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mercoledì 6 maggio 2009

C : clandestini [distorsione (lessicale)]

E n c i c l o p e d i a
d e l l a
n e o l i n g u a

.

C

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Clandestini

distorsione (lessicale)


... uno slogan che ha colpito: «Insetti clandestini? Ferma l’invasione». La sinistra più estrema fa volare parole grosse, mobilitandosi contro quelli che definisce «slogan razzisti». Ma anche altri sono rimasti sbigottiti. Però per l’azienda emiliana che ha lanciato la campagna di marketing sugli insetticidi le immagini fugano ogni dubbio: «Si parla solo della zanzara tigre e di altre cinque specie, tutte raffigurate. E l’unica parola capace di descrivere tutte queste specie era proprio “clandestini”, cioè insetti nascosti. Solo una distorsione lessicale fa coincidere questa parola con gli immigrati». [da: il Giornale.it]

* * *

Oltre i "dubbi" fugati o fugaci
e le fughe di gas
vedi:


Ammiccamenti razzisti al muro






[foto da Marginalia]

giovedì 21 agosto 2008

Bertolt Brecht: Il giudice democratico - Der demokratische Richter


Il giudice democratico

A Los Angeles davanti al giudice che esamina coloro
che vogliono diventare cittadini degli Stati Uniti
venne anche un oste italiano. Si era preparato seriamente
ma a disagio per la sua ignoranza della nuova lingua
durante l’esame alla domanda:
che cosa dice l’ottavo emendamento? rispose esitando:
1492.
Poiché la legge prescrive al richiedente la conoscenza della lingua nazionale,
fu respinto. Ritornato
dopo tre mesi trascorsi in ulteriori studi
ma ancora a disagio per l’ignoranza della nuova lingua,
gli posero la domanda: chi fu
il generale che vinse la guerra civile? La sua risposta
fu: 1492 (con voce alta e cordiale). Mandato via
di nuovo e ritornato una terza volta,
alla terza domanda: quanti anni dura in carica il presidente?
rispose di nuovo: 1492. Orbene
il giudice, che aveva simpatia per l’uomo, capì che non poteva
imparare la nuova lingua, si informò sul modo
come viveva e venne a sapere: con un duro lavoro. E allora
alla quarta seduta il giudice gli pose la domanda:
quando
fu scoperta l’America? e in base alla risposta esatta,
1492, l’uomo ottenne la cittadinanza.




Der demokratische Richter

In Los Angeles von der Richter, der die Leute examiniert
Die sich bemühen, Bürger der Vereinigten Staaten zu werden
Kam auch ein italienischer Gastwirt. Nach ernsthafter Vorbereitung
Leider behindert durch seine Unkenntnis der neuen Sprache
Antwortete er im Examen auf die Frage:
Was bedeutet das 8. Amendement? zögernd:
1492. Da das Gesetz die Kenntnis der Landessprache dem Bewerber vorschreibt
Wurde er abgewiesen. Wiederkommend
Nach drei Monaten, verbracht mit weiteren Studien
Freilich immer noch behindert durch die Unkenntnis der neuen Sprache
Bekam er diesmal die Frage vorgelegt: Wer
War der General, der im Bürgerkriege siegte? Seine Antwort war:
1492 (laut und freundlich erteilt.) Wieder weggeschickt
Und ein drittes Mal wiederkommend, beantwortete er
Eine dritte Frage: Für wie viele Jahre wird der Präsident gewählt?
Wieder mit: 1492. Nun
Erkannte der Richter, dem Mann gefiel, daß er die neue Sprache
Nicht lernen konnte, erkundigte sich
Wie er lebte, und erfuhr: schwer arbeitend. Und so
Legte ihm der Richter beim vierten Erscheinen die Frage vor:
Wann
Wurde Amerika entdeckt? Und auf Grund seiner richtigen Antwort
1492, erhielt er die Bürgerschaft.

