martedì 11 settembre 2007

Nuovo? No, lavato con Perlana...


Nuovo? No, lavato con Perlana.
Delle procedure di riciclaggio nel paese del trasversalismo reale
 

Rudy M. Leonelli e Vincenza Perilli
in  Invarianti, n. 35, 2001


  La contestazione della globalizzazione economica, una volta svincolata dall’ideologismo, è l’occasione per un rompete le righe tra destra e sinistra. In apparenza, è il contrario: e la sinistra più conservatrice può compiacersi di trovarvi un cambio d’abito, in extremis. Ma le schermaglie più immediate non contano molto. La destra non ammette la Tobin Tax, la sinistra ne fa la propria bandiera. Del resto, non è facile immaginare come il governo di centrosinistra, se fosse durato, avrebbe affrontato la gestione del G8: meno o più dialogo, meno o più polizia? La destra politica non è meno prigioniera della sinistra, oltre che di interessi materiali costituiti, di pregiudizi ideologici e riflessi condizionati. Il “trasversalismo” che l’annuncio ecologista si era ripromesso, e non ha saputo mantenere, è oggi alla portata di una politica fattiva, tanto più quanto meno in soggezione a pensieri e abitudini ereditate.
Adriano Sofri, “Se la povertà fa scandalo”, La Repubblica, 17 luglio 2001.




e mite un sentimento…[1]

  Nel dicembre 2000, a pochi giorni dall’esplosione di un ordigno tra le mani del terrorista neofascista Andrea Insabato davanti alla redazione romana de il manifesto, usciva sulle pagine di questo quotidiano un toccante articolo in forma di lettera aperta allo stragista mancato, dal titolo “Caro Andrea, pensaci…”:

    Ma c’è una cosa che mi ha fatto scattare un meccanismo di vicinanza, che mi ha preoccupato e intrigato insieme: il discorso delle varie etnie sfigurate che vediamo vivere male nelle metropoli e campagne occidentali. Gli schiavi che seguono il trionfo di Cesare sono oggi extracomunitari, ma anche le varie etnie sfigurate delle nostre regioni. Odio la globalizzazione anche per questo […] Anch’io amo la purezza, ma non quella delle razze umane. Mi sono sentito una pena dentro quando ho visto la tua faccia sui giornali. Un isolato, un cane sciolto di destra. Una pena scandalosa. Molti isolati e cani sciolti di sinistra come te, quando a Nizza combattono la globalizzazione, muovono da sentimenti, bada solo sentimenti molto simili ai tuoi. Su quei sentimenti ha lavorato la cultura, una cultura diversa dalla tua, che è legata all’istinto ed è imbevuta di idealismo. Hai creduto che il manifesto sia un simbolo di tutto quello che non ti piace che esista. E ti sei sbagliato di grosso. L’attenzione da sempre alla multietnicità di quel giornale non va nella direzione dell’impuro[2].

