lunedì 28 febbraio 2011

Reading Michel Foucault in the Postcolonial Present - Bologna, 3-4 marzo 2011


A Symposium
Bologna, Italy, March 3-4, 2011

Hosted by the University of Bologna  - Funded by the Finnish Academy


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Facoltà di Scienze Politiche


Sala Poeti - Palazzo Hercolani

Strada Maggiore 45

Bologna





Neoliberalism is superficially understood as a theory of political economic practices proposing that human well-being can best be advanced by the development of entrepreneurial freedoms within an institutional framework characterized by private property rights, individual liberty, unencumbered markets, and free trade.


Less understood, however, is how its claims to be able to develop wealth and freedom became correlated with claims to develop the prosperity and security of life itself. Life, in the form of species existence, rather than human nature, has progressively emerged as a singularly important a priori for liberal political economy


Neoliberalism breaks from earlier liberalisms and traditions of political economy in so far as it pursues the development of economic profitability and prosperity not just with practices for the development of the human species, but with the life of the biosphere.


These correlations of economy, development, freedom, and life in and among neoliberal regimes of practice and representation comprise some of the foundations of its biopolitics.

As this symposium will explore, we cannot understand how liberalism functions, most especially how it has gained the global hegemony that it has, without addressing how systematically the category of life has organized the correlation of its various practices of governance, as well as how important the shift in the very understanding of life, from the human to the biospheric, has been for changes in those practices.

Today it is not simply living species and habitats that are threatened with extinction, and for which we must mobilize our care, but the words and gestures of human solidarity on which resistance to biopolitical regimes of governance depends.

A sense of responsibility for the survival of the life of the biosphere is not a sufficient condition for the development of a political subject capable of speaking back to neoliberalism. What is required is a subject responsible for securing incorporeal species, chiefly that of the political, currently threatened with extinction, on account of the overwrought fascination with life that has colonized the developmental as well as every other biopoliticized imaginary of the modern age.

While Foucault’s thought has been inspirational in diagnosing this condition of the postcolonial age, his works have too often failed to inspire studies of political subjectivity. Instead they have been used to stoke the myth of the inevitability of the decline of collective political subjects, describing an increasingly limited horizon of political possibilities, and provoking a disenchantment of the political itself. In contrast this symposium will excavate the importance of Foucault’s work for our capacities to recognise how this debasement of political subjectivity came about, particularly within the framework of the discourses and politics of "development", and with particular attention to the predicaments of postcolonial peoples.

Why and how it is that life in postcolonial settings has been depoliticized to such dramatic effect? And, crucially, how can we use Foucault to recover the vital capacity to think and act politically in a time when the most basic expressions of thought and human action are being targeted for new techniques of control and governance?

The immediacy of these themes will be obvious to any one living in the South of the world. But within the academy they remain heavily under-addressed. In thinking about what it means to read Michel Foucault today this symposium will address some significant questions and problems. Not simply that of how to explain the ways in which postcolonial regimes of governance have achieved the debasements of political subjectivity they have.

And certainly not that of how we might better equip them with the means to suborn life more fully. But that of how life itself, in its subjection to governance, can and does resist, subvert, escape and defy the imposition of modes of governance which seek to remove it of those very capacities for resistance, subversion, flight, and defiance.

This symposium will be the second in a series, the first having been held in Calcutta in September 2010, "The Biopolitics of Development: Life, Welfare and Unruly Populations". As was established there, the formulation of and response to these questions and problems remains open.

The political reception of Foucault’s thought is not monolithic and the debates provoked among the participants at the Calcutta event are far from settled. Hence the demand for a second symposium, this time in Bologna.

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venerdì 25 febbraio 2011

Lo stronzio del terzo millennio



CasaPound
annuncia un convegno sul ritorno all'atomo e il nucleare italiano.


Rifiutiamo l'ennesimo ritorno dello stronzio!



Questo post è frutto di una profonda meditazione di Incidenze e Marginalia

giovedì 24 febbraio 2011

Alain Badiou: il vento dell’est vince sul vento dell’ovest

Alain Badiou

Tunisia, Egitto: quando un vento dell’est spazza via l’arroganza dell’Occidente

 Articolo tratto da Le Monde e tradotto dalla redazione di Zic


l vento dell’est vince sul vento dell’ovest.

