martedì 1 luglio 2008

Il primo furto non si scorda mai

Nei commenti alla riedizione dell'intervista di E. Balibar sul razzismo anti-immigrati in Europa, abbiamo discusso di fascisti ringalluzziti che rialzano la cresta...
e, per inevitabile associazione d'idee, mi è tornata alla mente una canzone:




Il primo furto non si scorda mai
di Dario Fo ed Enzo Jannacci

"Il primo furto non si scorda mai!"
Un vecchio ergastolano me l'ha detto;
"si comincia quasi sempre dai pollai,
fuggendo con il pollo stretto al petto!"
Ero appena Avanguardista;
giovane, incensurato...
giovane e incensurato:
ero appena Avanguardista.
Io giravo per i pollai
per addestrarmi sul pollo;
volevo farci un po' il callo:
io, i pollai, non li ho visti mai!
Ma che ro... Ma che rogna disastrosa:
c'era anche l'oscuramento,
la pioggia, la neve e anche il vento;
ed in bianco venni a casa!
Ai, aiaiai; Ai, aiaiai;
il primo furto non si scorda mai!
Ai, aiaiai; Ai, aiaiai;
il primo furto non si scorda più!
Ma, in un bel parco, incocciai
in un pollaio grande e un po' isolato...
Scassai la rete e dentro mi cacciai
e vidi un bel tacchino appollaiato!...
Ero appena Avanguardista:
non conoscevo i tacchini!
Chi conosceva i tacchini
era Giovane Fascista!
Pian piano, la mano allungai
per abbrancare il pennuto!
...una beccata beccai,
che mi trovai... svenuto!
Ai, aiaiai; Ai, aiaiai;
il primo furto non si scorda mai!
Ai, aiaiai; Ai, aiaiai;
il primo furto non si scorda più!
Ma che ro-oo.... Ma che rogna disastrosa!
Rinvenni in un ospedale;
però quello di San Vittore:
quel tacchino micidiale...
...era un'aquila imperiale!
Ma che razza di destino!
Io fui spedito al confino,
e poi seppi che fui condannato
per "Vilipendio dello Stato"
Perciò, Ahi, ahiahiahi, Ahi, ahiahiahi:
il primo furto, non lo scordo mai;
Ahi, ahi ahi ahi; ahi, ahi, ahi, ahi;
il primo furto non lo scordo più!
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domenica 8 giugno 2008

Étienne Balibar: «Gli immigrati capri espiatori»

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L'Europa dell'apartheid

Étienne Balibar:
«Gli immigrati capri espiatori»


«Si è cittadini europei per diritto genealogico. Gli immigrati, ventottesima nazione fantasma, sono degli esclusi. Il razzismo è specchio dell'ostilità tra europei. Le colpe del nazionalismo di sinistra»


di Teresa Pullano, il manifesto, 6 giugno 2008



È pessimista sull'avanzata delle destre, anche estreme, in Europa. E sul fatto che i cittadini dell'Unione desiderino realmente la democrazia. Ma si affida a Gramsci per dire che in questo momento bisogna avere l'ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione. Confessa che oggi non direbbe no ad un referendum sulla Costituzione europea. E pensa che nei confronti degli immigrati, il «ventottesimo stato dell'Ue», esista una vera e propria «apartheid europea», in cui il razzismo rispecchia i conflitti interni tra gli stessi cittadini comunitari. Conflitti dei quali i migranti rappresentano solo il capro espiatorio. Incontriamo Étienne Ballibar, filosofo della politica e intellettuale critico della costruzione europea, di passaggio a Roma per alcune conferenze proprio mentre divampa in Italia un clima xenofobo e razzista.

In Italia ha vinto la Lega sulla base della difesa del territorio, perfino i movimenti pensano di ripartire dallo stesso principio, sia pur declinato in maniera opposta. Forse che in Europa il principio del territorio si sta sostituendo a quello di nazione?
Quello del territorio è un concetto plastico che non ha un referente univoco.Leggevo qualche giorno fa un editoriale del manifesto sulle violenze al Pigneto: si faceva una critica, giustificata ma che non offre una soluzione immediata, del modo in cui tende a svilupparsi un mito del microterritorio che fa sì che gli abitanti di un quartiere o di una regione si percepiscano come difensori di uno spazio minacciato da cui espellere tutti gli stranieri. È la prova che la nozione di territorio può funzionare a vari livelli. Nelle periferie francesi le guerre tra bande di giovani proletari immigrati, disoccupati e non scolarizzati sono anch'esse dei fenomeni di difesa del territorio nel senso fantasmatico del termine. È a questo livello che bisogna proporsi non solo una critica della nozione di territorio, ma una vera politica d'apertura o di deterritorializzazione dell'appartenenza comunitaria. La sacralizzazione dei piccoli territori può essere molto violenta ma è limitata. Ciò che preoccupa è la generalizzazione di questi fenomeni su una scala più ampia. Si è verificato con il fascismo, che era una trasformazione immaginaria del territorio nazionale in proprietà di un popolo o di una razza. Ci sarebbero delle conseguenze disastrose se questo fenomeno si sviluppasse nell'insieme dell'Europa, in particolar modo su base culturale, come sembra suggerire Benedetto XVI, quando sostiene che essa è un territorio cristiano e di conseguenza i musulmani sono dei corpi estranei.

Possiamo dunque concludere che il principio di territorialità può essere la base di una cittadinanza europea?
La costruzione europea ha una base territoriale per definizione, ma a seconda se la concepiamo come fissa o evolutiva, come chiusa o aperta, si apre una direzione storica diversa. Oggi il territorio non è la base della cittadinanza europea, ma dovrebbe diventarlo. Quella che definisco come una vera e propria «apartheid europea» è data dal fatto che è cittadino europeo solo chi ha la nazionalità di uno degli Stati membri. Gli immigrati stabilitisi da una o più generazioni sul suolo europeo sono la ventottesima nazione fantasma dell'Ue e costituiscono circa un ottavo della sua popolazione. Non sono semplicemente persone che in Francia non sono francesi, in Germania non sono tedeschi o in Italia non sono italiani. È a livello dell'intera Europa che gli immigrati sono degli esclusi, a maggior ragione con la libera circolazione all'interno delle frontiere europee. L'allargamento dell'Unione europea produce forme qualitativamente nuove d'esclusione. Il diritto alla cittadinanza europea non è territoriale: è genealogico. Nella maggior parte degli stati membri la nazionalità si acquisisce con lo jus soli, ma a livello dell'insieme dell'Europa la cittadinanza è genealogica nel senso dell'appartenenza originaria alla nazione. Questo evoca dei ricordi e pone problemi inevitabili. Ci sono delle analogie tra lo sviluppo di quest'esclusione e il fatto che nella storia ci sono state e ci sono sempre, almeno a livello simbolico, delle popolazioni transnazionali trattate come nemici interni o corpi estranei alla civiltà europea. È stato il caso degli ebrei; oggi non lo è più. Rimane il caso dei rom. Il fenomeno di cui parlo è tuttavia molto più vasto.