  Che il cosiddetto movimento antiglobalizzazione fosse una grande occasione per il superamento della dicotomia destra /sinistra è, come si vede, idea che precede i “fatti di Genova”, al punto che già la ricerca di un trait d’union tra l’autore e il bersaglio di un attentato trovava proprio nel “no global” lo spazio di un incontro possibile sulla base di un comune sentire.
  Il sermone indirizzato al presunto cane sciolto Insabato[3], piuttosto che nel clima natalizio ‑ che, come si impara da bambini, rende tutti più buoni ‑ si inscrive in un paradigma di pacificazione che ha per assiomi l’etica dell’intenzione e l’imperativo di comunicazione. Il celebre discorso di Luciano Violante sulle motivazioni ideali dei “ragazzi di Salò”[4] non è che la punta di un iceberg la cui massa, al di sotto della schiuma delle dichiarazioni di circostanza, disegna un corpo frastagliato ma omogeneo. La “trasversalità” è, per nascita e vocazione, senza confini: passa dentro e fuori le istituzioni, nel “politico” e nel “sociale”, nell’amministrativo e nel “creativo”.
  A tratti, il flusso trasversale sembra subire una brusca interruzione e l’archiviata opposizione destra/sinistra, fascismo/antifascismo, è improvvisamente ripescata. Così nel ’94, prima vittoria elettorale della destra, così nel finale della campagna elettorale 2001 e di nuovo, con toni più accesi, dopo Genova, quando D’Alema parla di “clima cileno” e, di seguito, l’uomo immagine delle Tute bianche di “nazistelli in divisa[5]. Di regola questi ritorni “storici” si caratterizzano per l’elusione dello spessore della storia: metafore inarticolate il cui orizzonte non oltrepassa l’effetto del momento. Aperture di dialogo e risvegli intermittenti scandiscono il moto oscillatorio della lingua costitutivamente biforcuta delle sinistre “post”.
   Quando eventi di particolare gravità impongono riflessioni sottratte all’orizzonte ridotto della cronaca, vengono prodotte “analisi” che, come i duplicati di armi descritti da Debord, mancano sempre del percussore[6].
  Un'intervista al capogruppo dei senatori Ds – rilasciata a il manifesto all'indomani dell'attentato al quotidiano – può illustrare questa tipologia. La domanda di rito: “I fatti di questi giorni ci obbligano a ritornare sull’analisi della destra italiana. Non c’è stato troppo ottimismo, nel centrosinistra, sulla sua costituzionalizzazione e troppa facilità nella sua legittimazione?” riceve la risposta appropriata: “Autocriticamente ritengo di sì. Tutti, la sinistra e l’insieme delle forze democratiche, abbiamo sottovalutato quel che negli ultimi mesi è avvenuto nella destra italiana”. Le “sottovalutazioni” in questione concernono quattro punti: il separatismo della Lega, il peso dell’alleanza elettorale del centrodestra col Msi-Fiamma tricolore di Pino Rauti, la politica del Vaticano (dalla lettera pastorale di Biffi alla visita di Haider) e, infine:

   Quarto ma non ultimo: abbiamo sottovalutato la campagna sul revisionismo storico. Che ha tenacemente e meditatamente messo in discussione tre momenti cruciali della costruzione dello Stato nazionale e della Repubblica: l’unità d’Italia, col processo al Risorgimento allestito in agosto al meeting di Rimini; la Resistenza, col rovesciamento del valore fondativo dell’antifascismo nel “dovere morale” dell’anticomunismo; la Costituzione, con la volontà della destra non di riformarla ma di stracciarla, a partire dalla sua concezione del federalismo[7].

  “Un’analisi tutta da rifare”, commenta l’intervistatrice. Ma è una conclusione esorbitante in rapporto alla pochezza della diagnosi che, riducendo il problema a una sorta di svista, per di più limitata a pochi mesi, opera una duplice minimizzazione: della portata del pericolo di destra, in particolare dell’offensiva revisionista, e delle responsabilità delle sinistre che, da ormai più di un decennio, non si sono limitate a “sottovalutare”, ma si sono adoperate a rivalutare e valorizzare.
  È il progetto di costituzione di un paese normale, elaborato alle origini della Nuova Destra tedesca, che sintetizza la strategia adottata dalla sinistra di governo italiana nel corso degli anni Novanta. Condizione essenziale di questo progetto è l’opera di revisione della storia efficacemente criticata da Klinkhammer:

in Italia negli ultimi anni è stata fortemente auspicata una “conciliazione nazionale”, considerata un elemento fondamentale per una società “postfascista”. Il “superamento” del passato fascista da parte di una presunta società postfascista presuppone però l’offuscamento dei lati negativi di questo passato[8].

