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mercoledì 6 ottobre 2010

Friedrich Nietzsche - Difetto ereditario dei filosofi



Tutti i filosofi hanno il comune difetto di partire dall’uomo attuale e di credere di giungere allo scopo attraverso un’analisi dello stesso. Inavvertitamente «l’Uomo» si configura alla loro mente come una æterna veritatis, come un’identità fissa in ogni vortice, come una misura certa delle cose. Ma tutto ciò che il filosofo enuncia sull’uomo, non è in fondo altro che una testimonianza sull’uomo di un periodo molto limitato. La mancanza di senso storico è il difetto ereditario di tutti i filosofi; molti addirittura pendono di punto in bianco la più recente configurazione dell’uomo, quale essa si è venuta delineando sotto la pressione di determinate religioni, anzi di determinati avvenimenti politici, come la forma fissa dalla quale si debba partire. Non vogliono capire che l’uomo è divenuto e che anche la facoltà di conoscere è divenuta; mentre alcuni di loro si fanno addirittura fabbricare, da questa facoltà di conoscere, l’intero mondo. Ora tutto l’essenziale dell’evoluzione umana è avvenuto in tempi remotissimi, assai prima di quei quattromila anni che all’incirca conosciamo e durante i quali l’uomo non può essere gran che cambiato. Ma nell’uomo attuale il filosofo vede «istinti» suppone che essi appartengano ai fatti immutabili dell’uomo e possano quindi fornire una chiave alla comprensione del mondo in generale: tutta la teologia è basata sul fatto che dell’uomo degli ultimi quattro millenni si parla come di un uomo eterno, al quale tendono naturalmente tutte le cose del mondo. Ma tutto è divenuto; non ci sono fatti eterni: così come non ci sono verità assolute. Per conseguenza il filosofare storico è da ora in poi necessario, e con esso la virtù della modestia.

Friedrich Nietzsche, Menschliches, AllzumenschlichesUmano troppo umano, Adelphi, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, vol. I, parte prima, § 2

