’integrazione dei subalterni nei disegni delle classi dirigenti, in cui si avverte anche il riferimento all’opera del grandissimo Antonio Gramsci.
Per valutare la sua ricezione al di fuori di una cornice ideologica, Stefano Catucci chiede di “essere giusti con Marx” (p. 45), cui dobbiamo il linguaggio che ancora struttura la nostra riflessione sui rapporti di potere. Opportuna la sua affermazione che mette subito in chiaro le cose: in Marx, Foucault ama il filosofo dell'attualità, il critico implacabile di Ricardo, Smith e Say. Il suo omaggio si arresta dinnanzi all’utopia antropologica di marca ottocentesca, al materialismo dialettico che si autorappresenta, quale scienza esatta. Se a più riprese celebra in Marx l’instauratore di una nuova discorsività, la pietra angolare della scienze storiche, Foucault contesta al marxismo di non saper progettare una reale trasformazione degli apparati statali, trasformazione che richiederebbe di aver compreso come al di sotto dei dispositivi istituzionali ne agiscano altri infimi, quotidiani, che non vengono toccati dalle rivoluzioni e dagli avvicendamenti interni al Palazzo d’Inverno.
L’ammirazione di Foucault si applica piuttosto al materialismo storico, quale interpretazione della storia che considera determinante il modo di produzione, e mira al rinnovamento della vita materiale. Pretendendo alla scientificità, il marxismo si fa parte dei dispositivi di normalizzazione, diventa monopolio dell'Accademia, dei partiti, dello Stato. Tale l’impressione di Guglielmo Forni Rosa che tiene a sottolineare come l’atteggiamento di Foucault rispetto all’opera marxiana risenta dell’eterogeneità del panorama dei marxismi a lui contemporanei, restii al dialogo o antagonisti fra loro, (p.61: “Bisogna distinguere il comunismo francese e internazionale degli anni Cinquanta, gli incroci esistenzialisti di marxismo e fenomenologia husserliana, il materialismo storico e dialettico, con tutti i tentativi di costruire una filosofia della storia, un'evoluzione lineare per grandi momenti storici, estranea al pensiero di Marx”). Un antagonismo che si proietta all’esterno, perché l’egemonia delle correnti marxiste non imbavaglia le tante anime presenti nella Sinistra: socialisti, libertari, personalisti, in quegli anni, si fanno estensori di sperimentazioni autonome.
In quel solco, Manlio Iofrida schizza il ritratto di un Foucault giovane, combattuto fra la psichiatria fenomenologica di Binswanger influenzata da Heidegger, e il polo rappresentato dal marxismo ortodosso del PCF. Un’oscillazione che si palesa nelle due opere giovanili pubblicate nel 1954, Maladie mentale et psychologie, in cui si respira l'influenza del contrastato maestro Althusser, e Introduzione a Sogno ed esistenza dello stesso Binswanger, in cui si avverte il suo legame con la tradizione tedesca mediata dall'esperienza surrealista. Non è un caso che del surrealismo Foucault salvi proprio il poeta René Char, leggenda della Resistenza, cui tributava un'ammirazione incondizionata, anche per la sua contestatissima amicizia con Heidegger.
Offre un ottimo esempio della ricchezza di un’interpretazione posizionale e non dogmatica, Marco Enrico Giacomelli, deciso a mostrare le intersezioni fra la lezione foucaultiana e l'operaismo italiano. Il riferimento culturale è all’esperienza della con-ricerca di Danilo Montaldi, agli interventi di Raniero Panzieri, all’opera di Tronti e Alquati che porranno le basi per la ricezione di Foucault, anche elaborando alcune categorie analitiche originali atte ad interpretare, nel segno del dominio diffuso e individualizzato, le trasformazioni della società italiana, al culmine del suo processo di industrializzazione. Sulle pagine di “Quaderni Rossi” e “Classe operaia” riecheggiano molti temi contigui al pensiero micro-politico. Prova di tale sensibilità una significativa ricezione dell’opera foucaultiana, letta e discussa nei circoli e sulle pagine delle riviste o magari tradotta, come nel caso della versione italiana di Microfisica del potere, pubblicata già nel 1977.
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lunedì 11 ottobre 2010


Vinicio Capossela

Suona Rosamunda






Suona la banda prigioniera
suona per me e per te
eppure è dolce nella sera
il suono aguzzo sul nostro cuor
cade la neve senza rumore
sulle parole cadute già

fino nel fondo della notte
che qui ci inghiotte e non tornerà
il passo d'oca che mai riposa
spinge la giostra, spinge la ruota
con i bottoni e coi maniconi
marciano i suoni vengon per noi

suona Rosamunda
suona che mi piaci
suonano i tuoi baci
nella cenere ancor
suona Rosamunda
suona che mi piaci
brucino i tuoi baci
nella cenere allor

si bruci il circo si bruci il ballo
e le divise ubriache d'amor
che non ritorni più a luce il sole
che non ritorni più luce per noi
le marionette marciano strette
dentro la notte tornan per noi

suona Rosamunda
suona che mi piaci
suonano i tuoi baci
come fuoco d'amor
brucia Rosamunda
brucia che mi piaci
brucino i tuoi baci
nella cenere ancor


* * *


«... ci mettono ancora una volta in fila, ci conducono in un vasto piazzale che occupa il centro del campo, e ci dispongono meticolosamente inquadrati. Poi non accade più nulla per un'altra ora: sembra che si aspetti qualcuno.
Una fanfara incomincia a suonare, accanto alla porta del campo: suona Rosamunda, la ben nota canzonetta sentimentale, e questo ci appare talmente strano che ci guardiamo l'un l'altro sogghignando; nasce in noi un'ombra di sollievo, forse tutte queste cerimonie non costituiscono che una colossale buffonata di gusto teutonico. Ma la fanfara, finita Rosamunda, continua a suonare altre marce, una dopo l'altra, ed ecco apparire i drappelli dei nostri compagni, che ritornano dal lavoro. Camminano in colonna per cinque: camminano con un'andatura strana, innaturale, dura, come fantocci rigidi fatti solo di ossa: ma camminano seguendo scrupolosamente il tempo della fanfara»
Primo Levi, Se questo è un uomo
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mercoledì 6 ottobre 2010