  Il processo di pacificazione, abbellimento e “armonizzazione” della storia si è necessariamente articolato nel Grande Dialogo [9] tra destra e sinistra, promosso da quest’ultima come elemento innovatore al di là della “residua” pregiudiziale antifascista, nella ripresa più o meno consapevole della strategia da tempo messa a punto dalla Nuova Destra.
  Di qui il vizio congenito delle “mobilitazioni” periodiche e dei relativi rituali autocritici, che devono correggere i singoli “guasti” prodotti da questa strategia senza mai metterne in discussione i presupposti. La figura dell’impostore inverosimile[10], capace di svolgere, alternativamente o simultaneamente, i ruoli di agitatore e imbonitore, è un ingranaggio indispensabile di questo marchingegno e riceve immancabilmente la meritata promozione mediatica. In contropartita ogni critica radicale di questo impianto incontra una censura non dichiarata e tanto più efficace.

domenica 15 luglio 2007

Agnolo Poliziano: Fabula di Orfeo, regia di Stefano Armati (1986)

Lo stato dei Giardini del Guasto di Bologna, situati nel cuore della zona universitaria, dal finire degli anni 70 ha subito un andamento per così dire "pendolare", alternando stagioni di notevole produttività artistica e culturale ad altre di completo abbandono. Oggi, un po' nel solco della felice invenzione di aperture pomeridiane con accesso consentito ai soli "adulti accompagnati da bambini" (era il 2002) i Giardini presentano un rinnovato ad intenso programma di iniziative.

Vorrei salutare questo rilancio rievocando un primo (forse il primo) tentativo non poliziesco (e riuscito) di sgomberare il terreno dei Giardini dalle siringhe e dall'incuria, era l'ormai lontano '86, e fu un incrociarsi di persone, di opere, di idee, di percorsi, saperi, esperienze. Tra le cose per me indimenticabili - e non dimenticate - la realizzazione della Fabula di Orfeo curata dal multiforme ingegno di Stefano Armati [qui, in foto(copia...), nei panni di Orfeo]. Ripubblico qualcosa dalla presentazione e dal libretto della serata del quale avevo curato la redazione e la realizzazione grafica.






Mercurio annunziatore della festa:

"Silenzio, Udite. El fu già un pastore
figliuol d’Apollo, chiamato Aristeo:
costui amò con sì sfrenato ardore
Euridice che moglie fu di Orfeo
che seguendola un giorno per amore
fu cagion del suo caso acerbo e reo
perché fuggendo lei vicina all’acque,
una biscia la punse e morta giacque.
Orfeo cantando all’inferno la tolse,
ma non poté servar la legge data,
che ‘l poverel tra via drieto si volse;
sì che di nuovo ella gli fu rubata;
però mai più amar donna non volse.
e dalle donne gli fu morte data."







“Solo uno sa che, in tutte le esperienze più
intense e produttive della nostra vita, felicità e
tormento sono la stessa cosa: l’uomo creativo.
Ma molto tempo prima di lui una creatura umana,
che amava, ha già teso le mani verso una stella
senza sapere se chiedeva piacere o sofferenza.”


Lou Andreas-Salomé


È molto bello che – in una circostanza come questa – venga proposta un’opera nata in un’epoca in cui “la letteratura vien fuori tra danze, feste e conviti (De Sanctis) e scritta “in tempo di dui giorni, intra continui tumulti, in stilo vulgare perché dagli spettatori meglio fussi intesa (Poliziano).

Arte d’occasione, certo, ma di alto livello; rapida composizione che ha, tra le sue condizioni di possibilità, un’assidua e sapiente frequentazione dei classici, un’intensa e rigorosa attività filologica e storica, una raffinata conoscenza ed esperienza della scrittura in lingua volgare.

La Fabula di Orfeo, che il Poliziano – fin quasi alla fine della vita – era propenso a sopprimere, così come era in uso tra i Lacedemoni “quando alcuno loro figliuolo nasceva o di qualche membro impedito o delle forze debile”, è venuta a costituire, malgrado il giudizio e le aspettative dell’autore, un capitolo fondamentale – il primo – del teatro erudito del Rinascimento.

Secondo l’interpretazione tradizionale – tuttora diffusamente accolta – la Fabula, conservando le apparenze esteriori del teatro medievale, ne sovvertirebbe i termini, sostituendo figure pagane a quelle della tradizione cattolica.

Diversamente, D’Amico, rileva che questa composizione è, anche dal punto di vista formale, altra cosa dal dramma sacro, in quanto gli eventi non sono posti materialmente di fronte allo spettatore, ma “‘riferiti’ da narratori aggraziati, attraverso racconti più o meno dialogati ed effusioni sospirose ed elegiache”. In questa chiave la fabula è “meglio che un dramma, un seguito di scene […] da gustare soprattutto per ‘pezzi’, come oggi certe opere in musica”.

Possiamo leggere la Fabula come una serie di “esercizi di stile”, una composizione (in un significato molto vicino a quello che il termine ha in musica): la scrittura cita le narrazioni classiche del mito di Orfeo, inserisce espressioni del parlato popolare, traduce, riorganizza, riscrive, ordina i materiali e i frammenti che sceglie dalla tradizione, in diverse forme poetiche e mutandone – insieme – il tono e il colore.

Il risultato non ha, evidentemente, né la gravità, né lo spessore, né l’intensità dei luoghi di Ovidio e di Virgilio che il Poliziano ha presenti, e che ripete, variati.

La Fabula è tremendamente superficiale: “eterea”, “impalpabile”, adolescenziale”, “rarefatta”: i termini costituiscono il linguaggio corrente, e quasi obbligato, della letteratura critica.

Ed è probabilmente questo il segreto del suo fascino, non disgiunto dalla assoluta innocenza degli eventi che compongono lo schema narrativo.

Nietzsche: si può essere “superficiali, per profondità!”

Rudy M. Leonelli, 1986


*      *      *


La prima rappresentazione della Fabula di Orfeo risale ai tumulti del carnevale mantovano, “con esatta probabilità ad un banchetto che il cardinale offrì ai fratelli la sera del martedì grasso. 15 febbraio 1840.
Il cardinale in questione è Francesco Gonzaga, che ospitò il Poliziano dopo la sua caduta in disgrazia presso Lorenzo il Magnifico, è colui “al cui sfarzo conviviale dobbiamo la creazione della Fabula di Orfeo”.
Nel riproporla, non si inteso farne realizzazione filologica, bensì si è cercato di recuperare il clima “giovale e carnascialesco”, che sta all’origine dell’opera.
Un Orfeo “di occasione” come allora, che ricerca nella propria struttura originaria “a Fregio” la possibilità di svolgersi in una successione di quadri, secondo una struttura narrativa, quasi da “strip-cartoon”, dove i personaggi si muovono come graffiti metropolitani, nello scenario “post-atomico” dei Giardini del Guasto.
Ho operato sul testo di Poliziano sopprimendo i brani in lingua latina e inserendo l’aria cantata, di Antonio Cesti: Intorno all’idol mio.
Grazio la dottoressa Margherita Sergardi, del Dipartimento di Italianistica dell’Università degli Studi di Bologna, per avermi iniziato al testo del Poliziano, e per avermi dato, nel giugno scorso, l’opportunità di realizzare – nei giardini di Palazzo Hercolani – una prima bozza registica ed interpretativa della Fabula.
Ringrazio inoltre le amiche della palestra Isadora per l’ennesimo, indispensabile contributo, il circolo Massarenti, tutti coloro – enti e persone – che hanno contribuito alla realizzazione di questa rappresentazione e il pubblico presente a questa serata.

Stefano Armati



La Compagnia:

Mercurio……...….annunziatore della festa…….….Roberto Sabattini
Il pastore Schiavone…………………….…………….Roberta Casadei
Mopso…………..….vecchio preveggente…..……....Paolo Franceschi
Aristeo…,,,,,..giovane pastore innamorato di Euridice…..Claudio Cavina
Tirsi……………………..servo di Aristeo………..…Antonio Obino

Euridice………….infa sposa di Orfeo…….…Ilaria Sala
Orfeo…………..mitico cantore……..Stefano Armati

Plutone………….Re degli Inferi…….Pino Bianchini
Minosse …………massimo giudice infernale………………Maurizio Babini
Proserpina…….Regina degli Inferi…..Annamaria Pierfederici

Le Furie…..spiriti infernali:
Gianna Beduschi, Tania Pizzuti, Francesca Campanaro, Roberta Raimondi

Le Baccanti……seguaci di Bacco:
voci recitanti……………………………Patrizia Piccinini, Roberta Casadei
danzatrici……Susanna Quaranta, G. Beduschi, T. Pizzuti, F. Campanaro, R. Raimondi, P. Piccinini

Cerbero…..cane infernale…..Anna Batoli, P.Piccinini, S. Quaranta

Arpista…………………………………………………Emanuela Degli Esposti
Violoncellista…………………..Nicola Baroni

Interventi scenografici…..Giano Castagnoli, Maja Becheret, Eleonora Straub
Adattamento scenico e regia……………………..Stefano Armati
Assistenti alla regia……….A. Pierfederici, G. Beduschi
Suono…………………………Guido Tabone
Luci……………Mario Chemello
Sartoria………..Pamela e Luisa Muratori
Decorazioni in metallo……..Maurizio Sterchele
Progetto grafico e realizzazione libretto di sala……….Rudy M. Leonelli

giovedì 17 maggio 2007

Negazionismo virtuale: prove tecniche di trasmissione (1998)

Rudy M. Leonelli, Luca Muscatello, Vincenza Perilli, Leonardo Tomasetta
Negazionismo virtuale: prove tecniche di trasmissione, altreragioni, n. 7, 1998, pp. 175-181 *

In un recente studio Alain Bihr indica tra le condizioni che, negli ultimi anni, hanno permesso al verbo e al credo revisionista di uscire dai circoli ristretti in cui era costretto, l'affermarsi di una sorta di relativismo generalizzato:

"tutti i punti di vista si equivalgono, non c'è più criterio che permetta di distinguere chiaramente il vero dal falso, il reale dall'illusorio, il bene dal male; a ciascuno forgiarsi la sua opinione, e d'altronde tutte le opinioni sono accettabili quando sono sincere. Questa assenza di criteri è del resto celebrata dall'ideologia postmodernista come una liberazione, come l'accesso a un mondo in cui l'individuo può moltiplicare i punti di vista, simultaneamente o successivamente: intrecciarli senza curarsi della loro coerenza, o praticare una sorta di nomadismo identitario, cambiando di 'visione del mondo' come di camicia"
[1].



Le reti telematiche sono diventate uno dei luoghi privilegiati di riproduzione e sperimentazione di questo relativismo, popolarizzato da riviste come Wired: "All'improvviso, la tecnologia ci ha dato poteri che ci permettono di manipolare non solo la realtà esterna, il mondo che ci circonda, ma anche e soprattutto noi stessi. Potete diventare tutto quello che volete essere".[2]
Per questo sarebbe sbrigativo e troppo facile liquidare l'utilizzo delle reti da parte del revisionismo telepragmatico come un semplice epifenomeno. Non si tratta di un effetto collaterale, ma di una reale deriva del nomadismo identitario.
"L'ideologia contemporanea della comunicazione è caratterizzata dall'effimero, dalla dimenticanza della storia e del perché degli oggetti e del loro assemblaggio sociale".[3] Il revisionismo si articola facilmente, e in modo quasi "naturale", con questa ideologia.
Abbiamo per ora sollevato il problema. Qui, non affronteremo il fenomeno globale dei file e dei web revisionisti nel mondo,[4] ma ci limiteremo all'analisi di alcuni aspetti di un episodio specifico, che può essere letto come caso limite nel contesto del revisionismo virtuale.
Nell'ottobre del 1990 si diffonde in Italia, dopo una breve fase sperimentale la rete telematica antagonista European counter network (Ecn). Se inizialmente la rete era espressione diretta di una struttura già esistente - il Coordinamento nazionale antinucleare antimperialista - nella quale le realtà locali svolgevano funzione di verifica preliminare dei messaggi immessi,[5] in seguito si apre un dibattito che, nel confronto-scontro con altre esperienze, porterà Ecn a divenire rete "aperta" al contributo di singoli, senza nessuna restrizione e forma di controllo.
Questo processo è in un primo tempo animato dalla tensione verso un nuovo modello di relazioni politiche e comunicative: si cerca di chiudere, o superare, una impostazione in qualche modo "autocentrata" su alcuni nuclei militanti che hanno "resistito", nell'intento di innescare una dinamica espansiva, caratterizzata dall'apertura ad una pluralità di "soggetti" e situazioni.
Le possibilità offerte dalla telematica e dal suo uso alternativo e/o antagonista sembrano rilanciare a vent'anni di distanza e ad un nuovo e più alto livello le potenzialità aperte dalle radio libere. Il parallelo tra le due esperienze è ricorrente e in certo senso spontaneo. Ma il confronto con le radio degli anni Settanta che - dato il carattere quanto meno non generalizzabile di quell'esperienza - potrebbe suggerire una riflessione critica, è spesso sviluppato in termini autocelebrativi, che appiattiscono il dibattito sulle posizioni più viete.
Nella gestione quotidiana di questo passaggio prevale, a scapito delle sollecitazioni più problematiche, un senso comune di impronta dualistica che - in ossequio alla logica binaria - contrappone coppie terminologiche antagonistiche quali: chiuso/aperto, rigido/fluido, verticale/orizzontale, spesso riassunte nell'onnicomprensiva e futile dicotomia vecchio/nuovo, tatuata sulla pelle subculturale di una supposta comunicazione a/ideologica. Non sarà raro reperire in testi teorici e in messaggi ordinari le tracce di un impianto che taglia il mondo in due parole-chiave inconciliabili (o distingue due mondi storicamente sfalsati): lo "stalinismo" e la deregulation.
L'esperienza effettiva dell'uso della rete Ecn mostrerà presto nuovi limiti: al primitivo uso "militante" - spesso ridotto ad una sorta di utile, ma limitato "bollettino" - e alla diffusione di contributi teorici, italiani e non, si affianca un tipo di "comunicazione" atomistica, dove la pregiudiziale apertura espone al permanente rischio di ridondante dispersione, e (in particolare nel caso che esaminiamo) iniziano a comparire discussioni che degradano in scambi di invettive. Lontano dall'essere prerogativa esclusiva della rete Ecn, si tratta di un fenomeno normale nella "comunicazione" telematica, tanto che negli Usa è stato coniato il termine electronic harassment (in gergo flame): "a mano a mano che cresce il traffico in rete, aumentano messaggi osceni, insulti, minacce, una versione postmoderna delle vecchie lettere anonime".[6]
A dispetto delle visioni dei profeti dell'era digitale, si va configurando nel cyberspazio uno scenario implosivo. Ai limiti strutturali della comunicazione telematica - riduzione della funzione linguistica alla reazione stimolo-risposta, divieto di replica e di circolarità dello scambio comunicativo, sussunzione dei filtri e dei selettori alle finalità autoreplicative del sistema binario, ecc. - si aggiungono, con l'espandersi della rete, quegli effetti di "ridondanza" e di "rumore" (Luhmann) che, ove non si riesca a governare l'accresciuta complessità dell'informazione circolante, porterà ad una soluzione autistica della stessa comunicazione telematica.
Ma veniamo al negazionismo. Nel novembre 1992, certamente al di fuori di molte speranze puntate sul progetto Ecn, vengono immessi nella rete i primi messaggi revisionisti ad opera del collettivo "Transmaniacon" di Bologna.[7] Il file che inaugura questo esperimento, La provocazione revisionista, è la trascrizione di una intervento transmaniaco trasmesso della neonata Radio K Centrale (Rkc). Spicca, in questo testo, la lapidaria frase di Faurisson:


Le pretesecamere a gas hitleriane e il preteso genocidio degli ebrei formano una sola e medesima menzogna storica, che ha aperto la via ad una gigantesca truffa politico-finanziaria, i cui principali beneficiari sono lo stato d'Israele e il sionismo internazionale, e le cui principali vittime sono il popolo tedesco, ma non i suoi dirigenti, il popolo palestinese tutto intero e, infine, le giovani generazioni ebraiche che la religione dell'Olocausto chiude sempre di più in un ghetto psicologico e morale".

È con queste idee "nuove" che la periferia padana cerca di allungare il passo per raggiungere il "centro" dell'impero. Spingendo al parossismo la violazione dei "tabù"[8] si può forse saltare sul carro della costituenda nazione digitale: "Il mondo collegato è la più libera comunità d'America. I suoi membri possono fare cose inaccettabili altrove nella nostra cultura".[9]
Ha inizio un gioco che continuerà a lungo, con l'immissione di file firmati con soprannomi, acronimi e vari pseudonimi.[10] Rispetto all'uso storico di questo espediente in ambito revisionista,[11] la sperimentazione telematica del nomadismo identitario introduce nuove possibilità di gioco. Usando contemporaneamente diversi pseudonimi uno stesso soggetto può costruire in tempo reale un discorso su diversi livelli, inscenando un personaggio A che collabora all'introduzione del discorso revisionista, un personaggio B che, pur non condividendo a pieno tale discorso, lo ritiene un'utile sollecitazione, e un personaggio C che, mentre ostenta distacco per le dinamiche che ha contribuito a scatenare, solidarizza con A in nome della tolleranza e della libertà di espressione.[12] La presunta "dissoluzione del soggetto" nel cyberspazio si rovescia in un protagonismo indiscriminato, spinto fino al sintomatico genere della (auto)intervista; mentre la celebrata pluralità dei punti di vista diviene mera simulazione. Il carattere duttile e segmentario della comunicazione non manifesta una intrinseca potenza liberatoria: il concatenamento flessibile di una serie di segmenti rigidi può funzionare a cingolo di carrarmato.

martedì 1 maggio 2007

G : Gramsci, Antonio (aggiornamento)

E n c i c l o p e d i a
d e l l a
n e o l i n g u a

G
Gramsci, Antonio

1917
“Odio gli indifferenti: Credo come Federico Hebbel che 'vivere vuol dire essere partigiani'. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti."

Da: La città futura, numero unico, interamente redatto da Gramsci, pubblicato dalla Federazione giovanile socialista piemontese, Torino, 11 febbraio 1917.
[versione originale, o arcaica. Lingua: italiano, inizi XX secolo]

* * *

2007
"La figura di Gramsci trascende i limiti di parte"

''L'Italia rende omaggio a Gramsci, una delle più alte figure della sua storia intellettuale. Dette valori in contributo di pensiero che per la ricchezza e profondità dei suoi presupposti e per la modernità dei suoi svolgimenti e delle sue anticipazioni, è giunto a trascendere non solo ogni limite di parte, ma i confini della stessa vicenda storica di cui era figlio: la vicenda del comunismo italiano e internazionale".
[versione revisionata e corretta. Lingua: napolitano, inizi XXI secolo]

sabato 28 aprile 2007

Antonio Gramsci, 27 aprile 1937 - 2007




"Istruitevi

perché
avremo bisogno
di
tutta
la vostra
intelligenza.

Agitatevi
perché
avremo bisogno
di
tutto
il vostro
entusiasmo.

Organizzatevi
perché
avremo bisogno
di
tutta
la vostra
forza."