martedì 10 agosto 2010

Marx lo scienziato impaziente di rivoltare il mondo



Marx lo scienziato impaziente
di rivoltare il mondo

Tonino Bucci, per Liberazione, 20.07.2010





Nicolao Merker, Karl Marx Vita e opere
Laterza, 2010

«Un tipaccio nero imperversa pieno di furore, come se volesse afferrare l’ampia volta celeste e tirarla sulla Terra». Cimentandosi con un poemetto satirico Friedrich Engels tratteggiava con questi rapidi, ma efficaci versi un giovane studente di filosofia, uno dei tanti hegeliani di sinistra che allora –siamo all’incirca nel 1841 – circolavano per l’università di Berlino, capitale di una Prussia autocratica e in pieno clima di Restaurazione. Il nome di quello studente era Karl Marx. Tra lui ed Engels – rampollo di una famiglia di industriali tessili, arrivato nella capitale prussiana per il servizio militare – non si era ancora stabilito il celebre sodalizio di amicizia e di idee che sarebbe durato una vita. Eppure quelle parole dettate da un innocente esercizio d’ironia non si sarebbero rivelate del tutto fuori luogo. Una certa brama di rivoltare il mondo, un certo titanismo di derivazione romantica, quel giovane studente li avrebbe mantenuti anche negli anni a venire della sua esistenza.
Del resto, intere generazioni di lettori e studiosi marxisti hanno ritenuto di dover distinguere tra un Marx scienziato e un Marx politico: l’uno, autore di sobrie analisi economiche, meticoloso fino all’eccesso, ossessivo nella raccolta di fonti e documenti; l’altro, impetuoso e impaziente di passare ai fatti, frettoloso di vedere nella propria epoca i segni premonitori della nuova società post-borghese al punto da scorgere in ogni insurrezione l’inizio della rivoluzione proletaria. Il più delle volte, questa distinzione ha avuto la funzione di far giocare un Marx contro l’altro, con l’implicito presupposto che un pensiero possa farsi scienza solo a condizione di tener lontana ogni commistione con la politica. Non è il caso, questo, della nuova biografia su Marx – era da tanto che non se ne vedevano qui in Italia a differenza che in altri paesi – appena uscita in libreria a firma di Nicolao Merker, Karl Marx. Vita e opere (edizioni Laterza, pp. 268, euro 18). Di primo acchito si potrebbe restare sorpresi che a distanza di quasi centotrenta anni dalla morte (avvenuta l’11 gennaio 1883) ci sia ancora di che scrivere sulla vita di Marx. Dalla fine dell’Ottocento in poi il suo nome è circolato nei movimenti operai di ogni paese del mondo. Sindacati, partiti, interi Stati si sono appropriati a torto o a ragione di Marx, cercando nel suo pensiero una fonte di legittimazione. Una quantità indescrivibile di pubblicazioni si è accumulata nel tempo, gran parte delle quali però dedicate alla dottrina. «Molto minore fortuna – scrive Merker – ha avuto l’interesse per l’uomo. Le buone biografie di Karl si sono sempre contate sulle punte delle dita», mentre «i “teorici del marxismo” (o chi presumeva si esserlo, o comunque si occupava del Marx della “teoria”) erano moltitudine». Marx, questo sconosciuto, poteva dire lo storico Maximilien Rubel, quando ben altra era la circolazione del suo nome, a maggior ragione lo si può dire all’inizio del XXI secolo. «Oggi spesso, riguardo alle cose attendibili su di lui, Marx sembra diventato un parente dell’uomo di Neanderthal». Non che manchino lavori attendibili, Merker ne cita alcuni: ad esempio il Karl Marx. Storia della sua vita del 1918, a firma del socialdemocratico Franz Mehring, il primo ad essere «sganciato da limiti tattici di partito» e ad aver consultato documenti inediti, soprattutto il carteggio con Engels, seguito da Blumenberg, Nikolajevsky e Maenchen-Helfen, Rubel, Friedenthal, fino a Berlin e McLellan, tutti ormai diventati a modo loro dei “classici”.
Una biografia non è solo una collezione di fatti privati o una ricerca di aneddoti che ancora attendono d’essere raccontati da qualcuno. Né, peggio ancora, una “psicografia”, un viaggio senza capo né coda, senza metodo, nella psicologia e nel carattere dell’uomo Marx. Non è tutto il privato di Marx che conta, ma quelle vicende che nella sua biografia e nei suoi scritti spiccano come segni evidenziali. Che Marx abbia fatto un figlio con la domestica di casa o che sia stato eterno debitore di denaro all’amico Engels sono tratti casuali. Altri eventi della sua vita, invece, testimoniano di come le teorie marxiane nascano e si sviluppino come risposta originale alle grandi sollecitazioni culturali della sua epoca.