Friedrich Nietzsche - Difetto ereditario dei filosofi



Tutti i filosofi hanno il comune difetto di partire dall’uomo attuale e di credere di giungere allo scopo attraverso un’analisi dello stesso. Inavvertitamente «l’Uomo» si configura alla loro mente come una æterna veritatis, come un’identità fissa in ogni vortice, come una misura certa delle cose. Ma tutto ciò che il filosofo enuncia sull’uomo, non è in fondo altro che una testimonianza sull’uomo di un periodo molto limitato. La mancanza di senso storico è il difetto ereditario di tutti i filosofi; molti addirittura pendono di punto in bianco la più recente configurazione dell’uomo, quale essa si è venuta delineando sotto la pressione di determinate religioni, anzi di determinati avvenimenti politici, come la forma fissa dalla quale si debba partire. Non vogliono capire che l’uomo è divenuto e che anche la facoltà di conoscere è divenuta; mentre alcuni di loro si fanno addirittura fabbricare, da questa facoltà di conoscere, l’intero mondo. Ora tutto l’essenziale dell’evoluzione umana è avvenuto in tempi remotissimi, assai prima di quei quattromila anni che all’incirca conosciamo e durante i quali l’uomo non può essere gran che cambiato. Ma nell’uomo attuale il filosofo vede «istinti» suppone che essi appartengano ai fatti immutabili dell’uomo e possano quindi fornire una chiave alla comprensione del mondo in generale: tutta la teologia è basata sul fatto che dell’uomo degli ultimi quattro millenni si parla come di un uomo eterno, al quale tendono naturalmente tutte le cose del mondo. Ma tutto è divenuto; non ci sono fatti eterni: così come non ci sono verità assolute. Per conseguenza il filosofare storico è da ora in poi necessario, e con esso la virtù della modestia.

Friedrich Nietzsche, Menschliches, AllzumenschlichesUmano troppo umano, Adelphi, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, vol. I, parte prima, § 2

venerdì 1 ottobre 2010

Alberto Burgio: La radice profonda del razzismo in Europa


Alberto Burgio
La radice profonda del razzismo in Europa
il manifesto, 1 ottobre 2010
È una buona cosa che, sullo sfondo della persecuzione razzista dei rom in Francia, si sia aperta una riflessione teorica sul razzismo. È tutt'altro che scontato che se ne sappia abbastanza (su ciò che lo produce e lo alimenta e, prima ancora, su ciò che il razzismo è) per reagire all'altezza dei suoi devastanti effetti attuali e potenziali. Gli interventi di Étienne Balibar e Jacques Rancière sul manifesto hanno fatto luce su aspetti rilevanti. Il primo si è incentrato sul nesso tra cittadinanza ed esclusione, mettendo in risalto come esso operi anche nel quadro dell'Europa comunitaria; il secondo ha insistito sulla natura artificiale (non spontanea) di un razzismo frutto dell'iniziativa di «imprenditori politici».

Entrambi condividono una prospettiva politico-centrica e meriterebbero un approfondimento: in particolare Rancière sembra sbarazzarsi troppo precipitosamente della scaturigine sociale della paura (e del risentimento) che l'intervento politico alimenta e incanala contro gruppi umani rappresentati come pericolosi. Ma lo spazio è tiranno e, piuttosto che dedicarlo a un confronto interno, conviene utilizzarlo per ampliare lo spettro della discussione, prospettando un'ipotesi differente e complementare, incentrata sulle dinamiche sociali responsabili della produzione di stereotipi inferiorizzanti: un'ipotesi per dir così socio-centrica.

Quando parliamo di razzismo siamo soliti pensare ai margini della società o a popolazioni straniere. Il razzismo appare al senso comune una faccenda riguardante gli «altri», i «diversi» (o i «devianti»), insomma non-persone abitanti la periferia (fisica o morale) delle nostre metropoli. Naturalmente questo modo di pensare ha le sue buone ragioni. Oggi le «razze» (poco importa se rinominate con termini meno impresentabili come «etnie» o «culture») sono in primo luogo i migranti, variamente considerati invasori, nemici, delinquenti naturali, terroristi potenziali, barbari e così via connotando. Oppure sono i rom (e i sinti), cioè gli «zingari». O ancora gli ebrei (checché se ne dica, resiste il pregiudizio che li configura come una «razza»). In una parola, minoranze a vario titolo percepite come estranee al corpo (sano) della collettività. Come eccezioni (patologiche) rispetto alla norma e alla normalità. Tuttavia, se non vogliamo rimanere prigionieri del razzismo, non possiamo limitarci a sfogliare il catalogo dei gruppi umani trasformati in «razze», dobbiamo anche chiederci a che scopo il razzismo li «razzizza».

Con ogni probabilità, l'obiettivo è legittimare trattamenti discriminatori e persecutori che possono arrivare sino allo sterminio. La violenza che difficilmente la società accetterebbe di subire, appare tollerabile (motivata e giusta) se colpisce un gruppo raffigurato come portatore «per natura» di uno stigma morale. Quella violenza è percepita come legittima difesa poiché è messa in relazione alle caratteristiche perverse attribuite a quel gruppo. In una parola, il razzismo è la fabbrica delle identità negative, un operoso cantiere antropologico che, producendo stereotipi (cioè letteralmente creando le «razze»), sforna ininterrottamente argomenti utili a giustificare la violenza che una parte della società scarica su altre componenti più deboli e a vario titolo subordinate.

Se le cose stanno così, lo sguardo dovrebbe disinteressarsi del dito (gli argomenti specifici - tutti, indistintamente, pretestuosi - addotti dal razzista di turno) e rivolgersi alla luna che esso indica, cioè alla radice profonda di questa violenza. Dovrebbe cercare la fonte «strutturale» dell'insaziabile fame di discriminazione che ossessiona la nostra società, poiché soltanto così è possibile capire perché da due o tre secoli a questa parte l'occidente capitalistico non può fare a meno di inventare «razze» inferiori, parti infette dei corpi sociali che meritano di essere cauterizzate o addirittura amputate. E soltanto adottando questa prospettiva si può capire perché il razzismo torna sistematicamente in auge nelle fasi acute di crisi economica e sociale, quando le dinamiche riproduttive esasperano la propria connotazione gerarchica, mobilitando un surplus di violenza e di brutalità.

