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sabato 28 maggio 2011

P : Penso [sinceramente]



E n c i c l o p e d i a
d e l l a
n e o l i n g u a
.
P
Penso *

[sinceramente]



  
______________
* Cogito padano

venerdì 27 maggio 2011

Il "ritorno" del razzismo in Europa. Incontro - BO 27 maggio

Libreria delle Moline
Via delle Moline, 3/A
Bologna
venerdì 27 maggio
ore 18
Le forme del dominio. 
Razzismo  e  sessismo  tra  passato  e  presente

Discussione
a partire dal libro di

Alberto Burgio

Nonostante Auschwitz
Il "ritorno" del razzismo in Europa

copertina Nonostante Auschwitz - Burgio_THUMB.jpg
Roma - DeriveApprodi 2010


Intervengono

Vincenza Perilli
Mauro Raspanti

Seguirà un dibattito con
Alberto Burgio, autore del libro 
 

Il libro nasce dalla constatazione della evidente ripresa del razzismo in Europa. Il tabù del razzismo può dirsi ormai rimosso: si può ricominciare a dirsi razzisti, senza mascheramenti o pretesti. La domanda che si pone è dunque: perché ci ritroviamo in questa situazione, a soli settant’anni dai campi di sterminio nazisti?

Perché, nonostante Auschwitz, non siamo guariti dal razzismo La risposta deve coinvolgere la storia della modernità, la sua genesi, i suoi caratteri costitutivi. Tra razzismo e modernità sussiste un nesso strutturale, al punto che il razzismo deve essere considerato un ingrediente costitutivo della modernità europea. Tesi che viene documentata sul piano storico e argomentata sul piano teorico. Il libro analizza alcune tappe cruciali del processo di formazione delle ideologie razziste: il nesso con la cultura dei Lumi, l’intreccio con le ideologie nazionaliste, l’acme della violenza razzista nella distruzione degli ebrei in Europa. 

Da qui scaturisce un’analisi sul dispositivo ideologico che accomuna le diverse manifestazioni concrete del razzismo nel corso del tempo. L’invenzione dell’«altro» – nemico, infedele o deviante da escludere, perseguitare o sterminare – nasce dalla stigmatizzazione della diversità e conduce alla creazione della «razza maledetta» attraverso la naturalizzazione delle identità stereotipate.

martedì 10 maggio 2011

Furio Jesi: Cultura di destra - Con tre inediti e un'intervista

Furio Jesi
Cultura di destra


 
introduzione e cura di
Andrea Cavalletti 
edizioni nottetempo 2011


“Che cosa vuol dire cultura di destra?”, chiede un intervistatore a Furio Jesi nel 1979. È “la cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare nel modo più utile, in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola”.

Originale mitologo della modernità, Jesi dedica gli studi qui raccolti a individuare le matrici sotterranee, il linguaggio e le manifestazioni delle “idee senza parole” della cultura di destra otto-novecentesca; e lo fa smascherandone i luoghi comuni, le formule e le parole d’ordine che alludono a un nucleo mitico profondo e inconoscibile, ma fondante e modellante, cui fanno riferimento i principi ricorrenti di Tradizione, Passato, Razza, Origine, Sacro.
 
Un “vuoto” da riempire di materiali mitologici, manipolati dalla propaganda politica di destra per legittimare il suo potere e gli ordinamenti sociali dominanti.

Da questa prospettiva, Jesi indaga gli apparati linguistici e iconici sottesi al fascismo e al neofascismo, al nazismo e al razzismo, penetra nelle pieghe dell’esoterismo di Julius Evola e del lusso retorico dannunziano, attraversa le pagine di Liala e Pirandello.

Questa nuova edizione di un libro ancora attualissimo è corredata da tre inediti e un’intervista.
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  a margine: 
della S-cultura di destra su  il Giornale... di famiglia

venerdì 18 marzo 2011

Bologna: un manifesto di razza


Bisogna pur riconoscere che, con il manifesto "di razza"  che va diffondendo a Bologna la Lega pone di fatto un serio problema di accoglienza.

Una città che - malgrado  limiti ed ostacoli  - è divenuta di fatto un grande ed aperto crocevia di persone che non erigono barriere di "razza", "origine", lingua, etnia, religione, cultura; una città viva, irriducibile a grette chiusure campanilistiche, può  albergare  serenamente in seno soggetti che rivendicano la discriminazione in nome del primato degli autoctoni, a scapito degli "alieni"?

venerdì 25 febbraio 2011

Lo stronzio del terzo millennio



CasaPound
annuncia un convegno sul ritorno all'atomo e il nucleare italiano.


Rifiutiamo l'ennesimo ritorno dello stronzio!



Questo post è frutto di una profonda meditazione di Incidenze e Marginalia

lunedì 21 febbraio 2011

La parabola di Benigni a Sanremo: "buoni" consigli - "cattivo" esempio?

Les vieillards aiment à donner des bons préceptes,
pour se consoler de n'être plus en état de  donner des mauvais exemples.
François de  La Rochefoucauld, Maximes

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Benigni e «Fratelli d'Italia», dubbi su una lezione di storia

Alberto Maria Banti - il manifesto, 20 gennaio 2011

Roberto Benigni a Sanremo: ma certo, quello che voleva bene a Berlinguer! Quello che - con gentile soavità - insieme a Troisi scherzava su Fratelli d'Italia ...