[trad. it. di R. Fertonani]
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venerdì 4 luglio 2008

Manifestazione migranti - Bologna 5 luglio

Bologna 5 luglio 2008:
Corteo dei/delle migranti e antirazzisti/e contro il pacchetto sicurezza e la legge Bossi-Fini
Tutti noi migranti subiamo il razzismo crescente legittimato dalle campagne contro i clandestini e i rom, tutti conosciamo controlli di polizia ormai quotidiani. È una situazione che viviamo da anni, ma decreto e il disegno di legge del governo la peggiorano, e confermano pienamente l’impianto della legge Bossi-Fini.
Quei provvedimenti indicano noi migranti, tutti noi migranti, come potenziali nemici e criminali. In questo modo vogliono ridurci al silenzio prima di tutto nei posti di lavoro, per azzerare le lotte e le rivendicazioni costruite in questi anni, per renderci disponibili ad accettare anche il peggiore sfruttamento. Per questo rilanciamo la parola d’ordine dello sciopero del lavoro migrante, per colpire il meccanismo fondamentale della Bossi-Fini: il legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro.
Noi sappiamo che questi provvedimenti riguardano anche le lavoratrici e i lavoratori italiani: il governo si rivolge a loro quando indica noi migranti come nemici. Il governo risponde con la paura alle richieste di sicurezza, ma la paura non cambierà nulla. Le lavoratrici e i lavoratori italiani continueranno a non arrivare a fine mese e fare lavori precari e insicuri, mentre centinaia di migliaia di lavoratori 'regolarmente' in nero chiamati clandestini, continueranno a lavorare privi di ogni sicurezza e diritto mandando avanti una parte consistente dell'economia di questo paese.
Dopo la MayDay del 1 maggio è aperta la strada per una lotta comune a partire dal protagonismo dei migranti: si può reagire e sconfiggere la paura e la solitudine di una condizione migrante, operaia e precaria che è il vero obiettivo di queste leggi.

Per questo i migranti hanno deciso di continuare la mobilitazione e dopo un percorso di assemblee di convocare una grande manifestazione sabato 5 luglio. Facciamo appello a tutti/e per sostenere questa manifestazione, mobilitarsi, partecipare: perché oggi una manifestazione dei migranti è una manifestazione per tutti/e.

  • Contro il razzismo
  • Per rifiutare il reato e l’aggravante di immigrazione clandestina
  • Per il diritto d’asilo
  • Per rompere il legame tra permesso di soggiorno e lavoro
  • Per stabilire una regolarizzazione permanente slegata dal lavoro e dal salario e chiudere tutti i CPT


COORDINAMENTO MIGRANTI BOLOGNA E PROVINCIA, Ass. senegalese JUBBO Sant'Agata Bolognese; Ass. senegalese KOCC BARMA Calderara di Reno; Ass. Sopra i Ponti Bologna; Ass. Press Afric Bologna; Ass. culturale Radici Peruviane Bologna; Ass. sportiva marocchina HILAL Baricella; Ass. Integrazione Vera Bologna; Ass. della Costa d'Avorio Bologna; Comunità Pakistana di Bologna; Ass. senegalese di Bologna Cheikh Anta Diop; United Asian Workers Association Bologna; Lavoratori marocchini di Molinella; Associazione Fratellanza Pakistana di Portomaggiore; A.I.AB Associazione degli Immigrati non comunitari dell'Appennino Bolognese.


Aderiscono: Xm24; Laboratorio Crash!, Vag61; C.s. Tpo; Lazzaretto Autogestito; Livello 57; Circolo Anarchico C. Berneri; Usi - Ait, Lavoratrici e Lavoratori Anarchici; Confederazione Cobas Bologna; Cobas Scuola – Bologna; Asia Rdb-Cub; Collettivo Figlie Femmine; Comitato Palestina Bologna; Harambe; Spazio Sociale Studentesco; Assemblea Antifascista Permanente; Circolo Iqbal Masih; Lista Reno; Disarmiamoli Bologna; QueeRingBo; Confederazione Unitaria di Base Bologna; Sinistra Critica Bologna; Ass. Città Migrante Reggio Emilia; Collettivo Amazora Bologna; Associazione “il Bene Comune”; Circolo “Che Guevara” PRC Castel San Pietro; “Laboratorio femminista Kebedech Seyoun”; Associazione 3 Febbraio; Socialismo Rivoluzionario; Associazione SOKOS; Partito Comunista dei Lavoratori Bologna; Associazione medica N.A.Di.R.; Rete 28 aprile; Ass. Un Ponte Per Bologna; Rete delle Donne di Bologna.