Fin dalle avventure giovanili all’università – prima a Bonn, poi a Berlino dove finirà a studiare filosofia contro la volontà paterna di fame un laureato in giurisprudenza – per proseguire nelle prime esperienze di giornalista politico alla Gazzetta Renana, sotto il segno di un democraticismo radicale, Merker restituisce l’immagine di un Marx assillato dall’idea di fare della filosofia una scienza rigorosa dei fatti, al punto da scrivere: «Desideriamo costruire esclusivamente su dati di fatto e ci sforziamo, per quanto è in noi, di sollevare solo i fatti a una significazione generale». Anche la resa dei conti con Hegel, della cui filosofia Marx è negli anni universitari un seguace, avviene in nome della ricerca di una scienza dei fatti che non andasse a discapito dei fatti medesimi. Di una scienza capace di leggere i fatti non attraverso interpretazioni costruite indipendentemente dai dati e, successivamente, a questi sovrapposte. «Marx rintracciò i difetti di Hegel partendo dal modo in cui il filosofo aveva mediato i fatti, ossia il molteplice concreto. Dall’incapacità hegeliana e idealistica in genere di spiegare i fatti, Marx concluse che le deduzioni speculative, mancano di funzionalità conoscitiva». La filosofia hegeliana aveva trattato l’uomo reale, i fenomeni della vita reale, la società e lo Stato come estrinsecazioni dell’Idea, come tappe di una narrazione logica: a prezzo, però, di dover “riempire” l’Idea, forma vuota, «con contenuti empirici senza però filtrarli attraverso un’adeguata analisi critica». Anche il Marx talvolta più attaccato dai suoi critici, quello autore nel 1846 – assieme a Engels – dell’Ideologia tedesca, un manoscritto che uscì in edizione postuma solo nel 1932, è a giudizio di Merker un Marx impegnato in una lotta senza quartiere contro le distorsioni ideologiche della realtà. Dove altri interpreti marxisti hanno visto all’opera un materialismo esasperato, un’esaltazione dell’homo faber e dell’attività materiale a discapito della teoria – liquidata a semplice riflesso capovolto della realtà – Merker descrive Marx ed Engels come due autori tutt’altro che inconsapevoli dell’importanza delle ideologie nella storia, tutt’altro che ignari della «complessità delle griglie attraverso cui la realtà giunge alla coscienza». C’è da tener presente che la ricerca di una conoscenza scientifica della realtà va di pari passo con la polemica contro quelle che a Marx ed Engels, nel panorama dei giovani hegeliani di sinistra appaiono fantasie individuali, fughe nell’individualismo anarchico se non recrudescenze irrazionalistiche. Del resto, il materialismo cui i due approdano, è ormai un congegno più raffinato di quel che si pensi. «La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva – scrive Marx nelle Tesi su Feuerbach – non è questione teoretica bensì una questione pratica», essendo nella prassi che «l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere del suo pensiero».
Non distorcere la realtà, non anteporre i propri desideri allo studio scientifico dei fatti, non limitarsi a denunce moralistiche diventa il leit motiv nella polemica di Marx contro i socialisti utopisti conosciuti nell’esilio in Francia, primo fra tutti Proudhon. Nonostante il fallimento delle rivoluzioni democratiche del 1848, nonostante i patimenti e la miseria che l’esule Marx conosce negli oltre due decenni di soggiorno a Londra, questo richiamo a una conoscenza scientifica e a un metodo rigoroso non verrà mai meno. È però, questo, il nodo sul quale si è innestata la leggenda di un Marx affetto da economicismo, che si concentra nello studio dell’economia capitalistica, disinteressandosi del tutto della politica e di ciò che accade al di fuori della fabbrica. Emerge, invece, un autore consapevole della differenza tra il momento puramente economico, di quando, ad esempio, si cerca di «costringere i singoli capitalisti in singole fabbriche o anche in singole officine tramite scioperi ecc. a concedere una diminuzione dell’orario di lavoro», e il movimento politico «per la conquista di una legge per le otto ore». Anche se più rarefatto rispetto allo “scienziato”, il Marx politico emerge in momenti cruciali, per esempio quando sotto la pressione degli eventi si accinge a riconoscere nella Comune di Parigi del 1871, nata da un’insurrezione, il primo esempio di governo della classe operaia. Così come non mancano gli accenni a una teoria dello Stato, per quanto frammentata in scritti di varia natura. Però è proprio nelle riflessioni politiche che emerge un dissidio interiore di Marx, per un verso incline da scienziato a parlare di strutture e tempi lunghi, per nulla disposto a lanciarsi da futurologo in ricette per la società futura; e dall’altra però disposto in certi passaggi epocali a scommettere sull’accelerazione della storia, come se la rivoluzione proletaria fosse dietro l’angolo, anche quando, come nel caso dei comunardi parigini, mancava del tutto una classe operaia capace di agire su scala nazionale. «In Marx l’utopia, in realtà, non stava in primo piano. Negli accenti utopici, quando c’erano, si esprimeva il desiderio che le teorie dell’emancipazione si avverassero in un futuro ancora visibile; e venivano quasi regolarmente bloccati non appena subentravano la analisi scientifiche».
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domenica 1 agosto 2010