Che trasformazione sorprendente!


Eh sì, giacché giovedì 17 febbraio «sul palco dell'Ariston», come si dice in queste circostanze, non ha fatto solo l'esegesi dell'Inno di Mameli. Ha fatto di più. Ha fatto un'apologia appassionata dei valori politici e morali proposti dall'Inno. E - come ha detto qualcuno - ci ha anche impartito una lezione di storia. Una «memorabile» lezione di storia, se volessimo usare il lessico del comico.

Bene. E che cosa abbiamo imparato da questa lezione di storia? Che noi italiani e italiane del 2011 discendiamo addirittura dai Romani, i quali si sono distinti per aver posseduto un esercito bellissimo, che incuteva paura a tutti. Che discendiamo anche dai combattenti della Lega lombarda (1176); dai palermitani che si sono ribellati agli angioini nel Vespro del lunedì di Pasqua del 1282; da Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze; e da Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci. Interessante. Da storico, francamente non lo sapevo. Cioè non sapevo che tutte queste persone, che ritenevo avessero combattuto per tutt'altri motivi, in realtà avessero combattuto già per la costruzione della nazione italiana. Pensavo che questa fosse la versione distorta della storia nazionale offerta dai leader e dagli intellettuali nazionalisti dell'Ottocento. E che un secolo di ricerca storica avesse mostrato l'infondatezza di tale pretesa. E invece, vedi un po' che si va a scoprire in una sola serata televisiva.

Ma c'è dell'altro. Abbiamo scoperto che tutti questi «italiani» erano buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori - stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o spagnoli. E anche questa è una nozione interessante, una di quelle che cancellano in un colpo solo i sentimenti di apertura all'Europa e al mondo che hanno positivamente caratterizzato l'azione politica degli ultimi quarant'anni.

Poi abbiamo anche capito che dobbiamo sentire un brivido di emozione speciale quando, passeggiando per il Louvre o per qualche altro museo straniero, ci troviamo di fronte a un quadro, che so, di Tiziano o di Tintoretto: e questo perché quelli sono pittori «italiani» e noi, in qualche modo, discendiamo da loro. Che strano: questa mi è sembrata una nozione veramente curiosa: io mi emoziono anche di fronte alle tele di altri, di Dürer, di Goya o di Manet, per dire: che sia irriducibilmente anti-patriottico?

E infine abbiamo capito qual è il valore fondamentale che ci rende italiani e italiane, e che ci deve far amare i combattenti del Risorgimento: la mistica del sacrificio eroico, la morte data ai nemici, la morte di se stessi sull'altare della madre-patria, la militarizzazione bellicista della politica. Ecco. Da tempo sostengo che il recupero acritico del Risorgimento come mito fondativo della Repubblica italiana fa correre il rischio di rimettere in circuito valori pericolosi come sono quelli incorporati dal nazionalismo ottocentesco: l'idea della nazione come comunità di discendenza; una nazione che esiste se non ab aeterno, almeno dalla notte dei tempi; l'idea della guerra come valore fondamentale della maschilità patriottica; l'idea della comunità politica come sistema di differenze: «noi» siamo «noi» e siamo uniti, perché contrapposti a «quegli altri», gli stranieri, che sono diversi da noi, e per questo sono pericolosi per l'integrità della nostra comunità.

Ciascuna di queste idee messa nel circuito di una società com'è la nostra, attraversata da intensi processi migratori, può diventare veramente tossica: può indurre a pensare che difendere l'identità italiana implichi difendersi dagli «altri», che - in quanto diversi - sono anche pericolosi; può indurre a fantasticare di una speciale peculiarità, se non di una superiorità, della cultura italiana; invita ad avere una visione chiusa ed esclusiva della comunità politica alla quale apparteniamo; e soprattutto induce a valorizzare ideali bellici che, nel contesto attuale, mi sembrano quanto meno fuori luogo.

Ecco, con la performance di Benigni mi sembra che il rischio di una riattualizzazione del peggior nazionalismo stia diventando reale: tanto più in considerazione della reazione entusiastica che ha accolto l'esibizione del comico, quasi come se Benigni avesse detto cose che tutti avevano nel cuore da chissà quanto tempo. Ora se questi qualcuno sono i ministri La Russa o Meloni, la cosa non può sorprendere, venendo questi due politici da una militanza che ha sempre coltivato i valori nazionalisti. Ma quando a costoro si uniscono anche innumerevoli politici e commentatori di sinistra, molti dei quali anche ex comunisti, ebbene c'è da restare veramente stupefatti.

Verrebbe da chieder loro: ma che ne è stato dell'internazionalismo, del pacifismo, dell'europeismo, dell'apertura solidale che ha caratterizzato la migliore cultura democratica dei decenni passati? Perché non credo proprio che un simile bagaglio di valori sia conciliabile con queste forme di neo-nazionalismo. Con il suo lunghissimo monologo, infatti, Benigni - pur essendosi dichiarato contrario al nazionalismo - sembra in sostanza averci invitato a contrastare il nazionalismo padano rispolverando un nazionalismo italiano uguale a quello leghista nel sistema dei valori e contrario a quello solo per ciò che concerne l'area geopolitica di riferimento.