Oggi in Europa non si sentono istanze di partecipazione dal basso a livello comunitario, mentre nei singoli stati le istanze di partecipazione si esprimono in un linguaggio nazionalistico e identitario. Che rapporto vede fra queste due tendenze?
La domanda di partecipazione a livello locale e la domanda di controllo popolare a livello nazionale e sovranazionale non si escludono. Forse c'è bisogno di un'accelerazione delle cose perché i cittadini ne prendano coscienza. La responsabilità di questa situazione è da attribuire alle istanze intermedie, come i partiti politici, che oggi sono drammaticamente assenti e ci si dovrebbe chiedere il perché. Secondo Gramsci, le istanze intermedie sono la trama statale del funzionamento della società civile e, reciprocamente, i conflitti della società civile si traspongono nella struttura dello stato. Le costituzioni nate dalla resistenza in Francia e in Italia infatti affidano ai partiti il ruolo di costituire l'opinione pubblica. Dove sono oggi i partiti politici in Europa?

La legittimità degli Stati nazionali e quella dell'Unione europea secondo lei vanno di pari passo?
Il momento attuale è caratterizzato, in modo preoccupante, da una perdita di legittimità democratica degli Stati nazione e da una diminuzione della legittimità del progetto politico europeo. Non si tratta di assumere una posizione di difesa della sovranità nazionale, al contrario. Io adotto la definizione di legittimità di Max Weber, che mi pare vicina al concetto foucaultiano di potere: una nozione pragmatica e realista che si articola in termini di probabilità, d'obbedienza al potere pubblico e dunque d'efficacia di questo stesso potere. Da questo punto di vista, non possiamo ritornare indietro rispetto a quel poco di struttura politica che esiste su scala europea, ma siamo obbligati a progredire. Ne consegue che la legittimità delle istituzioni europee è diventata una condizione di legittimità delle istituzioni nazionali stesse. Non tarderemo a vedere concretamente gli effetti di questa relazione, che si manifesteranno con forza man mano che le difficoltà economiche e sociali legate agli choc petroliferi si ripercuoteranno in Europa. Solo delle politiche europee comuni hanno una minima possibilità di essere efficaci di fronte a questo tipo di situazione, ma devono essere approvate dai cittadini degli Stati nazionali, che rimangono la fonte ultima di legittimità.

Intanto in Europa assistiamo a una crescita delle destre, anche quelle più estreme. Perché, secondo lei?
In questo momento sono pessimista e mi riconosco nella massima di Gramsci dell'ottimismo della volontà e pessimismo della ragione. Per principio le situazioni difficili sono quelle in cui bisogna immaginare delle soluzioni e delle forme d'azione collettiva e non lasciarsi andare a seguire la tendenza naturale delle cose. I sistemi politici relativamente democratici nei quali viviamo o abbiamo vissuto sono in questo momento gravemente minacciati ed indeboliti. Ai miei occhi, i problemi del nazionalismo e dell'avanzamento della destra non coincidono. Tra le due correnti ideologiche ci sono delle interferenze molto forti, ma esse non si riducono l'una all'altra. Il nazionalismo nei vari Paesi europei non è monopolio della destra. Faccio parte - lo devo confessare, ma i lettori del manifesto lo sanno - delle persone che tre anni fa in Francia hanno votato «no» al referendum sulla costituzione europea. Ho creduto di farlo per ragioni che non erano né di destra né nazionaliste. Sono oggi costretto a constatare che questa scommessa è stata persa e che l'aspetto transnazionale e il richiamo a un federalismo europeo sono stati completamente neutralizzati da una dominante nazionalista a sinistra, o meglio nella vecchia sinistra. Ciò che è inquietante è la convergenza del nazionalismo di destra e del nazionalismo di sinistra. I suoi effetti si fanno sentire a livello dei governi nella forma di un sabotaggio permanente delle politiche europee comuni. Ma la convergenza tra le due forme di nazionalismo a livello dell'opinione pubblica e dell'ethos delle classi popolari in Europa è ancora più preoccupante. Meno gli stati nazionali sono capaci di rispondere alle sfide economiche, sociali e culturali del mondo contemporaneo, più i discorsi populisti e nazionalisti fanno presa su una parte delle classi popolari in Europa. Bisogna interrogarsi sulle cause strutturali di questa situazione, non ci si può accontentare del discorso elitista dell'ignoranza del popolo. Di certo è una situazione molto pericolosa per il futuro della democrazia in Europa, senza parlare delle conseguenze sullo sviluppo del razzismo.

Lei parla di un nazionalismo di sinistra. Si può dire che la sinistra oggi pensi da un lato lo spazio mondiale e dall'altro quello nazionale, e sia perciò incapace di vedere quello europeo come uno spazio eterogeneo rispetto agli altri due? È forse un lascito dell'internazionalismo di Marx?
Calandoci nell'epoca in cui Marx ha scritto, potremmo dire esattamente il contrario. Il pensiero di Marx era legato a un momento rivoluzionario che investiva l'Europa intera. Rileggendo gli articoli di Marx del 1848, vediamo che il nazionalismo democratico si allea con il socialismo e le prime forme di lotta di classe. In quel momento Marx e Engels hanno probabilmente pensato che una repubblica democratica europea o un'alleanza di repubbliche democratiche europee era al contempo la forma nella quale si preparava o poteva realizzarsi il superamento del capitalismo. Oggi la situazione è diversa e il senso di parole come nazionalismo si è ribaltato. È vero che certe forme di anticapitalismo teorico, che pescano in parte nell'eredità di Marx e che io non disprezzo ma trovo un po' arcaiche ed unilaterali, trascurano il problema della politica europea. La prospettiva altermondialista ha tuttavia il vantaggio di affermare che pensare l'Europa come uno spazio chiuso è illusorio. Al contempo, le costituzioni democratiche sono radicate nella risoluzione dei conflitti storici passati. Costruire uno spazio politico europeo è importante perché dobbiamo ricomporre il nostro passato a livello continentale: una cultura politica comune deve emergere dalle differenze culturali e storiche dell'Europa. Vi è un legame profondo tra la mancata rielaborazione del nostro passato e l'immigrazione. Gli immigrati sono i capri espiatori dell'ostilità fra gli europei. E' la loro stessa incapacità di pensarsi come un'unità che impedisce agli europei di trattare il problema dell'immigrazione in termini progressisti. I francesi non vi diranno mai che detestano i tedeschi o gli inglesi che non possono sopportare l'idea di formare un popolo comune con gli spagnoli, però questa diffidenza non è stata superata, anzi si è rafforzata con l'allargamento dell'Europa ad Est.