Il punto è che la «razza inferiore» (quella di chi - stando alle mitologie razziste - ruba o stupra per incoercibili propensioni «naturali» o è «per natura» refrattario alla civilizzazione) incarna e mette in scena non soltanto le ragioni della propria discriminazione, ma anche, soprattutto, la legittimità del discriminare come meccanismo generale della relazione sociale. Certo, la violenza che si scatena contro i rom cacciati via da una palude infestata dai topi all'altra, evitati come appestati sugli autobus e sui treni e finalmente deportati oltre confine nel nome della sicurezza e sanità del corpo sociale, è diversa da quella che gli italiani (o i francesi) doc - quanti tra loro lavorano sotto padrone o nemmeno riescono a trovare un lavoro - sono costretti a subire. Questi ultimi sono (ancora) protetti da qualche diritto. Ma un denominatore comune c'è, e consiste nel dipendere dall'arbitrio altrui. Per questo è importante che assistano alla cacciata dei rom, spettacolo estremamente istruttivo che rammenta (e rappresenta come una condizione inemendabile) la loro radicale subalternità.

Che cosa imparano, a guardar bene, da questo spettacolo che colpisce ai margini della società ma si rivolge al grosso della popolazione, alle «genti meccaniche» cui non è toccata la buona sorte di illustri natali? Apprendono la terribile lezione della modernità: la loro condizione di homines œconomici, di individui soli, costretti a combattere, a proprio rischio e pericolo, la guerra quotidiana degli egoismi individuali. Ciò che il razzismo si incarica di portare a termine mettendo in scena il destino degli ultimi è, in altre parole, l'atomismo sociale e lo sradicamento della solidarietà, fattore antimoderno per antonomasia, incompatibile con lo scatenamento degli «spiriti animali» del capitalismo.

In questo senso - per quanto paradossale ciò possa apparire - se vogliamo capire quale ruolo il razzismo giochi sulla scena europea (e perché esso svolga ancora una funzione così importante), è indispensabile leggere correttamente vicende come quelle di Pomigliano e di Melfi, nelle quali il padrone dichiara in modo esplicito di voler negare qualsiasi diritto a chi per sopravvivere è costretto a vendere il proprio tempo di vita. Gli operai debbono tornare ad essere cose, levarsi dalla testa di essere persone e, soprattutto, membri di un soggetto collettivo. E affinché intendano la musica, niente è più utile del mostrare loro che fine fanno quelli con i quali la buona società si arrabbia per davvero.

Ma se la sorte riservata ai margini serve a educare il centro, allora il problema è la reazione del centro. Non si tratta di stabilire se il razzismo sia o meno spontaneo, certo che non lo è. Il punto è che il razzismo sarà senso comune, benché inculcato dall'alto, finché i corpi sociali assimileranno docilmente la lezione che esso impartisce: la fondatezza delle gerarchie sociali, la legittimità della violenza che esse decretano, la moralità della riduzione a cose dei subordinati. Oggi, esattamente come nel secolo scorso, il problema chiama dunque in causa proprio gli «uomini comuni», spesso complici, più o meno inconsapevoli, della violenza razzista.

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humor nero: la grande scelta finale...


Il party di compleanno di Silvio: barzellette sugli ebrei...




.... Infine, arriva la grande scelta finale, la barzelletta sugli ebrei: «Un ebreo racconta a un suo familiare: “Ai tempi dei campi di sterminio un nostro connazionale venne da noi e chiese alla nostra famiglia di nasconderlo, e noi lo accogliemmo. Lo mettemmo in cantina, lo abbiamo curato, però gli abbiamo fatto pagare una diaria”. “E quanto era, in moneta attuale?” “Tremila euro”. “Al mese?” “No al giorno” “Ah, però” “Bè, siamo ebrei, e poi ha pagato perché aveva i soldi, quindi lasciami in pace” “Scusa un’ultima domanda” “Tu pensi che glielo dobbiamo dire che Hitler è morto e che la guerra è finita?”».

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sabato 25 settembre 2010

Alain Badiou, Piccolo pantheon portatile



Enzo Di Mauro

Badiou, tombe a orologeria




Da Derrida a Deleuze, da Foucault ad Althusser, da Lacan a Canguilhem e Cavaillès, queste quattordici orazioni funebri di Alain Badiou si propongono quasi come un'intifada del pensiero in nome e per conto degli ultimi materialisti.



Come in ogni altro libro di Alain Badiou, anche nel Piccolo pantheon portatile (Il Melangolo, a cura di Tommaso Ariemma, traduzione di Luisa Bosi, pp. 142, € 15, 00) – un titolo che parrebbe lezioso se non venisse inteso in maniera letterale e trasparente – si mantengono bene in vista i segni di una indomabile passione per il reale, qui semmai illuminati da una temperatura emotiva altissima. Virilmente introiettato il lutto, l'acuto sentimento di perdita che ne anima le pagine e ne determina l'andatura si trasforma d'un sol colpo in gesto militante, in lampo di pensiero, in netto e risentito starsene nel campo aspro e seminato a pietre, chiuso a ogni orizzonte di conciliazione, precluso a ogni patto con chiunque si erga a campione della presunta «innocenza » (in verità un'impostura criminale) delle democrazie parlamentari e dei regimi liberali. Poiché, quella del filosofo nato a Rabat settantatré anni fa, è qui un'intifada in nome e per conto dei maestri, degli interlocutori, dei contraddittori e dei compagni di strada che se ne sono andati via per sempre, lasciando vuoto il paesaggio combattente dopo quell'estremo lembo di secolo – diciamo, all'incirca, l'arco di tempo che andò dal 1960 al 1980 – in cui s'accesero gli ultimi fuochi del materialismo e, in senso lato, del pensiero critico e radicale più irriducibile.

Resta quello, per Badiou, un lascito lanciato nel futuro, sebbene un trentennio di restaurazione lo abbia come posto in sonno, in attesa di attivo riutilizzo. Ebbene: se soltanto il sommo Bossuet non avesse messo il suo stile al servizio del potere e dei potenti, lo zelo politico all'autore gli avrebbe consentito senza rimorsi di intitolare il suo libro, assai semplicemente, Orazioni funebri. Ma resta quello il modello, quella l'intenzione per i quattordici epicedi dedicati ad altrettante figure centrali della filosofia francese. È un libro a suo modo straordinario, di quelli che solo a un sopravvissuto è dato di scrivere o di ordinare.