Franco Bergoglio: jazz-filosofia [su "L'identità incompiuta"]


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Davide Sparti
L'identità incompiuta.
Paradossi dell'improvvisazione musicale
Il Mulino, 2010



Proseguendo un lavoro iniziato qualche anno addietro con Suoni inauditi L'improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana (2005) Davide Sparti, professore associato nella Facoltà di Lettere e filosofia dell'Università di Siena, torna a occuparsi di jazz coniugando i termini di questo affascinante mondo con le scienze sociali e la filosofia. Sparti aveva già affrontato alcuni nodi legati alla pratica dell'improvvisazione nel libro sopra citato e nel successivo Il corpo sonoro. Oralità e scrittura nel jazz (2007). Ora la cartina tornasole utilizzata per studiare l'improvvisazione è quella, fortemente innovativa in ambito jazz, dell'identità.
Spunto iniziale di questa analisi un paradosso sapientemente illustrato dallo scrittore Ralph Ellison, ripreso più volte nel corso del saggio: "Esiste (…) una contraddizione crudele implicita nella stessa forma artistica (il jazz): il jazzista deve perdere la sua identità anche mentre la trova". Il jazzista che improvvisa corre ben due rischi, ci avverte Sparti: in primo luogo quello di fallire, di non trovare l'originalità, ma esiste anche il pericolo di smarrirsi nel tentativo di esplorare territori incontaminati e di non trovare il filo conduttore per tornare a casa dopo il solo.
Sono considerazioni iniziali di un testo tutto da scoprire che sviscera questi "paradossi" dell'improvvisazione. Operazione non banale, poiché come ci segnala l'autore: "Chi pratica l'improvvisazione non ha necessariamente bisogno di elaborare un concetto di improvvisazione (perché dovrebbe, dato che tale impresa concettuale non garantisce un guadagno estetico?)". Se i musicisti possono permettersi una prassi senza una teoria (che non sia quella musicale in senso stretto, ovviamente) è altrettanto evidente che un discorso su questo tema presenta aspetti tanto fertili da interessare finalmente anche i filosofi, i sociologi, i semiologi e tutti coloro che a vario titolo si sentono attrezzati con i mezzi adatti a coniugare queste discipline al jazz.
Dopo questo denso preambolo il lavoro si dipana lungo i binari di una speculazione scientifica sul tema del identità personale condotto adottando riferimenti alti (Arendt, Pizzorno, Goffman) e facendoli interagire con esempi, prassi, affermazioni tratte dal mondo del jazz. Proprio da questo primo capitolo è tratta una deliziosa testimonianza di Miles Davis, quasi una programmatica dichiarazione d'intenti artistica: "Talvolta devi suonare a lungo prima di riuscire a suonare come te stesso".
Nel saggio sono tante le citazioni di jazzisti quali Joe Henderson, Max Roach, Charles Mingus e di molti altri, scelte con cura a illustrare - con esempi presi, per così dire, sul campo - quanto siano complessi i discorsi che si possono costruire attorno all'improvvisazione e le riflessioni che ne scaturiscono. Questo perché nell'improvvisazione si possono leggere spinte all'eccesso le tensioni che l'artista deve affrontare, stretto fra la spinta a trasformarsi per essere originale e la necessità di definirsi per essere riconoscibile al pubblico e forse anche a se stesso. Le figure che secondo l'autore meglio si prestano a suffragare questa analisi sono due: quella di John Coltrane, che riceve una attenzione particolare e la Arkestra di Sun Ra, paradigma dei problemi dell'identità relativi a un collettivo musicale (e insieme esistenziale) rimasto insieme per decenni sotto la guida di un leader carismatico.
Con il terzo capitolo, dedicato all'improvvisazione e al versante filosofico del tema che riguarda l'identità, il libro tocca davvero questioni nuove. I contributi intellettuali di Michel Foucault e Hannah Arendt sull'agire umano vengono messi in relazione all'improvvisazione jazzistica.