Meeting point in piazza XX Settembre (di fronte all'autostazione di Bologna, inizio via Indipendenza), a partire dalle ore 15:30.
Corteo lungo via Indipendenza, via Ugo Bassi, Prefettura, ritorno in via Ugo Bassi, via Rizzoli

Conclusione in piazza Re Enzo

NON E' IL MOMENTO DI AVERE PAURA
PRENDIAMOCI UNA BOCCATA DI LIBERTÀ



domenica 8 giugno 2008

Étienne Balibar: «Gli immigrati capri espiatori»

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L'Europa dell'apartheid

Étienne Balibar:
«Gli immigrati capri espiatori»


«Si è cittadini europei per diritto genealogico. Gli immigrati, ventottesima nazione fantasma, sono degli esclusi. Il razzismo è specchio dell'ostilità tra europei. Le colpe del nazionalismo di sinistra»


di Teresa Pullano, il manifesto, 6 giugno 2008



È pessimista sull'avanzata delle destre, anche estreme, in Europa. E sul fatto che i cittadini dell'Unione desiderino realmente la democrazia. Ma si affida a Gramsci per dire che in questo momento bisogna avere l'ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione. Confessa che oggi non direbbe no ad un referendum sulla Costituzione europea. E pensa che nei confronti degli immigrati, il «ventottesimo stato dell'Ue», esista una vera e propria «apartheid europea», in cui il razzismo rispecchia i conflitti interni tra gli stessi cittadini comunitari. Conflitti dei quali i migranti rappresentano solo il capro espiatorio. Incontriamo Étienne Ballibar, filosofo della politica e intellettuale critico della costruzione europea, di passaggio a Roma per alcune conferenze proprio mentre divampa in Italia un clima xenofobo e razzista.

In Italia ha vinto la Lega sulla base della difesa del territorio, perfino i movimenti pensano di ripartire dallo stesso principio, sia pur declinato in maniera opposta. Forse che in Europa il principio del territorio si sta sostituendo a quello di nazione?
Quello del territorio è un concetto plastico che non ha un referente univoco.Leggevo qualche giorno fa un editoriale del manifesto sulle violenze al Pigneto: si faceva una critica, giustificata ma che non offre una soluzione immediata, del modo in cui tende a svilupparsi un mito del microterritorio che fa sì che gli abitanti di un quartiere o di una regione si percepiscano come difensori di uno spazio minacciato da cui espellere tutti gli stranieri. È la prova che la nozione di territorio può funzionare a vari livelli. Nelle periferie francesi le guerre tra bande di giovani proletari immigrati, disoccupati e non scolarizzati sono anch'esse dei fenomeni di difesa del territorio nel senso fantasmatico del termine. È a questo livello che bisogna proporsi non solo una critica della nozione di territorio, ma una vera politica d'apertura o di deterritorializzazione dell'appartenenza comunitaria. La sacralizzazione dei piccoli territori può essere molto violenta ma è limitata. Ciò che preoccupa è la generalizzazione di questi fenomeni su una scala più ampia. Si è verificato con il fascismo, che era una trasformazione immaginaria del territorio nazionale in proprietà di un popolo o di una razza. Ci sarebbero delle conseguenze disastrose se questo fenomeno si sviluppasse nell'insieme dell'Europa, in particolar modo su base culturale, come sembra suggerire Benedetto XVI, quando sostiene che essa è un territorio cristiano e di conseguenza i musulmani sono dei corpi estranei.