Beh, speriamo che il successo di Benigni sia il successo di una sera. Perché abbracciare la soluzione di un neo-nazionalismo italiano vorrebbe dire infilarsi dritti dritti nella più perniciosa delle culture politiche che hanno popolato la storia dell'Italia dal Risorgimento al fascismo.

venerdì 22 ottobre 2010

Zapruder 23: sul colonialismo italiano

Brava gente.
Memoria e rappresentazioni del colonialismo italiano


è uscito il numero 23 della rivista
Zapruder


a cura di Elena Petricola e Andrea Tappi

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mercoledì 6 ottobre 2010

Friedrich Nietzsche - Difetto ereditario dei filosofi



Tutti i filosofi hanno il comune difetto di partire dall’uomo attuale e di credere di giungere allo scopo attraverso un’analisi dello stesso. Inavvertitamente «l’Uomo» si configura alla loro mente come una æterna veritatis, come un’identità fissa in ogni vortice, come una misura certa delle cose. Ma tutto ciò che il filosofo enuncia sull’uomo, non è in fondo altro che una testimonianza sull’uomo di un periodo molto limitato. La mancanza di senso storico è il difetto ereditario di tutti i filosofi; molti addirittura pendono di punto in bianco la più recente configurazione dell’uomo, quale essa si è venuta delineando sotto la pressione di determinate religioni, anzi di determinati avvenimenti politici, come la forma fissa dalla quale si debba partire. Non vogliono capire che l’uomo è divenuto e che anche la facoltà di conoscere è divenuta; mentre alcuni di loro si fanno addirittura fabbricare, da questa facoltà di conoscere, l’intero mondo. Ora tutto l’essenziale dell’evoluzione umana è avvenuto in tempi remotissimi, assai prima di quei quattromila anni che all’incirca conosciamo e durante i quali l’uomo non può essere gran che cambiato. Ma nell’uomo attuale il filosofo vede «istinti» suppone che essi appartengano ai fatti immutabili dell’uomo e possano quindi fornire una chiave alla comprensione del mondo in generale: tutta la teologia è basata sul fatto che dell’uomo degli ultimi quattro millenni si parla come di un uomo eterno, al quale tendono naturalmente tutte le cose del mondo. Ma tutto è divenuto; non ci sono fatti eterni: così come non ci sono verità assolute. Per conseguenza il filosofare storico è da ora in poi necessario, e con esso la virtù della modestia.

Friedrich Nietzsche, Menschliches, AllzumenschlichesUmano troppo umano, Adelphi, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, vol. I, parte prima, § 2

venerdì 1 ottobre 2010

Alberto Burgio: La radice profonda del razzismo in Europa


Alberto Burgio
La radice profonda del razzismo in Europa
il manifesto, 1 ottobre 2010
È una buona cosa che, sullo sfondo della persecuzione razzista dei rom in Francia, si sia aperta una riflessione teorica sul razzismo. È tutt'altro che scontato che se ne sappia abbastanza (su ciò che lo produce e lo alimenta e, prima ancora, su ciò che il razzismo è) per reagire all'altezza dei suoi devastanti effetti attuali e potenziali. Gli interventi di Étienne Balibar e Jacques Rancière sul manifesto hanno fatto luce su aspetti rilevanti. Il primo si è incentrato sul nesso tra cittadinanza ed esclusione, mettendo in risalto come esso operi anche nel quadro dell'Europa comunitaria; il secondo ha insistito sulla natura artificiale (non spontanea) di un razzismo frutto dell'iniziativa di «imprenditori politici».

Entrambi condividono una prospettiva politico-centrica e meriterebbero un approfondimento: in particolare Rancière sembra sbarazzarsi troppo precipitosamente della scaturigine sociale della paura (e del risentimento) che l'intervento politico alimenta e incanala contro gruppi umani rappresentati come pericolosi. Ma lo spazio è tiranno e, piuttosto che dedicarlo a un confronto interno, conviene utilizzarlo per ampliare lo spettro della discussione, prospettando un'ipotesi differente e complementare, incentrata sulle dinamiche sociali responsabili della produzione di stereotipi inferiorizzanti: un'ipotesi per dir così socio-centrica.

Quando parliamo di razzismo siamo soliti pensare ai margini della società o a popolazioni straniere. Il razzismo appare al senso comune una faccenda riguardante gli «altri», i «diversi» (o i «devianti»), insomma non-persone abitanti la periferia (fisica o morale) delle nostre metropoli. Naturalmente questo modo di pensare ha le sue buone ragioni. Oggi le «razze» (poco importa se rinominate con termini meno impresentabili come «etnie» o «culture») sono in primo luogo i migranti, variamente considerati invasori, nemici, delinquenti naturali, terroristi potenziali, barbari e così via connotando. Oppure sono i rom (e i sinti), cioè gli «zingari». O ancora gli ebrei (checché se ne dica, resiste il pregiudizio che li configura come una «razza»). In una parola, minoranze a vario titolo percepite come estranee al corpo (sano) della collettività. Come eccezioni (patologiche) rispetto alla norma e alla normalità. Tuttavia, se non vogliamo rimanere prigionieri del razzismo, non possiamo limitarci a sfogliare il catalogo dei gruppi umani trasformati in «razze», dobbiamo anche chiederci a che scopo il razzismo li «razzizza».