Particolarmente interessante è l'uso di Foucault. Un autore, come ha scritto Rudy M. Leonelli presentando gli atti di un convegno dedicato al rapporto Foucault-Marx, passato dall'ostracismo durato fino agli anni Ottanta all'odierna assimilazione culturale "senza traumi". Eppure, continua Leonelli, il tratto che possiamo individuare come distintivo della sua opera si situa nella sospensione, la rottura delle nostre evidenze, il turbamento e la trasformazione simultanea del modo in cui ci rapportiamo al "nostro" passato e a questo presente [1].
Uno dei concetti di Foucault che caratterizzano questa rottura delle evidenze di cui parla Leonelli viene utilizzata da Sparti per interpretare alcuni degli aspetti meno indagati del campo dell'improvvisazione e che pure ne costituiscono una specificità. Quale rapporto si viene a creare tra l'improvvisatore che durante il solo si mette in gioco, spesso in profondità, e la sua identità? Il sé per Foucault non rappresenterebbe un nucleo sepolto da liberare ma un materiale da trasformare con la pratica.
L'altro concetto, collegato, prende in considerazioni quelle procedure attività che l'uomo compie su stesso, sul proprio modo d'essere sulla propria condotta per migliorarsi, per raggiungere un certo stato di purezza, saggezza o felicità (tecnologie del sé). Molto opportunamente a questo proposito Sparti cita a più riprese l'esempio e le parole di Sonnny Rollins, maestro riconosciuto dell'improvvisazione. Nel corso di una performance prima fai le cose previste poi te ne dimentichi. Così per Sonny Rollins, con una affermazione che per Sparti riecheggia tesi riconducibili a Nietzsche e riportano, in ambito squisitamente jazzistico, all'iniziale affermazione di Ralph Ellison.
La collezione di tecniche adottate dagli improvvisatori per forzarsi all'originalità durante la loro attività quotidiana viene rappresentata da un congruo numero di citazioni che costituiscono un compendio di saggezza zen-jazz. Mi sono tolto di mezzo, dice Jim Hall, come ad intendere di fare un passo indietro e osservare l'assolo che si svolge quasi da sé. Altri musicisti teorizzano l'uso di strumenti diversi da quelli usuali per poter esprimere una voce diversa e non ristagnare nella memoria anche fisica e gestuale che si attiva quando si imbraccia il proprio. Il caso emblematico è OrnetteColeman che posa il sax per imbracciare la tromba (e il violino, aggiungo io) per ottenere effetti stranianti, ma anche innovativi e diversi da quelli considerati "normali". Forse la miglior formulazione teorica di questa disposizione d'animo verso l'improvvisazione l'ha pero concisamente fornita Sun Ra: suona le cose che non sai!
Sviscerati questi aspetti dell'estetica jazz in rapporto all'improvvisazione all'identità del musicista come singolo, il libro vira nuovamente verso gli aspetti sociali. La conclusione mette quindi in luce come la faticosa pratica dell'improvvisazione nel jazz sia un fenomenale dispositivo identitario, almeno per la comunità afroamericana. L'improvvisazione è, appunto, la ripetizione simbolica di un atto fondatore di una comunità che non rimanda ad un'origine ma è segnata dalla perdita comune, di cui si fa esperienza e che ritorna in forma esteticamente sublimata. Collegandosi in una visione quasi psicanalitica alla vicenda della diaspora degli schiavi neri, trascinati a forza dalle coste dell'Africa al nuovo mondo, sfruttando la potenzialità delle recenti teorie sull'importanza di un "Atlantico Nero", triplice luogo geografico, storico e simbolico, Sparti ci fornisce una chiave filosofica originale nel leggere questa musica. Verrebbe da dire, sfruttando titolo e leit-motifs del saggio, che nel jazz l'improvvisazione rappresenta questa identità perduta; identità che, proprio nella sua genetica incompiutezza, alla fine riesce a ritrovarsi.