Possiamo dunque concludere che il principio di territorialità può essere la base di una cittadinanza europea?
La costruzione europea ha una base territoriale per definizione, ma a seconda se la concepiamo come fissa o evolutiva, come chiusa o aperta, si apre una direzione storica diversa. Oggi il territorio non è la base della cittadinanza europea, ma dovrebbe diventarlo. Quella che definisco come una vera e propria «apartheid europea» è data dal fatto che è cittadino europeo solo chi ha la nazionalità di uno degli Stati membri. Gli immigrati stabilitisi da una o più generazioni sul suolo europeo sono la ventottesima nazione fantasma dell'Ue e costituiscono circa un ottavo della sua popolazione. Non sono semplicemente persone che in Francia non sono francesi, in Germania non sono tedeschi o in Italia non sono italiani. È a livello dell'intera Europa che gli immigrati sono degli esclusi, a maggior ragione con la libera circolazione all'interno delle frontiere europee. L'allargamento dell'Unione europea produce forme qualitativamente nuove d'esclusione. Il diritto alla cittadinanza europea non è territoriale: è genealogico. Nella maggior parte degli stati membri la nazionalità si acquisisce con lo jus soli, ma a livello dell'insieme dell'Europa la cittadinanza è genealogica nel senso dell'appartenenza originaria alla nazione. Questo evoca dei ricordi e pone problemi inevitabili. Ci sono delle analogie tra lo sviluppo di quest'esclusione e il fatto che nella storia ci sono state e ci sono sempre, almeno a livello simbolico, delle popolazioni transnazionali trattate come nemici interni o corpi estranei alla civiltà europea. È stato il caso degli ebrei; oggi non lo è più. Rimane il caso dei rom. Il fenomeno di cui parlo è tuttavia molto più vasto.

Oggi in Europa non si sentono istanze di partecipazione dal basso a livello comunitario, mentre nei singoli stati le istanze di partecipazione si esprimono in un linguaggio nazionalistico e identitario. Che rapporto vede fra queste due tendenze?
La domanda di partecipazione a livello locale e la domanda di controllo popolare a livello nazionale e sovranazionale non si escludono. Forse c'è bisogno di un'accelerazione delle cose perché i cittadini ne prendano coscienza. La responsabilità di questa situazione è da attribuire alle istanze intermedie, come i partiti politici, che oggi sono drammaticamente assenti e ci si dovrebbe chiedere il perché. Secondo Gramsci, le istanze intermedie sono la trama statale del funzionamento della società civile e, reciprocamente, i conflitti della società civile si traspongono nella struttura dello stato. Le costituzioni nate dalla resistenza in Francia e in Italia infatti affidano ai partiti il ruolo di costituire l'opinione pubblica. Dove sono oggi i partiti politici in Europa?

La legittimità degli Stati nazionali e quella dell'Unione europea secondo lei vanno di pari passo?
Il momento attuale è caratterizzato, in modo preoccupante, da una perdita di legittimità democratica degli Stati nazione e da una diminuzione della legittimità del progetto politico europeo. Non si tratta di assumere una posizione di difesa della sovranità nazionale, al contrario. Io adotto la definizione di legittimità di Max Weber, che mi pare vicina al concetto foucaultiano di potere: una nozione pragmatica e realista che si articola in termini di probabilità, d'obbedienza al potere pubblico e dunque d'efficacia di questo stesso potere. Da questo punto di vista, non possiamo ritornare indietro rispetto a quel poco di struttura politica che esiste su scala europea, ma siamo obbligati a progredire. Ne consegue che la legittimità delle istituzioni europee è diventata una condizione di legittimità delle istituzioni nazionali stesse. Non tarderemo a vedere concretamente gli effetti di questa relazione, che si manifesteranno con forza man mano che le difficoltà economiche e sociali legate agli choc petroliferi si ripercuoteranno in Europa. Solo delle politiche europee comuni hanno una minima possibilità di essere efficaci di fronte a questo tipo di situazione, ma devono essere approvate dai cittadini degli Stati nazionali, che rimangono la fonte ultima di legittimità.