Si tratta di articoli a volte molto brevi, in altri casi di testi (conferenze o saggi) più esaustivi e distesi – in entrambi i casi composti quasi sempre a caldo, sotto l'effetto della commozione, dell'improvvisa mancanza. Non si tratta tanto di frequentare la morte da vicino («se la filosofia ha un qualche compito, è quello di allontanare il calice delle passioni tristi, di insegnarci che la pietà non è un sentimento onesto, né il lamento è la ragione di aver ragione, né il vittimismo è ciò a partire da cui articolare il nostro pensiero”), quanto piuttosto di rendere onore a ciò che resta dei processi di verità così raggrumati nel percorso pensante di quelle vite. Di ognuna di esse Badiou coglie il punto nevralgico, gli inciampi, le fratture, l'ambito del discorso più prossimo e prezioso al tempo a venire.Ma pure a muoverlo agisce un sentimento arioso e verticale, come egli annota nel concludere l'introduzione: «Fui legato ad alcuni da amicizia, con altri ebbi qualche discussione. Ma sono felice di dire qui, in barba agli intrugli che vogliono farci ingoiare oggi, che questi quattordici filosofi scomparsi li amo tutti, ebbene sì. Sì, li amo».

Quanto vi è di avventuroso in tale piegatura intima e sentimentale appare facile intuire. Letture, discussioni, apprensioni, battaglie – tutto confluisce nella formazione di un intellettuale come Badiou, così stretto al respiro del suo tempo e al tratto di Novecento che gli è toccato in sorte di attraversare e che, al finire di esso, egli ha avvertito l'urgenza e la necessità di indagarne il significato in una serie di seminari svolti al Collège international de philosophie negli anni tra il 1998 e il 2001(Il secolo è stato poi pubblicato da Feltrinelli nel 2006). Già lì, nello spazio aperto del suo Novecento, oltre agli omaggi, commoventi per il lettore, a Osip Mandel'štam, Jean Genet, Paul Celan, Pessoa, Brecht , Malevic, troviamo i maestri e i compagni di viaggio a lui più prossimi, molti dei quali in teoria dolente formano la costellazione resistente del suo piccolo pantheon.

Allora eccola la compagine dei senza paura: Jacques Lacan (1901-1981), Georges Canguilhem (1904-1995) e Jean Cavaillès (1903-1944), Jean Paul Sartre (1905-1980), Jean Hyppolite (1907-1968), Louis Althusser (1918-1990), Jean François Lyotard (1924-1998), Gilles Deleuze (1925-1995), Michel Foucault (1926-1984), Jacques Derrida (1930-2004), Jean Borreil (1938-1992), Philippe Lacoue-Labarthe (1940-2007), Gilles Châtelet (1945-1999) e Françoise Proust (1947-1998). È questa la linea di una ricerca materialistica, eretica quanto eterogenea, che ha investito o almeno sforato di sé la pratica dell'agire politico che più ha coinvolto e interessato Badiou, e in proposito basterà leggere, senza essere particolarmente né specialmente votati alla filosofia, l'opera sua per ritrovarne ovunque sparsi i nomi e le idee. Tra le cose notevoli, qui – dove, tra l'altro, quando è il caso, non si trascura il ritratto e persino l'aneddotica più curiosa – spicca ad esempio la rivendicazione tutta in positivo dell'ultimo Lacan, il più criticato dalla vulgata giornalistica, nella cui estrema pratica clinica invece, e proprio a partire dal cruciale assioma secondo il quale non bisogna cedere di un solo millimetro rispetto al proprio desiderio, si farà più stringente l'indagine intorno al rapporto col reale e alla dialettica del soggetto («per un marxista francese contemporaneo, Lacan ha la stessa funzione che aveva Hegel per un rivoluzionario tedesco del 1840»).

Ma poi per ognuno vi è un tratto che si prova a definirlo, a riassumerlo, a storicizzarlo, a glorificarlo in uno stemma imperituro. Sartre, a cui il diciottenne Badiou deve intanto l'iniziazione «a ogni delizia filosofica», è il compagno d'azione e di idee con i suoi trent'anni «di puntuale militanza nella rivolta, di equilibrata metamorfosi di posizioni, di colpi bene assestati» e il cui peso nella storia letteraria può paragonarsi a quello di Voltaire, di Rousseau e di Victor Hugo, «scrittori, questi, che non cedono». O la «singolarità esistenziale » di Hyppolite, «traghettatore » di Hegel in terra di Francia (mirabile, anche per i tedeschi, la sua traduzione della Fenomenologia della spirito), e poi «organizzatore, nel senso di colui che recluta, che sa porre le domande migliori e stringere alleanze anche con persone molto lontane da lui», lettore insonne, fumatore imbattibile fino all'autocombustione. E, ancora, Althusser, per il quale «le questioni del pensiero provengono dallo scontro, dalla linea del fronte, dai rapporti di forza. Il chiodo della rue d'Ulm mal si accordava sia con il tempo della meditazione sia con quello del ritiro. Lì non esisteva che il tempo dell'intervento, circoscritto, agitato, come precipitato verso una fine ineluttabile. L'altro tempo, infinito, era quello del dolore. Purtroppo».

Ma ciò che forse indica il senso vero e l'anima del pantheon di Badiou è la lettura sovrapposta o a incastro di Canguilhem e di Cavaillès, il cui perimetro viene circoscritto nella breve, intensissima monografia del primo dedicata al secondo e intitolata Vita e morte di Jean Cavaillès, pubblicata nel 1976. Quella vita e quella morte camminano tenendosi per mano. Il giovane filosofo e matematico che militò nella Resistenza e che venne torturato e assassinato dai nazisti ad Arras diventa l'emblema, limpido e insieme misterioso, di un punto di contatto, comunque invincibile, che possiamo chiamare etica dell'azione. Appunto: tombe risolute e temerarie quelle che ci consegna Badiou. Imbottite di esplosivo.

da Alias n. 38 del 25 settembre 2010


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Petit panthéon portatif

Ceux qui, aux alentours de 1965, avaient entre vingt et trente ans, ont alors rencontré un nombre exceptionnel de maîtres dans le champ de la philosophie. Les anciens comme Sartre, Lacan ou Canguilhem, étaient encore en pleine activité ; d'un peu plus jeunes, comme Althusser, déployaient leur œuvre, et toute une génération, les Deleuze, Foucault, Derrida, entrait dans l'arène.
Tous ces maîtres, aujourd'hui, sont morts. La scène philosophique, largement peuplée d'imposteurs, est autrement composée, ne tirant sa consistance que de ceux, jeunes et moins jeunes, qui, les formulant à neuf dans leur propre langue, savent être fidèles aux questions qui nous animèrent il y a quarante ans. Je crois juste de rassembler les analyses et hommages qu'au long des années, quand ils disparaissaient, j'ai consacrés à ceux à qui je dois la signification, toujours inhumaine autant que noble et combattante, du mot «philosophie». Je n'ai pas toujours eu avec ces contemporains capitaux des rapports simples et sereins : la philosophie, comme le dit Kant, est un champ de bataille. Mais, considérant aujourd'hui les innombrables «philosophes» médiatiques, je puis dire que j'aime tous ceux dont je parle dans ce livre. Oui, je les aime tous.