Franco Bergoglio per Jazzitalia
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NOTE:
[1] Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, a cura di Rudy M. Leonelli, Roma, Bulzoni editore, 2010, p. 9. Di questa recente pubblicazione segnalo, tra gli interventi, oltre alla premessa citata e al saggio di Leonelli, una bella intervista al filosofo Étienne Balibar.
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mercoledì 23 giugno 2010

Giuseppe Panella: Accoppiamenti giudiziosi [su "Foucault-Marx]

Giuseppe Panella
Accoppiamenti giudiziosi
[da: Retroguardia 2.0]
 
Aa. Vv. Foucault-Marx. Paralleli e paradossi,
a cura di Rudy M. Leonelli, Roma, Bulzoni, 2010

Non è ancora possibile stabilire oggi che cosa sopravviverà dell’opera di Michel Foucault. Sono ormai trascorsi fortunatamente i tempi delle sterili polemiche sul valore oggettivo della sua opera. Non è più neppure l’epoca in cui venivano apprezzati, anche in Italia, saggi francamente inutili nel loro desiderio di sottoporre il pensiero del filosofo francese a una critica tanto serrata quanto inutilizzabile (penso, ad esempio, a un libro “sbagliato”, anche se bene informato e ben articolato, come quello di José Guilherme Merquior, Foucault, trad. it. di S. Maddaloni, Roma-Bari, Laterza, 1988). La ricostruzione filologica dei suoi scritti e delle sue posizioni teoriche è ormai in via di completamento. Ma fin d’ora si può ragionevolmente sostenere che il nodo costituito dai rapporti di filiazione teorica tra Marx e Foucault sarà sicuramente occasione di un dibattito fervoroso e intenso non soltanto a livello di escussione erudita dei testi. Questa raccolta di saggi dedicata ai paralleli e ai paradossi presenti nel nodo problematico Foucault-Marx apre a una nuova e fruttuosa dimensione della riflessione in questo ambito. Frutto di un convegno tenutosi presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna il 24 novembre 2005, il libro va sicuramente al di là di una pura pubblicazione (doverosa certo ma polverosa nei risultati) degli atti di un incontro accademico.

mercoledì 21 aprile 2010

Michel Foucault, il corpo vivo della filosofia

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... Quanto a coloro per i quali crearsi dei problemi, cominciare e ricominciare, cercare, sbagliare, riprendere tutto da cima a fondo, e trovare ancora il modo di esitare a ogni passo, coloro, insomma, per i quali lavorare in modo problematico e in un continuo travaglio intellettuale, equivale a una posizione dimissionaria, be’, non siamo, chiaramente, dello stesso pianeta.