Intanto in Europa assistiamo a una crescita delle destre, anche quelle più estreme. Perché, secondo lei?
In questo momento sono pessimista e mi riconosco nella massima di Gramsci dell'ottimismo della volontà e pessimismo della ragione. Per principio le situazioni difficili sono quelle in cui bisogna immaginare delle soluzioni e delle forme d'azione collettiva e non lasciarsi andare a seguire la tendenza naturale delle cose. I sistemi politici relativamente democratici nei quali viviamo o abbiamo vissuto sono in questo momento gravemente minacciati ed indeboliti. Ai miei occhi, i problemi del nazionalismo e dell'avanzamento della destra non coincidono. Tra le due correnti ideologiche ci sono delle interferenze molto forti, ma esse non si riducono l'una all'altra. Il nazionalismo nei vari Paesi europei non è monopolio della destra. Faccio parte - lo devo confessare, ma i lettori del manifesto lo sanno - delle persone che tre anni fa in Francia hanno votato «no» al referendum sulla costituzione europea. Ho creduto di farlo per ragioni che non erano né di destra né nazionaliste. Sono oggi costretto a constatare che questa scommessa è stata persa e che l'aspetto transnazionale e il richiamo a un federalismo europeo sono stati completamente neutralizzati da una dominante nazionalista a sinistra, o meglio nella vecchia sinistra. Ciò che è inquietante è la convergenza del nazionalismo di destra e del nazionalismo di sinistra. I suoi effetti si fanno sentire a livello dei governi nella forma di un sabotaggio permanente delle politiche europee comuni. Ma la convergenza tra le due forme di nazionalismo a livello dell'opinione pubblica e dell'ethos delle classi popolari in Europa è ancora più preoccupante. Meno gli stati nazionali sono capaci di rispondere alle sfide economiche, sociali e culturali del mondo contemporaneo, più i discorsi populisti e nazionalisti fanno presa su una parte delle classi popolari in Europa. Bisogna interrogarsi sulle cause strutturali di questa situazione, non ci si può accontentare del discorso elitista dell'ignoranza del popolo. Di certo è una situazione molto pericolosa per il futuro della democrazia in Europa, senza parlare delle conseguenze sullo sviluppo del razzismo.

Lei parla di un nazionalismo di sinistra. Si può dire che la sinistra oggi pensi da un lato lo spazio mondiale e dall'altro quello nazionale, e sia perciò incapace di vedere quello europeo come uno spazio eterogeneo rispetto agli altri due? È forse un lascito dell'internazionalismo di Marx?
Calandoci nell'epoca in cui Marx ha scritto, potremmo dire esattamente il contrario. Il pensiero di Marx era legato a un momento rivoluzionario che investiva l'Europa intera. Rileggendo gli articoli di Marx del 1848, vediamo che il nazionalismo democratico si allea con il socialismo e le prime forme di lotta di classe. In quel momento Marx e Engels hanno probabilmente pensato che una repubblica democratica europea o un'alleanza di repubbliche democratiche europee era al contempo la forma nella quale si preparava o poteva realizzarsi il superamento del capitalismo. Oggi la situazione è diversa e il senso di parole come nazionalismo si è ribaltato. È vero che certe forme di anticapitalismo teorico, che pescano in parte nell'eredità di Marx e che io non disprezzo ma trovo un po' arcaiche ed unilaterali, trascurano il problema della politica europea. La prospettiva altermondialista ha tuttavia il vantaggio di affermare che pensare l'Europa come uno spazio chiuso è illusorio. Al contempo, le costituzioni democratiche sono radicate nella risoluzione dei conflitti storici passati. Costruire uno spazio politico europeo è importante perché dobbiamo ricomporre il nostro passato a livello continentale: una cultura politica comune deve emergere dalle differenze culturali e storiche dell'Europa. Vi è un legame profondo tra la mancata rielaborazione del nostro passato e l'immigrazione. Gli immigrati sono i capri espiatori dell'ostilità fra gli europei. E' la loro stessa incapacità di pensarsi come un'unità che impedisce agli europei di trattare il problema dell'immigrazione in termini progressisti. I francesi non vi diranno mai che detestano i tedeschi o gli inglesi che non possono sopportare l'idea di formare un popolo comune con gli spagnoli, però questa diffidenza non è stata superata, anzi si è rafforzata con l'allargamento dell'Europa ad Est.