martedì 21 settembre 2010

Italo Calvino: «Da noi, niente va perduto ...» [da Militant]

Venticinque anni fa moriva Italo Calvino [Santiago de la Vegas, 15 settembre 1923 - Siena, 19 settembre 1985] uno dei più grandi scrittori italiani del 900. Recentemente ci siamo riletti Il sentiero dei nidi di ragno, il suo bellissimo romanzo sulla lotta partigiana vista attraverso gli occhi di Pin, un ragazzino che quasi per caso (o forse no) si trova a militare dalla parte giusta, dalla parte della storia. Ne riproponiamo un passo ...

Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qui si risolve qualcosa, là si ribadisce la catena. Quel peso di male che grava sugli uomini del Dritto, quel peso che grava su tutti noi, su me, su te, quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta ad uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto. ma allora c’è la storia.C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur senza saperlo, noi per redimercene, loro per rimanerne schiavi. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta al riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.


sabato 18 settembre 2010

Étienne Balibar: Rom, questione comune


La condizione dei rom testimonia l’esistenza di «una traccia durevole delle persecuzioni nella storia europea». L’Europa può cancellarla.



Dal punto di vista dei rom, il processo di unificazione europea ha di sicuro aperto delle possibilità di comunicazione nella comunità finora inesistenti e ha dato la possibilità di reclamare i propri diritti in modo più efficace e legittimo. Ma non ha modificato la configurazione di base della persecuzione, o addirittura può aver dato ad essa una nuova dimensione. Si tratta di una storia affascinante: quello che era ampiamente invisibile è diventato visibile e un'intera parte della storia d'Europa diventa comprensibile. Ed è una questione vitale per il futuro dell'Europa: essa non può essere costruita sull'esclusione, non è un Impero. Ufficialmente, presenta se stessa come uno spazio per la realizzazione dei diritti democratici e del benessere comune delle sue popolazioni. In pratica, conquisterà legittimità nelle menti e nei cuori dei cittadini (una cosa più difficile di quanto immaginato all'inizio) soltanto se comporterà un avanzamento verso istituzioni più democratiche e una cultura di maggiore - e non di minore - solidarietà. Sotto questo punto di vista, la persecuzione dei rom in Europa, trasmettendosi da un Paese all'altro in un processo di emulazione negativa come nel passato, non è un problema che riguarda ogni paese separatamente, ma è un problema "comune", un problema "comunitario".

Affrontandolo in questo modo - e lavorando contro le proprie inclinazioni - gli europei eliminerebbero non solo una fonte di conflitti interni e di violenza che può diventare insopportabile, ma costruirebbero una comune cittadinanza. Inoltre reclamando i loro diritti, elevando il discorso dal livello culturale a quello civile, trovando gli interlocutori istituzionali e gli alleati di cui hanno bisogno tra la popolazione, i rom di tutta Europa conquisterebbero un'integrazione che ci riguarda tutti, collettivamente. Non essendo un esperto di storia e sociologia rom, ma in quanto cittadino europeo e filosofo che ha lavorato su altri aspetti dell'esclusione e sul loro impatto sullo sviluppo della democrazia, vorrei affrontare le tre principali questioni in discussione.

La prima riguarda l'esclusione e la cittadinanza e la loro trasformazione a livello paneuropeo. I rom sono privi di alcuni diritti di base in molti paesi europei e nello spazio europeo, malgrado il fatto che siano cittadini europei, essendo di pieno diritto cittadini degli stati membri. Questi diritti di base includono il diritto di circolazione, di residenza, di lavoro, il diritto alla scuola, alla salute e alla cultura. I rom sono costretti a risiedere in determinate aree, dalle quali del resto possono anche venire arbitrariamente espulsi. Sono definiti o come "nomadi" o come cittadini che provengono da determinati paesi. Sono a priori considerati come delinquenti o come una popolazione pericolosa. Non vengono mai ammessi o sono ampiamente sottorappresentati nella maggior parte delle professioni, sia manuali che intellettuali (con tassi di disoccupazione che toccano i massimi). È inutile dire che questo riguarda anche gli impieghi pubblici. Questo fenomeno è illegale o legale, con la scusa di norme e di accordi interstatali che riguardano l'igiene, la previdenza sociale, le politiche per l'occupazione e le norme culturali. Hanno luogo su uno sfondo di una persistente estrema violenza "popolare", che è alimentata anche da gruppi neofascisti e da bande criminali, solo verbalmente condannati da molti stati membri dell'Unione europea. Solo i più vergognosi pogrom diventano una notizia per la stampa nazionale o internazionale.

La costruzione dell'Ue ha avuto degli effetti estremamente contraddittori. Ha prodotto una categorizzazione dei rom a livello europeo, dal momento che per la Ue sono stati considerati un "problema" nel loro stesso diritto a farne parte. Questo è uno scalino preliminare nella nuova razzializzazione dei rom. Li mette nella stessa categoria dei "migranti" di origine extracomunitaria, in un quadro generale che ho definito come l'emergente apartheid europeo, il lato oscuro dell'emergenza di una «cittadinanza europea». La differenza proviene dal fatto che i "migranti" (e i discendenti di migranti) sono visti come un altro esterno, mentre gli tzigani come un altro interno. Ciò d'altronde rafforza il vecchio stereotipo del nemico interno, che ha effetti sanguinosi.

Malgrado gli enormi cambiamenti storici e sociali - specialmente dopo la seconda guerra mondiale e la fine della guerra fredda - che hanno portato l'Europa molto lontana dal proprio passato, questo fenomeno è testimone di una traccia durevole delle persecuzioni nella storia europea. È inevitabile la comparazione con il caso, di cui si è parlato molto di più, della persecuzione di un "gruppo razziale" nella storia europea, cioè gli ebrei. I due "gruppi paria" sono stati il bersaglio congiunto del genocidio nazista (come altre popolazioni "devianti"). Rappresentano casi completamente diversi di traiettoria religiosa ed economica, ma - è importante sottolinearlo - entrambi hanno svolto un ruolo centrale nello stabilire delle connessioni tra diverse culture europee (specie nel campo artistico, nel caso degli tzigani) incarnando l'elemento "cosmopolita" senza il quale le culture "nazionali" restano isolate e sterili.

Questo mi porta a prendere in considerazione una seconda questione, che riguarda più specificamente le tendenze di razzializzazione in Europa. Alcuni anni fa mi ero chiesto se bisognasse ammettere che esiste un razzismo o neo-razzismo "europeo" che avrebbe avuto, rispetto alla costruzione "sopra-nazionale", la stessa relazione di complementarità ed eccesso che il razzismo tradizionale (antisemitismo, razzismo coloniale, ecc) aveva con lo stato-nazione e le classiche costruzioni imperialiste. Bisogna essere molto prudenti a proporre questo tipo di ipotesi. Nondimeno, ci sono dei fenomeni inquietanti che possono dare credito a questa ipotesi, ponendo i rom nella scomoda posizione di caso test. In conclusione, possiamo dire che l'unificazione dell'Europa ha reso la razzializzazione del "problema tzigano" più visibile, perché mostra l'evidente contraddizione con la tendenza generale e ufficiale verso il superamento dei pregiudizi etnici e nazionali sulla quale è costruita la "nuova Europa". Da questo punto di vista, ci sono almeno tre fenomeni che mi paiono rilevanti:

1. La tendenza delle nazioni europee a proiettare sui rom i pregiudizi verso altre nazioni. Per esempio, la stampa francese è più attenta a riferire dei pogrom che hanno luogo in Italia o in Ungheria, o delle discriminazioni in Romania, ma resta quasi silenziosa sul modo in cui i comuni in Francia respingono i "nomadi" dal loro territorio, o sul modo in cui la polizia di frontiera francese espelle cittadini rumeni e bulgari per alimentare le statistiche ufficiali, pur sapendo benissimo che, in quanto cittadini europei, essi torneranno al più presto.

2. Arriviamo al fenomeno della costruzione del capro espiatorio e, più precisamente, al modo in cui le "nazioni" europee si considerano ufficialmente l'un l'altra come membri di una stessa comunità. Dopo aver superato le antiche ostilità, esse restano nei fatti piene di mutuo risentimento e sospetto reciproco - cosa che, fino ad un certo punto, dipende dal fatto che la costruzione europea è rimasta in mezzo al guado. Questo risentimento e sospetto reciproco tende a venire proiettato verso gruppi "devianti". I rom sono come una nazione in eccesso in Europa, che si distingue per l'odio che suscita non solo perché travalica i confini ma anche perché incarna l'archetipo delle popolazioni senza stato, che fanno resistenza alle norme di territorializzazione e di normalizzazione culturale (per ironia della sorte, sotto molti aspetti, questa singolarità è essa stessa frutto delle persecuzioni).

3. Questo problema, come sappiamo, diventa eccezionalmente acuto quando vengono prese in considerazione le relazioni tra Europa occidentale ed Europa dell'est. Il fatto che i regimi di tipo sovietico in Europa dell'est durante la guerra fredda, in paesi che hanno anche un'importante popolazione rom, avessero combinato una politica coercitiva e normativa con programmi di integrazione economica, ha comportato la definizione di "protégés del socialismo" in paesi dove (per quanto tempo ancora?) la maggioranza della popolazione vede l'ammissione alla Ue come la strada più rapida verso la liberalizzazione economica e sociale. Nell'altra metà del continente, i paesi occidentali e la loro opinione pubblica li percepiscono come la perfetta illustrazione della povertà e della deregulation con le quali l'Ue sfida i vecchi membri. In entrambi i casi, sono rigettati e visti più come "orientali" che come veramente europei.

Se la relegazione dei rom nella condizione di comunità senza stato prosegue (de facto più che de jure: vivono, certo, sotto la giurisdizione degli stati, ma sono visti sia come inadatti che ostili ad entrare nella costruzione di uno stato moderno), cosa che ci riporta all'origine della loro discriminazione, essa rivela al tempo stesso i limiti della costruzione della sfera pubblica in Europa. Essa può essere paragonata a uno statalismo senza stato. Questa situazione poco chiara, combinata con altri fattori, tende ad esacerbare varie forme di razzismo popolare, in particolare sotto la forma dell'ossessione della sicurezza. Dall'altro lato, ha portato alla creazione di una piuttosto densa rete di istituzioni e organizzazioni che hanno a vedere con la "questione rom" a livello europeo. Alcune di queste organizzazioni ed iniziative governative possono favorire lo sviluppo di una coscienza autonoma e di una pratica civile nella comunità rom, mentre altre tendono a ridurli allo stato di un gruppo sotto controllo, protetto e piazzato sotto sorveglianza. Questo dilemma, secondo me, porta a prendere in considerazione un altro problema cruciale, che riguarda le vie dell'emancipazione proposte alle popolazioni rom in Europa. Parlando da un punto di vista astratto, ci sono due strade, come in altri casi simili. Una può essere definita "maggioritaria" e comporta la richiesta della fine dell' "eccezione", il riconoscimento dei diritti di base che, di principio, appartengono ad ogni cittadino. L'altra può essere definita "minoritaria" e si basa su un crescente senso di identità e di solidarietà tra le popolazioni rom, attraverso i confini nazionali, che porta verso una maggiore autonomia culturale e, di conseguenza, verso una maggiore visibilità come gruppo "quasi nazionale" che lotta contro l'esclusione all'interno di un'Europa multi-nazionale.

La prima strada dipende soprattutto dai passi avanti più generali sui diritti umani e da un ritorno a politiche sociali che riescano ad arginare la corrente neo-liberista, mentre la seconda dipende dalla capacità di utilizzare il discorso e le istituzioni dell'Unione europea affinché i rom arrivino a costruirsi una voce autonoma. Nessuna delle due strade è facile, né probabilmente sufficiente. Sarà responsabilità dei rom stessi articolare una combinazione efficace. Ma è anche nostra responsabilità - e nostro interesse - in quanto democratici europei, aiutarli in questo processo, lottando contro il risorgere del razzismo in mezzo a noi, inventando un'Unione migliore.