Con ogni probabilità, l'obiettivo è legittimare trattamenti discriminatori e persecutori che possono arrivare sino allo sterminio. La violenza che difficilmente la società accetterebbe di subire, appare tollerabile (motivata e giusta) se colpisce un gruppo raffigurato come portatore «per natura» di uno stigma morale. Quella violenza è percepita come legittima difesa poiché è messa in relazione alle caratteristiche perverse attribuite a quel gruppo. In una parola, il razzismo è la fabbrica delle identità negative, un operoso cantiere antropologico che, producendo stereotipi (cioè letteralmente creando le «razze»), sforna ininterrottamente argomenti utili a giustificare la violenza che una parte della società scarica su altre componenti più deboli e a vario titolo subordinate.

Se le cose stanno così, lo sguardo dovrebbe disinteressarsi del dito (gli argomenti specifici - tutti, indistintamente, pretestuosi - addotti dal razzista di turno) e rivolgersi alla luna che esso indica, cioè alla radice profonda di questa violenza. Dovrebbe cercare la fonte «strutturale» dell'insaziabile fame di discriminazione che ossessiona la nostra società, poiché soltanto così è possibile capire perché da due o tre secoli a questa parte l'occidente capitalistico non può fare a meno di inventare «razze» inferiori, parti infette dei corpi sociali che meritano di essere cauterizzate o addirittura amputate. E soltanto adottando questa prospettiva si può capire perché il razzismo torna sistematicamente in auge nelle fasi acute di crisi economica e sociale, quando le dinamiche riproduttive esasperano la propria connotazione gerarchica, mobilitando un surplus di violenza e di brutalità.

Il punto è che la «razza inferiore» (quella di chi - stando alle mitologie razziste - ruba o stupra per incoercibili propensioni «naturali» o è «per natura» refrattario alla civilizzazione) incarna e mette in scena non soltanto le ragioni della propria discriminazione, ma anche, soprattutto, la legittimità del discriminare come meccanismo generale della relazione sociale. Certo, la violenza che si scatena contro i rom cacciati via da una palude infestata dai topi all'altra, evitati come appestati sugli autobus e sui treni e finalmente deportati oltre confine nel nome della sicurezza e sanità del corpo sociale, è diversa da quella che gli italiani (o i francesi) doc - quanti tra loro lavorano sotto padrone o nemmeno riescono a trovare un lavoro - sono costretti a subire. Questi ultimi sono (ancora) protetti da qualche diritto. Ma un denominatore comune c'è, e consiste nel dipendere dall'arbitrio altrui. Per questo è importante che assistano alla cacciata dei rom, spettacolo estremamente istruttivo che rammenta (e rappresenta come una condizione inemendabile) la loro radicale subalternità.

Che cosa imparano, a guardar bene, da questo spettacolo che colpisce ai margini della società ma si rivolge al grosso della popolazione, alle «genti meccaniche» cui non è toccata la buona sorte di illustri natali? Apprendono la terribile lezione della modernità: la loro condizione di homines œconomici, di individui soli, costretti a combattere, a proprio rischio e pericolo, la guerra quotidiana degli egoismi individuali. Ciò che il razzismo si incarica di portare a termine mettendo in scena il destino degli ultimi è, in altre parole, l'atomismo sociale e lo sradicamento della solidarietà, fattore antimoderno per antonomasia, incompatibile con lo scatenamento degli «spiriti animali» del capitalismo.

In questo senso - per quanto paradossale ciò possa apparire - se vogliamo capire quale ruolo il razzismo giochi sulla scena europea (e perché esso svolga ancora una funzione così importante), è indispensabile leggere correttamente vicende come quelle di Pomigliano e di Melfi, nelle quali il padrone dichiara in modo esplicito di voler negare qualsiasi diritto a chi per sopravvivere è costretto a vendere il proprio tempo di vita. Gli operai debbono tornare ad essere cose, levarsi dalla testa di essere persone e, soprattutto, membri di un soggetto collettivo. E affinché intendano la musica, niente è più utile del mostrare loro che fine fanno quelli con i quali la buona società si arrabbia per davvero.

Ma se la sorte riservata ai margini serve a educare il centro, allora il problema è la reazione del centro. Non si tratta di stabilire se il razzismo sia o meno spontaneo, certo che non lo è. Il punto è che il razzismo sarà senso comune, benché inculcato dall'alto, finché i corpi sociali assimileranno docilmente la lezione che esso impartisce: la fondatezza delle gerarchie sociali, la legittimità della violenza che esse decretano, la moralità della riduzione a cose dei subordinati. Oggi, esattamente come nel secolo scorso, il problema chiama dunque in causa proprio gli «uomini comuni», spesso complici, più o meno inconsapevoli, della violenza razzista.

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sabato 18 settembre 2010

Étienne Balibar: Rom, questione comune


La condizione dei rom testimonia l’esistenza di «una traccia durevole delle persecuzioni nella storia europea». L’Europa può cancellarla.