La Costituzione europea è stata affossata, ma in parte viene recuperata con il Trattato di Lisbona. Come giudica la strategia dei leader politici europei di procedere comunque, nonostante il rifiuto dei cittadini dell'Unione?
Non m'interessa, dubito che gli stessi leader europei ci credano loro stessi. Possiamo invece tornare sulla questione del rifiuto del Trattato europeo. I casi francese ed olandese, come ha scritto Helmut Schmidt su Die Zeit, non erano isolati. Il malessere era generale. Questo malessere resta da interpretare e analizzare ed è sempre d'attualità. All'epoca ho difeso la posizione un po' troppo idealista, che oggi non sosterrei più allo stesso modo, secondo la quale la Costituzione europea non era abbastanza democratica. Pensavo che essa non presentasse una prospettiva sufficientemente chiara di progresso generale della democrazia per l'insieme del continente. Tendevo dunque a considerare che la sola possibilità, molto fragile, per l'Europa di diventare uno spazio politico nuovo e superiore al vecchio sistema degli stati-nazione e delle alleanze nazionali, era di apparire come un momento di creazione democratica. Continuo a pensarlo, ma c'è qualcosa d'idealista in questo modo di vedere le cose che la realtà attuale ci obbliga a guardare in faccia. L'idealismo consiste nell'immaginare che le masse vogliano la democrazia, mentre purtroppo siamo in un periodo molto difficile e conflittuale. Ci sforziamo di aprire nuovamente delle prospettive democratiche a livello transnazionale, però allo stesso tempo dobbiamo provare a trovare i mezzi di resistere passo per passo all'avanzata del populismo e del nazionalismo nei paesi europei.


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Articoli correlati in incidenze:

E. Balibar - I. Wallerstein: Razza nazione classe

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martedì 15 gennaio 2008

Questioni di metodo. A proposito di Kulturkampf

Mark Terkessidis
Kulturkampf. L'Occidente e la Nuova Destra, Marco Tropea Editore, Milano 1996.
[
Kulturkampf. Volk, Nation, der Westen und die Neue Rechte, Kiepenheuer & Witsch, Köln 1995]

