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venerdì 11 novembre 2011

Sandro Mezzadra, sul rapporto Foucault - Marx [da: Materiali foucaultiani]

A proposito del problema cruciale del rapporto tra Foucault e Marx - per noi di importanza "stategica" - riproduciamo un brano del contributo di Sandro Mezzadra, tratto dal Forum "Michel Foucault e le resistenze" curato da Daniele Lorenzini per Materiali foucaultiani.

*     *     *

« un ...  rapporto che sarebbe importante tornare a studiare è quello tra Foucault e Karl Marx: un rapporto che credo sia interessante interrogare anche dal punto di vista della categoria di “biopolitica”.
In effetti, mi ha colpito molto rileggere, di recente, la conferenza di Bahia su Les mailles du pouvoir, nella quale Foucault fa riferimento al primo (e non al secondo, come dice!) libro del Capitale [*]: al processo di disciplinamento del lavoro all’interno della cooperazione di fabbrica, dove agisce un potere, anzi una serie di poteri, che sono chiaramente diversi dal potere politico, e che Marx definisce attraverso una categoria piuttosto rilevante, quella di “Kommando” (un termine inusuale, di applicazione esclusivamente militare). Mi pare valga la pena lavorare su questa categoria di Kommando, in Marx, che sarei portato a leggere proprio dal punto di vista (indicato da Foucault) dell’eterogeneità dei dispositivi e dei modi di potere come elemento costitutivo della storia moderna del potere – una storia che non è descrivibile come una transizione lineare dalla sovranità alla disciplina, e poi dalla disciplina al controllo, ma che (come ci mostrano molti degli studiosi che hanno provato ad applicare le categorie foucaultiane ad ambiti coloniali [**]) è invece caratterizzata dalla sovrapposizione e dall’articolazione tra diversi regimi, modalità, dispositivi, tecnologie di potere. E il riferimento di Foucault a Marx, in quella conferenza, è così rilevante perché è anche una delle prime circostanze in cui Foucault usa il termine “biopolitica”: a mio avviso, allora, sarebbe interessante interrogare, attraverso e oltre Foucault, il rapporto tra quello che il filosofo francese chiama “disciplina” (e Marx “Kommando”: credo infatti che le due categorie vadano contaminate, perché l’una ci mostra i limiti dell’altra) e la biopolitica. Perché, in quel testo, Foucault definisce la biopolitica come una politica che si applica, innanzitutto, al di fuori del luogo eminente di applicazione della disciplina (la fabbrica), e inoltre su una dimensione non individuale (la popolazione).
Quello su cui sto un po’ ragionando è la possibilità di leggere questo rapporto dal punto di vista dell’analisi marxiana della forza lavoro, che ci consegna precisamente il problema del rapporto tra dimensione individuale e dimensione collettiva, dimensione singolare e dimensione comune: come si governa la dimensione collettiva, la dimensione comune della forza lavoro, soprattutto quando il lavoro esce dalle mura della fabbrica? La biopolitica, a un certo punto, deve essere sembrata a Foucault un concetto che consentiva di affrontare (anche) questo problema. »
______
NOTE:
[*] Cfr. M. Foucault, Les mailles du pouvoir, in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, pp. 1001-1020. L’“equivoco” su cui si basa il riferimento al secondo libro del Capitale nel testo della conferenza è ben chiarito da R.M. Leonelli, L’arma del sapere. Storia e potere tra Foucault e Marx, in Id. (a cura di), Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, Bulzoni, Roma 2010, pp. 113-142 (in specie pp. 124-127).

[**]
Cfr. ad esempio A.L. Stoler, Race and the Education of Desire: Foucault’s History of Sexuality and the Colonial Order of Things, Duke University Press, Durham–London 1995.

lunedì 10 ottobre 2011

G. Carotenuto su Steve Jobs & Apple: Oltre lo schermo del marketing funerario


Gennaro Carotenuto
Cinque cose fuori dai denti su Steve Jobs e la Apple

I lutti non sono il momento adatto per le puntigliosità ma per la celebrazione del caro estinto. Tuttavia la morte di Jobs si è trasformata nell’ennesimo evento globale. Così il segno encomiastico rischia di impedire una valutazione equanime, sul personaggio, sull’impresa a maggior capitalizzazione al mondo e su un’epopea dove non tutto luccica. Siamo di fronte ad un’operazione di marketing funerario sulla quale è bene riflettere brevemente.

1) Le invenzioni di Steve Jobs, spesso un passo avanti a tutti e a volte dei veri capolavori soprattutto dal punto di vista estetico, sono sempre stati dei prodotti di fascia alta per consumatori in grado di spendere (o svenarsi). Al dunque quel costo di un 20% in più rispetto ad un Sony Vaio o 30% in più rispetto ad un Toshiba Satellite, il surplus che ti garantisce lo status symbol per fare quasi sempre le stesse cose, te lo devi poter permettere.