Dal punto di vista dei rom, il processo di unificazione europea ha di sicuro aperto delle possibilità di comunicazione nella comunità finora inesistenti e ha dato la possibilità di reclamare i propri diritti in modo più efficace e legittimo. Ma non ha modificato la configurazione di base della persecuzione, o addirittura può aver dato ad essa una nuova dimensione. Si tratta di una storia affascinante: quello che era ampiamente invisibile è diventato visibile e un'intera parte della storia d'Europa diventa comprensibile. Ed è una questione vitale per il futuro dell'Europa: essa non può essere costruita sull'esclusione, non è un Impero. Ufficialmente, presenta se stessa come uno spazio per la realizzazione dei diritti democratici e del benessere comune delle sue popolazioni. In pratica, conquisterà legittimità nelle menti e nei cuori dei cittadini (una cosa più difficile di quanto immaginato all'inizio) soltanto se comporterà un avanzamento verso istituzioni più democratiche e una cultura di maggiore - e non di minore - solidarietà. Sotto questo punto di vista, la persecuzione dei rom in Europa, trasmettendosi da un Paese all'altro in un processo di emulazione negativa come nel passato, non è un problema che riguarda ogni paese separatamente, ma è un problema "comune", un problema "comunitario".

Affrontandolo in questo modo - e lavorando contro le proprie inclinazioni - gli europei eliminerebbero non solo una fonte di conflitti interni e di violenza che può diventare insopportabile, ma costruirebbero una comune cittadinanza. Inoltre reclamando i loro diritti, elevando il discorso dal livello culturale a quello civile, trovando gli interlocutori istituzionali e gli alleati di cui hanno bisogno tra la popolazione, i rom di tutta Europa conquisterebbero un'integrazione che ci riguarda tutti, collettivamente. Non essendo un esperto di storia e sociologia rom, ma in quanto cittadino europeo e filosofo che ha lavorato su altri aspetti dell'esclusione e sul loro impatto sullo sviluppo della democrazia, vorrei affrontare le tre principali questioni in discussione.

La prima riguarda l'esclusione e la cittadinanza e la loro trasformazione a livello paneuropeo. I rom sono privi di alcuni diritti di base in molti paesi europei e nello spazio europeo, malgrado il fatto che siano cittadini europei, essendo di pieno diritto cittadini degli stati membri. Questi diritti di base includono il diritto di circolazione, di residenza, di lavoro, il diritto alla scuola, alla salute e alla cultura. I rom sono costretti a risiedere in determinate aree, dalle quali del resto possono anche venire arbitrariamente espulsi. Sono definiti o come "nomadi" o come cittadini che provengono da determinati paesi. Sono a priori considerati come delinquenti o come una popolazione pericolosa. Non vengono mai ammessi o sono ampiamente sottorappresentati nella maggior parte delle professioni, sia manuali che intellettuali (con tassi di disoccupazione che toccano i massimi). È inutile dire che questo riguarda anche gli impieghi pubblici. Questo fenomeno è illegale o legale, con la scusa di norme e di accordi interstatali che riguardano l'igiene, la previdenza sociale, le politiche per l'occupazione e le norme culturali. Hanno luogo su uno sfondo di una persistente estrema violenza "popolare", che è alimentata anche da gruppi neofascisti e da bande criminali, solo verbalmente condannati da molti stati membri dell'Unione europea. Solo i più vergognosi pogrom diventano una notizia per la stampa nazionale o internazionale.

La costruzione dell'Ue ha avuto degli effetti estremamente contraddittori. Ha prodotto una categorizzazione dei rom a livello europeo, dal momento che per la Ue sono stati considerati un "problema" nel loro stesso diritto a farne parte. Questo è uno scalino preliminare nella nuova razzializzazione dei rom. Li mette nella stessa categoria dei "migranti" di origine extracomunitaria, in un quadro generale che ho definito come l'emergente apartheid europeo, il lato oscuro dell'emergenza di una «cittadinanza europea». La differenza proviene dal fatto che i "migranti" (e i discendenti di migranti) sono visti come un altro esterno, mentre gli tzigani come un altro interno. Ciò d'altronde rafforza il vecchio stereotipo del nemico interno, che ha effetti sanguinosi.

Malgrado gli enormi cambiamenti storici e sociali - specialmente dopo la seconda guerra mondiale e la fine della guerra fredda - che hanno portato l'Europa molto lontana dal proprio passato, questo fenomeno è testimone di una traccia durevole delle persecuzioni nella storia europea. È inevitabile la comparazione con il caso, di cui si è parlato molto di più, della persecuzione di un "gruppo razziale" nella storia europea, cioè gli ebrei. I due "gruppi paria" sono stati il bersaglio congiunto del genocidio nazista (come altre popolazioni "devianti"). Rappresentano casi completamente diversi di traiettoria religiosa ed economica, ma - è importante sottolinearlo - entrambi hanno svolto un ruolo centrale nello stabilire delle connessioni tra diverse culture europee (specie nel campo artistico, nel caso degli tzigani) incarnando l'elemento "cosmopolita" senza il quale le culture "nazionali" restano isolate e sterili.