* Questo testo è una rielaborazione, per gentile concessione di Étienne Balibar, dell'introduzione al volume «Romani Politics in Contemporary Europe» (Palgrave ed. dicembre 2009), una raccolta di saggi sulla questione dei rom e l'Europa a cura di Nando Sigona e Nidhi Trehan. La traduzione è stata curata da Anna Maria Merlo.

da: il manifesto, 18.09.2010

giovedì 16 settembre 2010

Gilles Deleuze - «A che serve la filosofia?»


Allorché qualcuno domanda a che serve la filosofia, dobbiamo rispondere in modo aggressivo, poiché la domanda vuole essere ironica e mordace. La filosofia non serve né lo Stato né la Chiesa, che hanno altre preoccupazioni. Non serve ad alcuna potenza costituita. Una filosofia che non turba e non contraria nessuno non è una filosofia. Essa serve a far danno alla stoltezza, facendone qualcosa di turpe. Essa ha la sola funzione di denunciare la bassezza del pensiero in tutte le sue forme.
Gilles Deleuze
Nietzsche et la philosophie, Presses Universitaires de France, Paris 1962
tr. it. di S. Tassinari, Nietzsche e la filosofia, Colportage, Firenze 1978
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domenica 12 settembre 2010

Humor nero: MinCulPop del Terzo millennio


La barzelletta su Hitler

«Dobbiamo ridere». Così il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi davanti alla platea dei giovani del Pdl introduce una barzelletta sul nazismo. «Dopo un po' che Hitler è morto - racconta - i suoi sostenitori vengono a sapere che è ancora vivo. Lo vanno a cercare per convincerlo a tornare e lui risponde: Sì torno, ma ad una condizione. La prossima volta cattivi, eh?».

da l'Unità

[immagine: fotomontaggio di Erwin Blumenfeld]
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post correlati: "La sapete quella del campo di concentramento?"

giovedì 19 agosto 2010

Del "senso dello Stato" [da Senza Soste]

Cossiga, quando la sovranità
non appartiene al popolo

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È buffo che nei necrologi bipartisan dedicati a Cossiga si metta in evidenza soprattutto il suo senso dello Stato. Perché Cossiga, a differenza di tanti che oggi lo commemorano, non si è mai posto il problema di nascondere il suo disprezzo per lo Stato di diritto e ha sempre rivendicato apertamente il suo ruolo in quelle strategie occulte ed “eversive” (tecnicamente parlando) che dalla Liberazione in poi hanno costituito la vera struttura portante della Prima e della Seconda Repubblica ...

Strategie con un obiettivo chiaro e semplice: quello di impedire che in Italia la volontà popolare potesse mettere in pericolo gli equilibri politici voluti dai veri padroni del Paese e detentori della sovranità reale.

A Cossiga va dunque riconosciuto almeno un merito: quello di aver mostrato con chiarezza che nelle cosiddette democrazie occidentali i diritti civili e politici sono solo un simulacro che copre i reali rapporti di forza: “la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi”, scriveva Michel Foucault capovolgendo il famoso motto di Clausewitz.

I fatti di cui Cossiga è stato protagonista sono notissimi ...