2) I prodotti simbolo degli ultimi dieci anni, ipod, iphone, ipad, sono stati presentati come una rivoluzione universale. Nonostante le centinaia di milioni di pezzi venduti (e quindi un indiscutibile successo di marketing) la vera innovazione, quella che cambia davvero il mondo, non è quella per chi se la può permettere ma quella per tutti. Tra il notebook da 35$ annunciato dal governo indiano (il prossimo Steve Jobs verrà da lì) e il più fico degli ipad c’è la stessa relazione che c’è tra il vaccino anti-polio e un brevetto contro la caduta dei capelli.

martedì 15 febbraio 2011

La cultura (Carmelo Bene)

  la cultura, nel suo etimo - l'ha rilevato ... Jacques Derrida -  equivale a colo ..., cioè del verbo colo: colonizzare. Cioè, cultura è tutto quanto è colonizzazione. Per non parlare poi della depravazione culturale, che è l'informazione...”



sabato 15 gennaio 2011

O cara moglie

Ivan Della Mea

O cara Moglie

[1966]

 
O cara moglie, stasera ti prego,
dì a mio figlio che vada a dormire,
perché le cose che io ho da dire
non sono cose che deve sentir.

Proprio stamane là  sul lavoro,
con il sorriso del caposezione,
mi è arrivata la liquidazion,
m'han licenziato senza pietà.

E la ragione è perché ho scioperato
per la difesa dei nostri diritti,
per la difesa del mio sindacato,
del mio lavoro, della libertà .

Quando la lotta è di tutti per tutti
il tuo padrone, vedrai, cederà ;
se invece vince è perché i crumiri
gli dan la forza che lui non ha.

Questo si è visto davanti ai cancelli:  
noi si chiamava i compagni alla lotta,
ecco: il padrone fa un cenno, una mossa,
e un dopo l'altro cominciano a entrar.

O cara moglie, dovevi vederli
venir avanti curvati e piegati;
e noi gridare: crumiri, venduti!
e loro dritti senza piegar.

Quei poveretti facevano pena
ma dietro loro, là sul portone,
rideva allegro il porco padrone:
l'ho maledetto senza pietà .

O cara moglie, prima ho sbagliato,
dì a mio figlio che venga a sentire,
ché ha da capire che cosa vuol dire
lottare per la libertà  
ché ha da capire che cosa vuol dire
lottare per la libertà.
____________
info: il Deposito

venerdì 14 gennaio 2011

Solidarietà con il popolo tunisino e algerino Contro il neo-colonialismo e la dittatura. Presidio: BO sabato 15 gennaio piazza Nettuno



In questi giorni il popolo tunisino e
algerino si stanno ribellando contro i propri regimi. In Tunisia, come in Algeria, ci si ribella contro l'aumento dei prezzi degli alimentari, la mancanza di case e la disoccupazione; una povertà che è il frutto dell'espropriazione e dello sfruttamento dell'imperialismo e delle borghesie asservite di quei paesi. Non a caso UE ed Usa sostengono questi regimi spacciandoli per "stati democratici".

Questo è evidenziato - oltre che dalla reazione stragista del regime - dalla preoccupazione con cui seguono lo sviluppo degli avvenimenti le potenze occidentali; in primo luogo l’Italia di cui Ben Alì è stato storicamente uno strumento e partner economico, a partire dalla sua presa del potere nel 1987 con un colpo di stato, organizzato in diretto collegamento con i servizi segreti italiani e l’allora Primo ministro Craxi morto latitante in Tunisia per sfuggire alle condanne emesse contro di lui dalla magistratura italiana.

Lo scontro, in Tunisia, ha ormai raggiunto drammatici livelli: circa 70 morti tra i manifestanti, arresti selezionati di comunisti e sindacalisti. Il criminale regime fantoccio del sanguinario Ben Alì sta mostrando il suo vero volto..

Dopo anni di emigrazione da quei paesi l’Europa chiude le porte della speranza per migliaia di giovani negandogli un futuro diverso. Affamati dai propri governi, schiavi nei paesi di immigrazione, il popolo ha deciso che è giunta l’ora di cambiare.

La lotta dei giovani, dei disoccupati, dei lavoratori maghrebini, le loro rivendicazioni sono le nostre, in Maghreb cosi come in Italia.

Presidio ore 15.00
Sabato 15 gennaio
Piazza Nettuno Bologna




Aderiscono:

Bologna Prende Casa
Coordinamento Migranti di Castel Maggiore
Giovani Comunisti
il popolo viola
Partito della Rifondazione Comunista
Rete dei Comunisti
Sinistra Critica
USB-Immigrati
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mercoledì 5 gennaio 2011

"Scomodare Marx": la Fiat, le tendenze storiche che muovono il capitalismo del nostro tempo

Gli operai, la Fiat e il Pd
Piero Bevilacqua
il manifesto, 4 gennaio 2011

Per comprendere meglio ciò che accade a Mirafiori e a Pomigliano è necessario affondare lo sguardo nelle tendenze storiche che muovono il capitalismo del nostro tempo. E bisogna scomodare Marx. Egli aveva colto come “legge fondamentale dell'accumulazione capitalistica” una tendenza già evidente ai suoi tempi e oggi conclamata : «Dato che la massa di lavoro vivo impiegato diminuisce costantemente in rapporto alla massa di lavoro oggettivato da essa messo in movimento (cioé ai mezzi di produzione...) anche la parte di questo lavoro vivo che non è pagato e si oggettiva nel plusvalore, dovrà essere in proporzione costantemente decrescente rispetto al valore del capitale complessivo impiegato”.
Nel corso del suo sviluppo, dunque, il capitalismo riduce costantemente la quota di lavoro per unità di prodotto, cercando di sfuggire alla caduta tendenziale del saggio di profitto e di sostenere la competizione. Quella competizione che oggi esso stesso si fa delocalizzando parte delle sue imprese nei paesi a bassi salari. Ma il capitale che espelle lavoro cerca di sfruttare più intensivamente quello che impiega, perché più ridotta diventa nel frattempo la quota da cui può estrarre plusvalore. André Gorz ha riassunto lapidariamente questa attuale contraddizione del capitale in cui i lavoratori vengono stritolati: «più la quantità di lavoro per una produzione data diminuisce, più il valore prodotto per lavoratore – la sua produttività – deve aumentare affinché la massa del profitto realizzabile non diminuisca. Si ha dunque questo apparente paradosso per cui più la produttività aumenta, più è necessario che aumenti ancora per evitare che il volume del profitto diminuisca.

La corsa alla produttività tende così ad accelerarsi, gli impiegati effettivi a essere ridotti, la pressione sul personale a inasprirsi, il livello e la massa dei salariati a diminuire». E in questa morsa oggi, letteralmente, si soffoca. Chi ha la pazienza di leggersi la grande inchiesta della Fiom del 2008, condotta su un questionario cui hanno risposto 100 mila lavoratrici e lavoratori, può farsene un'idea.


Siamo dunque giunti a una fase storica nella quale o noi costringiamo il capitalismo a cambiare il suo modello di accumulazione, o esso trascinerà l'intera società industriale nella barbarie. Non è un'espressione di maniera. Non è uno slogan. Chi oggi, anche in buona fede, difende il nuovo contratto imposto da Marchionne, crede che il cedimento sia accettabile come un compromesso temporaneo, dovuto alla crisi in atto e ai vincoli della competizione mondiale. E' un gravissimo errore. Questa idea fa parte di una campagna pubblicitaria che punta a far arretrare ulteriormente i rapporti di classe con un argomento puramente propagandistico: oggi occorre tirare la cinghia per poter ritornare allo splendore di prima. Ma prima il cielo era davvero così splendido? Che questa sia una menzogna è possibile illustrarlo con una semplice analisi storica, con fatti scientificamente verificabili ... 

 continua  >> 

mercoledì 29 dicembre 2010

A. Gramsci: Perché i comunisti chiamano mandarini i funzionari sindacali riformisti

Antonio Gramsci
da L'Ordine Nuovo
n. 173. , 23 giugno 1921
sotto la rubrica:
"La lotta su due fronti degli operai metallurgici torinesi"




Perché i comunisti chiamano mandarini i funzionari sindacali riformisti? Chi sono i mandarini?

Il mandarinato è una istituzione burocratico-militare cinese, che, su per giú, corrisponde alle prefetture italiane. I mandarini appartengono tutti a una casta particolare, sono indipendenti da ogni controllo popolare, e sono persuasi che il buono e misericordioso dio dei cinesi abbia creato apposta la Cina e il popolo cinese perché fosse dominato dai mandarini. Chi fa il bel tempo? I mandarini. Chi rende fertili i campi? I mandarini. Chi dà la fecondità al bestiame? I mandarini. Chi permette all'ingenuo popolo cinese di respirare e di vivere? I mandarini. È dunque naturale che il popolo cinese sia nulla e i mandarini siano tutto. E' naturale che solo i mandarini possano deliberare e comandare e il popolo cinese debba solo obbedire, senza recriminazioni, pagar le tasse senza fiatare, dare al mandarino tutto ciò che il mandarino domanda, senza preoccuparsi di sapere il perché e il percome.

Perché i comunisti chiamano mandarini i funzionari sindacali riformisti e non li chiamano con altri nomi, per es. bonzi come in Germania, o in altro modo che indichi solo il dominio assoluto, I'intrigo burocratico per mantenersi al potere ad ogni costo, la prepotenza e l'altezzosità? Per questa ragione: perché i funzionari sindacali riformisti disprezzano le masse, sono convinti che gli operai sono tante bestie, senza intelligenza, senza carattere, senza principi morali, bestie che si tengono tranquille e mansuete dando loro modo di comprare un litro di vino e di andare all'osteria a ingozzarsi di cibo. I funzionari riformisti disprezzano le masse operaie cosí come i mandarini, uomini di alta casta, gente uscita dalla corte imperiale cinese, disprezzano i loro sudditi, ignoranti, sporchi, superstiziosi ...


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giovedì 27 maggio 2010

Étienne Balibar - Europa: crisi o fine?


Étienne Balibar

Europa: crisi o fine?

In poche settimane, abbiamo assistito alla rivelazione da parte del primo ministro Papandreu del debito «reale» della Grecia, manipolato dal suo predecessore con l'aiuto di Goldmann Sachs; all'annuncio della possibilità che il suo Paese non ce la faccia a pagare i nuovi interessi sul debito, brutalmente moltiplicati; all'imposizione alla Grecia di un piano di austerità selvaggio, come contropartita del prestito europeo. Poi l'«abbassamento del voto» della Spagna e del Portogallo, la minaccia dell'implosione dell'euro, la creazione di un fondo di aiuto europeo di 750 miliardi (su richiesta, in particolare, degli Stati uniti). Infine, la decisione della Bce, in contraddizione con il suo statuto, di acquisire delle obbligazioni statali, e l'adozione di politiche di rigore in una decina di paesi. Ce n'est qu'un début, non è che l'inizio, poiché questi nuovi episodi di una crisi apertasi due anni fa con il crollo dei crediti immobiliari statunitensi ne prefigurano altri. Dimostrano che il rischio di crac persiste o addirittura aumenta, alimentato da una massa enorme di titoli «spazzatura», accumulata nel corso del decennio precedente grazie ai consumi a credito, alla trasformazione dei titoli dubbiosi e dei credit default swaps in prodotti finanziari, oggetto di speculazione a breve. Il tormentone dei crediti dubbiosi continua, e gli stati sono in affanno. La speculazione investe ormai le monete e il debito pubblico. L'euro rappresenta oggi l'anello debole di questa catena, e trascina l'Europa. Le conseguenze saranno devastanti.


I greci hanno ragione a rivoltarsi

Prima conseguenza della crisi e della «medicina» che le è stata applicata: la rabbia della popolazione greca. Hanno torto a rifiutare di assumersi le proprie responsabilità? Hanno ragione a denunciare una «punizione collettiva»? Indipendentemente dalle provocazioni criminali che l'hanno viziata, questa rabbia si giustifica per almeno tre motivi. L'imposizione dell'austerità è stata accompagnata da una stigmatizzazione delirante del popolo greco, considerato colpevole per la corruzione e le menzogne della sua classe politica, di cui (qui come altrove) approfittano ampiamente i più ricchi (in particolare sotto la forma dell'evasione fiscale). L'austerità, ancora una volta, è stata imposta rovesciando gli impegni elettorali del governo, al di fuori di qualsiasi dibattito democratico. Infine, abbiamo visto l'Europa applicare al suo interno non delle procedure di solidarietà, ma le regole leonine del Fondo monetario internazionale, che mirano a proteggere i crediti delle banche, mentre annunciano una prevedibile recessione senza fine per il paese. Gli economisti, su queste basi, concordano nel pronosticare un default certo del tesoro greco, un contagio della crisi e un'esplosione del tasso di disoccupazione, soprattutto se le stesse regole verranno applicate ad altri paesi virtualmente in fallimento stando alle «notazioni» del mercato, come reclamano ad alta voce i difensori dell'«ortodossia».


Una politica che occulta il suo volto

Nel «salvataggio» della moneta comune, di cui i greci sono stati le prime vittime (ma non saranno gli ultimi), le modalità che hanno prevalso finora (imposte, in particolare, dalla Germania) hanno messo in primo piano, come priorità, la generalizzazione del «rigore» di bilancio (inscritto nei trattati fondatori, ma nei fatti mai veramente applicato) e, ma solo in secondo luogo,la necessità di una «regolazione» - molto moderata - della speculazione e della libertà degli hedge funds (già evocata dopo la crisi dei subprimes e dei fallimenti bancari del 2008). Gli economisti neo-keynesiani aggiungono a queste esigenze dei passi avanti verso il «governo economico» europeo (in particolare l'unificazione delle politiche fiscali), o dei piani di investimento elaborati in comune: senza questo, affermano, l'esistenza stessa della moneta unica si rivelerà impossibile.

Si tratta, evidentemente, di proposte assolutamente politiche (e non tecniche). Sono alternative che i cittadini dovrebbero dibattere, poiché le conseguenze di queste scelte saranno irreversibili per la collettività. Ma il dibattito è falsato dalla dissimulazione di tre dati essenziali:

- la difesa di una moneta e la sua utilizzazione congiunturale (sostegno, svalutazione) comportano sia un assoggettamento delle politiche economiche e sociali all'onnipotenza dei mercati finanziari (con le loro «notazioni» che si auto-realizzano e i loro «verdetti» che non lasciano spazio a nessun appello), sia una crescita della capacità degli stati (e, più in generale, della potenza pubblica) a limitarne l'instabilità e a privilegiare gli interessi a lungo termine sui profitti speculativi. Una strada o un'altra, tertium non datur.

- con la scusa di una relativa armonizzazione delle istituzioni e di una garanzia di alcuni diritti fondamentali, la costruzione europea, nella sua forma attuale, con le forze che l'orientano, non ha smesso di favorire la divergenza delle economie nazionali, che in teoria avrebbe invece dovuto ravvicinare all'interno di una zona di prosperità condivisa: alcune economie ne dominano altre, sia in termini di parti di mercato, sia in termini di concentrazione bancaria, sia trasformandole in fornitori in subappalto. Gli interessi delle nazioni, se non quelli dei popoli, diventano contraddittori.

- il terzo pilastro di una politica keynesiana generatrice di fiducia, oltre la moneta e il fisco, cioè la politica sociale, la ricerca della piena occupazione e la crescita della domanda attraverso il consumo popolare, viene sistematicamente passato sotto silenzio, anche dai riformatori. E sicuramente viene fatto apposta.


Dove va la globalizzazione?

A cosa serve, d'altronde, riflettere e discutere sull'avvenire dell'Europa e della sua moneta (dalla quale alcuni grandi paesi si tengono alla larga: Gran Bretagna, Polonia, Svezia), se non si tiene conto delle tendenze reali della globalizzazione? Se la gestione politica della crisi finanziaria resta fuori portata per le popolazioni e i governi implicati, l'effetto sarà una formidabile accelerazione dei processi in corso. Di che cosa si tratta? In primo luogo, del passaggio da una forma di concorrenza a un'altra: dai capitalismi produttivi ai territori nazionali, dove ognuno, a colpi di esenzioni fiscali e di abbassamento del valore lavoro, tenta di attirare più capitali fluttuanti del vicino. E' più che evidente che l'avvenire politico, sociale e culturale dell'Europa in generale - e di ogni paese in particolare - dipende dal fatto di sapere se l'Europa costituisce un meccanismo di solidarietà e di difesa collettiva delle popolazioni contro il «rischio sistemico», oppure se, al contrario (con l'appoggio di alcuni stati, momentaneamente dominanti, e delle loro opinioni pubbliche) si tratta di un quadro giuridico per intensificare la concorrenza tra gli stati membri e tra i cittadini.

Inoltre, si tratta, più generalmente, del modo in cui la mondializzazione sta sconvolgendo la divisione del lavoro e la ripartizione dell'occupazione nel mondo: in questa ristrutturazione che sovverte nord e sud, ovest e est, una nuova crescita delle ineguaglianze e dell'esclusione in Europa, l'annientamento della classe media, la diminuzione dei lavori qualificati e delle attività produttive «non protette», dei diritti sociali, delle industrie culturali e dei servizi pubblici universali, sono per così dire già programmati. Le resistenze all'integrazione politica, con la scusa di difendere la sovranità nazionale, non possono che aggravare gli effetti nella maggior parte delle nazioni e precipitare il ritorno (già ben avviato) degli antagonismi etnici che l'Europa aveva preteso di oltrepassare definitivamente al suo interno. Ma inversamente è chiaro che non ci sarà un'integrazione europea «dall'alto», in virtù di un'ingiunzione burocratica, senza un progresso democratico in ogni paese e in tutto il continente.


Populismo: pericolo o risorsa?

E' la fine dell'Unione europea, di questa costruzione la cui storia era cominciata 50 anni fa sulla base di una vecchia utopia, ma le cui promesse non sarebbero state mantenute? Non bisogna aver paura di dirlo: sì, ineluttabilmente, a una più o meno breve scadenza e non senza qualche prevedibile violenta scossa, l'Europa è morta come progetto politico, a meno che non riesca a rifondarsi su nuove basi. Un'implosione abbandonerebbe ancora di più i popoli che la compongono oggi alle incertezze della globalizzazione, come sugheri in un torrente. Una rifondazione non garantisce nulla, ma dà qualche possibilità di esercitare una forza geopolitica, a proprio vantaggio e per quello degli altri, a condizione di osare affrontare le immense sfide di un federalismo di nuovo tipo. Si tratta della potenza pubblica comunitaria (distinta sia dallo stato che da una semplice «governance» di politici ed esperti), di eguaglianza tra le nazioni (il contrario dei nazionalismi reattivi, sia quello dei «forti» che quello dei «deboli») e di rinnovamento della democrazia nello spazio europeo (il contrario della «de-democratizzazione» attuale, favorita dal neo-liberismo e dallo «statalismo senza stato» delle amministrazioni europee, colonizzate dalla casta burocratica, che sono anche per buona parte all'origine della corruzione pubblica).

Da tempo avremmo dovuto ammettere questo fatto evidente: non ci saranno passi avanti verso il federalismo, in effetti oggi auspicabile, senza un passo avanti della democrazia al di là delle forme esistenti, in particolare con una intensificazione dell'intervento popolare nelle istituzioni sovranazionali. Significa che, per rovesciare il corso della storia, scuotere le abitudini di una costruzione ormai senza fiato, ci sia bisogno oggi di qualcosa che può essere definito un populismo europeo, un movimento convergente delle masse o un'insurrezione pacifica, attraverso la quale venga espressa contemporaneamente la rabbia delle vittime della crisi contro coloro che ne approfittano (o la alimentano) e l'esigenza di un controllo «dal basso» sugli scambi tra finanza, mercati e politica degli stati? Sì, senza dubbio, perché non c'è altro nome per definire la politicizzazione del popolo, ma a condizione - se si vogliono scongiurare altre catastrofi - che vengano istituiti seri controlli costituzionali e che rinascano delle forze politiche su scala europea, in grado di far prevalere all'interno di questo populismo «post-nazionale» una cultura, un immaginario e degli ideali democratici intransigenti. C'è un rischio, ma è minore di quello di lasciare libero corso ai diversi nazionalismi.


Dov'è la sinistra europea?

Queste forze costituiscono ciò che tradizionalmente, nel continente, era chiamata la sinistra. Ma anch'essa è in stato di fallimento politico: a livello nazionale e internazionale. Nello spazio che ormai conta, che attraversa le frontiere, ha perso qualsiasi capacità di rappresentazione delle lotte sociali o di organizzazione di movimenti di emancipazione, in maggioranza si è allineata ai dogmi e ai ragionamenti del neo-liberismo. Di conseguenza, si è disintegrata dal punto di vista ideologico. Coloro che la incarnano sono soltanto gli spettatori e, in mancanza di seguito popolare, i commentatori impotenti di una crisi contro la quale non propongono nessuna risposta collettiva: niente dopo lo choc finanziario del 2008, niente dopo l'imposizione alla Grecia delle ricette dell'Fmi (peraltro vigorosamente denunciate in altri luoghi e in altri tempi), niente per «salvare l'euro» altrimenti che pesando sulle spalle dei lavoratori e dei consumatori, niente per rilanciare il dibattito sulle possibilità e gli obiettivi dell'Europa solidale.

Cosa succederà, in queste condizioni, quando entreremo nelle nuove fasi della crisi, che devono ancora intervenire? Quando le politiche nazionali sempre più securitarie si svuoteranno del loro contenuto (o del loro alibi) sociale? Ci saranno dei movimenti di protesta, senza dubbio, ma isolati, che potranno venire deviati verso la violenza o recuperati dalla xenofobia e il razzismo già galoppanti, destinati a produrre ancora maggiore impotenza e più disperazione. Tuttavia, la destra capitalista e nazionalista, benché non resti inattiva, è potenzialmente divisa tra strategie contraddittorie: lo si è visto a proposito dei deficit e dei piani di rilancio economico, lo vedremo ancora di più quando l'esistenza delle istituzioni europee sarà in gioco (come prefigura, probabilmente, l'evoluzione britannica). Ci sarebbe qui un'occasione da sfruttare, la possibilità di agire. Delineare e dibattere su ciò che potrebbe essere, su ciò che dovrebbe essere una politica anti-crisi su scala europea, democraticamente definita, che cammini sulle due gambe (del governo economico e della politica sociale), capace di eliminare la corruzione e di ridurre le ineguaglianze che l'alimentano, di ristrutturare il debito e di promuovere gli obiettivi comuni che giustificano i trasferimenti tra nazioni solidali le une con le altre. Sarebbe questa la funzione degli intellettuali progressisti europei, sia che si definiscano rivoluzionari o progressisti. Non ci sono scuse per tirarsi indietro.

[trad; it. di Anna Maria Merlo, in il manifesto, 27 maggio 2010]

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Ferruccio Gambino: il cuore di tenebra del capitale, la crisi di di sistema

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Ferruccio Gambino
Crisi di sistema


La recessione cominciata due anni fa è una crisi di sistema e non una semplice battuta di arresto di un ciclo tendente alla normalità.

Per trovare un disastro simile occorre guardare alla Grande Depressione del 1929-38. E’ facile esagerare l’importanza degli avvenimenti correnti rispetto a quelli del passato, ma questo rovescio è colossale, comunque lo si misuri. Non basterà qualche rettifica per mettere in sesto un quadro sociale – prima ancora che economico – sconquassato.

Molti ammettono che questa crisi è sì di sistema, ma poi la spiegano a piccole dosi ansiolitiche. In realtà è crisi di sistema perché tocca in profondità i rapporti sociali in tutti i paesi investiti dalla globalizzazione. Per coloro che sono dalla parte delle lavoratrici e dei lavoratori, il dato saliente è la crisi dei rapporti sociali, ben prima di qualsiasi sboom finanziario. Già all’inizio degli anni ‘70, Stan Weir, un protagonista e osservatore delle relazioni lavorative negli Usa avvertiva la diffusa resistenza a condizioni di lavoro in via di deterioramento: “…grandi numeri di operai industriali non sono più disposti a tollerare le condizioni nelle quali si vuole che producano i beni e i servizi che… mantengono in vita questa società”.

Tuttavia il peggio doveva ancora arrivare ...

leggi articolo completo in: controlacrisi
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lunedì 24 maggio 2010

Étienne Balibar - Europe: crise et fin?


Étienne Balibar
Europe: crise et fin ?



  1. La crise ne fait que commencer.
En quelques semaines, on aura donc vu la déclaration de faillite du gouvernement Papandreou, l’imposition à la Grèce d’un plan d’austérité sauvage en contrepartie du prêt européen, puis la « baisse de notation » de l’Espagne et du Portugal, la menace d’éclatement de l’euro, la création du fonds de secours européen de 750 milliards (à la demande, notamment, des Etats-Unis), la décision contraire à ses statuts par la BCE de racheter des obligations souveraines, et l’adoption des politiques de rigueur dans une dizaine de pays. Ce n’est qu’un début, car ces nouveaux épisodes d’une crise ouverte il y a deux ans par l’effondrement du crédit immobilier américain en préfigurent d’autres. Ils démontrent que le risque de krach persiste ou même s’accroît, alimenté par l’existence d’une masse énorme de titres « pourris », accumulée au cours de la décennie précédente par la consommation à crédit et la titrisation des default swaps et autres produits dérivés. Le « mistigri » des créances douteuses court toujours, et les Etats courent derrière lui. La spéculation se porte désormais sur les monnaies et les dettes publiques. Or l’euro constitue aujourd’hui le maillon faible de cette chaîne, et avec lui l’Europe. Les conséquences en seront dévastatrices.

  1. Les Grecs ont raison de se révolter.
Premier effet de la crise et du « remède » qui lui a été appliqué : la colère de la population grecque. Ont-ils donc tort de refuser leurs « responsabilités » ? Ont-ils raison de dénoncer une « punition collective » ? Indépendamment des provocations criminelles qui l’ont entachée, cette colère est justifiée pour trois raisons au moins. L’imposition de l’austérité s’est accompagnée d’une stigmatisation délirante du peuple grec, tenu pour coupable de la corruption et des mensonges de sa classe politique dont (comme ailleurs) profitent largement les plus riches (en particulier sous forme d’évasion fiscale). Elle est passée, une fois de plus (une fois de trop ?), par le renversement des engagements électoraux du gouvernement, hors de tout débat démocratique. Enfin, elle a vu l’Europe appliquer en son propre sein, non des procédures de solidarité, mais les règles léonines du FMI, qui visent à protéger les créances des banques, mais annoncent une récession sans fin prévisible du pays. Les économistes s’accordent à pronostiquer sur ces bases un « défaut » assuré du Trésor grec, une contagion de la crise, et une explosion du taux de chômage, surtout si les mêmes règles s’appliquent à d’autres pays virtuellement en faillite au gré des « notations » du marché, comme le réclament bruyamment les partisans de « l’orthodoxie ».


  1. La politique qui ne dit pas son nom.
Dans le « sauvetage » de la monnaie commune, dont les Grecs auront été les premières victimes (mais ne seront pas les dernières), les modalités prévalant à ce jour (imposées notamment par l’Allemagne) mettent en avant, prioritairement, la généralisation de la « rigueur » budgétaire (inscrite dans les traités fondateurs, mais jamais véritablement appliquée), et secondairement la nécessité d’une « régulation » - très modérée - de la spéculation et de la liberté des hedge funds (déjà évoquée après la crise des subprimes et les faillites bancaires de 2008). Les économistes néo-keynésiens ajoutent à ces exigences celle d’une avancée vers le « gouvernement économique » européen (notamment l’unification des politiques fiscales), voire des plans d’investissements élaborés en commun : faute de quoi le maintien d’une monnaie unique s’avérera impossible.

Ce sont là, à l’évidence, des propositions intégralement politiques (et non pas techniques). Elles s’inscrivent dans des alternatives à débattre par les citoyens, car leurs conséquences seront irréversibles pour la collectivité. Or le débat est biaisé par la dissimulation de trois données essentielles :

- la défense d’une monnaie et son utilisation conjoncturelle (soutien, dévalorisation) entraînent soit un assujettissement des politiques économiques et sociales à la toute-puissance des marchés financiers (avec leurs « notations » autoréalisatrices et leurs « verdicts » prétendument sans appel), soit un accroissement de la capacité des Etats (et plus généralement de la puissance publique) à limiter leur instabilité et à privilégier les intérêts à long terme sur les profits spéculatifs. C’est l’un ou c’est l’autre.

- sous couvert d’une harmonisation relative des institutions et d’une garantie de certains droits fondamentaux, la construction européenne dans sa forme actuelle, avec les forces qui l’orientent, n’a cessé de favoriser la divergence des économies nationales, qu’elle devait théoriquement rapprocher au sein d’une zone de prospérité partagée : certaines dominent les autres, soit en termes de parts de marché, soit en termes de concentration bancaire, soit en les transformant en sous-traitants. Les intérêts des nations, sinon des peuples, deviennent contradictoires.

- le troisième pilier d’une politique keynésienne génératrice de confiance, en plus de la monnaie et de la fiscalité, à savoir la politique sociale, la recherche du plein emploi et l’élargissement de la demande par la consommation populaire, est systématiquement passé sous silence, même par les réformateurs. Sans doute à dessein.


  1. A quoi tend la mondialisation ?
A quoi bon, au demeurant, réfléchir et débattre de l’avenir de l’Europe ou de sa monnaie (dont plusieurs grands pays se tiennent à l’écart : la Grande Bretagne, la Pologne, la Suède), si on ne prend pas en compte les tendances réelles de la mondialisation ? La crise financière, si sa gestion politique demeure hors d’atteinte des peuples et des gouvernements concernés, va leur apporter une formidable accélération. De quoi s’agit-il ? D’abord, du passage d’une forme de concurrence à une autre : des capitalismes productifs aux territoires nationaux dont chacun, à coup d’exemptions fiscales et d’abaissement de la valeur du travail, tente d’attirer plus de capitaux flottants que son voisin. Il est bien évident que l’avenir politique, social et culturel de l’Europe, et de chaque pays en particulier, dépend de la question de savoir si elle constitue un mécanisme de solidarité et de défense collective de ses populations contre le « risque systémique », ou bien au contraire (avec l’appui de certains Etats, momentanément dominants, et de leurs opinions publiques) un cadre juridique pour intensifier la concurrence entre ses membres et entre leurs citoyens. Mais il s’agit aussi, plus généralement, de la façon dont la mondialisation est en train de bouleverser la division du travail et la répartition des emplois dans le monde : dans cette restructuration qui intervertit le Nord et le Sud, l’Ouest et l’Est, un nouvel accroissement des inégalités et des exclusions en Europe, le laminage des classes moyennes, la diminution des emplois qualifiés et des activités productives « non protégées », celle des droits sociaux comme des industries culturelles et des services publics universels, sont pour ainsi dire déjà programmés. Les résistances à l’intégration politique sous couvert de défense de la souveraineté nationale ne peuvent qu’en aggraver les conséquences pour la plupart des nations et précipiter le retour (déjà bien avancé) des antagonismes ethniques que l’Europe prétendait dépasser définitivement en son sein. Mais inversement, il est clair qu’il n’y aura pas d’intégration européenne « par en haut », en vertu d’une injonction bureaucratique, sans progrès démocratique dans chaque pays et dans tout le continent.

  1. Nationalisme, populisme, démocratie : où le danger ? où le recours ?
Est-ce donc la fin de l’union européenne, cette construction dont l’histoire avait commencé il y a 50 ans sur la base d’une vieille utopie, et dont les promesses n’auront pas été tenues ? N’ayons pas peur de le dire : oui, inéluctablement, à plus ou moins brève échéance et non sans quelques violentes secousses prévisibles, l’Europe est morte comme projet politique, à moins qu’elle ne réussisse à se refonder sur de nouvelles bases. Son éclatement livrerait plus encore les peuples qui la composent aujourd’hui aux aléas de la mondialisation, comme chiens crevés au fil de l’eau. Sa refondation ne garantit rien, mais lui donne quelques chances d’exercer une force géopolitique, pour son bénéfice et celui des autres, à condition d’oser affronter les immenses défis d’un fédéralisme de type nouveau. Ils ont nom puissance publique communautaire (distincte à la fois d’un Etat et d’une simple « gouvernance » des politiciens et des experts), égalité entre les nations (à l’encontre des nationalismes réactifs, celui du « fort » aussi bien que celui du « faible ») et renouveau de la démocratie dans l’espace européen (à l’encontre de la « dé-démocratisation » actuelle, favorisée par le néolibéralisme et par « l’étatisme sans Etat » des administrations européennes, colonisées par la caste bureaucratique, qui sont aussi pour une bonne part à la source de la corruption publique).

Depuis longtemps, on aurait du admettre cette évidence : il n’y aura pas d’avancée vers le fédéralisme qu’on nous réclame aujourd’hui et qui est en effet souhaitable, sans une avancée de la démocratie au-delà de ses formes existantes, et notamment une intensification de l’intervention populaire dans les institutions supranationales. Est-ce à dire que, pour renverser le cours de l’histoire, secouer les habitudes d’une construction à bout de souffle, il faille maintenant quelque chose comme un populisme européen, un mouvement convergent des masses ou une insurrection pacifique, où s’exprime à la fois la colère des victimes de la crise contre ceux qui en profitent (voire l’entretiennent), et l’exigence d’un contrôle « par en bas » des tractations entre finance, marchés, et politique des États ? Oui sans doute, car il n’y a pas d’autre nom pour la politisation du peuple, mais à la condition – si l’on veut conjurer d’autres catastrophes - que de sérieux contrôles constitutionnels soient institués, et que des forces politiques renaissent à l’échelon européen, qui fassent prévaloir au sein de ce populisme « post-national » une culture, un imaginaire et des idéaux démocratiques intransigeants. Il y a un risque, mais il est moindre que celui du libre cours laissé aux divers nationalismes.


  1. La Gauche en Europe ? quelle « gauche » ?
De telles forces constituent ce que traditionnellement, sur ce continent, on appelait la Gauche. Or elle aussi est en état de faillite politique : nationalement, internationalement. Dans l’espace qui compte désormais, traversant les frontières, elle a perdu toute capacité de représentation de luttes sociales ou d’organisation de mouvements d’émancipation, elle s’est majoritairement ralliée aux dogmes et aux raisonnements du néo-libéralisme. En conséquence elle s’est désintégrée idéologiquement. Ceux qui l’incarnent nominalement ne sont plus que les spectateurs et, faute d’audience populaire, les commentateurs impuissants d’une crise à laquelle ils ne proposent aucune réponse propre collective: rien après le choc financier de 2008, rien après l’application à la Grèce des recettes du FMI (pourtant vigoureusement dénoncées en d’autres lieux et d’autres temps), rien pour « sauver l’euro » autrement que sur le dos des travailleurs et des consommateurs, rien pour relancer le débat sur la possibilité et les objectifs d’une Europe solidaire…

Que se passera-t-il, dans ces conditions, lorsqu’on entrera dans les nouvelles phases de la crise, encore à venir ? Lorsque les politiques nationales de plus en plus sécuritaires se videront de leur contenu (ou de leur alibi) social ? Des mouvements de protestation, sans doute, mais isolés, éventuellement déviés vers la violence ou récupérés par la xénophobie et le racisme déjà galopants, au bout du compte producteurs de plus d’impuissance et de plus de désespoir. Et pourtant la droite capitaliste et nationaliste, si elle ne reste pas inactive, est potentiellement divisée entre des stratégies contradictoires : on l’a vu à propos des déficits publics et des plans de relance, on le verra plus encore lorsque l’existence des institutions européennes sera en jeu (comme le préfigure peut-être l’évolution britannique). Il y aurait là une occasion à saisir, un coin à enfoncer. Esquisser et débattre de ce que pourrait être, de ce que devrait être une politique anticrise à l’échelle de l’Europe, démocratiquement définie, marchant sur ses deux jambes (le gouvernement économique, la politique sociale), capable d’éliminer la corruption et de réduire les inégalités qui l’entretiennent, de restructurer les dettes et de promouvoir les objectifs communs qui justifient les transferts entre nations solidaires les unes des autres, telle est en tout cas la fonction des intellectuels progressistes européens, qu’ils se veuillent révolutionnaires ou réformistes. Et rien ne peut les excuser de s’y dérober.


(21 mai 2010)


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trad. it. : Europa. crisi o fine?

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