Fino a quando l’Occidente inattivo e crepuscolare, la “comunità internazionale” di coloro i quali si credono ancora i padroni del mondo, continueranno a dare lezioni di buona gestione e di buona condotta alla terra intera?

Non è risibile vedere quegli intellettuali di servizio, soldati allo sbando del capitalo-parlamentarismo che ci mantiene in questo paradiso tarlato, fare dono delle loro persone ai magnifici popoli tunisino e egiziano, al fine di insegnare a questi popoli selvaggi l’a,b,c della democrazia?

Che desolante persistenza dell’arroganza coloniale! Nella situazione di miseria politica che è la nostra da almeno tre decenni, non è ancora evidente che siamo noi ad aver tutto da imparare dai sollevamenti popolari del momento?

Non dobbiamo forse studiare, in tutta urgenza e da vicino, tutto ciò che, laggiù, ha reso possibile il rovesciamento attraverso l’azione collettiva di governi oligarchici, corrotti e inoltre – e forse soprattutto – in situazione di vassallaggio umiliante nei confronti degli Stati Occidentali?

Si, noi dobbiamo essere gli scolari di questi movimenti, e non i loro stupidi professori.

Poiché essi danno vita, nel genio delle loro invenzioni, ad alcuni principi della politica dei quali si cerca da tempo di convincerci che sono morti e desueti.

E in particolare a questo principio che Marat non smetteva di ricordare: quando si tratta di libertà, di eguaglianza, di emancipazione, noi dobbiamo tutto alle rivolte popolari ...

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lunedì 21 febbraio 2011

La parabola di Benigni a Sanremo: "buoni" consigli - "cattivo" esempio?

Les vieillards aiment à donner des bons préceptes,
pour se consoler de n'être plus en état de  donner des mauvais exemples.
François de  La Rochefoucauld, Maximes

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Benigni e «Fratelli d'Italia», dubbi su una lezione di storia

Alberto Maria Banti - il manifesto, 20 gennaio 2011

Roberto Benigni a Sanremo: ma certo, quello che voleva bene a Berlinguer! Quello che - con gentile soavità - insieme a Troisi scherzava su Fratelli d'Italia ...




Che trasformazione sorprendente!


Eh sì, giacché giovedì 17 febbraio «sul palco dell'Ariston», come si dice in queste circostanze, non ha fatto solo l'esegesi dell'Inno di Mameli. Ha fatto di più. Ha fatto un'apologia appassionata dei valori politici e morali proposti dall'Inno. E - come ha detto qualcuno - ci ha anche impartito una lezione di storia. Una «memorabile» lezione di storia, se volessimo usare il lessico del comico.

Bene. E che cosa abbiamo imparato da questa lezione di storia? Che noi italiani e italiane del 2011 discendiamo addirittura dai Romani, i quali si sono distinti per aver posseduto un esercito bellissimo, che incuteva paura a tutti. Che discendiamo anche dai combattenti della Lega lombarda (1176); dai palermitani che si sono ribellati agli angioini nel Vespro del lunedì di Pasqua del 1282; da Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze; e da Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci. Interessante. Da storico, francamente non lo sapevo. Cioè non sapevo che tutte queste persone, che ritenevo avessero combattuto per tutt'altri motivi, in realtà avessero combattuto già per la costruzione della nazione italiana. Pensavo che questa fosse la versione distorta della storia nazionale offerta dai leader e dagli intellettuali nazionalisti dell'Ottocento. E che un secolo di ricerca storica avesse mostrato l'infondatezza di tale pretesa. E invece, vedi un po' che si va a scoprire in una sola serata televisiva.

Ma c'è dell'altro. Abbiamo scoperto che tutti questi «italiani» erano buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori - stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o spagnoli. E anche questa è una nozione interessante, una di quelle che cancellano in un colpo solo i sentimenti di apertura all'Europa e al mondo che hanno positivamente caratterizzato l'azione politica degli ultimi quarant'anni.

Poi abbiamo anche capito che dobbiamo sentire un brivido di emozione speciale quando, passeggiando per il Louvre o per qualche altro museo straniero, ci troviamo di fronte a un quadro, che so, di Tiziano o di Tintoretto: e questo perché quelli sono pittori «italiani» e noi, in qualche modo, discendiamo da loro. Che strano: questa mi è sembrata una nozione veramente curiosa: io mi emoziono anche di fronte alle tele di altri, di Dürer, di Goya o di Manet, per dire: che sia irriducibilmente anti-patriottico?

E infine abbiamo capito qual è il valore fondamentale che ci rende italiani e italiane, e che ci deve far amare i combattenti del Risorgimento: la mistica del sacrificio eroico, la morte data ai nemici, la morte di se stessi sull'altare della madre-patria, la militarizzazione bellicista della politica. Ecco. Da tempo sostengo che il recupero acritico del Risorgimento come mito fondativo della Repubblica italiana fa correre il rischio di rimettere in circuito valori pericolosi come sono quelli incorporati dal nazionalismo ottocentesco: l'idea della nazione come comunità di discendenza; una nazione che esiste se non ab aeterno, almeno dalla notte dei tempi; l'idea della guerra come valore fondamentale della maschilità patriottica; l'idea della comunità politica come sistema di differenze: «noi» siamo «noi» e siamo uniti, perché contrapposti a «quegli altri», gli stranieri, che sono diversi da noi, e per questo sono pericolosi per l'integrità della nostra comunità.

Ciascuna di queste idee messa nel circuito di una società com'è la nostra, attraversata da intensi processi migratori, può diventare veramente tossica: può indurre a pensare che difendere l'identità italiana implichi difendersi dagli «altri», che - in quanto diversi - sono anche pericolosi; può indurre a fantasticare di una speciale peculiarità, se non di una superiorità, della cultura italiana; invita ad avere una visione chiusa ed esclusiva della comunità politica alla quale apparteniamo; e soprattutto induce a valorizzare ideali bellici che, nel contesto attuale, mi sembrano quanto meno fuori luogo.

Ecco, con la performance di Benigni mi sembra che il rischio di una riattualizzazione del peggior nazionalismo stia diventando reale: tanto più in considerazione della reazione entusiastica che ha accolto l'esibizione del comico, quasi come se Benigni avesse detto cose che tutti avevano nel cuore da chissà quanto tempo. Ora se questi qualcuno sono i ministri La Russa o Meloni, la cosa non può sorprendere, venendo questi due politici da una militanza che ha sempre coltivato i valori nazionalisti. Ma quando a costoro si uniscono anche innumerevoli politici e commentatori di sinistra, molti dei quali anche ex comunisti, ebbene c'è da restare veramente stupefatti.

Verrebbe da chieder loro: ma che ne è stato dell'internazionalismo, del pacifismo, dell'europeismo, dell'apertura solidale che ha caratterizzato la migliore cultura democratica dei decenni passati? Perché non credo proprio che un simile bagaglio di valori sia conciliabile con queste forme di neo-nazionalismo. Con il suo lunghissimo monologo, infatti, Benigni - pur essendosi dichiarato contrario al nazionalismo - sembra in sostanza averci invitato a contrastare il nazionalismo padano rispolverando un nazionalismo italiano uguale a quello leghista nel sistema dei valori e contrario a quello solo per ciò che concerne l'area geopolitica di riferimento.

Beh, speriamo che il successo di Benigni sia il successo di una sera. Perché abbracciare la soluzione di un neo-nazionalismo italiano vorrebbe dire infilarsi dritti dritti nella più perniciosa delle culture politiche che hanno popolato la storia dell'Italia dal Risorgimento al fascismo.

martedì 15 febbraio 2011

La cultura (Carmelo Bene)

  la cultura, nel suo etimo - l'ha rilevato ... Jacques Derrida -  equivale a colo ..., cioè del verbo colo: colonizzare. Cioè, cultura è tutto quanto è colonizzazione. Per non parlare poi della depravazione culturale, che è l'informazione...”