La tempestiva traduzione italiana di questo lavoro offre un’importante testimonianza della nascita, anche in ambito tedesco, di un percorso critico che ha posto al centro dell’attenzione le affermazioni mediatiche della Nuova destra, il revisionismo storico, il nuovo razzismo differenzialista. Chi, all’inizio degli anni Novanta, partendo da momenti di mobilitazione e discussione quali il blocco della conferenza di Nolte nell'ateneo bolognese[1] o da altri percorsi convergenti, ha maturato analoghi interessi, ha la possibilità di confrontarsi con un tracciato in qualche modo parallelo, nato in Germania negli stessi anni. La prefazione di Terkessidis mostra bene che la genesi di questo spazio di attività e ricerca non è, come spesso si crede o si vorrebbe far credere, riconducibile ad una ideologia “residua”, ma si colloca nel cuore dei problemi imposti dall’attualità.
Insieme, la prefazione sottolinea alcune decisive scelte teoriche e analitiche che informano il testo. Una critica del paradigma della “guerra culturale” deve affrontare il difficile compito di smarcarsi dal proprio oggetto, e ha bisogno, per questo, di individuare un diverso spazio teorico, un’altra immagine del pensiero:
“Concordo – scrive Terkessidis – con lo psicoanalista sloveno Slavoj Zizek, il quale ha scritto che l’intellettuale dovrebbe porsi in un buco che non si chiude. Zizek alludeva a una foto scattata dopo la caduta di Ceausescu: due rumeni innalzavano una bandiera nella quale al posto dell’emblema del comunismo, evidentemente tagliato via, si apriva un buco. Il più alto dovere dell’intellettuale sarebbe quello di ‘rimanere imperterrito, anche e soprattutto quando ormai si è stabilito un nuovo ordine (una ‘nuova armonia’) al posto di quel buco, per mantenere una distanza rispetto al simbolo predominante’”[2].
Il rifiuto di assumere il punto di vista di una superiore “verità”, “al di sopra delle parti”, opera uno scarto non solo nei confronti dei modelli di trascendenza della sfera culturale propri della Nuova destra, ma anche verso l’ingannevole obiettività di esperti attestati su un modulo di analisi normativa che, semplificando, potrebbe essere così schematizzato: fissati due termini, da una lato il fascismo nostalgico (o, con maggior vaghezza, il “totalitarismo”) che designa il posto in cui la Nuova destra non è più, dall’altro la conformità alla democrazia, termine prestabilito del percorso, si pone la Nuova destra come una entità “in cammino” tra il primo e i secondo punto fermo, e si procede a rilevare i gradi di pro-gresso, variamente compitando “evoluzioni” e (ri)cadute, “passi avanti”, soste ed eventuali scivoloni. Kulturkampf rovescia la prospettiva: non commisurare la Nuova destra ad un modello di “democrazia” concepito come norma inamovibile, ma descrivere il viraggio o la deriva dei fattori che definiscono un paese democratico “normale” per effetto di un insieme combinato di processi con cui la Nuova destra interagisce. La confortevole semplicità dello schema lineare va in frantumi: non una retta, ma una reticolo.
Aprire questo reticolo significa non limitarsi a considerare una singola esperienza – come la Nouvelle droite, o uno dei suoi omologhi nazionali –, ma allargare lo sguardo in più direzioni: mentre focalizza la specificità dell’esperienza tedesca, Terkessidis riesce a mantenere una continua attenzione alle dimensioni internazionali del fenomeno e, al tempo stesso, non circoscrive l’analisi alla Neue Rechte in senso stretto, ma prende in esame un complesso di gruppi e tendenze, che permettono di vedere quel filone come una componente rilevante, ma tutt’altro che isolata, di un insieme più vasto: dalle testate vicine all’impostazione del Grece agli storici “post-Nolte” e oltre, fino all’area che si è raccolta attorno al Manifesto degli intellettuali conservatori[3]. Di qui la necessità di spaziare non solo tra tempi e autori distanti, ma anche tra materiali eterogenei: dal libro alla rivista, dal giornale alla fanzine: il filo conduttore non è l’omogeneità di “livello”, non si tratta di optare tra i cieli rarefatti della “cultura” e il “basso” materiale underground, ma di leggere diagonalmente i concatenamenti enunciativi, le linee di articolazione di una strategia.
Ma questa strategia non può essere efficacemente criticata mutuandone più o meno implicitamente i presupposti. Se quella opera mettendo “sistematicamente in ombra tutti gli aspetti del dominio (politico-economico) e analizzando la situazione solo sotto l’aspetto strategico del potere ideologico”[4], la critica deve tornare, con Marx, a parlare la “lingua della vita reale”[5]: cogliere le complesse articolazioni tra l’affermarsi del paradigma che “costruisce” i conflitti sociali in chiave di “lotta tra le culture” e i processi di segmentazione gerarchica interni al “mercato mondiale indiviso”. Il testo effettua una ricognizione vasta delle funzioni svolte dal razzismo culturalista ad ogni livello. Dai conflitti Nord-Sud, alla concorrenza tra stati o aree produttive, alle esigenze interne delle nazioni, il paradigma della “battaglia tra culture” adempie a funzioni strategiche . La costruzione di un quadro d'insieme, anche su questo piano, è forse l’aspetto più importante del libro.
Relativamente ai temi, agli stili e ai moduli culturali della Nuova destra il libro può essere letto come un grande repertorio, e utilizzato come una rubrica intelligente, una rassegna che riordina e permette di riconoscerne i topoi. Non sfuggirà, ad una lettura così orientata, la parabola che connette trasgressione e normalità: “Dobbiamo incanalare verso destra l’inquietudine diffusa nelle file della sinistra stessa – scriveva Gerd Waldmann sulla rivista Nation Europa nel 1969 –. ‘Di destra’ in futuro, non dovrà significare reazionario, ma volto al progresso, non borghese, ma incline alla rivoluzione sociale, non antintellettuale, ma impegnato a introdurre la razionalità nella politica, non legato a un nazionalismo improntato alla concezione di stato, ma a un moderno nazionalismo europeo”[6]. Ora, con il definirsi di uno spazio “al di là” della distinzione destra/sinistra, nell’incontro tra “personalità creative” provenienti dall’uno e dall’altro campo, si procede alla costituzione di un nuovo “centro libero dalle ideologie”: “Oggi - asserisce Antie Vollmer su Der Spiegel nel 1993 - ci sarebbe seriamente bisogno degli intellettuali per predisporre un nuovo consenso sociale”[7]. Il gesto “ribelle” della trasgressione delle “vecchie appartenenze” prepara una nuova normatività[8].
La movenza critica che anima il testo, conducendo alla problematizzazione o alla rottura di nuovi luoghi comuni, è probabilmente ascrivibile al suo nascere da un bilancio di sconfitta delle sottoculture, in entrambi gli orientamenti : sovversione e autonomia[9]. Nella prima, dall'inizio degli anni Novanta “tutti gli elementi caratteristici – confusione, ambiguità, ricerca dell'evento – rimanevano, ma ormai era impossibile trovare contenuti politici, cosicché la ‘strategia’ si trasformava in linea di massima in un vuoto pronto ad accogliere qualsiasi contenuto”[10], la seconda sembra destinata ad occupare la sacca prefigurata già dal 1979 da Peter Glotz (Spd), che Terkessidis così sintetizza: “Il patto è chiaro: se voi ci lasciate governare in pace, se non mettete più in discussione la questione del potere, noi vi lasciamo la cultura; se poi i ‘normali’ vi odiano, non è colpa nostra”[11].
Il collocare la riflessione “in buco”, il gesto di distanziamento critico dei processi di culturalizzazione dei movimenti di contestazione, presiede a un più generale spostamento di prospettiva, che conduce al nucleo “caldo” del libro: il confronto tra l’etnopluralismo della destra e il suo termine antitetico: il multiculturalismo. Interrogata nei suoi presupposti teorici, l’opposizione tra questi termini trova le proprie condizioni di possibilità in un processo di etnicizzazione della politica, che pretende di spiegare (e propone di affrontare) i problemi sociali in chiave etnica: la “differenza culturale” rinvia circolarmente a se stessa, è assunta come un “dato” non ulteriormente problematizzabile, assurge a paradigma interpretativo, diviene principio per formulare (diverse) tecniche di amministrazione dei processi di inclusione/esclusione.
Kulturkampf elabora l’esigenza di uscire da questo circolo, in direzione di quello che - con espressione bella e desueta - chiama materialismo.