Questo mi porta a prendere in considerazione una seconda questione, che riguarda più specificamente le tendenze di razzializzazione in Europa. Alcuni anni fa mi ero chiesto se bisognasse ammettere che esiste un razzismo o neo-razzismo "europeo" che avrebbe avuto, rispetto alla costruzione "sopra-nazionale", la stessa relazione di complementarità ed eccesso che il razzismo tradizionale (antisemitismo, razzismo coloniale, ecc) aveva con lo stato-nazione e le classiche costruzioni imperialiste. Bisogna essere molto prudenti a proporre questo tipo di ipotesi. Nondimeno, ci sono dei fenomeni inquietanti che possono dare credito a questa ipotesi, ponendo i rom nella scomoda posizione di caso test. In conclusione, possiamo dire che l'unificazione dell'Europa ha reso la razzializzazione del "problema tzigano" più visibile, perché mostra l'evidente contraddizione con la tendenza generale e ufficiale verso il superamento dei pregiudizi etnici e nazionali sulla quale è costruita la "nuova Europa". Da questo punto di vista, ci sono almeno tre fenomeni che mi paiono rilevanti:

1. La tendenza delle nazioni europee a proiettare sui rom i pregiudizi verso altre nazioni. Per esempio, la stampa francese è più attenta a riferire dei pogrom che hanno luogo in Italia o in Ungheria, o delle discriminazioni in Romania, ma resta quasi silenziosa sul modo in cui i comuni in Francia respingono i "nomadi" dal loro territorio, o sul modo in cui la polizia di frontiera francese espelle cittadini rumeni e bulgari per alimentare le statistiche ufficiali, pur sapendo benissimo che, in quanto cittadini europei, essi torneranno al più presto.

2. Arriviamo al fenomeno della costruzione del capro espiatorio e, più precisamente, al modo in cui le "nazioni" europee si considerano ufficialmente l'un l'altra come membri di una stessa comunità. Dopo aver superato le antiche ostilità, esse restano nei fatti piene di mutuo risentimento e sospetto reciproco - cosa che, fino ad un certo punto, dipende dal fatto che la costruzione europea è rimasta in mezzo al guado. Questo risentimento e sospetto reciproco tende a venire proiettato verso gruppi "devianti". I rom sono come una nazione in eccesso in Europa, che si distingue per l'odio che suscita non solo perché travalica i confini ma anche perché incarna l'archetipo delle popolazioni senza stato, che fanno resistenza alle norme di territorializzazione e di normalizzazione culturale (per ironia della sorte, sotto molti aspetti, questa singolarità è essa stessa frutto delle persecuzioni).

3. Questo problema, come sappiamo, diventa eccezionalmente acuto quando vengono prese in considerazione le relazioni tra Europa occidentale ed Europa dell'est. Il fatto che i regimi di tipo sovietico in Europa dell'est durante la guerra fredda, in paesi che hanno anche un'importante popolazione rom, avessero combinato una politica coercitiva e normativa con programmi di integrazione economica, ha comportato la definizione di "protégés del socialismo" in paesi dove (per quanto tempo ancora?) la maggioranza della popolazione vede l'ammissione alla Ue come la strada più rapida verso la liberalizzazione economica e sociale. Nell'altra metà del continente, i paesi occidentali e la loro opinione pubblica li percepiscono come la perfetta illustrazione della povertà e della deregulation con le quali l'Ue sfida i vecchi membri. In entrambi i casi, sono rigettati e visti più come "orientali" che come veramente europei.

Se la relegazione dei rom nella condizione di comunità senza stato prosegue (de facto più che de jure: vivono, certo, sotto la giurisdizione degli stati, ma sono visti sia come inadatti che ostili ad entrare nella costruzione di uno stato moderno), cosa che ci riporta all'origine della loro discriminazione, essa rivela al tempo stesso i limiti della costruzione della sfera pubblica in Europa. Essa può essere paragonata a uno statalismo senza stato. Questa situazione poco chiara, combinata con altri fattori, tende ad esacerbare varie forme di razzismo popolare, in particolare sotto la forma dell'ossessione della sicurezza. Dall'altro lato, ha portato alla creazione di una piuttosto densa rete di istituzioni e organizzazioni che hanno a vedere con la "questione rom" a livello europeo. Alcune di queste organizzazioni ed iniziative governative possono favorire lo sviluppo di una coscienza autonoma e di una pratica civile nella comunità rom, mentre altre tendono a ridurli allo stato di un gruppo sotto controllo, protetto e piazzato sotto sorveglianza. Questo dilemma, secondo me, porta a prendere in considerazione un altro problema cruciale, che riguarda le vie dell'emancipazione proposte alle popolazioni rom in Europa. Parlando da un punto di vista astratto, ci sono due strade, come in altri casi simili. Una può essere definita "maggioritaria" e comporta la richiesta della fine dell' "eccezione", il riconoscimento dei diritti di base che, di principio, appartengono ad ogni cittadino. L'altra può essere definita "minoritaria" e si basa su un crescente senso di identità e di solidarietà tra le popolazioni rom, attraverso i confini nazionali, che porta verso una maggiore autonomia culturale e, di conseguenza, verso una maggiore visibilità come gruppo "quasi nazionale" che lotta contro l'esclusione all'interno di un'Europa multi-nazionale.

La prima strada dipende soprattutto dai passi avanti più generali sui diritti umani e da un ritorno a politiche sociali che riescano ad arginare la corrente neo-liberista, mentre la seconda dipende dalla capacità di utilizzare il discorso e le istituzioni dell'Unione europea affinché i rom arrivino a costruirsi una voce autonoma. Nessuna delle due strade è facile, né probabilmente sufficiente. Sarà responsabilità dei rom stessi articolare una combinazione efficace. Ma è anche nostra responsabilità - e nostro interesse - in quanto democratici europei, aiutarli in questo processo, lottando contro il risorgere del razzismo in mezzo a noi, inventando un'Unione migliore.