leggi l'articolo completo in Senza Soste

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martedì 10 agosto 2010

Marx lo scienziato impaziente di rivoltare il mondo



Marx lo scienziato impaziente
di rivoltare il mondo

Tonino Bucci, per Liberazione, 20.07.2010





Nicolao Merker, Karl Marx Vita e opere
Laterza, 2010

«Un tipaccio nero imperversa pieno di furore, come se volesse afferrare l’ampia volta celeste e tirarla sulla Terra». Cimentandosi con un poemetto satirico Friedrich Engels tratteggiava con questi rapidi, ma efficaci versi un giovane studente di filosofia, uno dei tanti hegeliani di sinistra che allora –siamo all’incirca nel 1841 – circolavano per l’università di Berlino, capitale di una Prussia autocratica e in pieno clima di Restaurazione. Il nome di quello studente era Karl Marx. Tra lui ed Engels – rampollo di una famiglia di industriali tessili, arrivato nella capitale prussiana per il servizio militare – non si era ancora stabilito il celebre sodalizio di amicizia e di idee che sarebbe durato una vita. Eppure quelle parole dettate da un innocente esercizio d’ironia non si sarebbero rivelate del tutto fuori luogo. Una certa brama di rivoltare il mondo, un certo titanismo di derivazione romantica, quel giovane studente li avrebbe mantenuti anche negli anni a venire della sua esistenza.
Del resto, intere generazioni di lettori e studiosi marxisti hanno ritenuto di dover distinguere tra un Marx scienziato e un Marx politico: l’uno, autore di sobrie analisi economiche, meticoloso fino all’eccesso, ossessivo nella raccolta di fonti e documenti; l’altro, impetuoso e impaziente di passare ai fatti, frettoloso di vedere nella propria epoca i segni premonitori della nuova società post-borghese al punto da scorgere in ogni insurrezione l’inizio della rivoluzione proletaria. Il più delle volte, questa distinzione ha avuto la funzione di far giocare un Marx contro l’altro, con l’implicito presupposto che un pensiero possa farsi scienza solo a condizione di tener lontana ogni commistione con la politica. Non è il caso, questo, della nuova biografia su Marx – era da tanto che non se ne vedevano qui in Italia a differenza che in altri paesi – appena uscita in libreria a firma di Nicolao Merker, Karl Marx. Vita e opere (edizioni Laterza, pp. 268, euro 18). Di primo acchito si potrebbe restare sorpresi che a distanza di quasi centotrenta anni dalla morte (avvenuta l’11 gennaio 1883) ci sia ancora di che scrivere sulla vita di Marx. Dalla fine dell’Ottocento in poi il suo nome è circolato nei movimenti operai di ogni paese del mondo. Sindacati, partiti, interi Stati si sono appropriati a torto o a ragione di Marx, cercando nel suo pensiero una fonte di legittimazione. Una quantità indescrivibile di pubblicazioni si è accumulata nel tempo, gran parte delle quali però dedicate alla dottrina. «Molto minore fortuna – scrive Merker – ha avuto l’interesse per l’uomo. Le buone biografie di Karl si sono sempre contate sulle punte delle dita», mentre «i “teorici del marxismo” (o chi presumeva si esserlo, o comunque si occupava del Marx della “teoria”) erano moltitudine». Marx, questo sconosciuto, poteva dire lo storico Maximilien Rubel, quando ben altra era la circolazione del suo nome, a maggior ragione lo si può dire all’inizio del XXI secolo. «Oggi spesso, riguardo alle cose attendibili su di lui, Marx sembra diventato un parente dell’uomo di Neanderthal». Non che manchino lavori attendibili, Merker ne cita alcuni: ad esempio il Karl Marx. Storia della sua vita del 1918, a firma del socialdemocratico Franz Mehring, il primo ad essere «sganciato da limiti tattici di partito» e ad aver consultato documenti inediti, soprattutto il carteggio con Engels, seguito da Blumenberg, Nikolajevsky e Maenchen-Helfen, Rubel, Friedenthal, fino a Berlin e McLellan, tutti ormai diventati a modo loro dei “classici”.
Una biografia non è solo una collezione di fatti privati o una ricerca di aneddoti che ancora attendono d’essere raccontati da qualcuno. Né, peggio ancora, una “psicografia”, un viaggio senza capo né coda, senza metodo, nella psicologia e nel carattere dell’uomo Marx. Non è tutto il privato di Marx che conta, ma quelle vicende che nella sua biografia e nei suoi scritti spiccano come segni evidenziali. Che Marx abbia fatto un figlio con la domestica di casa o che sia stato eterno debitore di denaro all’amico Engels sono tratti casuali. Altri eventi della sua vita, invece, testimoniano di come le teorie marxiane nascano e si sviluppino come risposta originale alle grandi sollecitazioni culturali della sua epoca.
Fin dalle avventure giovanili all’università – prima a Bonn, poi a Berlino dove finirà a studiare filosofia contro la volontà paterna di fame un laureato in giurisprudenza – per proseguire nelle prime esperienze di giornalista politico alla Gazzetta Renana, sotto il segno di un democraticismo radicale, Merker restituisce l’immagine di un Marx assillato dall’idea di fare della filosofia una scienza rigorosa dei fatti, al punto da scrivere: «Desideriamo costruire esclusivamente su dati di fatto e ci sforziamo, per quanto è in noi, di sollevare solo i fatti a una significazione generale». Anche la resa dei conti con Hegel, della cui filosofia Marx è negli anni universitari un seguace, avviene in nome della ricerca di una scienza dei fatti che non andasse a discapito dei fatti medesimi. Di una scienza capace di leggere i fatti non attraverso interpretazioni costruite indipendentemente dai dati e, successivamente, a questi sovrapposte. «Marx rintracciò i difetti di Hegel partendo dal modo in cui il filosofo aveva mediato i fatti, ossia il molteplice concreto. Dall’incapacità hegeliana e idealistica in genere di spiegare i fatti, Marx concluse che le deduzioni speculative, mancano di funzionalità conoscitiva». La filosofia hegeliana aveva trattato l’uomo reale, i fenomeni della vita reale, la società e lo Stato come estrinsecazioni dell’Idea, come tappe di una narrazione logica: a prezzo, però, di dover “riempire” l’Idea, forma vuota, «con contenuti empirici senza però filtrarli attraverso un’adeguata analisi critica». Anche il Marx talvolta più attaccato dai suoi critici, quello autore nel 1846 – assieme a Engels – dell’Ideologia tedesca, un manoscritto che uscì in edizione postuma solo nel 1932, è a giudizio di Merker un Marx impegnato in una lotta senza quartiere contro le distorsioni ideologiche della realtà. Dove altri interpreti marxisti hanno visto all’opera un materialismo esasperato, un’esaltazione dell’homo faber e dell’attività materiale a discapito della teoria – liquidata a semplice riflesso capovolto della realtà – Merker descrive Marx ed Engels come due autori tutt’altro che inconsapevoli dell’importanza delle ideologie nella storia, tutt’altro che ignari della «complessità delle griglie attraverso cui la realtà giunge alla coscienza». C’è da tener presente che la ricerca di una conoscenza scientifica della realtà va di pari passo con la polemica contro quelle che a Marx ed Engels, nel panorama dei giovani hegeliani di sinistra appaiono fantasie individuali, fughe nell’individualismo anarchico se non recrudescenze irrazionalistiche. Del resto, il materialismo cui i due approdano, è ormai un congegno più raffinato di quel che si pensi. «La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva – scrive Marx nelle Tesi su Feuerbach – non è questione teoretica bensì una questione pratica», essendo nella prassi che «l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere del suo pensiero».
Non distorcere la realtà, non anteporre i propri desideri allo studio scientifico dei fatti, non limitarsi a denunce moralistiche diventa il leit motiv nella polemica di Marx contro i socialisti utopisti conosciuti nell’esilio in Francia, primo fra tutti Proudhon. Nonostante il fallimento delle rivoluzioni democratiche del 1848, nonostante i patimenti e la miseria che l’esule Marx conosce negli oltre due decenni di soggiorno a Londra, questo richiamo a una conoscenza scientifica e a un metodo rigoroso non verrà mai meno. È però, questo, il nodo sul quale si è innestata la leggenda di un Marx affetto da economicismo, che si concentra nello studio dell’economia capitalistica, disinteressandosi del tutto della politica e di ciò che accade al di fuori della fabbrica. Emerge, invece, un autore consapevole della differenza tra il momento puramente economico, di quando, ad esempio, si cerca di «costringere i singoli capitalisti in singole fabbriche o anche in singole officine tramite scioperi ecc. a concedere una diminuzione dell’orario di lavoro», e il movimento politico «per la conquista di una legge per le otto ore». Anche se più rarefatto rispetto allo “scienziato”, il Marx politico emerge in momenti cruciali, per esempio quando sotto la pressione degli eventi si accinge a riconoscere nella Comune di Parigi del 1871, nata da un’insurrezione, il primo esempio di governo della classe operaia. Così come non mancano gli accenni a una teoria dello Stato, per quanto frammentata in scritti di varia natura. Però è proprio nelle riflessioni politiche che emerge un dissidio interiore di Marx, per un verso incline da scienziato a parlare di strutture e tempi lunghi, per nulla disposto a lanciarsi da futurologo in ricette per la società futura; e dall’altra però disposto in certi passaggi epocali a scommettere sull’accelerazione della storia, come se la rivoluzione proletaria fosse dietro l’angolo, anche quando, come nel caso dei comunardi parigini, mancava del tutto una classe operaia capace di agire su scala nazionale. «In Marx l’utopia, in realtà, non stava in primo piano. Negli accenti utopici, quando c’erano, si esprimeva il desiderio che le teorie dell’emancipazione si avverassero in un futuro ancora visibile; e venivano quasi regolarmente bloccati non appena subentravano la analisi scientifiche».
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