Rudy M. Leonelli
in altreragioni, n. 6, 1997




[1] Avevo ricordato la rilevanza di quell'evento come segno di apertura di uno spazio critico nel mio primo articolo per questa rivista (cfr. Gli eruditi delle battaglie. Note su Foucault e Marx, “Altreragioni”, n. 2, 1993, p. 147 n.).
[2] Mark Terkessidis, Kulturkampf. L’Occidente e la Nuova Destra, p. 14.
[3] Ibid., p. 15.
[4] Ibid., p. 29.
[5] Ibid., p. 14.
[6] Ibid, p. 27.
[7] Ibid., p. 171. Oltre alle diverse declinazioni della “fine” della dicotomia destra/sinistra esaminate da Terkessidis, potrebbe essere interessante considerare la letteratura apologetica delle nuove tecnologie dell'informazione. È al riguardo eloquente un brano tratto dalla rivista statunitense Wired: “La sinistra è morta. La destra è morta. Senza che ci sia stato bisogno di proclamarlo ufficialmente , siamo ormai nel pieno di un'economia globale di reti” (Mark Stahlman, “Wired”, ottobre 1994, cit. in Herbert I. Schiller,I profeti dell’era digitale. L'ideologia della rivista “Wired”, “Le Monde Diplomatique/il manifesto”, novembre 1996, p. 27).
[8] Ho cercato di delineare questo problema ne Le sventure della virtù. Per la critica del post-antirazzismo, "Altreragioni", n. 4, 1995.
[9] Cfr. Kulturkampf, pp. 11-12.
[10] Ibid., 12.
[11] Ibid., p. 68. Come si vede, non dovrebbe essere arduo trovare corrispondenze nella situazione italiana.