… il motivo che mi ha spinto era molto semplice. Spero anzi che, agli occhi di qualcuno, possa apparire sufficiente di per sé. È la curiosità; la sola specie di curiosità, comunque, che meriti d’esser praticata con una certa ostinazione: non già quella che cerca di assimilare ciò che conviene conoscere, ma quella che consente di smarrire le proprie certezze. A che varrebbe tanto accanimento nel sapere se non dovesse assicurare che l’acquisizione di conoscenze, e non, in un certo modo e quanto è possibile, la messa in crisi di colui che conosce? Vi sono dei momenti, nella vita, in cui la questione di sapere se si può pensare e vedere in modo diverso da quello in cui si pensa o si vede, è indispensabile per continuare a guardare o a riflettere. Mi si potrà forse obiettare che questi giochetti personali è meglio lasciarli dietro le quinte, e che, nel migliore dei casi, fanno parte di quei lavori di preparazione che si estinguono spontaneamente non appena han preso forma. Ma che sa è dunque la filosofia, oggi – voglio dire l’attività filosofica – se non è lavoro critico del pensiero su se stesso? Se non consiste, invece di legittimare ciò che si sa già, nel cominciare a sapere come e fino a qual punto sarebbe possibile pensare in modo diverso? Vi è sempre un che di derisorio nel discorso filosofico quando pretende dall’esterno, di dettar legge agli altri, dir loro dov’è la loro verità o come trovarla, o quando trae motivo di vanto dall’istruir loro il processo con ingenua positività; ma è suo pieno diritto esplorare ciò che ciò che, nel suo stesso pensiero, può essere mutato dall’esercizio di un sapere che le è estraneo. La “prova” – che va intesa come prova modificatrice di sé nel gioco della verità e non come appropriazione semplificatrice di altri a scopi di comunicazione – è il corpo vivo della filosofia, se questa è ancor oggi ciò che era un tempo, vale a dire un’“ascesi”, un esercizio di sé nel pensiero.

Michel Foucault, L’usage des plaisirs, Gallimard, Paris 1984, tr. it. di L. Guarino, L’uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano 1984, p. 13-14.
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martedì 13 aprile 2010

Foucault-Marx. Paralleli e paradossi


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Foucault-Marx
Paralleli e paradossi
a cura di Rudy M. Leonelli
Bulzoni Editore


Che Marx – e, nel suo solco, un’eterogenea e “scismatica” costellazione di teorici, filosofi e/o militanti che ad esso si richiamano – potessero trovare attualità filosofica anche attraverso certe letture di Foucault, è un fatto imprevedibile ed estraneo alla cultura corrente. Specie in Italia. Un’eventualità non contemplabile, non contemplata, in un orizzonte repentinamente divenuto familiare, pacifico, “acquisito”.

Dopo circa un quarto di secolo, dall’inizio degli anni Sessanta alla metà degli anni Ottanta, in cui aveva prevalso un forte e generale ostracismo, Foucault sembra ormai accomodarsi senza traumi nella cultura del tempo, che pare averlo “assimilato” senza troppi problemi.

Eppure, se ci fosse richiesto di indicare il tratto fondamentale e distintivo dell’intera attività di Foucault, potremmo rispondere, con una certa sicurezza: la sospensione, la rottura delle nostre evidenze: il turbamento e la trasformazione simultanea del modo in cui ci rapportiamo al “nostro” passato e a questo presente.

Di fatto, se sospendiamo il pregiudizio ordinario che relega Foucault in un postmarxismo di carattere meramente cronologico, dove il suo lavoro conduce un'esistenza apparentemente confortevole e spesso rassicurante,  accediamo ad un vasto campo, in gran parte inesplorato, che offre un'ampia gamma di ricerche possibili.

È questa la
prova che i lavori qui proposti hanno cercato di affrontare: riaprire, riesaminare e riformulare il rapporto tra Foucault e Marx, come un modo per pensare altrimenti l’uno e l’altro. Perché l’emergere di relazioni impreviste tra due termini, trasforma i termini stessi, mutando il loro statuto, la loro rilevanza, il loro “luogo”.



Indice:

Rudy M. Leonelli, Premessa

Étienne Balibar, Foucault-Marx, paralleli e paradossi

Alberto Burgio, La passione per la critica

Stefano Catucci, Essere giusti con Marx

Guglielmo Forni Rosa, Note sul rapporto Foucault-Marx. A proposito di “Bisogna difendere la società”

Marco Enrico Giacomelli, Ascendenze e discendenze foucaultiane in Italia. Dall’operaismo italiano al futuro

Manlio Iofrida, Marxismo e comunismo in Francia negli anni ’50. Qualche appunto sul primo Foucault

Rudy M. Leonelli, L'arma del sapere. Storia e potere tra Foucault e Marx

Note biografiche degli autori

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recensioni:
op. cit.: