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martedì 19 ottobre 2010

Nonostante Auschwitz


Nonostante Auschwitz
Il "ritorno" del razzismo in Europa
un saggio di

Alberto Burgio
Roma,
DeriveApprodi, 2010



Tonino Bucci
La bestia si è risvegliata.
Il razzismo, come lavora e perché è efficace
[recensione per Liberazione, 10 ottobre 2010]



Gli episodi di violenza razzista oggi sono diventati un fenomeno della realtà quotidiana. La speranza che i genocidi del secolo scorso avessero creato una volta per tutte gli anticorpi contro la diffusione del razzismo a livello di massa si sta rivelando, purtroppo, una tesi consolatoria. Le cronache riferiscono abitualmente di immigrati arsi nel sonno, di ronde contro gli immigrati, di incendi appiccati nei campi rom, di lavoratori stranieri uccisi per aver reclamato qualche diritto fondamentale, di rivolte di quartieri contro gli immigrati accusati di spaccio e criminalità, persino di interi paesi come hanno dimostrato i fatti di Rosarno.

Tutto ciò accade Nonostante Auschwitz, come recita il titolo del nuovo saggio di Alberto Burgio - sottotitolo Il ritorno del razzismo in Europa (DeriveApprodi, pp. 224, euro 17). L'ideologia razzista - o, per essere più precisi, quel vasto repertorio di suggestioni, immagini stereotipi e metafore che si potrebbe definire la koiné razzista - sta dilagando nelle società europee dall'alto e dal basso. Da un lato, assistiamo al ritorno del "razzismo di Stato", nella forma di una ideologia pubblica che ispira governanti, legislatori e amministratori locali nella loro azione politica. L'Italia, da questo punto di vista, è un laboratorio di punta in Europa nella legalizzazione del razzismo. Il reato di immigrazione clandestina ha reso operativo un meccanismo di "criminalizzazione" dei migranti, individuati come colpevoli solo per il fatto di rispondere allo stigma dello straniero. Nelle legislazioni europee si riaffaccia il dispositivo penale ottocentesco della «colpa d'autore», sotto forma di leggi che istituzionalizzano la discriminazione di interi gruppi umani (migranti, prostitute, omosessuali, zingari). La Francia di Sarkozy, solo per citare un altro caso recente, si è distinta per le espulsioni e i rimpatri forzati dei Rom. Il razzismo è la risorsa politica di partiti di governo. Basterebbe pensare al fenomeno della Lega, fucina di centinaia di amministratori locali che propagandano (e praticano) nei territori il modello razzista dei servizi sociali (scuole, mense, asili) per soli padani. Ma accanto al razzismo di Stato - e in simbiosi con esso - si è sviluppato un senso comune razzista, una subcultura di massa, un diffuso rancore collettivo alla ricerca di capri espiatori che non è più appannaggio di frange minoritarie della società. La manovalanza delle aggressioni ai danni di migranti, omosessuali, clochard e giovani dei centri sociali viene dalle sigle della destra radicale, dalle fasce giovanili delle periferie metropolitane o dalle curve degli stadi, ma il repertorio di valori cui attingono è però ormai un immaginario collettivo.

Eppure mai come oggi gli studi sulle ideologie razziste sono deboli, spesso incerti sulle categorie interpretative da adottare. Fare del razzismo un oggetto di studio è «un passo difficile, che mette in discussione anche convincimenti radicati nella cultura critica e in particolare nella storiografia». Nel senso che non si può procedere facendo l'inventario di tutto quel che affermano i testi letterari del razzismo, quelli - per inciso - in cui si parla esplicitamente di razza. Il metodo "filologico", «in apparenza impeccabile, è causa del più grave degli inconvenienti: costringe a muoversi dentro la prospettiva del discorso razzista che si intende criticare. E rischia quindi di restarvi imprigionato». Non solo, «muovere in questa ricerca dalla presenza del lemma "razza" (in quanto lo si considera costitutivo del discorso razzista)» significa anche farsi trovare spiazzati dalle nuove varianti del razzismo che non utilizzano la parola "razza" e che tuttavia sono a tutti gli effetti varianti dell'ideologia razzista. E' sufficiente che «una teoria razzista si mascheri sotto un lessico non-razzista (il che avviene non di rado, soprattutto nel secondo Novecento) perché essa scompaia dalla visuale di una critica feticisticamente legata al dato lessicale». «La traduzione del (forte) lessico razzista tradizionale nel (debole) registro culturalista (il passaggio dalla "razza" all'"etnia" e alla "cultura") ha seminato scompiglio tra storici e politologi». Questo disorientamento ha impedito a lungo di riconoscere e contrastare «le nuove forme di ideologia (e pratica) razzista, messe in atto da parte della "nuova destra" con la retorica del "rispetto per le culture altre", col risultato di abbandonare al proprio destino gruppi umani razzizzati per mezzo di retoriche nuove e a prima vista irreprensibili». Del resto, il discorso razzista non ha vincoli di coerenza né di verità. Non ha bisogno di dati di fatto, ma può fare e disfare, affermare e negare a proprio uso e consumo i criteri di assegnazione degli individui a una comunità da perseguitare.«Sono io a decidere chi è ebreo!», diceva Karl Lueger, sindaco antisemita della Vienna di fine Ottocento. L'ideologia «non funziona (non conquista credito e consenso) in base alla propria veridicità. La presa di una tesi ideologica dipende piuttosto dalla sua operatività, dalla capacità di rispondere a bisogni e di soddisfare pulsioni».

Se si guarda alla «genealogia storica» del razzismo, si scopre che la sua esplosione è solo in parte riconducibile alla globalizzazione degli ultimi due decenni. E' vero che sono aumentati i flussi migratori, che la crisi economica ha accentuato i conflitti tra "nativi" e "migranti", che il globale ha fatto irruzione nella dimensione locale delle nostre vite. Eppure, «se gli avvenimenti dell'ultimo ventennio spiegano l'esplosione del razzismo, non consentono invece di comprenderne la riemergenza. Per impiegare una metafora abusata, indicano il detonatore, ma non dicono nulla dell'esplosivo». L'ipotesi di Burgio è che il razzismo sia «un ingrediente fondamentale», una «tara congenita» della modernità europea o, per dirla in altro modo ancora, una «normale patologia» inerente alla vita quotidiana. Il Moderno non è stato solo un processo di emancipazione e di uguaglianza, ma al suo interno ogni conquista progressiva è avvenuta all'ombra di spinte regressive. La modernità ha innescato meccanismi di spaesamento, inquietudini, dissoluzione delle vecchie gerarchie, proletarizzazione dei ceti medi, sentimenti crescenti di insicurezza. «Se dovessimo individuare un denominatore comune a questo complesso di dinamiche, propenderemmo senz'altro per la paura». Su questa base, «la crisi moderna genera una forte domanda di colpevoli e nemici: stranieri o infedeli, malvagi, devianti o cospiratori, ai quali attribuire la responsabilità della propria sventura e sui quali scaricare il proprio rancore».

Ma qual è, appunto, il modus operandi, la maniera in cui il razzismo svolge la sua funzione compensativa di queste pulsioni sociali insoddisfatte? Qual è la logica che fa della "razza" un dispositivo capace di colpire e "razzizzare" in potenza qualunque gruppo umano? La procedura "razzizzante" consiste nell'attribuire un aspetto fisico, un «corpo», a un set di qualità morali (negative), assegnate per natura a una comunità umana, designata come bersaglio di discriminazione e violenza. Il razzista "inventa" corpi per i propri stereotipi. Anche quando si tratta di colpire gruppi umani che non presentano aspetti somatici distintivi, come dimostra il caso classico dell'antisemitismo. L'antisemita non si limita a dire che gli ebrei sono avidi, lussuriosi, ipocriti e così via, ma deve anche aggiungere, per l'economia del proprio discorso, che gli ebrei hanno evidenze fisiche, il naso adunco, i capelli crespi, le unghie quadrate. Siamo in presenza di costrutti simbolici, di un vero e proprio montaggio, la cui regola è quella dell'essenzialismo. Le ideologie razziste sono «teorie essenzialiste», «individuano una (presunta) essenza invariabile ("naturale") del gruppo umano che rappresentano come "razza"». Non potrebbe essere altrimenti: il razzismo ha bisogno che i presunti caratteri negativi di un gruppo umano durino nel tempo affinché quel gruppo possa ricoprire stabilmente il ruolo di capro espiatorio. I meccanismi della «devianza» e della «stigmatizzazione» che Burgio descrive, dimostrano che il razzismo è in grado di colpire chiunque. La costruzione del «nemico interno» ha avuto largo seguito nella sfera politica - si pensi ai comunardi marchiati come "negri" e ai bolscevichi definiti ebrei (e viceversa) - così come è stata applicata verso le figure marginali della società, dagli omosessuali ai malati di mente. Quel che rende il razzismo una ideologia (e una pratica) «totalitaria e paradossalmente inclusiva» deriva dalla sua capacità di costruire e legittimare «modelli sociali complessivi, rigidamente gerarchici, che assegnano un luogo ben determinato a tutte le componenti della popolazione».

L'ideologia razzista è stata un veicolo dell'egemonia della destra tra i ceti popolari e ha contribuito, in parte, alla frattura tra la sinistra ("sempre lì a difendere gli immigrati") e il suo popolo, che s'è gettato tra le braccia della Lega. Sarebbe il caso di non dimenticarsene.

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venerdì 1 ottobre 2010

Alberto Burgio: La radice profonda del razzismo in Europa


Alberto Burgio
La radice profonda del razzismo in Europa
il manifesto, 1 ottobre 2010
È una buona cosa che, sullo sfondo della persecuzione razzista dei rom in Francia, si sia aperta una riflessione teorica sul razzismo. È tutt'altro che scontato che se ne sappia abbastanza (su ciò che lo produce e lo alimenta e, prima ancora, su ciò che il razzismo è) per reagire all'altezza dei suoi devastanti effetti attuali e potenziali. Gli interventi di Étienne Balibar e Jacques Rancière sul manifesto hanno fatto luce su aspetti rilevanti. Il primo si è incentrato sul nesso tra cittadinanza ed esclusione, mettendo in risalto come esso operi anche nel quadro dell'Europa comunitaria; il secondo ha insistito sulla natura artificiale (non spontanea) di un razzismo frutto dell'iniziativa di «imprenditori politici».

Entrambi condividono una prospettiva politico-centrica e meriterebbero un approfondimento: in particolare Rancière sembra sbarazzarsi troppo precipitosamente della scaturigine sociale della paura (e del risentimento) che l'intervento politico alimenta e incanala contro gruppi umani rappresentati come pericolosi. Ma lo spazio è tiranno e, piuttosto che dedicarlo a un confronto interno, conviene utilizzarlo per ampliare lo spettro della discussione, prospettando un'ipotesi differente e complementare, incentrata sulle dinamiche sociali responsabili della produzione di stereotipi inferiorizzanti: un'ipotesi per dir così socio-centrica.

Quando parliamo di razzismo siamo soliti pensare ai margini della società o a popolazioni straniere. Il razzismo appare al senso comune una faccenda riguardante gli «altri», i «diversi» (o i «devianti»), insomma non-persone abitanti la periferia (fisica o morale) delle nostre metropoli. Naturalmente questo modo di pensare ha le sue buone ragioni. Oggi le «razze» (poco importa se rinominate con termini meno impresentabili come «etnie» o «culture») sono in primo luogo i migranti, variamente considerati invasori, nemici, delinquenti naturali, terroristi potenziali, barbari e così via connotando. Oppure sono i rom (e i sinti), cioè gli «zingari». O ancora gli ebrei (checché se ne dica, resiste il pregiudizio che li configura come una «razza»). In una parola, minoranze a vario titolo percepite come estranee al corpo (sano) della collettività. Come eccezioni (patologiche) rispetto alla norma e alla normalità. Tuttavia, se non vogliamo rimanere prigionieri del razzismo, non possiamo limitarci a sfogliare il catalogo dei gruppi umani trasformati in «razze», dobbiamo anche chiederci a che scopo il razzismo li «razzizza».

Con ogni probabilità, l'obiettivo è legittimare trattamenti discriminatori e persecutori che possono arrivare sino allo sterminio. La violenza che difficilmente la società accetterebbe di subire, appare tollerabile (motivata e giusta) se colpisce un gruppo raffigurato come portatore «per natura» di uno stigma morale. Quella violenza è percepita come legittima difesa poiché è messa in relazione alle caratteristiche perverse attribuite a quel gruppo. In una parola, il razzismo è la fabbrica delle identità negative, un operoso cantiere antropologico che, producendo stereotipi (cioè letteralmente creando le «razze»), sforna ininterrottamente argomenti utili a giustificare la violenza che una parte della società scarica su altre componenti più deboli e a vario titolo subordinate.

Se le cose stanno così, lo sguardo dovrebbe disinteressarsi del dito (gli argomenti specifici - tutti, indistintamente, pretestuosi - addotti dal razzista di turno) e rivolgersi alla luna che esso indica, cioè alla radice profonda di questa violenza. Dovrebbe cercare la fonte «strutturale» dell'insaziabile fame di discriminazione che ossessiona la nostra società, poiché soltanto così è possibile capire perché da due o tre secoli a questa parte l'occidente capitalistico non può fare a meno di inventare «razze» inferiori, parti infette dei corpi sociali che meritano di essere cauterizzate o addirittura amputate. E soltanto adottando questa prospettiva si può capire perché il razzismo torna sistematicamente in auge nelle fasi acute di crisi economica e sociale, quando le dinamiche riproduttive esasperano la propria connotazione gerarchica, mobilitando un surplus di violenza e di brutalità.

Il punto è che la «razza inferiore» (quella di chi - stando alle mitologie razziste - ruba o stupra per incoercibili propensioni «naturali» o è «per natura» refrattario alla civilizzazione) incarna e mette in scena non soltanto le ragioni della propria discriminazione, ma anche, soprattutto, la legittimità del discriminare come meccanismo generale della relazione sociale. Certo, la violenza che si scatena contro i rom cacciati via da una palude infestata dai topi all'altra, evitati come appestati sugli autobus e sui treni e finalmente deportati oltre confine nel nome della sicurezza e sanità del corpo sociale, è diversa da quella che gli italiani (o i francesi) doc - quanti tra loro lavorano sotto padrone o nemmeno riescono a trovare un lavoro - sono costretti a subire. Questi ultimi sono (ancora) protetti da qualche diritto. Ma un denominatore comune c'è, e consiste nel dipendere dall'arbitrio altrui. Per questo è importante che assistano alla cacciata dei rom, spettacolo estremamente istruttivo che rammenta (e rappresenta come una condizione inemendabile) la loro radicale subalternità.

Che cosa imparano, a guardar bene, da questo spettacolo che colpisce ai margini della società ma si rivolge al grosso della popolazione, alle «genti meccaniche» cui non è toccata la buona sorte di illustri natali? Apprendono la terribile lezione della modernità: la loro condizione di homines œconomici, di individui soli, costretti a combattere, a proprio rischio e pericolo, la guerra quotidiana degli egoismi individuali. Ciò che il razzismo si incarica di portare a termine mettendo in scena il destino degli ultimi è, in altre parole, l'atomismo sociale e lo sradicamento della solidarietà, fattore antimoderno per antonomasia, incompatibile con lo scatenamento degli «spiriti animali» del capitalismo.

In questo senso - per quanto paradossale ciò possa apparire - se vogliamo capire quale ruolo il razzismo giochi sulla scena europea (e perché esso svolga ancora una funzione così importante), è indispensabile leggere correttamente vicende come quelle di Pomigliano e di Melfi, nelle quali il padrone dichiara in modo esplicito di voler negare qualsiasi diritto a chi per sopravvivere è costretto a vendere il proprio tempo di vita. Gli operai debbono tornare ad essere cose, levarsi dalla testa di essere persone e, soprattutto, membri di un soggetto collettivo. E affinché intendano la musica, niente è più utile del mostrare loro che fine fanno quelli con i quali la buona società si arrabbia per davvero.

Ma se la sorte riservata ai margini serve a educare il centro, allora il problema è la reazione del centro. Non si tratta di stabilire se il razzismo sia o meno spontaneo, certo che non lo è. Il punto è che il razzismo sarà senso comune, benché inculcato dall'alto, finché i corpi sociali assimileranno docilmente la lezione che esso impartisce: la fondatezza delle gerarchie sociali, la legittimità della violenza che esse decretano, la moralità della riduzione a cose dei subordinati. Oggi, esattamente come nel secolo scorso, il problema chiama dunque in causa proprio gli «uomini comuni», spesso complici, più o meno inconsapevoli, della violenza razzista.

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sabato 18 settembre 2010

Étienne Balibar: Rom, questione comune


La condizione dei rom testimonia l’esistenza di «una traccia durevole delle persecuzioni nella storia europea». L’Europa può cancellarla.



Dal punto di vista dei rom, il processo di unificazione europea ha di sicuro aperto delle possibilità di comunicazione nella comunità finora inesistenti e ha dato la possibilità di reclamare i propri diritti in modo più efficace e legittimo. Ma non ha modificato la configurazione di base della persecuzione, o addirittura può aver dato ad essa una nuova dimensione. Si tratta di una storia affascinante: quello che era ampiamente invisibile è diventato visibile e un'intera parte della storia d'Europa diventa comprensibile. Ed è una questione vitale per il futuro dell'Europa: essa non può essere costruita sull'esclusione, non è un Impero. Ufficialmente, presenta se stessa come uno spazio per la realizzazione dei diritti democratici e del benessere comune delle sue popolazioni. In pratica, conquisterà legittimità nelle menti e nei cuori dei cittadini (una cosa più difficile di quanto immaginato all'inizio) soltanto se comporterà un avanzamento verso istituzioni più democratiche e una cultura di maggiore - e non di minore - solidarietà. Sotto questo punto di vista, la persecuzione dei rom in Europa, trasmettendosi da un Paese all'altro in un processo di emulazione negativa come nel passato, non è un problema che riguarda ogni paese separatamente, ma è un problema "comune", un problema "comunitario".

Affrontandolo in questo modo - e lavorando contro le proprie inclinazioni - gli europei eliminerebbero non solo una fonte di conflitti interni e di violenza che può diventare insopportabile, ma costruirebbero una comune cittadinanza. Inoltre reclamando i loro diritti, elevando il discorso dal livello culturale a quello civile, trovando gli interlocutori istituzionali e gli alleati di cui hanno bisogno tra la popolazione, i rom di tutta Europa conquisterebbero un'integrazione che ci riguarda tutti, collettivamente. Non essendo un esperto di storia e sociologia rom, ma in quanto cittadino europeo e filosofo che ha lavorato su altri aspetti dell'esclusione e sul loro impatto sullo sviluppo della democrazia, vorrei affrontare le tre principali questioni in discussione.

La prima riguarda l'esclusione e la cittadinanza e la loro trasformazione a livello paneuropeo. I rom sono privi di alcuni diritti di base in molti paesi europei e nello spazio europeo, malgrado il fatto che siano cittadini europei, essendo di pieno diritto cittadini degli stati membri. Questi diritti di base includono il diritto di circolazione, di residenza, di lavoro, il diritto alla scuola, alla salute e alla cultura. I rom sono costretti a risiedere in determinate aree, dalle quali del resto possono anche venire arbitrariamente espulsi. Sono definiti o come "nomadi" o come cittadini che provengono da determinati paesi. Sono a priori considerati come delinquenti o come una popolazione pericolosa. Non vengono mai ammessi o sono ampiamente sottorappresentati nella maggior parte delle professioni, sia manuali che intellettuali (con tassi di disoccupazione che toccano i massimi). È inutile dire che questo riguarda anche gli impieghi pubblici. Questo fenomeno è illegale o legale, con la scusa di norme e di accordi interstatali che riguardano l'igiene, la previdenza sociale, le politiche per l'occupazione e le norme culturali. Hanno luogo su uno sfondo di una persistente estrema violenza "popolare", che è alimentata anche da gruppi neofascisti e da bande criminali, solo verbalmente condannati da molti stati membri dell'Unione europea. Solo i più vergognosi pogrom diventano una notizia per la stampa nazionale o internazionale.

La costruzione dell'Ue ha avuto degli effetti estremamente contraddittori. Ha prodotto una categorizzazione dei rom a livello europeo, dal momento che per la Ue sono stati considerati un "problema" nel loro stesso diritto a farne parte. Questo è uno scalino preliminare nella nuova razzializzazione dei rom. Li mette nella stessa categoria dei "migranti" di origine extracomunitaria, in un quadro generale che ho definito come l'emergente apartheid europeo, il lato oscuro dell'emergenza di una «cittadinanza europea». La differenza proviene dal fatto che i "migranti" (e i discendenti di migranti) sono visti come un altro esterno, mentre gli tzigani come un altro interno. Ciò d'altronde rafforza il vecchio stereotipo del nemico interno, che ha effetti sanguinosi.

Malgrado gli enormi cambiamenti storici e sociali - specialmente dopo la seconda guerra mondiale e la fine della guerra fredda - che hanno portato l'Europa molto lontana dal proprio passato, questo fenomeno è testimone di una traccia durevole delle persecuzioni nella storia europea. È inevitabile la comparazione con il caso, di cui si è parlato molto di più, della persecuzione di un "gruppo razziale" nella storia europea, cioè gli ebrei. I due "gruppi paria" sono stati il bersaglio congiunto del genocidio nazista (come altre popolazioni "devianti"). Rappresentano casi completamente diversi di traiettoria religiosa ed economica, ma - è importante sottolinearlo - entrambi hanno svolto un ruolo centrale nello stabilire delle connessioni tra diverse culture europee (specie nel campo artistico, nel caso degli tzigani) incarnando l'elemento "cosmopolita" senza il quale le culture "nazionali" restano isolate e sterili.

Questo mi porta a prendere in considerazione una seconda questione, che riguarda più specificamente le tendenze di razzializzazione in Europa. Alcuni anni fa mi ero chiesto se bisognasse ammettere che esiste un razzismo o neo-razzismo "europeo" che avrebbe avuto, rispetto alla costruzione "sopra-nazionale", la stessa relazione di complementarità ed eccesso che il razzismo tradizionale (antisemitismo, razzismo coloniale, ecc) aveva con lo stato-nazione e le classiche costruzioni imperialiste. Bisogna essere molto prudenti a proporre questo tipo di ipotesi. Nondimeno, ci sono dei fenomeni inquietanti che possono dare credito a questa ipotesi, ponendo i rom nella scomoda posizione di caso test. In conclusione, possiamo dire che l'unificazione dell'Europa ha reso la razzializzazione del "problema tzigano" più visibile, perché mostra l'evidente contraddizione con la tendenza generale e ufficiale verso il superamento dei pregiudizi etnici e nazionali sulla quale è costruita la "nuova Europa". Da questo punto di vista, ci sono almeno tre fenomeni che mi paiono rilevanti:

1. La tendenza delle nazioni europee a proiettare sui rom i pregiudizi verso altre nazioni. Per esempio, la stampa francese è più attenta a riferire dei pogrom che hanno luogo in Italia o in Ungheria, o delle discriminazioni in Romania, ma resta quasi silenziosa sul modo in cui i comuni in Francia respingono i "nomadi" dal loro territorio, o sul modo in cui la polizia di frontiera francese espelle cittadini rumeni e bulgari per alimentare le statistiche ufficiali, pur sapendo benissimo che, in quanto cittadini europei, essi torneranno al più presto.

2. Arriviamo al fenomeno della costruzione del capro espiatorio e, più precisamente, al modo in cui le "nazioni" europee si considerano ufficialmente l'un l'altra come membri di una stessa comunità. Dopo aver superato le antiche ostilità, esse restano nei fatti piene di mutuo risentimento e sospetto reciproco - cosa che, fino ad un certo punto, dipende dal fatto che la costruzione europea è rimasta in mezzo al guado. Questo risentimento e sospetto reciproco tende a venire proiettato verso gruppi "devianti". I rom sono come una nazione in eccesso in Europa, che si distingue per l'odio che suscita non solo perché travalica i confini ma anche perché incarna l'archetipo delle popolazioni senza stato, che fanno resistenza alle norme di territorializzazione e di normalizzazione culturale (per ironia della sorte, sotto molti aspetti, questa singolarità è essa stessa frutto delle persecuzioni).

3. Questo problema, come sappiamo, diventa eccezionalmente acuto quando vengono prese in considerazione le relazioni tra Europa occidentale ed Europa dell'est. Il fatto che i regimi di tipo sovietico in Europa dell'est durante la guerra fredda, in paesi che hanno anche un'importante popolazione rom, avessero combinato una politica coercitiva e normativa con programmi di integrazione economica, ha comportato la definizione di "protégés del socialismo" in paesi dove (per quanto tempo ancora?) la maggioranza della popolazione vede l'ammissione alla Ue come la strada più rapida verso la liberalizzazione economica e sociale. Nell'altra metà del continente, i paesi occidentali e la loro opinione pubblica li percepiscono come la perfetta illustrazione della povertà e della deregulation con le quali l'Ue sfida i vecchi membri. In entrambi i casi, sono rigettati e visti più come "orientali" che come veramente europei.

Se la relegazione dei rom nella condizione di comunità senza stato prosegue (de facto più che de jure: vivono, certo, sotto la giurisdizione degli stati, ma sono visti sia come inadatti che ostili ad entrare nella costruzione di uno stato moderno), cosa che ci riporta all'origine della loro discriminazione, essa rivela al tempo stesso i limiti della costruzione della sfera pubblica in Europa. Essa può essere paragonata a uno statalismo senza stato. Questa situazione poco chiara, combinata con altri fattori, tende ad esacerbare varie forme di razzismo popolare, in particolare sotto la forma dell'ossessione della sicurezza. Dall'altro lato, ha portato alla creazione di una piuttosto densa rete di istituzioni e organizzazioni che hanno a vedere con la "questione rom" a livello europeo. Alcune di queste organizzazioni ed iniziative governative possono favorire lo sviluppo di una coscienza autonoma e di una pratica civile nella comunità rom, mentre altre tendono a ridurli allo stato di un gruppo sotto controllo, protetto e piazzato sotto sorveglianza. Questo dilemma, secondo me, porta a prendere in considerazione un altro problema cruciale, che riguarda le vie dell'emancipazione proposte alle popolazioni rom in Europa. Parlando da un punto di vista astratto, ci sono due strade, come in altri casi simili. Una può essere definita "maggioritaria" e comporta la richiesta della fine dell' "eccezione", il riconoscimento dei diritti di base che, di principio, appartengono ad ogni cittadino. L'altra può essere definita "minoritaria" e si basa su un crescente senso di identità e di solidarietà tra le popolazioni rom, attraverso i confini nazionali, che porta verso una maggiore autonomia culturale e, di conseguenza, verso una maggiore visibilità come gruppo "quasi nazionale" che lotta contro l'esclusione all'interno di un'Europa multi-nazionale.

La prima strada dipende soprattutto dai passi avanti più generali sui diritti umani e da un ritorno a politiche sociali che riescano ad arginare la corrente neo-liberista, mentre la seconda dipende dalla capacità di utilizzare il discorso e le istituzioni dell'Unione europea affinché i rom arrivino a costruirsi una voce autonoma. Nessuna delle due strade è facile, né probabilmente sufficiente. Sarà responsabilità dei rom stessi articolare una combinazione efficace. Ma è anche nostra responsabilità - e nostro interesse - in quanto democratici europei, aiutarli in questo processo, lottando contro il risorgere del razzismo in mezzo a noi, inventando un'Unione migliore.


* Questo testo è una rielaborazione, per gentile concessione di Étienne Balibar, dell'introduzione al volume «Romani Politics in Contemporary Europe» (Palgrave ed. dicembre 2009), una raccolta di saggi sulla questione dei rom e l'Europa a cura di Nando Sigona e Nidhi Trehan. La traduzione è stata curata da Anna Maria Merlo.

da: il manifesto, 18.09.2010

mercoledì 14 luglio 2010

14 luglio: è... festa!



In un'epoca epoca in cui il revisionismo è divenuto normale, non sorprende che, nell'anniversario del 14 luglio 1789, importanti centri di potere si dedichino alla stigmatizzazione di un improbabile.... "clima giacobino".

In questo contesto, contro ogni revisionismo, salutiamo con entusiasmo un'iniziativa "minore" (in senso "deleuziano"): la festa dell'anniversario della presa della della Bastiglia che si svolge oggi a Bologna al Mercatino del libro di via Zampieri.


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G. W. F. Hegel: la sproporzionata ricchezza di alcuni cittadini

lunedì 31 maggio 2010

Psichiatria / fascismo - razzismo: due dibattiti al Festival culture antifa



Due incontri per la critica della psichiatria

Festival sociale delle culture antifasciste 2010

Bologna, lunedì 31 maggio


h. 11-13

Psichiatria e fascismo



Il Fascismo si rapportò in modo inequivocabilmente autoritario con tutto il mondo della cultura italiano. Cercheremo di ricostruire quale fu l'impatto che ebbe sugli gli ambienti psichiatrici, nella ridefinizione delle competenze del sapere medico in relazione al potere poliziesco e giudiziario, ma anche al conflitto tra la corrente fisiologista di lombrosiana memoria e quella più interessata alle categorie psicologiche e psicanalitiche, laddove il fascismo stesso tentò di farne tesoro per pianificare anche un apparato comunicativo e "pedagogico" imponente. Obiettivo è quello di riuscire a ricomporre l'insieme attraverso i "frammenti della memoria": cercare di affrontare la questione declinandola nei diversi campi in cui ha avuto attuazione. La dimensione femminile, con la ridefinizione marcata della figura della donna e del suo ruolo in seno alla società fascista, maschile ed eterosessista, e la marginalizzazione di tutte le individualità e ed esperienze che non vi rispondevano; la repressione e manicomializzazione del disordine e di ogni sensibilità non allineata (e non allineabile); l'esperienza ancora forte del primo conflitto mondiale, con il suo portato di nuove definizioni di nevrosi e sindromi sviluppate dai combattenti, a cui una medicina "mobilitata" troppo spesso non seppe dare che diagnosi più simili a condanne, e sulle quali si costruirà anche l'idea combattentistica del sacrificio e dell'eroismo; la questione razziale e l'incontro con l'altro/a, soprattutto nell'esperienza coloniale, e il ruolo che di nuovo la "normalizzazione" e la standardizzazione delle categorie mentali cui sembrava chiamata la scienza psichiatrica assunse ... [continua qui]


Dibattito con:

Paolo Peloso, medico psichiatra, GenovaPaolo Giovannini, storico, Università di Camerino Luigi Benevelli, medico psichiatra, Mantova - Università di Brescia

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h: 17-18,30

Psichiatria e razzismo

Dibattito intorno alle vittime della repressione psichiatrica come controllo sociale e discriminazione con la presentazione del caso Francesco Mastrogiovanni
(partecipazione familiari di Francesco in attesa di conferma)

Dibattito con:
Giorgio Antonucci, che nel 1969 ha lavorato nell'ospedale psichiatrico di Gorizia con Franco Basaglia e dal 1973 al 1996 lavora a Imola per smantellare gli ospedali psichiatrici Osservanza e Luigi Lolli
Collettivo 'Irren Offensive', cioè Follia Militante, da Berlino
Osservatorio antiproibizionista Pisa

Collettivo Antipsichiatrico Artaud
Pisa

Centro di relazioni umane Bologna

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sabato 29 maggio 2010

R/esistenze lesbiche nell'Europa nazifascista


Sabato 29 maggio, ore 16.00

Renato Busarello, Luki Massa e Vincenza Perilli
presentano il libro
R/esistenze lesbiche nell'Europa nazifascista
(Ombre corte, Verona, 2010 )
a cura di Paola Guazzo, Ines Rieder, Vincenza Scuderi
Saranno presenti le curatrici


In un contesto in cui la ricerca storica europea appare ancora fortemente condizionata da istanze maschili-bianche e le reti accademiche non sembrano certo distinguersi nell'investire sensibilità ed energie sulla storia dei soggetti "altri", quali le lesbiche sono indubbiamente, i lavori qui presentati assumono sicuramente una rilevanza particolare nel panorama storiografico.
Frutto di un lavoro corale sulle poche fonti e testimonianze di cui ancora si dispone, il volume si avvale dei contributi di alcune note storiche del lesbismo che si occupano di esistenze e resistenze lesbiche nell'Europa dei nazifascismi, includendo anche il franchismo spagnolo. La barra che si è scelto di apporre su "r/esistenze" sta infatti a indicare come per le lesbiche la stessa esistenza possa essere considerata una forma di resistenza (all'eterosessualità obbligatoria, alla cancellazione di sé e delle proprie passioni), ancor più in periodi di forzata "normalizzazione" di tutte le donne come furono quelli dei fascismi europei del Novecento. Ma la "resistenza" che trova spazio in questo libro è anche quella di lesbiche politicamente consapevoli, che fronteggiarono e combatterono con determinazione e coraggio le dittature di Mussolini, di Hitler e di Franco.
Nel volume vengono inoltre affrontate anche le questioni, spesso rimosse, relative alla "zona grigia" della sopravvivenza durante l'internamento e ai rapporti fra "asociali" e "politiche" nei Lager.

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domenica 21 febbraio 2010

"un paese più normale": il revisionismo incoronato a Sanremo


L'obiettivo di divenire una "nazione normale", che istituisce un rapporto "armonico" col proprio passato, è da tempo una posta in gioco decisiva del revisionismo storico tedesco:
 
La storia non deve più essere oggetto di scontro, deve essere integrata come un elemento 'normale' all'interno della nazione e deve costituire una stabile "identità nazionale".[16]

La sutura della memoria, chiudere le lacerazioni aperte e latenti nella storia moderna, e quelle più specifiche della "storia patria", è ormai divenuto, anche in Italia, un programma statale.






E. Filiberto: Io credo nella mia cultura e nella mia religione, per questo io non ho paura, di esprimere la mia opinione. Io sento battere più forte, il cuore di un’Italia sola, che oggi più serenamente, si specchia in tutta la sua storia.
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Pupo: Io credo ancora nel rispetto, nell’onestà di un ideale, nel sogno chiuso in un cassetto e in un paese più normale

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video da Liberazione
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martedì 1 settembre 2009

Uno di noi : blog antifa internazionale



Alla fine dell'anno scorso nella città di Bochum è stato realizzato un graffito dedicato a 7 giovani antifascisti assassinati negli ultimi anni da neonazisti.
La realizzazione del graffito è diventata ora un documentario "Uno di noi" nel quale vengono anche raccontate le storie dei giovani compagni antifascisti assassinati.
Sul sito del progetto, realizzato in tedesco, inglese, spagnolo, italiano, francese e russo, sono ospitati testi, gallerie fotografiche ed è possibile scaricare il film ed i sottotitoli.


antifa,arte,writers,internazionale


Uno di Noi:
Davide Cesare, alias “Dax” (26 anni), accoltellato a morte il 16 marzo 2003 da fascisti a Milano.
Thomas Schulz, alias “Schmuddel” (31 anni), assassinato il 28 marzo 2005 da un nazi-skin a Dortmund.
Timur Kacharava ( 20 anni), assassinato il 13 novembre 2005 da un gruppo di nazisti a San Pietroburgo.
Renato Biagetti, alias “Renoize” (26 anni), accoltellato a morte il 28 Agosto 2006 da fascisti a Roma
Carlos Palomino, alias “Pollo” (16 anni) accoltellato a morte l’11 Novembre 2007 da un falangista spagnolo a Madrid.
Jan Kučera (18 anni), accoltellato a morte il 18 Gennaio 2008 a Příbram, nella Repubblica Ceca, da un nazi-skin.
Fjedor „Fidei“ Filatov (27 anni), accoltellato a morte il 10 ottobre 2008 da quattro nazisti russi a Mosca.

Abbiamo scelto questi sette giovani, perché crediamo che rappresentino i giovani europei che resistono alla recrudescenza del fascismo e del razzismo. A causa della loro opposizione e della loro resistenza sono diventati vittime della violenza fascista. Di loro sappiamo che la loro opposizione/resistenza si rivolgeva anche contro la normalità del capitalismo. E per questo hanno rappresentato degli elementi di disturbo per le forze dell‘ordine, a Giustizia, la politica ufficiale e alla stampa nei rispettivi Paesi. Casi difficili da trattare per polizia, legge e media, così come per partiti ed istituzioni che hanno espresso poco interesse per loro.
Questo è chiaramente il caso, ad esempio, dell‘antifascista di Dortmund Thomas Schulz, alias Schmuddel. Fino ad oggi la città si è rifiutata di affiggere una targa commemorativa alla Stazione della Metropolitana dove era stato assassinato.
Noi pensiamo che ognuno di loro fosse “uno di noi”.
Uno di noi, ragazz* europei, che né credono a costruzioni artificiali quali la nazione, la razza, i confini nazionali, etc., né si preoccupano solo della loro “realizzazione” individuale. Uno di noi, che riusciamo ad immaginare una vita migliore, liberata dallo sfruttamento capitalista e dall‘isolamento dei singoli esseri umani e che vogliono lottare per questo.
Erano “uno di noi”. E non li dimenticheremo. Per conservare la loro memoria e ricordarli in maniera attiva abbiamo realizzato questo mural.
E, come dice lo slogan del murales: Nei nostri sogni di cambiamento sociale e nelle nostre lotte per ottenerlo Dax, Schmuddel, Renato, Pollo, Jan, Fjedor e Timur, come tutte le altre vittime del fascismo e del razzismo, continuano a vivere.
Dax, Schmuddel, Renato, Pollo, Jan, Fjedor und Timur
“Vivono ancora“ !!!

Think globally — act locally!
United we stand — divided we fall!


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sabato 11 luglio 2009

Spettri della psiche (di Pierpaolo Ascari)

L'attrazione fatale per la fisiognomica
Spettri della Psiche


Alcuni passaggi del rapporto che la fotografia istituì con le alienazioni mentali, catturando più realtà di quella osservata dall'occhio umano. A partire dalla riedizione della tesi di dottorato di Jean Étienne Dominique Esquirol, fondatore della clinica psichiatrica parigina della Salpêtrière, fino al libro di Georges Didi-Huberman sulla «Invenzione dell'isteria»


Il 16 e il 17 giugno del 1875, presso la settima sezione penale del tribunale della Senna, accadde qualcosa di strano. Nonostante i gendarmi avessero fatto irruzione nell'atelier di un sedicente fotografo di spettri, obbligandolo a confessare che stava truffando i propri clienti, le vittime della truffa non ne vollero sapere di rinunciare all'idea di aver posato accanto al fantasma di una zia morta, della contessa du Barry, di Vercingetorige o di un supereroe precolombiano. In realtà il trucco del fotografo risultò piuttosto artigianale e consisteva nell'impressionare due volte la medesima lastra: la prima con l'immagine sbiadita di una bambola in costume, la seconda con il ritratto dei paganti. All'epoca, va detto, l'illusione che l'obiettivo fosse in grado di catturare più mondi di quanti non ne trattenesse la retina godette di molta fortuna, tanto da consentire a un certo Baraduc, per esempio, di dedicare svariati anni della propria vita alla ricerca fotografica delle peregrinazioni dell'anima.

Una impronta di luce
A differenza di quanto facessero i fantasmi dell'uomo finito in tribunale, però, quella che le anime di Baraduc consegnavano alla fotografia non era la propria faccia, ma una «firma», un'impronta singolare di luce che, di volta in volta, assumeva la forma specifica del pensiero, della passione, del sogno o della forza cosmica e vitale che urtava la lastra. Nello stesso anno in cui viene processato l'evocatore di bambole, del resto, nel Traité spécial de photographie pubblicato a Parigi in occasione della commercializzazione di una delle prime attrezzature amatoriali, l'appareil Dubroni, gli autori del manuale ammettono di non avere ancora una conoscenza adeguata del rapporto tra luce e materia. L'innovazione tecnologica, in altri termini, consente di fare molte più cose di quante l'esperienza non sia pronta a verificarne, alimentando la formazione di una «scienza dell'ignoto» che, come nel caso delle deformazioni studiate da Jurgis Baltrusaitis, «più sottilizza, più depura le proprie nozioni, più si sforza di darsi basi solide, più si smarrisce nel fantastico». Le «psichicone» del dottor Baraduc rappresentano un capitolo della storia di questa fantascienza, quindi, una storia nella quale alla ricerca rigorosa dei casi, delle classificazioni e degli approfondimenti, ogni volta, corrisponde la genesi e l'inventario di una nuova allucinazione. Un capitolo molto meno innocente della stessa storia, invece, è quello ambientato nel manicomio femminile di Parigi diretto da Jean-Martin Charcot, la Salpêtrière, dove proprio l'uso della macchina fotografica, a partire dal 1876, consentirà di approfondire e sottilizzare la conoscenza allucinata dell'isteria.
Nel 1862, mentre Charcot assume la direzione della Salpêtrière, in Francia appare il libro di un medico di nome Duchenne de Boulogne che, a differenza di Baraduc, non si limita a inseguire le tracce dell'anima, ma ne istruisce la cattura. Quando l'anima è agitata, sostiene Duchenne, il volto si trasforma in un dramma teatrale nel quale l'azione dei muscoli crea l'immagine corrispondente al movimento delle passioni. Procedendo in direzione opposta, però, è possibile ottenere la stessa immagine con l'impiego della corrente elettrica, convocando sul volto elettrizzato un catalogo completo dei moti interiori e dei meccanismi segreti che ne regolano la configurazione. «Attraverso l'analisi elettrofisiologica e con l'aiuto della fotografia - assicura quindi Duchenne - vi farò conoscere l'arte di dipingere correttamente le linee espressive del volto umano, un'arte che si potrebbe definire ortografia della fisionomia in movimento».Si direbbe un programma da insegnante di pittura, il suo, una campionatura delle costanti patognomiche simile a quelle illustrate da Leonardo, Lebrun o Rubens nei loro testi teorici. A questo proposito non sarà inutile ricordare che a partire dal Salon parigino del 1859, con una decisione che Baudelaire aveva giudicato ridicola, la fotografia era ufficialmente stata accolta nel gran mondo delle belle arti e che proprio al magistero di Duchenne, oggi, continuano a richiamarsi le ricerche sviluppate da un dipartimento dell'Istitute of Artificial Art di Amsterdam. Se non fosse che a fornire le illustrazioni della sua impresa non furono i modelli dell'antichità, né il primo piano di un performer, ma il volto sfigurato dagli aghi e dalle pinze di qualche disgraziato. E se non fosse che a considerarlo un «maestro» nell'uso clinico della fotografia e della stimolazione elettrica, di lì a poco, sarà proprio Jean-Martin Charcot, che alla Salpêtrière non trascurerà di attrezzare un laboratorio di elettroterapia e una squadra speciale di fotografi residenti.

mercoledì 25 febbraio 2009

Stop al fascismo, stop al razzismo, stop al sessismo - Bologna 25/2

Bologna - assemblea pubblica:

Nessuna sede fascista, nessuna ronda!

Stop al fascismo, al razzismo, al sessismo

Mercoledì 25 febbraio 2009


I fatti di sabato mattina nel Quartiere Santo Stefano ci pongono di fronte alla pericolosità di una nuova organizzazione fascista, CasaPound, e l’iniziativa di domenica pomeriggio, indetta da Forza Nuova in via Mattei, ci evidenzia, invece, la modernità del suo intervento politico nella crisi.
Non si tratta di giocare a scimmiottare il passato, né di vedere il nemico più pericoloso di ciò che oggi è, ma di riflettere sullo stato di salute del nostro territorio.
Ci sono tensioni che hanno un nome comune chiamato paura. Paura del presente (la pensabilità del domani è un lusso con la valuta corrente), paura del reale, del vicino, del collega di lavoro (sicuro concorrente). Paura del migrante. Paura del gay. Paura di pensare altro che non sia il privato.
La gestione della sicurezza è contesa tra partiti politici "tradizionali" come la Lega e movimenti di destra eversiva che irrompono nel dibattito e la chiave del loro successo è chi diviene giustiziere.
Abbiamo a che fare con organizzazioni socialmente pericolose che in un periodo di crisi formidabile e nel nuovo contesto normativo inaugurato dal Pacchetto Sicurezza diventano potentemente eversive.
Per questo proponiamo a tutti e tutte coloro che non hanno smesso di pensare e di sognare una città diversa, libera, democratica, antirazzista, senza ronde e senza nuclei razzisti che controllano il territorio di fare una campagna metropolitana comune e condivisa.
E di difendere insieme i compagni che si sono opposti all’arroganza dei picchiatori di Casa Pound.
Mercoledì 25 febbraio
ore 21.00 al TPO
via Casarini 17/5 Bologna

domenica 13 luglio 2008

La morte di Funari, avanguardia della tv spazzatura (da Senza Soste)


Propongo alla lettura uno dei rari articoli critici degni del nome sul ruolo di "comunicatore" svolto da Gianfranco Funari, in questi giorni coralmente e uniformemente celebrato nella neo-Italietta consensuale.






La morte di Funari, avanguardia della tv spazzatura


Karl Kraus, vero e ultimo moralista del '900, scriveva "Non avere un pensiero e saperlo esprimere: è questo che fa di qualcuno un giornalista". Gianfranco Funari, cabarettista e avventuriero dello spettacolo, frasi come queste non le scriveva ma le intuiva, le rappresentava in trasmissioni fatte di luoghi comuni portati all'eccesso e di pieno e consapevole uso della televisione spazzatura. Del resto è celeberrima la frase che racchiude la sua concezione della comunicabilità del mezzo televisivo dove "per essere eccezionali bisogna mascherarsi da normali, abbassarsi al gradino più basso, corteggiare senza pudore le casalinghe".
E qui c'è tutta un'idea della televisione generalista come strumento che può attrarre consenso tramite l'espressività del banale che è sia alla radice dell'uso del luogo comune come veicolo di contenuti critici che della imposizione delle leggi dell'avanspettacolo come dispositivo di raccolta del consenso in politica. Come tutte le avanguardie, anche se dell'utilizzo della tv spazzatura, Gianfranco Funari si trova nel posto giusto al momento giusto.

Continua a leggere nel sito Senza Soste

martedì 15 gennaio 2008

Questioni di metodo. A proposito di Kulturkampf

Mark Terkessidis
Kulturkampf. L'Occidente e la Nuova Destra, Marco Tropea Editore, Milano 1996.
[
Kulturkampf. Volk, Nation, der Westen und die Neue Rechte, Kiepenheuer & Witsch, Köln 1995]

La tempestiva traduzione italiana di questo lavoro offre un’importante testimonianza della nascita, anche in ambito tedesco, di un percorso critico che ha posto al centro dell’attenzione le affermazioni mediatiche della Nuova destra, il revisionismo storico, il nuovo razzismo differenzialista. Chi, all’inizio degli anni Novanta, partendo da momenti di mobilitazione e discussione quali il blocco della conferenza di Nolte nell'ateneo bolognese[1] o da altri percorsi convergenti, ha maturato analoghi interessi, ha la possibilità di confrontarsi con un tracciato in qualche modo parallelo, nato in Germania negli stessi anni. La prefazione di Terkessidis mostra bene che la genesi di questo spazio di attività e ricerca non è, come spesso si crede o si vorrebbe far credere, riconducibile ad una ideologia “residua”, ma si colloca nel cuore dei problemi imposti dall’attualità.
Insieme, la prefazione sottolinea alcune decisive scelte teoriche e analitiche che informano il testo. Una critica del paradigma della “guerra culturale” deve affrontare il difficile compito di smarcarsi dal proprio oggetto, e ha bisogno, per questo, di individuare un diverso spazio teorico, un’altra immagine del pensiero:
“Concordo – scrive Terkessidis – con lo psicoanalista sloveno Slavoj Zizek, il quale ha scritto che l’intellettuale dovrebbe porsi in un buco che non si chiude. Zizek alludeva a una foto scattata dopo la caduta di Ceausescu: due rumeni innalzavano una bandiera nella quale al posto dell’emblema del comunismo, evidentemente tagliato via, si apriva un buco. Il più alto dovere dell’intellettuale sarebbe quello di ‘rimanere imperterrito, anche e soprattutto quando ormai si è stabilito un nuovo ordine (una ‘nuova armonia’) al posto di quel buco, per mantenere una distanza rispetto al simbolo predominante’”[2].
Il rifiuto di assumere il punto di vista di una superiore “verità”, “al di sopra delle parti”, opera uno scarto non solo nei confronti dei modelli di trascendenza della sfera culturale propri della Nuova destra, ma anche verso l’ingannevole obiettività di esperti attestati su un modulo di analisi normativa che, semplificando, potrebbe essere così schematizzato: fissati due termini, da una lato il fascismo nostalgico (o, con maggior vaghezza, il “totalitarismo”) che designa il posto in cui la Nuova destra non è più, dall’altro la conformità alla democrazia, termine prestabilito del percorso, si pone la Nuova destra come una entità “in cammino” tra il primo e i secondo punto fermo, e si procede a rilevare i gradi di pro-gresso, variamente compitando “evoluzioni” e (ri)cadute, “passi avanti”, soste ed eventuali scivoloni. Kulturkampf rovescia la prospettiva: non commisurare la Nuova destra ad un modello di “democrazia” concepito come norma inamovibile, ma descrivere il viraggio o la deriva dei fattori che definiscono un paese democratico “normale” per effetto di un insieme combinato di processi con cui la Nuova destra interagisce. La confortevole semplicità dello schema lineare va in frantumi: non una retta, ma una reticolo.
Aprire questo reticolo significa non limitarsi a considerare una singola esperienza – come la Nouvelle droite, o uno dei suoi omologhi nazionali –, ma allargare lo sguardo in più direzioni: mentre focalizza la specificità dell’esperienza tedesca, Terkessidis riesce a mantenere una continua attenzione alle dimensioni internazionali del fenomeno e, al tempo stesso, non circoscrive l’analisi alla Neue Rechte in senso stretto, ma prende in esame un complesso di gruppi e tendenze, che permettono di vedere quel filone come una componente rilevante, ma tutt’altro che isolata, di un insieme più vasto: dalle testate vicine all’impostazione del Grece agli storici “post-Nolte” e oltre, fino all’area che si è raccolta attorno al Manifesto degli intellettuali conservatori[3]. Di qui la necessità di spaziare non solo tra tempi e autori distanti, ma anche tra materiali eterogenei: dal libro alla rivista, dal giornale alla fanzine: il filo conduttore non è l’omogeneità di “livello”, non si tratta di optare tra i cieli rarefatti della “cultura” e il “basso” materiale underground, ma di leggere diagonalmente i concatenamenti enunciativi, le linee di articolazione di una strategia.
Ma questa strategia non può essere efficacemente criticata mutuandone più o meno implicitamente i presupposti. Se quella opera mettendo “sistematicamente in ombra tutti gli aspetti del dominio (politico-economico) e analizzando la situazione solo sotto l’aspetto strategico del potere ideologico”[4], la critica deve tornare, con Marx, a parlare la “lingua della vita reale”[5]: cogliere le complesse articolazioni tra l’affermarsi del paradigma che “costruisce” i conflitti sociali in chiave di “lotta tra le culture” e i processi di segmentazione gerarchica interni al “mercato mondiale indiviso”. Il testo effettua una ricognizione vasta delle funzioni svolte dal razzismo culturalista ad ogni livello. Dai conflitti Nord-Sud, alla concorrenza tra stati o aree produttive, alle esigenze interne delle nazioni, il paradigma della “battaglia tra culture” adempie a funzioni strategiche . La costruzione di un quadro d'insieme, anche su questo piano, è forse l’aspetto più importante del libro.
Relativamente ai temi, agli stili e ai moduli culturali della Nuova destra il libro può essere letto come un grande repertorio, e utilizzato come una rubrica intelligente, una rassegna che riordina e permette di riconoscerne i topoi. Non sfuggirà, ad una lettura così orientata, la parabola che connette trasgressione e normalità: “Dobbiamo incanalare verso destra l’inquietudine diffusa nelle file della sinistra stessa – scriveva Gerd Waldmann sulla rivista Nation Europa nel 1969 –. ‘Di destra’ in futuro, non dovrà significare reazionario, ma volto al progresso, non borghese, ma incline alla rivoluzione sociale, non antintellettuale, ma impegnato a introdurre la razionalità nella politica, non legato a un nazionalismo improntato alla concezione di stato, ma a un moderno nazionalismo europeo”[6]. Ora, con il definirsi di uno spazio “al di là” della distinzione destra/sinistra, nell’incontro tra “personalità creative” provenienti dall’uno e dall’altro campo, si procede alla costituzione di un nuovo “centro libero dalle ideologie”: “Oggi - asserisce Antie Vollmer su Der Spiegel nel 1993 - ci sarebbe seriamente bisogno degli intellettuali per predisporre un nuovo consenso sociale”[7]. Il gesto “ribelle” della trasgressione delle “vecchie appartenenze” prepara una nuova normatività[8].
La movenza critica che anima il testo, conducendo alla problematizzazione o alla rottura di nuovi luoghi comuni, è probabilmente ascrivibile al suo nascere da un bilancio di sconfitta delle sottoculture, in entrambi gli orientamenti : sovversione e autonomia[9]. Nella prima, dall'inizio degli anni Novanta “tutti gli elementi caratteristici – confusione, ambiguità, ricerca dell'evento – rimanevano, ma ormai era impossibile trovare contenuti politici, cosicché la ‘strategia’ si trasformava in linea di massima in un vuoto pronto ad accogliere qualsiasi contenuto”[10], la seconda sembra destinata ad occupare la sacca prefigurata già dal 1979 da Peter Glotz (Spd), che Terkessidis così sintetizza: “Il patto è chiaro: se voi ci lasciate governare in pace, se non mettete più in discussione la questione del potere, noi vi lasciamo la cultura; se poi i ‘normali’ vi odiano, non è colpa nostra”[11].
Il collocare la riflessione “in buco”, il gesto di distanziamento critico dei processi di culturalizzazione dei movimenti di contestazione, presiede a un più generale spostamento di prospettiva, che conduce al nucleo “caldo” del libro: il confronto tra l’etnopluralismo della destra e il suo termine antitetico: il multiculturalismo. Interrogata nei suoi presupposti teorici, l’opposizione tra questi termini trova le proprie condizioni di possibilità in un processo di etnicizzazione della politica, che pretende di spiegare (e propone di affrontare) i problemi sociali in chiave etnica: la “differenza culturale” rinvia circolarmente a se stessa, è assunta come un “dato” non ulteriormente problematizzabile, assurge a paradigma interpretativo, diviene principio per formulare (diverse) tecniche di amministrazione dei processi di inclusione/esclusione.
Kulturkampf elabora l’esigenza di uscire da questo circolo, in direzione di quello che - con espressione bella e desueta - chiama materialismo.

Rudy M. Leonelli
in altreragioni, n. 6, 1997




[1] Avevo ricordato la rilevanza di quell'evento come segno di apertura di uno spazio critico nel mio primo articolo per questa rivista (cfr. Gli eruditi delle battaglie. Note su Foucault e Marx, “Altreragioni”, n. 2, 1993, p. 147 n.).
[2] Mark Terkessidis, Kulturkampf. L’Occidente e la Nuova Destra, p. 14.
[3] Ibid., p. 15.
[4] Ibid., p. 29.
[5] Ibid., p. 14.
[6] Ibid, p. 27.
[7] Ibid., p. 171. Oltre alle diverse declinazioni della “fine” della dicotomia destra/sinistra esaminate da Terkessidis, potrebbe essere interessante considerare la letteratura apologetica delle nuove tecnologie dell'informazione. È al riguardo eloquente un brano tratto dalla rivista statunitense Wired: “La sinistra è morta. La destra è morta. Senza che ci sia stato bisogno di proclamarlo ufficialmente , siamo ormai nel pieno di un'economia globale di reti” (Mark Stahlman, “Wired”, ottobre 1994, cit. in Herbert I. Schiller,I profeti dell’era digitale. L'ideologia della rivista “Wired”, “Le Monde Diplomatique/il manifesto”, novembre 1996, p. 27).
[8] Ho cercato di delineare questo problema ne Le sventure della virtù. Per la critica del post-antirazzismo, "Altreragioni", n. 4, 1995.
[9] Cfr. Kulturkampf, pp. 11-12.
[10] Ibid., 12.
[11] Ibid., p. 68. Come si vede, non dovrebbe essere arduo trovare corrispondenze nella situazione italiana.

mercoledì 21 marzo 2007

Il Grande Dialogo


Dopo la battuta in cerchio gli accerchianti invitano gli accerchiati a un colloquio. Si cerca il Nuovo Inizio. Il Grande Dialogo. Invece delle pubbliche bastonate il tè dietro porte imbottite. Lo scopo dell'esercitazione è dichiarato insieme all'invito: le pecore bianche devono essere separate da quelle nere, si deve spezzare la solidarietà

Hans Magnus Enzensberger,
Palaver



Ho recepito la scelta di organizzare a Bologna un convegno legato al ‘77 come un'implicita sollecitazione ad affrontare problemi che hanno un'importanza strategica in questa città, ma non soltanto per questa città. Per questo vorrei partire da questioni emerse sul piano locale, cercando poi di intravedere almeno il profilo di problematiche più estese. L’attenzione alla dimensione microfisica dei poteri e degli affrontamenti non va confusa con un angusto “localismo”, ma può fornire un punto di attacco per una riflessione in termini di strategie.
La rilevanza di Bologna nel ‘77 è nota, ma questa stessa notorietà comporta semplificazioni e scarsa problematizzazione: la “storia” diventa fruibile e si banalizza... Come contrastare questi reiterati tentativi di normalizzazione? Credo che non si tratti di istituirsi come memoria, testimoniare una “verità” del movimento che andrebbe restaurata, ripristinata nella sua originaria autenticità: il rischio della sterilità o della produzione di miraggi è fin troppo evidente. E’ forse più interessante rovesciare la prospettiva e chiedersi che cosa c’è in gioco nelle operazioni di riscrittura, direttamente sollecitate o benevolmente accolte da quelle stesse istituzioni che avevano estirpato e cancellato il movimento in quegli anni.
La peculiarità della situazione bolognese introduce un punto di vista asimmetrico sulle questioni discusse oggi, una sorta di eccezione che può forse aiutare a riformulare i problemi, o almeno a mostrarne aspetti meno evidenti.

sabato 27 gennaio 2007

Un revisionismo normale

Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo "come propriamente è stato". Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell'istante di un pericolo.
(Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia)

Premessa
 Il titolo di un libro di Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, non costituisce soltanto un'adeguata designazione dei negazionisti, araldi della "dottrina secondo la quale il genocidio praticato dalla Germania nazista nei confronti degli ebrei e degli zingari non è esistito, ma appartiene al mito, alla diceria, alla truffa"[1][1].   
Dice anche che la memoria può morire, e non di morte naturale.
Affrontare la questione della memoria a partire dalla sua estremità negativa, la cancellazione, può far emergere la sua materialità. Pensata a fronte della sua possibile sparizione, la memoria si rivela non come una sedimentazione continua, ma come una formazione storica; non una "facoltà" ma un'attività, non un patrimonio pacificamente ricevuto e posseduto ma un compito, un'arma e una posta in gioco.

1. Strategie
Nel composito schieramento revisionista, il negazionismo sembra occupare, a prima vista, una posizione marginale[2].
Focalizzando l'attenzione sul punto cruciale dello sterminio perpetrato dai nazionalsocialisti (e collaboratori) si distinguono due principali correnti: da un lato un revisionismo relativizzatore, accademicamente e mediaticamente presentabile e sovente - ma non senza contestazioni - accettato che, senza ricusare la realtà storica del genocidio, tende a eluderne o eliderne la specificità; dall'altro, il sedicente "revisionismo olocaustico", il negazionismo, più o meno emarginato, che fonda il suo carsico attivismo sull'obiettivo di "confutare" questa realtà.
Assunta in modo rigido - come disgiunzione assoluta di due sfere indipendenti, non comunicanti, reciprocamente estranee - questa distinzione diviene fuorviante, precludendo l'accesso alla dimensione strategica di questi fenomeni.
In un intervento sulla rivista fondata da Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir - «Les Temps Modernes», che mantiene alta e viva l'attenzione critica su questi problemi - Robert Redeker respinge
l'ingannevole distinzione tra revisionismo e negazionismo, essa non ha nessuna pertinenza, il fine perseguito in entrambi i casi si rivela lo stesso, andando il negazionismo direttamente allo scopo, mentre il revisionismo prende per raggiungerlo la via traversa e più paziente della minimizzazione. Il revisionismo in senso stretto, relativizzando ciò che dopo di lui il negazionismo verrà a cancellare, appare come una propedeutica del negazionismo. C'è coalescenza del revisionismo e del negazionismo.[3]
Dal fatto che il negazionismo non sia così isolato come potrebbe sembrare, o piacere, derivano alcune conseguenze. La prima è che la strategia del silenzio, l'idea che sia sufficiente e utile non parlarne, evitando di fornirgli una senz'altro immeritata pubblicità, è ormai da tempo, nella migliore delle ipotesi, una compensazione illusoria. La seconda è che l'analisi dei contesti e delle sinergie che presiedono al suo funzionamento e alla sua riproduzione diviene indispensabile. E urgente.
Natacha Michel sottolinea che il negazionismo non potrebbe incedere senza l'autorizzazione fornitagli da una varietà di revisionismi circostanti:

quello di Furet a proposito della rivoluzione francese, quello che procede alla criminalizzazione delle rivoluzioni del secolo, quello che destituisce il militante come soggetto a profitto della marionetta, quello che abbassa il repubblicanesimo anti-vichyista, ecc. La sola questione che pone il negazionismo è di sapere come è compatibile, rovinato ogni dispositivo di pensiero, e in una volontà di rifare la storia, con le categorie ambienti [4].[4]

In questa prospettiva, alcuni fenomeni altrimenti relegabili nella dimensione del bizzarro e dell'irrilevante divengono comprensibili e sensati. Per esempio il fatto che Ernst Nolte, qualche negazionista italiano ed altri inizino a convenire segnala il superamento di una soglia: dal concatenamento immanente dei discorsi "revisionisti relativizzatori" e negazionisti, sottolineato da Redeker, al coinvolgimento dei soggetti di discorso. [5][5].
Alla cerniera tra i fatti e la riflessione storico-politica si è situata una dimensione decisiva della filosofia contemporanea. È nel riferimento ai fatti, alla loro infima materialità, che Foucault individua il differenziale tra una critica improntata all'armonia prestabilita con le istituzioni e un'altra, più interessante e certo meno confortevole. La critica attiva dei revisionismi, che comporta la necessità di "abbassarsi" a registrare, tentare di decriptare e cartografare eventi non sempre grandi per risonanza e dimensioni , seguire i reticoli mobili e spesso sottili dei fatti (discorsivi e non), è destinata a urtare robusti e molteplici ostacoli. In una parola è scomoda. Essa porta così in rilievo l'esistenza di qualcosa come un interdetto ufficioso ma efficace, che getta una luce diversa sulle istituzioni, sul loro funzionamento e sui loro confini.
Un evento minore, incorporeo come un "convegno che avrebbe dovuto tenersi..."[6] [6] e al tempo stesso materiale come un testo che raccoglie relazioni non pronunciate, presuppone delle condizioni e comporta delle conseguenze.
Tra queste, la più importante è la rottura formale della separazione che sosteneva la legittimazione culturale del revisionismo relativizzatore di Nolte e il suo complemento: il posticcio alone "sovversivo" di cui si ammantava il negazionismo. Al definitivo eclissarsi di questa dicotomia, occorre ricordare che la sua presunta evidenza non è stata da tutti condivisa. Nel 1987, in pieno Historikerstreit[7],[7] Vidal-Naquet osservava con folgorante tempestività: "È grave vedere uno storico come Nolte utilizzare argomenti dell'arsenale revisionista. Come Rassinier, Faurisson o Kern" [8][8] La congiunzione tra i due filoni non è altro che il tardivo riconoscimento di una parentela più lontana: l'attenuazione del genocidio e la sua negazione occupano spazi diversi ma comunicanti e parzialmente sovrapposti.
A fronte della buona coscienza esterrefatta perché un professore emerito dell'Università di Berlino tesse l'elogio della scientificità dei metodi negazionisti, le Tesi di Benjamin balenano come un ricordo nell'istante di un pericolo:

lo stupore perché le cose che viviamo sono ancora possibili (...) è tutt'altro che filosofico. Non è l'inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l'idea di storia da cui proviene non sta più in piedi [9][9].

Uno rapido sguardo critico ad alcune delle motivazioni fornite da Nolte a sostegno della legittimazione dei negazionisti, esposte in un testo del 1993, Streitpunkte [10][10], permette di evidenziare alcune poste in  gioco decisive di questa operazione:

Nolte riduce polemicamente il rifiuto del dialogo coi negazionisti a una sola motivazione: il legame del negazionismo col "vecchio nazionalsocialismo" e col "neonazismo" (le eufemistiche virgolette su questi due termini sono dello stesso Nolte). Attraverso questa riduzione egli rimuove il nucleo della questione: un dibattito coi negazionisti presuppone che lo sterminio perpetrato per mezzo delle camere a gas venga fatto regredire dal piano della realtà storica a quello delle "opinioni" e delle "ipotesi". È l'inaccettabilità di questo presupposto a motivare l'inaccettabilità del dialogo, e proprio su questo punto Nolte è particolarmente minimizzatore.
L'immagine della collocazione politico-ideologica dei negazionisti fornita da Nolte non è altro che una sommaria riproduzione dell'immagine di sé fornita dalla propaganda negazionista. Non c'è, a questo livello, alcun distacco critico: nulla è detto dei rapporti tra "l'uomo di sinistra" Rassinier e i nazisti e fascisti europei, così come la connotazione dell'editrice negazionista Vieille Taupe è dedotta semplicisticamente dalla sua etichetta: "la vecchia talpa è la rivoluzione". Nolte non dice nulla della tortuosa (ma documentabile e documantata) storia di questa impresa "rivoluzionaria" che è giunta a partecipare ai meeting del partito di Le Pen, né dei legami della stessa con i neonazisti francesi. Limitandosi a decretare il carattere "scientifico" del negazionismo, Nolte separa artificiosamente in esso la propaganda dalla scienza, mentre non fa che riprodurre la propaganda stessa.
Nolte pretende così, in quanto storico, di sancire la scientificità di una "scienza" (qui, di una "scienza" che ha per oggetto la storia) senza porre il problema della capacità di questa "scienza" di pensare la propria storia: su questo piano, accuratamente evitato, il negazionismo è particolarmente vulnerabile, non potendo rendere conto della propria genesi e costituzione in termini altri dall'idealità.[11]

In un paese normale.
In Italia, nel corso di questo decennio fin de siècle, il negazionismo si trova ad operare in una situazione radicalmente mutata.
Nel dopoguerra la letteratura negazionista è restata a lungo un genere minore a circolazione ridotta, relegato ai ristretti circuiti dell'estrema destra, che hanno realizzato le prime traduzioni italiane delle opere del paradossale capostipite: il pacifista Paul Rassinier .
Soltanto all'inizio degli anni Ottanta, sulla scia del "caso Faurisson"[12] [11]che offre una inedita notorietà spettacolare alle "tesi" negazioniste, iniziano a comparire in Italia i primi articoli ed opuscoli prodotti in frange minori dell'estrema sinistra ispirate al bordighismo, ad alcune correnti libertarie e/o al situazionismo, ma scarsamente rappresentative di queste tendenze. Si tratta di un fenomeno confidenziale, che non riesce a coinvolgere in modo significativo l'estrema sinistra italiana.
Negli anni Novanta il "dibattito" culturale europeo è rapidamente saturato dai revisionismi circostanti e dalle culture ambienti che hanno come effetto collaterale il disserramento del negazionismo. Di più, come ogni altro paese storicamente (cor)responsabile dell'impresa genocida, l'Italia trascina e cerca di risolvere e finalmente archiviare specifici problemi di identità nazionale. Come sottolinea Lutz Klinkhammer:

in Italia negli ultimi anni è stata fortemente auspicata una 'conciliazione nazionale', considerata un elemento fondamentale per una società 'postfascista'. Il 'superamento' del passato fascista da parte di una presunta società postfascista presuppone però l'offuscamento dei lati negativi di questo passato [12].[13]

La "grande esigenza di sottoporre determinate interpretazioni della storia nazionale a un processo di armonizzazione", che comporta operazioni di "abbellimento" del passato[14] [13] costituisce l'indispensabile articolazione sul piano storiografico del progetto di costituzione di un paese normale. Questo slogan, che il pubblico italiano ha conosciuto come parola d'ordine della sinistra di governo, ha però a sua volta una storia. La genealogia delle procedure di pacificazione della storia conduce a ridimensionare drasticamente la presunzione di originalità della cultura politica italiana. Mark Terkessidis sottolinea che, già nel 1980, Armin Mohler, precursore della Neue Rechte, sosteneva la necessità per i tedeschi di "tornare a essere una nazione normale come le altre: una nazione indivisa, non solo fisicamente vitale, ma anche abbastanza armonica interiormente"[15]. L'obiettivo di divenire una "nazione normale", che istituisce un rapporto "armonico" col proprio passato, è da tempo una posta in gioco decisiva del revisionismo storico tedesco:

La storia non deve più essere oggetto di scontro, deve essere integrata come un elemento 'normale' all'interno della nazione e deve costituire una stabile "identità nazionale" [15].[16]

La sutura della memoria, chiudere le lacerazioni aperte e latenti nella storia moderna, e quelle più specifiche della "storia patria", è ormai divenuto, anche in Italia, un programma statale. La trasmissione del sapere - della storia, certo, ma non solo - è investita da questa operazione. Ma se le relazioni di potere e sapere non passano sopra, ma attraverso di noi, ad ogni snodo della trasmissione del sapere in cui (emittenti e/o riceventi) siamo collocati, esistono resistenze possibili.
Annunciata sul piano metapolico, la "trasgressione delle vecchie appartenenze", (destra/sinistra, fascismo/antifascismo, etc.), è rapidamente e prevedibilmente divenuta normativa e il negazionismo, che in questo campo ha svolto, fin dai tempi di Rassinier, un ruolo pionieristico, si trova nella paradossale posizione del creditore che può reclamare il legittimo pagamento di un debito.
Nel 1996 le cerimonie ufficiali dello Stato italiano giungono ad accomunare retrospettivamente coloro che - in onestà d'intenti - hanno sostenuto la macchina dello sterminio o l'hanno combattuta [16].[16].[ Lo stesso anno, in tutt'altra dimensione, il moto sinistrorso, che disloca le traduzioni italiane di Rassinier dalle storiche editrici di estrema destra alla nuova edizione "di sinistra", si compie giustificandosi con analogo argomento: l'ex deportato, legandosi a (vecchi e neo) fascisti e nazisti europei, non ha fatto altro che collaborare con onest'uomini di estrema destra (o, con eufemismo supplementare, reputati tali...[17.[16]).[18] Generalmente inosservata, la formazione di un luogo comune a due spazi distanti e distinti, il discorso ufficiale e al suo preteso "altro", è indice di una nuova egemonia che non è, semplicisticamente, il risultato della decisione sovrana delle "classi dominanti", ma l'effetto di una molteplicità di trasformazioni disperse che hanno reso normale il revisionismo.
Il negazionismo non si sostiene sulla "qualità" delle proprie tecniche di "confutazione" delle prove del genocidio, ma su quelle che poteremmo chiamare, con Wittgenstein, "somiglianze di famiglia":

Non posso caratterizzare queste somiglianze meglio che con l'espressione "somiglianze di famiglia"; infatti queste somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono e s'incrociano nello stesso modo: corporatura, tratti del volto, modo di camminate, temperamento, ecc. ecc. E dirò: i 'giochi' formano una famiglia [18].[19]
Il "gioco" negazionista non è identico a nessuno dei "giochi" revisionisti normalmente ammessi, ma condivide tratti, presupposti, gruppi di enunciati e segmenti di regole con ciascuno di essi. Probabilmente è qui la forza del moto che lo trasporta insensibilmente, ma inesorabilmente, dal regno dell'inaudito verso il mondo del già-sentito. Non è nella tecnica del discorso negazionista, ma nel vuoto di memoria che lo circonda, il "segreto" che rende possibile il prodigio di un iceberg rovesciato: la negazione in senso stretto è una punta sommersa, mentre la grande massa del corpus discorsivo è già fuori, nell'aria e nella luce del tempo.

Negazione, navigazione.
Il negazionismo naviga in rete. Diventa una nuova e imprevedibile forma di segreto pubblico.[16].[20].[19]
Il dosaggio di escursioni esplicite e forme di implicitazione ha, per questa impresa, carattere strutturale. Le iniziative editoriali che, oltre alle tradizionali collane di estrema destra, hanno visto sorgere un'editrice che affianca alla pubblicazione di testi di estrema sinistra una serie di opere negazioniste nate, letteralmente, a destra e a manca, sono circondate da una nebulosa di episodi "minori": dalla circolazione più o meno informale di testi anonimi o pseudonimi, a varie forme di "concessione", slittamento linguistico e concettuale, reperibili nei testi prodotti da diversi aggregati. Le forme allusive, fluide, intermittenti, costituiscono un indispensabile genere di accompagnamento. La moltitudine di episodi disparati è generalmente percepita come un ammasso di casi sconnessi: volta a volta si tratterebbe di un'eccezione irrilevante e priva di significato. A questa dislessia, si può opporre una prospettiva che veda il caso particolare come indice della tendenza, così "come il cader di una goccia rappresenta la direzione della pioggia"[23].[16].[21]
Lo scandalo non è una risposta adeguata, ma un effetto previsto, calcolato, reiterato. Come se la compiuta "violazione dei tabù" potesse ripetersi indefinitamente, monotona, petulante, trascinata in un attivismo inerte dal moto della propria inflazione: utopia realizzata del perpetuo lancio pubblicitario dello stesso prodotto.
Che il negazionismo, apparentemente così arcaico, navighi nel più avanzato universo telematico è un ultimo, estremo paradosso non solo di questa corrente, ma del nostro tempo.
Il problema non concerne semplicemente la possibilità di aggirare i divieti legali[21],[22] in Italia inesistenti, ma più radicalmente la logica del mezzo e la sua ideologia: la fruibilità di oggetti avulsi dalla loro storia, la circolazione di una massa di informazioni tutte egualmente raggiungibili e quindi difficilmente selezionabili, l'apologia della deregulation comunicativa: la possibilità di dire (e all'occorrenza negare) tutto e il contrario di tutto, di cui non si sospetta la stupefacente parentela con l'assoluta impossibilità di dire qualcosa, la "libera" fluttuazione e il collage arbitrario di enunciati privi di contesto. Emmanuel Chavaneau ha osservato come il negazionismo, adattandosi con facilità all'aria del tempo, possa partecipare a giusto titolo alla "hit parade della felicità in serie" accessibile a domicilio per mezzo di Internet, nella multiforme offerta di certezze a buon mercato [22].[23]
Un problema centrale è costituito dall'articolazione dei più banalizzati motivi anti-identitari con l'interazione telematica: la trionfale apologia di una "democrazia virtuale" basata sullo scambio di messaggi tra individui e gruppi che "indossano" identità fittizie e indefinitamente cangianti[23].[24] Come ha recentemente dimostrato l'eccellente libro di Nadine Fresco sul capostipite del negazionismo, già in Rassinier la "revisione" della storia è doppiata da una costante "autorevisione": Rassinier ha ininterrottamente modificato e falsificato la propria biografia politica, costruendo un personaggio fittizio ai fini di legittimare la falsificazione negazionista della storia[24].[25] Gli epigoni hanno non soltanto riprodotto questo procedimendo, tramandando in modo acritco la (auto)biografia fittizia del Maestro, ma ne hanno rilanciato i metodi, e non a caso hanno trovato nel carnevale virtuale delle identità fittizie un ambiente particolarmente adatto alla propagazione.
C'è materia sufficiente per leggere con rinnovata attenzione le Tesi di filosofia della storia: "Nulla ha corrotto la classe operaia tedesca come l'illusione di nuotare nella corrente. Lo sviluppo tecnico era la corrente in cui credeva di nuotare". È stata questa, secondo Benjamin, una delle cause dello sfacelo successivo.[25].
 [26]
Il dinamismo cosciente della storia

Il testo di Vladimir Jankélévitch appare al nuovo senso comune come il relitto di una bizzarra civiltà scomparsa:

Ma Auschwitz, ripetiamolo, non è argomento di discussione; Auschwitz esclude i dialoghi e le conversazioni letterarie; e la sola idea di confrontare il Pro e il Contro ha qui qualcosa di vergognoso e di derisorio; questo confronto è un'indecenza nei confronti dei suppliziati. Le "tavole rotonde", come si dice, sono fatte per i giochi ai quali si dedicano ogni estate i nostri brillanti conversatori durante le loro vacanze; ma i campi della morte sono incompatibili con questo genere di dibattiti e di cicalecci filosofici, Del resto il nazismo non è un'"opinione", e non dobbiamo prendere l'abitudine di discuterne con i suoi avvocati[27][26].

Quest'etica - che segnala l'esistenza di un limite all'indiscriminata proliferazione del "dialogo" - ci lascia responsabili della sua traduzione in un tempo che non è più quello della sua enunciazione. Nel 1974, Foucault, partecipando a una discussione critica della moda rétro, caratterizzata dal successo di film come Cognome e nome Lacombe Lucien, di Louis Malle,[28] aveva fatto alcune osservazioni importanti sulla memoria e sui conflitti che la investono:

È in atto un vero e proprio scontro. E qual è la posta in gioco? Ciò che si potrebbe chiamare grosso modo memoria popolare (...) La storia popolare era, fino ad un certo punto, più viva, più chiaramente formulata, ancora nel XIX secolo, in cui esisteva per esempio, tutta una tradizione di lotte che venivano riportate sia oralmente, sia con dei testi, delle canzoni, ecc. Dunque, una serie di meccanismi è stata messa in moto (la "letteratura popolare", la letteratura a buon mercato, ma anche l'insegnamento scolastico) per bloccare questo dinamismo della memoria popolare e si può dire che il successo dell'impresa sia stato relativamente grande (...) Ora, la letteratura a buon mercato non basta più. Ci sono dei mezzi molto più efficaci: la televisione e il cinema. E credo che fosse un modo di ricodificare la memoria popolare, che esiste, ma che non ha alcun mezzo per esprimersi. Allora, si mostra alla gente non quello che sono stati, ma quello che devono ricordare di essere stati. Poiché la memoria è comunque un grosso fattore di lotta (in effetti è proprio in una sorta di dinamismo cosciente della storia che le lotte si sviluppano) si tiene in pugno la memoria della gente, il suo dinamismo, e anche la sua esperienza, la conoscenza delle lotte precedenti. Bisogna non si sappia più cos'è la resistenza...[29][27].

Queste considerazioni, senza dubbio datate, si situano in un punto critico che partecipa di un processo più ampio e, a distanza di un quarto di secolo, hanno soltanto valore indicativo per una possibile analisi critica della cultura attualmente egemone. Ma assegnano alla memoria una valenza storica non contingente: la genealogia non è l'opposizione della storia alla memoria , ma l'accoppiamento delle conoscenze erudite e della memorie "locali" (estranee al sapere comune e al buon senso) delle lotte e dei luoghi "speciali" come il carcere, il manicomio ecc. La memoria non ha in questa prospettiva una funzione di pacificazione, ma di rottura: si insedia nella distanza e nel conflitto, riattivandoli.[30][28].
Nel caso estremo dei campi di sterminio non sorprende che il buon senso, per il quale il genocidio è "assurdo" e "incredibile", sia uno dei ritornelli argomentativi preferiti dalla pseudo (Nolte permettendo)-scienza negazionista nella sua guerra di annientamento della memoria dei deportati e della memoria storica.[31][31].
Dalla Scuola di Francoforte a Foucault e oltre, non senza considerevoli spostamenti e radicali riformulazioni, l'attività filosofica è stata sfigurata dallo sterminio. Il tracciato di "una filosofia presente, inquieta, mobile lungo tutta la sua linea di contatto con la non-filosofia",[32] l'ha incontrato come un luogo inevitabile, che le ha imposto un'inquietudine permanente.
In un tempo in cui "il razzismo non è in regressione, ma in progresso",[33][31] emerge da La volontà di sapere, come da una sorta di pagine postume pubblicate in vita, una linea di problematizzazione che conduce al modo in cui il mito nazista del sangue si è trasformato "nel più grande massacro di cui gli uomini possano, a tutt'oggi, avere memoria"[32].[34]  Da oltre mezzo secolo, la riflessione sulla storicità della ragione ha come condizione di esistenza e come problema irrinunciabile la memoria di questa lacerazione.
In questo spazio, i "problemi" che il negazionismo pretende di porre sono irricevibili. Esso può costituire un problema come oggetto, eventualmente come minaccia, non come interlocutore. Nessuna problematizzazione degna di questo nome può prendere sul serio la caricaturale deduzione "marxista" secondo la quale i campi di sterminio non possono essere esistiti in quanto non compatibili con le esigenze di sfruttamento capitalistico della forza-lavoro. Così come l'interpretazione del nazismo come irruzione metafisica del Male - che costituisce il bersaglio polemico (e il modello rovesciato) del negazionismo - ha molto a che vedere con il l'enorme lavoro storico e filosofico contemporaneo che non configura il nazismo come l'assolutamente Altro della nostra normalità. Strategicamente offensivo e tatticamente trasgressivo, il negazionismo è da questo punto di vista ideologicamente sedativo: la sua tendenza a eliminare o rendere evanescente la storia mira a ristabilire una pace terrificante laddove l'analisi delle forme storiche della razionalità moderna nei loro complessi rapporti con il razzismo e le sue trasformazioni hanno introdotto un'inesauribile tensione critica e autocritica nel nostro pensiero e nelle nostre pratiche.
Mantenere viva questa tensione non è mai semplicemente, questione di difesa della memoria, ma di una sua riattivazione. Non possiamo affermare  la consapevolezza critica del  passato senza turbare il presente.

rudy m. leonelli,
Un revisionsmo normale”
in Luca Verri (a c. d.),
Santarcangelo di Romagna,
Fara editore, 1999







NOTE:


[1]1. Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1993 (ed. or. 1987), p. 77.
[2]2. Per un primo e articolato orientamento bibliografico sulle differenti tendenze revisioniste e la relativa letteratura critica rinvio alla bibliografia essenziale curata da Cesare Bermani in appendice a C. Bermani, S. Corvisieri, C. Del Bello, S. Portelli, Guerra civile e stato. Per una revisione da sinistra, Roma, Odradek, 1998, pp. 82-100.
[3]3. R. Redeker, "La toile d'araignée du révisionnisme", «Les Temps Modernes», (1996) 589, p. 1.
[4]4. "Le négationnisme: histoire ou politique?", in N. Michel (a c. d.), S. Lindeperg, M. Chaillou, D. Daeninckx, P. Lartigue, J. C. Milner, S. Lazarius, F. Dominique, Ph. Beck, F. Regnault, N. Fresco, J.-P. Faye, M. Deguy, A. Badiou, Paroles à la bouche du présent,        Marseille, Al Dante, 1997, p. 10.
[5]5. Mi riferisco a F. Abbà, R. Gobbi, E. Nolte, F. Berardi (Bifo), F. Coppellotti, C, Saletta, Revisionismo e revisionismi, Genova, Graphos, 1996; presentato dall'editrice negazionista quale raccolta delle "relazioni di un convegno che si sarebbe dovuto svolgere a Trieste nei giorni 8 e 9 marzo 1996".
[6]6. Vedi nota precedente.
[7]7. I più importanti documenti della "disputa tra gli storici" (Historikerstreit) intorno al passato nazionalsocialista che, nel 1986-87, ha visto la contrapposizione all'offensiva da parte di storici revisionisti come Nolte, A. Hillgruber, K. Hildebrand, M. Srtürmer    da parte di J. Habermas e storici come M. Broszat e W. Mommsen, sono raccolti in traduzione italiana in G. E. Rusconi (a cura di), Germania: un passato che non passa. I crimini nazisti e l'identità tedesca, Torino, Einaudi, 1987. Per un resoconto critico è di particolare interesse A.-H. Wehler, Le mani sulla storia. Germania: riscrivere il passato?, trad. it. Firenze, Ponte alle Grazie, 1989.
[8]8. P. Vidal-Naquet,Gli assassini della memoria, cit., p. 122.
[9]9. W. Benjamin"Tesi di filosofia della storia", tr. it. in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1962 (ed or. 1955), p. 79.
[10]10. E. Nolte, Controversie. Nazionalsocialismo, bolscevismo, questione ebraica nella storia del Novecento, tr. it. parziale, Milano, Il Corbaccio, 1999.
[12]11. Per una cronologia del cosiddetto "affaire Faurisson", che ha portato alla ribalta l'ideologo negazionista a partire dalla pubblicazione del suo testo Le problème des chambres à gaz' ou 'La rumeur d'Auschwitz'" su «Le Monde» del 29.12 1978, p. 8
 1978, p. 8, vedi V. Pisanty, L'irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo, Milano, Bompiani, 1998, pp. 15-17.
[13]13. L. Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Roma, Donzelli, 1997, p. VII.
[14]14. Ivi, pp. VII-VIII.
[15]15. A. Mohler, Vergangenheitbewältigung, Krefeld, 1980, p. 88 ss., cit. in M. Terkessidis, Kuturkampf. L'Occidente e la Nuova Destra, tr. it., Milano, Marco  Tropea editore, 1996, p.149.
[16]16. M. Terkessidis, op. cit., p. 156.
[17]17. Cfr. C. Bermani, Il nemico interno. Guerra civile e lotta di classe in Italia (1943-1976), Roma, Odradek, 1997, pp. 74-80.
[18]18. Cfr. il mio "La fabbrica della negazione", art. cit.
[19]19. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, tr. it., Torino, Einaudi, 1974 (ed. or. 1953), § 67, p. 47.
[20]20. In un caso liminare ma sintomatico, all'inizio degli anni Novanta la propaganda negazionista ha rinnovato in ambito telematico la vecchia tattica degli pseudonimi, creando personaggi fittizi, in seguito dissimulati e qua e là riaffioranti tra le parodistiche notti e nebbie del no name. Cfr. R. Leonelli, L. Muscatello, V. Perilli, L. Tomasetta, "Negazionismo vituale: prove tecniche di trasmissione", altreragioni, (1998) 7, pp. 175-181.
[21]21. I. Nievo, Le confessioni d'un italiano, Milano, Mondadori, 1981, pp. 4-5.
[22]22. Questo aspetto importante, ma a mio avviso non esaustivo, è l'unico evidenziato nel breve paragrafo dedicato a "La propaganda su Internet" del libro di Valentina Pisanty, L'irritante questione delle camere a gas, cit., p. 23: "Il canale informatico si rivela un'ottima soluzione contro la censura che, in alcuni paesi europei, colpisce gli scritti dei negazionisti. Come si sa, infatti, lo spazio informatico è aperto a tutti e, anche se si decidesse di rifiutare l'accesso alla rete a un sito ritenuto ideologicamente pernicioso, esistono molti modi per aggirare il divieto".
[23]23. "L'illusion d'une vie sans histoire", in A. Bihr, G. Caldiron, E. Chavaneau, D. Daeninckx, G. Fontenis, V. Igounet, T. Maricourt, R. Martin, P, Piras, C. Terras, Ph. Videlier, Négationnistes: les chiffoniers de l'histroire, Villeurbanne - Paris, Golias -Syllepse, 1997, p. 210.
[24]24. Per una critica degli effetti di questa pratica e della sua ideologia nell'ambito della comunicazione politica vedi Thomás Maldonado, Critica della ragione informatica, Milano, Feltrinelli, 1998. Per una critica dei profeti dell'era digitale vedi anche F. Graziani, ""Virtuale e reale", «Altreragioni», (1998) 7, pp. 157-161.
[25] 25. N. Fresco, Fabrication d'un antisémite, Paris, Seuil, 1999.
[26] 26. W. Benjamin, "Tesi di filosofia della storia", cit., p.81.
[27] 27. V. Jankélévitch, Perdonare?, Firenze, La Giuntina, 1987 (ed. or. 1971), pp. 25-26.
[29] 28. "Anti-rétro Conversazione con Michel Foucault", trad. it., AAVV. Passato ridotto, a cura di G. Gori, Firenze, La casa Usher, 1982, p. 19.
[30] 29. Cfr. M. Foucault, "Corso del 7 gennaio 1976", in "Bisogna difendere la società", Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 11-25.
[31] 30. Non avendo interesse a replicare agli argomenti "tecnici" dei negazionisti, risparmio esempi che chiunque sia in grado di sopportarne la lettura può facilmente rinvenire nella prosa "scientifica" di questi esperti.
[32]31.  M. Foucault, L'ordine del discorso, tr. it., Milano, Feltrinelli, 1972, p. 57.
[33]32. E. Balibar, "Prefazione" a E. Balibar - I. Wallerstein, Razza nazione classe. Le identità ambigue, trad. it., Roma, Edizioni associate, 1990, p. 20.
[3433. M. Foucault, La volontà di sapere, tr. it., Milano, Feltrinelli, 1978, p. 133.