La Costituzione europea è stata affossata, ma in parte viene recuperata con il Trattato di Lisbona. Come giudica la strategia dei leader politici europei di procedere comunque, nonostante il rifiuto dei cittadini dell'Unione?
Non m'interessa, dubito che gli stessi leader europei ci credano loro stessi. Possiamo invece tornare sulla questione del rifiuto del Trattato europeo. I casi francese ed olandese, come ha scritto Helmut Schmidt su Die Zeit, non erano isolati. Il malessere era generale. Questo malessere resta da interpretare e analizzare ed è sempre d'attualità. All'epoca ho difeso la posizione un po' troppo idealista, che oggi non sosterrei più allo stesso modo, secondo la quale la Costituzione europea non era abbastanza democratica. Pensavo che essa non presentasse una prospettiva sufficientemente chiara di progresso generale della democrazia per l'insieme del continente. Tendevo dunque a considerare che la sola possibilità, molto fragile, per l'Europa di diventare uno spazio politico nuovo e superiore al vecchio sistema degli stati-nazione e delle alleanze nazionali, era di apparire come un momento di creazione democratica. Continuo a pensarlo, ma c'è qualcosa d'idealista in questo modo di vedere le cose che la realtà attuale ci obbliga a guardare in faccia. L'idealismo consiste nell'immaginare che le masse vogliano la democrazia, mentre purtroppo siamo in un periodo molto difficile e conflittuale. Ci sforziamo di aprire nuovamente delle prospettive democratiche a livello transnazionale, però allo stesso tempo dobbiamo provare a trovare i mezzi di resistere passo per passo all'avanzata del populismo e del nazionalismo nei paesi europei.


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Articoli correlati in incidenze:

E. Balibar - I. Wallerstein: Razza nazione classe

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venerdì 30 maggio 2008

Almirante, per esempio. Capitolo 2

[... continua da QUI].
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Occorre continuare. Perché le grandi manovre revisionistiche che stanno intensificandosi con l'avvento della destra al potere, in Italia e a Roma, scatenate dall'apologia di Almirante imbastita da AN come "esempio da seguire" non sono un fatto episodico, ma una strategia. Sotto i discorsetti obbligati di Fini, in sede istituzionale, di condanna di "alcune frasi" (sic!) di Almirante, continua a scorrere l'ampio fiume delle revisioni e delle rivalutazioni di questo preteso "grande italiano".
In particolare, riguardo al bando della Prefettura di Grosseto del 17 maggio 1944, circolano, ad esempio in molti siti delle destre, "post", neo o vetero fasciste, ricostruzioni che (tradendo involontariamente l'imbarazzo per i propri scheletri nell'armadio) minimizzano, negano o mistificano con i classici  espedienti dell'eufemismo, della reticenza e talvolta della falsificazione. Non solo, ma queste cose si diffondono in particolare in rete fin troppo facilmente mistificano, al punto che ne troviamo traccia anche nella voce "Giorgio Almirante" di Wikipedia, in cui (oggi) leggiamo:

Divenuto il principale simbolo della destra anticomunista, fu spesso attaccato dalle forze della sinistra soprattutto estrema, che lo accusarono anche di esser stato un "fucilatore"[citazione necessaria] durante il suo passato nella Repubblica sociale Italiana. Almirante rispose a queste accuse per vie legali ed editoriali, pubblicando Autobiografia di un fucilatore: «Un titolo doppiamente bugiardo, poiché non è un'autobiografia, né io sono un fucilatore»

Sorvolando rapidamente sul fatto che la sola versione qui fornita a smentita della qualifica  
Sorvolando rapidamente sul fatto che la sola versione qui fornita a a smentita della qualifica di fucilatore di partigiani o anche di massacratore , lanciata con forza da l'Unità  e da il manifesto((non citati) di fucilatore (o anche di massacratore, etc.) di partigiani, rivolta ad Almirante, contro l'Unità è quella dello stesso, colpisce che qui si riferisca  che intentato laconicamente, intentato su denuncia di Almirante stesso l'Unità e i giornali che avevano ripubblicato il bando del '44.

"Almirante rispose a queste accuse per vie legali", senza dire nulla del "processo per "falso". Viene totalmente taciuto che Almirante e il suo MSI scatenarono una vasta e violenta campagna sostenendo che il documento era un "falso" manipolato dai comunisti. Questo fatto, che rende la misura della statura morale, della dignità e del senso di responsabilità di questo "esempio da seguire" e della funzione revisionista e negazionista svolta del suo partito (come pure l'esito della sua denuncia) nella voce di Wikipedia, sono maldestramente nascosti sotto il tappeto striminzito di una frase reticente e vaga:

"Negli anni 70 il ritrovamento del volantino in un archivio storico susciterà roventi polemiche."


Come ogni altro utente di Wikipedia, avrei potuto modificare questa voce, ma nell'urgenza attuale, mi sembra più utile e produttivo sollevare il problema (del quale, il caso di questa voce di Wikipedia non è che un sintomo, certo, rilevante) per sollecitare una riflessione su come i revisionismi si diffondano agevolmente in rete, e chiedersi se sia possibile, e come, contrastare, nei limiti del possibile, il fenomeno.

Mi sembra prioritario, in questo momento, cercare di contribuire a chiarificare alcuni aspetti spesso trascurati legati alla vicende storiche e poi giudiziarie del bando del 1994.
A questo scopo ripropongo due testi documentati e avvincenti di Nedo Barzanti, che trovato nel sito del PdCI di Grosseto: il primo, sulla strage di Niccioleta, il secondo, sul processo intentato da Almirante contro L'Unità e i giornali che avevano ripubblicato il bando.

domenica 25 maggio 2008

Almirante, per esempio

Da Milano...

La protesta dell'Aned [*] :

AN celebra Almirante:

"Un esempio da seguire"

I muri di Milano sono tappezzati di manifesti firmati Alleanza Nazionale con la faccia di Giorgio Almirante. "Un grande italiano. Un esempio da seguire", si legge sul manifesto, facendo riferimento al ventesimo anniversario della morte del fondatore dell'MSI, e a una messa che sarà celebrata in una chiesa del centro.
A nome della sezione milanese dell'ANED esprimo la più sdegnata condanna di questo manifesto. Giorgio Almirante fece parte per 5 anni, dal primo all'ultimo numero, della redazione della rivista fascista La difesa della razza, principale veicolo nel nostro paese di quella politica razzista che sfociò tra il '43 e il '45 nella deportazione e nello sterminio di migliaia di uomini, donne e bambini ebrei. E fu altissimo esponente della RSI, arrivando a firmare il famoso manifesto in cui si prometteva la "fucilazione nella schiena" degli "sbandati ed appartenenti a bande" che non si fossero piegati alla leva della repubblica di Mussolini, al soldo dell'alleato nazista.
Il manifesto milanese ci parla della cultura politica di forze che oggi occupano altissime cariche istituzionali. Le lacrime di fronte al museo Yad Vashem di Gerusalemme sono archiviate; le critiche al fascismo, come "male assoluto", pure: oggi è cambiato il vento, e AN rivendica con orgoglio una storia fatta anche di disonore.
I superstiti dei lager e i familiari dei Caduti esprimono la loro protesta per una iniziativa che riporta indietro di decenni il dibattito politico nel nostro paese.
Dario Venegoni
presidente dell'ANED di Milano

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... a Roma:

dal sito aldo dice 26 x 1 [24/o5/08]:

fascisti: roma avrà via almirante

[24/08] A vent’anni dalla scomparsa, il sindaco di Roma Gianni Alemanno - l’uomo con la celtica al collo, primo sindaco di destra nella capitale - vuole intitolare una via al leader storico dell’Msi Giorgio Almirante, redattore della rivista La difesa della razza e mai pentito repubblichino di Salò. Motivo: «E’ stato il precursore della moderna destra democratica in anni tormentati in cui era difficile superare il ghetto in cui era rinchiuso l’Msi». No della sinistra romana. Agnostico il Pd: per Nicola Zingaretti «la scelta riguarda il Consiglio comunale». Di Almirante, il 28 maggio, Luciano Violante e Gianfranco Fini presenteranno alla camera la raccolta dei discorsi parlamentari.


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Ma ripensando a Grosseto...

".... impadronirsi di un ricordo come esso balena nell'istante di un pericolo"
[**]


La rapida sequenza tra il manifesto milanese di AN, inneggiante ad Almirante: "Un grande italiano. Un esempio da seguire", e l'annuncio del neo sindaco di Roma di voler dedicare una strada a questo personaggio, ha sollecitato la memoria.
E, scavando qua e là, ho ritrovato un precedente in cui la proposta di intitolare una via ad Almirante, nel 2005, veniva duramente criticata con questa motivazione: "... appare assolutamente inesistente nel caso di Giorgio Almirante quella condizione di personaggio da proporre come esempio per le nuove generazioni ..."

Avendo alla mente questa frase tratta dal documento dell'Istituto storico grossetano della Resistenza e dell'età contemporanea, che riproduco integralmente di seguito, è difficile non leggere nelle attuali "grandi manovre" di AN (celebrazione dell'esempio - intitolazione di una strada, tendenzialmente in ogni città) un preciso disegno di violenta revisione della storia teso rovesciare e liquidare la cultura storica e politica che ha animato questo lucido documento, che contestava l'intitolazione di una strada rifiutando l' "esempio":




PERCHÉ NO AD UN INSERIMENTO DI GIORGIO ALMIRANTE NELLA TOPONOMASTICA GROSSETANA
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La proposta di intitolazione di una strada della città di Grosseto a Giorgio Almirante torna all’ordine del giorno delle scelte del Comune di Grosseto. Fu sostenuta dal vicesindaco Andrea Agresti, già nel 2002, nel quadro di una proposta generica giustificata con la necessità di assicurare una memoria attraverso la toponomastica cittadina a vari politici italiani (si propose anche il nome di Enrico Berlinguer, nel quadro di una supposta “par condicio”). Seguì una discussione pubblica, interrottasi nel momento in cui il silenzio dell’Amministrazione fece supporre un abbandono del proposito. Ritenevamo che le argomentazioni che molti cittadini grossetani avevano opposto a quel progetto avessero dissuaso l’Amministrazione comunale. Non è così.
Ci sembra allora indispensabile dare di nuovo diffusione ad argomenti e documenti, che dovrebbero suggerire a chiunque abbia rispetto per la Costituzione e la prassi democratica di abbandonare ogni incertezza sulla legittimità e opportunità di una scelta, che a nostro giudizio oltrepassa i limiti del decoro per questa città.
La vicenda politica di Giorgio Almirante si sviluppa attraverso tre fasi: gli anni del regime fascista, la breve stagione della Repubblica Sociale Italiana, il lungo periodo dell’Italia repubblicana.
Fuori da ogni intento di ricostruzione biografica completa, è opportuno segnalare alcune tappe significative, documentabili attraverso fonti d’archivio o scritti comparsi sulla stampa:
1. L’impegno nella campagna razziale negli anni del regime
2. Le responsabilità sempre in materia di discriminazione e persecuzione razziale e le manifestazioni di intransigenza e durezza nello svolgimento di un ruolo dirigente nella RSI
3. La sostanziale continuità tra l’impegno politico fascista e quello successivo alla nascita dell’Italia repubblicana e democratica

1.
Giorgio Almirante fu dal 20 settembre 1938 segretario di redazione della rivista “Difesa della razza”, quindicinale che vive tra 1938 e 1943 ed è l’espressione più diretta del razzismo del regime ( i redattori sono tutti firmatari del “Manifesto della razza”, che apre la strada alla legislazione razziale del regime fascista ). Fu anche caporedattore del “Tevere”, periodico distintosi per una campagna antiebraica “estremista, sfrenata, azzardosa”(A. Lyttelton) già prima delle leggi razziali.

venerdì 16 maggio 2008

"Sappiamo ciò che non siamo, ciò che saremo dobbiamo inventarlo" - Verona 17 maggio


Comunicato dell'Assemblea aperta cittadina. Verona:


Si lotta e si crea anche per ricordare chi ci è stato affine.


Non ha importanza se Nicola si dichiarasse antifascista o meno.

In questi anni di ripensamenti e ricombinazioni
sociali, culturali, politiche, esistenziali,
abbiamo imparato a definirci
non per quello che siamo
ma per ciò che non siamo.

A differenza dei suoi assassini
Nicola non era nazista,
non era fascista,
non era razzista,
non era leghista,
non era un reazionario.

Sappiamo ciò che non siamo,
ciò che saremo dobbiamo inventarlo.

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mercoledì 7 maggio 2008

I : Ideologie (fine delle)

E n c i c l o p e d i a
d e l l a
n e o l i n g u a

I
Ideologie (fine delle)


In morte di Nicola Tommasoli, massacrato a Verona da un gruppo di neonazisti.

Da una dichiarazione del neo presidente della Camera:




«
... dietro l'aggressione di Verona non c'è alcun riferimento ideologico».

venerdì 25 aprile 2008

Voce degli ultimi partigiani di Franco Fortini e altri eventi ai bordi del 25 aprile a Bologna

Questa mattina, 25 aprile, le lapidi che, alla Bolognina, da Piazza dell’Unità fino all’ex lager delle Caserme rosse, ricordano i caduti partigiani e le vittime del fascismo, erano decorate una per una da un cerchione di bicicletta, attraversato da una camera d’aria nera (con la scritta bianca “staffetta partigiana” o “staffetta antifascista”), che, sovrapposta ai raggi, ne attraversava il diametro. La ruota era affiancata da volantini affissi garbatamente ai muri con nastro adesivo. Tra questi, la riproduzione di un’ordinanza del febbraio 1944, della Prefettura di Bologna che proclamava:
IL CAPO DELLA PROVINCIA
Ritenuta la necessità, in relazione ai recenti luttuosi avvenimenti, di disciplinare l’uso della bicicletta […]
ORDINA
E’ vietato a tutti gli uomini di età superiore ai 16 anni, in tutto il territorio della Provincia, l’uso della bicicletta senza una speciale autorizzazione […]
Questo reprint che evoca il panico (e il tallone di ferro) nazifascista di fronte alle azioni partigiane, ed il ruolo indispensabile, pericoloso e coraggioso svolto dalle staffette partigiane, sembrava istituire una relazione tra il passato e il ricordo presente attraverso il filo conduttore della bicicletta.
Ma, accanto a quel manifestino e ad altre ristampe di volantini della guerra partigiana, mi ha colpito la presenza di un altro foglio: il testo di una poesia di Franco Fortini, che mi è sembrata essere riproposta, con questa sorprendente e centrata iniziativa, nella forma, nel giorno e nel contesto più adatti.

Eccola:
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Voce degli ultimi partigiani [*]
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Sulla spalletta del ponte
Le teste degli impiccati
Nell’acqua della fonte
La bava degli impiccati.
Sul lastrico del mercato
Le unghie dei fucilati
Sull’erba secca del prato
I denti dei fucilati.
Mordere l’aria mordere i sassi
La nostra carne non è più d’uomini.
Mordere l’aria mordere i sassi
Il nostro cuore non è più d’uomini.
Ma noi s’è letta negli occhi dei morti
E sulla terra faremo libertà
Ma l’hanno stretta i pugni dei morti
La giustizia che si farà.
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Franco Fortini, 1944
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Nella foto [**] un particolare dalla Festa della Resistenza Popolare che si è svolta oggi, in Piazza dell'Unità, nell'ambito della Primavera antifascista e antirazzista.
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NOTE:

[*] "Voce degli ultimi partigiani" era il titolo nel volantino (fotocopiato da una antologia che non saprei identificare). Il testo è quello del "Canto degli ultimi partigiani", in Franco Fortini, Foglio di via, Einaudi, Torino, 1946.

[**] Special Thanks to Marginalia.
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martedì 15 aprile 2008

"Il delirio razzista", giornata di studi - Bologna, 23 aprile

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Il Delirio Razzista


Giornata di studi
Mercoledì 23 Aprile, ore 21
sala dello Zodiaco, via Zamboni 13, Bologna


La giornata di studi costituisce una tappa all'interno della “primavera antifascista”, insieme di iniziative, promosse dall'Assemblea Antifascista Permanente e da altri gruppi e realtà, che ruota intorno alla storia degli ultimi giorni di aprile e a un rinnovato antifascismo.
Essa vuole essere un momento di confronto e approfondimento su un tema, quello del razzismo, assai complesso e che si intreccia inevitabilmente con altri temi: il fascismo, il totalitarismo, il sessismo, l'autoritarismo. Un'analisi storica di questo tema può servire a una migliore comprensione dei meccanismi di costruzione di quel “delirio razzista” e della sua trasformazione in un progetto politico coerente e totalitario. Il razzismo quindi anche oggi pone ostacoli non facili da superare nella costruzione di un mondo in cui le relazioni tra donne e uomini si basino sulla libertà e la dignità e che consideri la “diversità” una fortuna, una ricchezza.
E' cosa nota, purtroppo, come “sentimenti di intolleranza” siano ben presenti all'interno dell'odierna società e a ogni latitudine. Meccanismi psicologici duri da estirpare trovano nuova linfa nelle scelleratezze di un sistema autoritario sempre in bilico tra Stato di diritto e Stato totalitario. Così accade oggi in Italia, dove leggi xenofobe si affiancano a uno sdoganamento crescente del fascismo, in un clima di paura alimentato ad arte dai mass media in cui anche la Chiesa trova la sua faccia più inquietante, cercando di influenzare ancora “la morale” e attaccando diritti acquisiti.
Le crociate cosiddette “legalitarie” provano così a cancellare l'elementare concetto di umanità, rafforzando uno stato autoritario, massima espressione del “migliore dei mondi possibili”, nonché -si coglie tra le righe- l'unico possibile.
Eppure vi sono sul territorio uomini e donne che non si piegano certo a questa visione degradata della società e portano avanti da soli, in gruppi o in coordinamenti forme di autorganizzazione che sono in grado di intervenire fattivamente e di gettare i semi necessari per invertire una rotta tutt'altro che segnata.
La giornata di studi prende le mosse dalle acute riflessioni sul fascismo e il razzismo di Camillo Berneri, militante anarchico, attivo organizzatore antifascista, morto nella Spagna rivoluzionaria per mano della reazione stalinista, per poi affrontare “il delirio razzista” in alcune delle sue molteplici espressioni.



Interventi di:

Luciano Nicolini – Berneri nel quadro del pensiero libertario
Massimo Varengo - Berneri e l'antifascismo
Mauro Raspanti - L'antigitanismo
Nadia Musolesi - Le leggi razziali del 1938
Vincenza Perilli – Razzismo: una "malattia" soltanto maschile?
Rudy Leonelli – La razionalità dell’abominevole: Foucault critico del razzismo


Seguiranno comunicazioni e interventi dell'AAP di Bologna e del Coordinamento Migranti.


Promuovono: Assemblea Antifascista Permanente, Centro Furio Jesi, Associazione Nazionale Partigiani d’Italia Bolognina, Unione Sindacale Italiana, Circolo anarchico Camillo Berneri, Archivio storico della Federazione Anarchica Italiana

domenica 6 aprile 2008

Base Usa Vicenza - Dario Fo: "Le coop, macchina di profitti"

[ricevo da No Dal Molin e volentieri pubblico]:

Le coop rosse hanno vinto l’appalto per la messa in opera della base militare Usa del Dal Molin. È una vittoria, questa, che corrisponde a una dura sconfitta per la storia del mondo del lavoro. È doveroso ricordare che nel loro statuto le coop si impegnano a contribuire in modo costruttivo alla tutela del patrimonio ambientale; ma a Vicenza, aggiudicandosi questo appalto, si impegnano invece a realizzare un impianto militare, con depositi d’armi all’uranio impoverito e forse anche atomiche, (D’altra parte non c’è da meravigliarsi, nel nord Italia sono depositate 90 bombe atomiche fra Ghedi e Aviano!) sopra la più grande falda acquifera del nord Italia. È una dura mortificazione per tutti coloro che da sempre lottano per il rispetto dei diritti civili e la gestione libera dei popoli, compreso quello italiano.

Delude e indigna rendersi conto come associazioni nate per consorziare e difendere i lavoratori dallo sfruttamento di arroganti speculatori, si ritrovino oggi coinvolte in prima persona dentro azioni di profitto spregiudicato e privo di ogni codice etico. Ogni cittadino, appena cosciente e informato, ha bene chiaro in mente che la macchina che si sta realizzando in questa nostra terra, ha il solo scopo di creare una piattaforma non certo di difesa della pace ma di aggressione nel progetto di controllo e conquista delle fonti di energia presenti in tutto il Mediterraneo orientale e oltre. Una macchina del genere non può che produrre conflitti, distruzione e rovina.

Non è assolutamente piacevole vedervi coinvolte strutture che alla loro origine rappresentavano l’orgoglio del mondo operaio.”


A dichiararlo è il premio Nobel Dario Fo che sarà a Vicenza lunedì 7 aprile per sostenere la candidatura di Cinzia Bottene e della lista ‘Vicenza Libera – No Dal Molin’ alle elezioni amministrative.

Presidio Permanente, Vicenza, 6 aprile 2008

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domenica 20 gennaio 2008

Marcello Cini. Le ragioni di un "cattivo maestro"

Lettera al Rettore della Sapienza

["Se la Sapienza chiama il Papa e lascia a casa Mussi", da il manifesto, 14 novembre 2007]



Signor Rettore, apprendo da una nota del primo novembre dell'agenzia di stampa Apcom che recita: «è cambiato il programma dell'inaugurazione del 705esimo Anno Accademico dell'università di Roma La Sapienza, che in un primo momento prevedeva la presenza del ministro Mussi a ascoltare la Lectio Magistralis di papa Benedetto XVI». Il papa «ci sarà, ma dopo la cerimonia di inaugurazione, e il ministro dell'Università Fabio Mussi invece non ci sarà più».

Come professore emerito dell'università La Sapienza - ricorrono proprio in questi giorni cinquanta anni dalla mia chiamata a far parte della facoltà di Scienze matematiche fisiche e naturali su proposta dei fisici Edoardo Amaldi, Giorgio Salvini e Enrico Persico - non posso non esprimere pubblicamente la mia indignazione per la Sua proposta, comunicata al Senato accademico il 23 ottobre, goffamente riparata successivamente con una toppa che cerca di nascondere il buco e al tempo stesso ne mantiene sostanzialmente l'obiettivo politico e mediatico.

Non commento il triste fatto che Lei è stato eletto con il contributo determinante di un elettorato laico. Un cattolico democratico - rappresentato per tutti dall'esempio di Oscar Luigi Scalfaro nel corso del suo settennato di presidenza della Repubblica - non si sarebbe mai sognato di dimenticare che dal 20 settembre del 1870 Roma non è più la capitale dello stato pontificio. Mi soffermo piuttosto sull'incredibile violazione della tradizionale autonomia delle università - da più 705 anni incarnata nel mondo da La Sapienza dalla Sua iniziativa.

Sul piano formale, prima di tutto. Anche se nei primi secoli dopo la fondazione delle università la teologia è stata insegnata accanto alle discipline umanistiche, filosofiche, matematiche e naturali, non è da ieri che di questa disciplina non c’è più traccia nelle università moderne, per lo meno in quelle pubbliche degli stati non confessionali. Ignoro lo statuto dell'università di Ratisbona dove il professor Ratzinger ha tenuto la nota lectio magistralis sulla quale mi soffermerò più avanti, ma insisto che di regola essa fa parte esclusivamente degli insegnamenti impartiti nelle istituzioni universitarie religiose. I temi che sono stati oggetto degli studi del professor Ratzinger non dovrebbero comunque rientrare nell'ambito degli argomenti di una lezione, e tanto meno di una lectio magistralis tenuta in una università della Repubblica italiana. Soprattutto se si tiene conto che, fin dai tempi di Cartesio, si è addivenuti, per porre fine al conflitto fra conoscenza e fede culminato con la condanna di Galileo da parte del Santo ufficio, a una spartizione di sfere di competenza tra l'Accademia e la Chiesa. La sua clamorosa violazione nel corso dell'inaugurazione dell'anno accademico de La Sapienza sarebbe stata considerata, nel mondo, come un salto indietro nel tempo di trecento anni e più.

Sul piano sostanziale poi le implicazioni sarebbero state ancor più devastanti. Consideriamole partendo proprio dal testo della lectio magistralis del professor Ratzinger a Ratisbona, dalla quale presumibilmente non si sarebbe molto discostata quella di Roma. In essa viene spiegato chiaramente che la linea politica del papato di Benedetto XVI si fonda sulla tesi che la spartizione delle rispettive sfere di competenza fra fede e conoscenza non vale più: «Nel profondo.., si tratta - cito testualmente - dell'incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall'infima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero greco fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire "con il logos" è contrario alla natura di Dio».

Non insisto sulla pericolosità di questo programma dal punto di vista politico e culturale: basta pensare alla reazione sollevata nel mondo islamico dall'accenno alla differenza che ci sarebbe tra il Dio cristiano e Allah - attribuita alla supposta razionalità del primo in confronto all'imprevedibile irrazionalità del secondo - che sarebbe a sua volta all'origine della mitezza dei cristiani e della violenza degli islamici. Ci vuole un bel coraggio sostenere questa tesi e nascondere sotto lo zerbino le Crociate, i pogrom contro gli ebrei, lo sterminio degli indigeni delle Americhe, la tratta degli schiavi, i roghi dell'Inquisizione che i cristiani hanno regalato al mondo. Qui mi interessa, però, il fatto che da questo incontro tra fede e ragione segue una concezione delle scienze come ambiti parziali di una conoscenza razionale più vasta e generale alla quale esse dovrebbero essere subordinate. «La moderna ragione propria delle scienze naturali - conclude infatti il papa - con l'intrinseco suo elemento platonico, porta in sé un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda (sui perché di questo dato di fatto) esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali a altri livelli e modi del pensare - alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi a essa significherebbe una riduzione inaccetabile del nostro ascoltare e rispondere».

Al di là di queste circonlocuzioni (i corsivi sono miei) il disegno mostra che nel suo nuovo ruolo l'ex capo del Sant'uffizio non ha dimenticato il compito che tradizionalmente a esso compete. Che è sempre stato e continua a essere l'espropriazione della sfera del sacro immanente nella profondità dei sentimenti e delle emozioni di ogni essere umano da parte di una istituzione che rivendica l'esclusività della mediazione fra l'umano e il divino. Un'appropriazione che ignora e svilisce le innumerevoli differenti forme storiche e geografiche di questa sfera così intima e delicata senza rispetto per la dignità personale e l'integrità morale di ogni individuo.

Ha tuttavia cambiato strategia. Non potendo più usare roghi e pene corporali ha imparato da Ulisse. Ha utilizzato l'effige della Dea Ragione degli illuministi come cavallo di Troia per entrare nella cittadella della conoscenza scientifica e metterla in riga. Non esagero. Che altro è, tanto per fare un esempio, l'appoggio esplicito del papa dato alla cosiddetta teoria del Disegno Intelligente se non il tentativo - condotto tra l'altro attraverso una maldestra negazione dell'evidenza storica, un volgare stravolgimento dei contenuti delle controversie interne alla comunità degli scienziati e il vecchio artificio della caricatura delle posizioni dell'avversario - di ricondurre la scienza sotto la pseudo-razionalità dei dogmi della religione? E come avrebbero dovuto reagire i colleghi biologi e i loro studenti di fronte a un attacco più o meno indiretto alla teoria danwiniana dell'evoluzione biologica che sta alla base, in tutto il mondo, della moderna biologia evolutiva?

Non riesco a capire, quindi, le motivazioni della Sua proposta tanto improvvida e lesiva dell'immagine de La Sapienza nel mondo. Il risultato della Sua iniziativa, anche nella forma edulcorata della visita del papa (con «un saluto alla comunità universitaria») subito dopo una inaugurazione inevitabilmente clandestina, sarà comunque che i giornali del giorno dopo titoleranno (non si può pretendere che vadano tanto per il sottile): «Il Papa inaugura l'Anno Accademico dell'Università La Sapienza».

Congratulazioni, signor Rettore. Il Suo ritratto resterà accanto a quelli dei Suoi predecessori come. simbolo dell'autonomia, della cultura e del progresso delle scienze.

Marcello Cini



Marcello Cini: Giusta protesta

[a cura di Francesco Piccioni, da il manifesto, 17 gennaio 2008]

La verità dei fatti si oppone al “pensiero unico” menzognero, che sembra pervadere l’intero schieramento politico e mediatico italiano.


«Quello che mi indigna un po', francamente, è questa pressoché unanime valanga che si sta rovesciando - oltre che su di me - sui firmatari dell'appello, sugli studenti che hanno reagito da studenti, in un unico blocco di violenti, intolleranti che hanno impedito al papa di venire alla Sapienza a parlare. Io rispondo per quanto mi riguarda, perché la mia è stata un'iniziativa personale - con una lettera scritta il 14 novembre su il manifesto - in cui mi rivolgevo al mio rettore. E lo criticavo anche aspramente perché vedevo nell'invito a inaugurare l'anno accademico della Sapienza (di questo si trattava, anche se prima come lectio magistralis, poi camuffata all'italiana con un intervento nello stesso giorno, comunque)».Il giorno dopo il «gran rifiuto», Marcello Cini è amareggiato. Ma non contrito. Contesta il modo in cui quasi tutti i media hanno costruito il mancato evento e le ragioni sue e dei firmatari della lettera al rettore della Sapienza. «La sostanza era l'invito al papa a inaugurare l'anno accademico. A questa proposta io ho reagito, e reagirei ancora oggi, per due ragioni. La prima è di tipo formale, ma essenziale. L'inaugurazione dell'anno accademico è un atto pubblico, forse il più importante, che riafferma la natura e la funzione dell'università come istituzione di crescita della conoscenza, di formazione della cultura al più alto livello, di uno stato laico, democratico, moderno, sui principi della Rivoluzione francese, dell'illuminismo e della modernità. Un atto importante - un rito se si vuole - che riafferma il modo in cui è organizzato questo processo di crescita e trasmissione della conoscenza alle giovani generazioni. Invitare al centro di questo rito laico un'autorità come il papa è di fatto una contraddizione in termini, non può che generare conflitto. Il papa è a capo di un'istituzione come la Chiesa cattolica, fondata su pricipi totalmente diversi - come il carattere gerarchico-autoritario, detentore di una verità assoluta proveniente direttamente da dio, quindi dalla trascendenza. Si fonda perciò su criteri di verità, metodologici e epistemologici, completamente diversi. È questo contesto che non si vuol capire. Ossia la coesistenza e il conflitto tra due istituzioni di natura diversa e fondate su principi in antitesi fra loro». Un conflitto istituzionale che non implica affatto «censura», ma rispetto della diversità degli ambiti. «Ciò non vuol dire che il papa, come professor Ratzinger, non sia un professore universitario, un intellettuale fine, colto, ecc. Ma la confusione tra queste due figure che coesistono entro la stessa persona, ha permesso di generare - per esempio in occasione dell'invito a Ratisbona - un'interpretazione del suo discorso come una presa di posizione contro l'Islam, con tutte le polemiche che ne sono seguite». Luogo e occasione, insomma, con parecchie riserve su come è stata realizzata l'idea della visita papale. «Non sarebbe successo nulla se il rettore e il Vaticano avessero semplicemente spostato la visita in un'altra data. Anche altri papi l'hanno fatto, esponendo il proprio punto di vista. Nei contenuti sarebbe stato poi approvato, obiettato, contestato, ecc».Molte distinzioni «istituzionali» sembrano svanire nel dimenticatoio... «Tutto questo si colloca in un contesto in cui questo papato - in particolare nel nostro paese - sta perseguendo una politica concreta tesa a sgretolare sempre di più la separazione tra Stato e Chiesa, tra repubblica italiana e clero. Questo ha creato una situazione in cui una presa di posizione legittima - un professore che si rivolge pubblicamente al proprio rettore - e fondata sulla separazione delle sfere di competenza, viene classificata, bollata e demonizzata come un'intolleranza da parte mia, dei miei colleghi e degli studenti. L'intolleranza quotidiana è quella che arriva alle telefonate del cardinal Bertone ai deputati italiani di stretta osservanza cattolica perché non votino certe leggi».Sembra una scena da favola di Esopo (la volpe che accusa l'agnello)...«Se questa reazione è un'intolleranza o un 'divieto di parlare', siamo a un tale stravolgimento della realtà dei fatti che, da un lato, non può che indignarmi; dall'altro - vedendo che tutta la sinistra e il centrosinistra si accoda a questa mistificazione - deprimermi profondamente. C'è un'incapacità di reagire a questo pensiero unico per cui il depositario dei valori è la religione e i laici non hanno valori. Per acquietare le coscienze e orientarsi sul senso della vita, sul lecito e il non lecito, su tutte queste cose l'unico riferimento ritorna a essere la religione. È colpa nostra».


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martedì 15 gennaio 2008

Questioni di metodo. A proposito di Kulturkampf

Mark Terkessidis
Kulturkampf. L'Occidente e la Nuova Destra, Marco Tropea Editore, Milano 1996.
[
Kulturkampf. Volk, Nation, der Westen und die Neue Rechte, Kiepenheuer & Witsch, Köln 1995]

La tempestiva traduzione italiana di questo lavoro offre un’importante testimonianza della nascita, anche in ambito tedesco, di un percorso critico che ha posto al centro dell’attenzione le affermazioni mediatiche della Nuova destra, il revisionismo storico, il nuovo razzismo differenzialista. Chi, all’inizio degli anni Novanta, partendo da momenti di mobilitazione e discussione quali il blocco della conferenza di Nolte nell'ateneo bolognese[1] o da altri percorsi convergenti, ha maturato analoghi interessi, ha la possibilità di confrontarsi con un tracciato in qualche modo parallelo, nato in Germania negli stessi anni. La prefazione di Terkessidis mostra bene che la genesi di questo spazio di attività e ricerca non è, come spesso si crede o si vorrebbe far credere, riconducibile ad una ideologia “residua”, ma si colloca nel cuore dei problemi imposti dall’attualità.
Insieme, la prefazione sottolinea alcune decisive scelte teoriche e analitiche che informano il testo. Una critica del paradigma della “guerra culturale” deve affrontare il difficile compito di smarcarsi dal proprio oggetto, e ha bisogno, per questo, di individuare un diverso spazio teorico, un’altra immagine del pensiero:
“Concordo – scrive Terkessidis – con lo psicoanalista sloveno Slavoj Zizek, il quale ha scritto che l’intellettuale dovrebbe porsi in un buco che non si chiude. Zizek alludeva a una foto scattata dopo la caduta di Ceausescu: due rumeni innalzavano una bandiera nella quale al posto dell’emblema del comunismo, evidentemente tagliato via, si apriva un buco. Il più alto dovere dell’intellettuale sarebbe quello di ‘rimanere imperterrito, anche e soprattutto quando ormai si è stabilito un nuovo ordine (una ‘nuova armonia’) al posto di quel buco, per mantenere una distanza rispetto al simbolo predominante’”[2].
Il rifiuto di assumere il punto di vista di una superiore “verità”, “al di sopra delle parti”, opera uno scarto non solo nei confronti dei modelli di trascendenza della sfera culturale propri della Nuova destra, ma anche verso l’ingannevole obiettività di esperti attestati su un modulo di analisi normativa che, semplificando, potrebbe essere così schematizzato: fissati due termini, da una lato il fascismo nostalgico (o, con maggior vaghezza, il “totalitarismo”) che designa il posto in cui la Nuova destra non è più, dall’altro la conformità alla democrazia, termine prestabilito del percorso, si pone la Nuova destra come una entità “in cammino” tra il primo e i secondo punto fermo, e si procede a rilevare i gradi di pro-gresso, variamente compitando “evoluzioni” e (ri)cadute, “passi avanti”, soste ed eventuali scivoloni. Kulturkampf rovescia la prospettiva: non commisurare la Nuova destra ad un modello di “democrazia” concepito come norma inamovibile, ma descrivere il viraggio o la deriva dei fattori che definiscono un paese democratico “normale” per effetto di un insieme combinato di processi con cui la Nuova destra interagisce. La confortevole semplicità dello schema lineare va in frantumi: non una retta, ma una reticolo.
Aprire questo reticolo significa non limitarsi a considerare una singola esperienza – come la Nouvelle droite, o uno dei suoi omologhi nazionali –, ma allargare lo sguardo in più direzioni: mentre focalizza la specificità dell’esperienza tedesca, Terkessidis riesce a mantenere una continua attenzione alle dimensioni internazionali del fenomeno e, al tempo stesso, non circoscrive l’analisi alla Neue Rechte in senso stretto, ma prende in esame un complesso di gruppi e tendenze, che permettono di vedere quel filone come una componente rilevante, ma tutt’altro che isolata, di un insieme più vasto: dalle testate vicine all’impostazione del Grece agli storici “post-Nolte” e oltre, fino all’area che si è raccolta attorno al Manifesto degli intellettuali conservatori[3]. Di qui la necessità di spaziare non solo tra tempi e autori distanti, ma anche tra materiali eterogenei: dal libro alla rivista, dal giornale alla fanzine: il filo conduttore non è l’omogeneità di “livello”, non si tratta di optare tra i cieli rarefatti della “cultura” e il “basso” materiale underground, ma di leggere diagonalmente i concatenamenti enunciativi, le linee di articolazione di una strategia.
Ma questa strategia non può essere efficacemente criticata mutuandone più o meno implicitamente i presupposti. Se quella opera mettendo “sistematicamente in ombra tutti gli aspetti del dominio (politico-economico) e analizzando la situazione solo sotto l’aspetto strategico del potere ideologico”[4], la critica deve tornare, con Marx, a parlare la “lingua della vita reale”[5]: cogliere le complesse articolazioni tra l’affermarsi del paradigma che “costruisce” i conflitti sociali in chiave di “lotta tra le culture” e i processi di segmentazione gerarchica interni al “mercato mondiale indiviso”. Il testo effettua una ricognizione vasta delle funzioni svolte dal razzismo culturalista ad ogni livello. Dai conflitti Nord-Sud, alla concorrenza tra stati o aree produttive, alle esigenze interne delle nazioni, il paradigma della “battaglia tra culture” adempie a funzioni strategiche . La costruzione di un quadro d'insieme, anche su questo piano, è forse l’aspetto più importante del libro.
Relativamente ai temi, agli stili e ai moduli culturali della Nuova destra il libro può essere letto come un grande repertorio, e utilizzato come una rubrica intelligente, una rassegna che riordina e permette di riconoscerne i topoi. Non sfuggirà, ad una lettura così orientata, la parabola che connette trasgressione e normalità: “Dobbiamo incanalare verso destra l’inquietudine diffusa nelle file della sinistra stessa – scriveva Gerd Waldmann sulla rivista Nation Europa nel 1969 –. ‘Di destra’ in futuro, non dovrà significare reazionario, ma volto al progresso, non borghese, ma incline alla rivoluzione sociale, non antintellettuale, ma impegnato a introdurre la razionalità nella politica, non legato a un nazionalismo improntato alla concezione di stato, ma a un moderno nazionalismo europeo”[6]. Ora, con il definirsi di uno spazio “al di là” della distinzione destra/sinistra, nell’incontro tra “personalità creative” provenienti dall’uno e dall’altro campo, si procede alla costituzione di un nuovo “centro libero dalle ideologie”: “Oggi - asserisce Antie Vollmer su Der Spiegel nel 1993 - ci sarebbe seriamente bisogno degli intellettuali per predisporre un nuovo consenso sociale”[7]. Il gesto “ribelle” della trasgressione delle “vecchie appartenenze” prepara una nuova normatività[8].
La movenza critica che anima il testo, conducendo alla problematizzazione o alla rottura di nuovi luoghi comuni, è probabilmente ascrivibile al suo nascere da un bilancio di sconfitta delle sottoculture, in entrambi gli orientamenti : sovversione e autonomia[9]. Nella prima, dall'inizio degli anni Novanta “tutti gli elementi caratteristici – confusione, ambiguità, ricerca dell'evento – rimanevano, ma ormai era impossibile trovare contenuti politici, cosicché la ‘strategia’ si trasformava in linea di massima in un vuoto pronto ad accogliere qualsiasi contenuto”[10], la seconda sembra destinata ad occupare la sacca prefigurata già dal 1979 da Peter Glotz (Spd), che Terkessidis così sintetizza: “Il patto è chiaro: se voi ci lasciate governare in pace, se non mettete più in discussione la questione del potere, noi vi lasciamo la cultura; se poi i ‘normali’ vi odiano, non è colpa nostra”[11].
Il collocare la riflessione “in buco”, il gesto di distanziamento critico dei processi di culturalizzazione dei movimenti di contestazione, presiede a un più generale spostamento di prospettiva, che conduce al nucleo “caldo” del libro: il confronto tra l’etnopluralismo della destra e il suo termine antitetico: il multiculturalismo. Interrogata nei suoi presupposti teorici, l’opposizione tra questi termini trova le proprie condizioni di possibilità in un processo di etnicizzazione della politica, che pretende di spiegare (e propone di affrontare) i problemi sociali in chiave etnica: la “differenza culturale” rinvia circolarmente a se stessa, è assunta come un “dato” non ulteriormente problematizzabile, assurge a paradigma interpretativo, diviene principio per formulare (diverse) tecniche di amministrazione dei processi di inclusione/esclusione.
Kulturkampf elabora l’esigenza di uscire da questo circolo, in direzione di quello che - con espressione bella e desueta - chiama materialismo.

Rudy M. Leonelli
in altreragioni, n. 6, 1997




[1] Avevo ricordato la rilevanza di quell'evento come segno di apertura di uno spazio critico nel mio primo articolo per questa rivista (cfr. Gli eruditi delle battaglie. Note su Foucault e Marx, “Altreragioni”, n. 2, 1993, p. 147 n.).
[2] Mark Terkessidis, Kulturkampf. L’Occidente e la Nuova Destra, p. 14.
[3] Ibid., p. 15.
[4] Ibid., p. 29.
[5] Ibid., p. 14.
[6] Ibid, p. 27.
[7] Ibid., p. 171. Oltre alle diverse declinazioni della “fine” della dicotomia destra/sinistra esaminate da Terkessidis, potrebbe essere interessante considerare la letteratura apologetica delle nuove tecnologie dell'informazione. È al riguardo eloquente un brano tratto dalla rivista statunitense Wired: “La sinistra è morta. La destra è morta. Senza che ci sia stato bisogno di proclamarlo ufficialmente , siamo ormai nel pieno di un'economia globale di reti” (Mark Stahlman, “Wired”, ottobre 1994, cit. in Herbert I. Schiller,I profeti dell’era digitale. L'ideologia della rivista “Wired”, “Le Monde Diplomatique/il manifesto”, novembre 1996, p. 27).
[8] Ho cercato di delineare questo problema ne Le sventure della virtù. Per la critica del post-antirazzismo, "Altreragioni", n. 4, 1995.
[9] Cfr. Kulturkampf, pp. 11-12.
[10] Ibid., 12.
[11] Ibid., p. 68. Come si vede, non dovrebbe essere arduo trovare corrispondenze nella situazione italiana.