* Questo testo è una rielaborazione, per gentile concessione di Étienne Balibar, dell'introduzione al volume «Romani Politics in Contemporary Europe» (Palgrave ed. dicembre 2009), una raccolta di saggi sulla questione dei rom e l'Europa a cura di Nando Sigona e Nidhi Trehan. La traduzione è stata curata da Anna Maria Merlo.

da: il manifesto, 18.09.2010

domenica 1 agosto 2010

Franco Bergoglio: jazz-filosofia [su "L'identità incompiuta"]


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Davide Sparti
L'identità incompiuta.
Paradossi dell'improvvisazione musicale
Il Mulino, 2010



Proseguendo un lavoro iniziato qualche anno addietro con Suoni inauditi L'improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana (2005) Davide Sparti, professore associato nella Facoltà di Lettere e filosofia dell'Università di Siena, torna a occuparsi di jazz coniugando i termini di questo affascinante mondo con le scienze sociali e la filosofia. Sparti aveva già affrontato alcuni nodi legati alla pratica dell'improvvisazione nel libro sopra citato e nel successivo Il corpo sonoro. Oralità e scrittura nel jazz (2007). Ora la cartina tornasole utilizzata per studiare l'improvvisazione è quella, fortemente innovativa in ambito jazz, dell'identità.
Spunto iniziale di questa analisi un paradosso sapientemente illustrato dallo scrittore Ralph Ellison, ripreso più volte nel corso del saggio: "Esiste (…) una contraddizione crudele implicita nella stessa forma artistica (il jazz): il jazzista deve perdere la sua identità anche mentre la trova". Il jazzista che improvvisa corre ben due rischi, ci avverte Sparti: in primo luogo quello di fallire, di non trovare l'originalità, ma esiste anche il pericolo di smarrirsi nel tentativo di esplorare territori incontaminati e di non trovare il filo conduttore per tornare a casa dopo il solo.
Sono considerazioni iniziali di un testo tutto da scoprire che sviscera questi "paradossi" dell'improvvisazione. Operazione non banale, poiché come ci segnala l'autore: "Chi pratica l'improvvisazione non ha necessariamente bisogno di elaborare un concetto di improvvisazione (perché dovrebbe, dato che tale impresa concettuale non garantisce un guadagno estetico?)". Se i musicisti possono permettersi una prassi senza una teoria (che non sia quella musicale in senso stretto, ovviamente) è altrettanto evidente che un discorso su questo tema presenta aspetti tanto fertili da interessare finalmente anche i filosofi, i sociologi, i semiologi e tutti coloro che a vario titolo si sentono attrezzati con i mezzi adatti a coniugare queste discipline al jazz.
Dopo questo denso preambolo il lavoro si dipana lungo i binari di una speculazione scientifica sul tema del identità personale condotto adottando riferimenti alti (Arendt, Pizzorno, Goffman) e facendoli interagire con esempi, prassi, affermazioni tratte dal mondo del jazz. Proprio da questo primo capitolo è tratta una deliziosa testimonianza di Miles Davis, quasi una programmatica dichiarazione d'intenti artistica: "Talvolta devi suonare a lungo prima di riuscire a suonare come te stesso".
Nel saggio sono tante le citazioni di jazzisti quali Joe Henderson, Max Roach, Charles Mingus e di molti altri, scelte con cura a illustrare - con esempi presi, per così dire, sul campo - quanto siano complessi i discorsi che si possono costruire attorno all'improvvisazione e le riflessioni che ne scaturiscono. Questo perché nell'improvvisazione si possono leggere spinte all'eccesso le tensioni che l'artista deve affrontare, stretto fra la spinta a trasformarsi per essere originale e la necessità di definirsi per essere riconoscibile al pubblico e forse anche a se stesso. Le figure che secondo l'autore meglio si prestano a suffragare questa analisi sono due: quella di John Coltrane, che riceve una attenzione particolare e la Arkestra di Sun Ra, paradigma dei problemi dell'identità relativi a un collettivo musicale (e insieme esistenziale) rimasto insieme per decenni sotto la guida di un leader carismatico.
Con il terzo capitolo, dedicato all'improvvisazione e al versante filosofico del tema che riguarda l'identità, il libro tocca davvero questioni nuove. I contributi intellettuali di Michel Foucault e Hannah Arendt sull'agire umano vengono messi in relazione all'improvvisazione jazzistica.
Particolarmente interessante è l'uso di Foucault. Un autore, come ha scritto Rudy M. Leonelli presentando gli atti di un convegno dedicato al rapporto Foucault-Marx, passato dall'ostracismo durato fino agli anni Ottanta all'odierna assimilazione culturale "senza traumi". Eppure, continua Leonelli, il tratto che possiamo individuare come distintivo della sua opera si situa nella sospensione, la rottura delle nostre evidenze, il turbamento e la trasformazione simultanea del modo in cui ci rapportiamo al "nostro" passato e a questo presente [1].
Uno dei concetti di Foucault che caratterizzano questa rottura delle evidenze di cui parla Leonelli viene utilizzata da Sparti per interpretare alcuni degli aspetti meno indagati del campo dell'improvvisazione e che pure ne costituiscono una specificità. Quale rapporto si viene a creare tra l'improvvisatore che durante il solo si mette in gioco, spesso in profondità, e la sua identità? Il sé per Foucault non rappresenterebbe un nucleo sepolto da liberare ma un materiale da trasformare con la pratica.
L'altro concetto, collegato, prende in considerazioni quelle procedure attività che l'uomo compie su stesso, sul proprio modo d'essere sulla propria condotta per migliorarsi, per raggiungere un certo stato di purezza, saggezza o felicità (tecnologie del sé). Molto opportunamente a questo proposito Sparti cita a più riprese l'esempio e le parole di Sonnny Rollins, maestro riconosciuto dell'improvvisazione. Nel corso di una performance prima fai le cose previste poi te ne dimentichi. Così per Sonny Rollins, con una affermazione che per Sparti riecheggia tesi riconducibili a Nietzsche e riportano, in ambito squisitamente jazzistico, all'iniziale affermazione di Ralph Ellison.
La collezione di tecniche adottate dagli improvvisatori per forzarsi all'originalità durante la loro attività quotidiana viene rappresentata da un congruo numero di citazioni che costituiscono un compendio di saggezza zen-jazz. Mi sono tolto di mezzo, dice Jim Hall, come ad intendere di fare un passo indietro e osservare l'assolo che si svolge quasi da sé. Altri musicisti teorizzano l'uso di strumenti diversi da quelli usuali per poter esprimere una voce diversa e non ristagnare nella memoria anche fisica e gestuale che si attiva quando si imbraccia il proprio. Il caso emblematico è OrnetteColeman che posa il sax per imbracciare la tromba (e il violino, aggiungo io) per ottenere effetti stranianti, ma anche innovativi e diversi da quelli considerati "normali". Forse la miglior formulazione teorica di questa disposizione d'animo verso l'improvvisazione l'ha pero concisamente fornita Sun Ra: suona le cose che non sai!
Sviscerati questi aspetti dell'estetica jazz in rapporto all'improvvisazione all'identità del musicista come singolo, il libro vira nuovamente verso gli aspetti sociali. La conclusione mette quindi in luce come la faticosa pratica dell'improvvisazione nel jazz sia un fenomenale dispositivo identitario, almeno per la comunità afroamericana. L'improvvisazione è, appunto, la ripetizione simbolica di un atto fondatore di una comunità che non rimanda ad un'origine ma è segnata dalla perdita comune, di cui si fa esperienza e che ritorna in forma esteticamente sublimata. Collegandosi in una visione quasi psicanalitica alla vicenda della diaspora degli schiavi neri, trascinati a forza dalle coste dell'Africa al nuovo mondo, sfruttando la potenzialità delle recenti teorie sull'importanza di un "Atlantico Nero", triplice luogo geografico, storico e simbolico, Sparti ci fornisce una chiave filosofica originale nel leggere questa musica. Verrebbe da dire, sfruttando titolo e leit-motifs del saggio, che nel jazz l'improvvisazione rappresenta questa identità perduta; identità che, proprio nella sua genetica incompiutezza, alla fine riesce a ritrovarsi.


Franco Bergoglio per Jazzitalia
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NOTE:
[1] Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, a cura di Rudy M. Leonelli, Roma, Bulzoni editore, 2010, p. 9. Di questa recente pubblicazione segnalo, tra gli interventi, oltre alla premessa citata e al saggio di Leonelli, una bella intervista al filosofo Étienne Balibar.
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mercoledì 12 maggio 2010

Riccardo Bonavita: letture critiche del razzismo italiano


Letteratura e razzismo
Riccardo Bonavita


Studente della “Pantera”, intellettuale comunista, partecipe delle mobilitazioni antirazziste prima e dopo Genova, Riccardo Bonavita (1968-2005) è stato anzitutto uno studioso di letteratura italiana, ma ha inteso coniugare la sua formazione con un’indagine acuta e originale della storia del razzismo politico italiano, partendo dalla tesi che la cultura razzista in Italia non sia una breve parentesi circoscritta alle leggi razziali fasciste del 1938, ma un accumulo di lunga durata che si struttura già nel primo Ottocento controrivoluzionario proprio attraverso la letteratura e la manipolazione dell’immaginario collettivo.

Oggi escono in volume, con il titolo “Spettri dell’altro. Letteratura e razzismo nell’Italia contemporanea”  (Bologna, il Mulino, 2010), alcuni saggi scritti tra il 1995 e il 2003 che avrebbero dovuto costituire la base di un lavoro più ampio, “I nemici immaginari”, di cui restano appunti, schede preparatorie, schemi di capitoli: il progetto era quello di uno studio dell’immaginario razzista italiano che avrebbe dovuto giungere fino al presente, allo studio delle pubblicità commerciali, dei depliant turistici, degli stereotipi dei media, ossia di quegli elementi comunicativi a larga diffusione che manipolano e orientano il senso comune di una società.

Si tratta dunque di un libro frammentario, ma capace di indagare i meccanismi costanti delle procedure razziste e della costruzione di un’identità autoritaria, suggerendo implicitamente le possibili strategie di contrasto.

Apre il volume un’analisi del riuso strumentale del pensiero di Leopardi all’interno di un periodico fascista come “La Difesa della Razza” che promosse e fomentò le violenze razziali del regime: ed è un’analisi di come la cultura conservatrice inventa la propria tradizione allineando i grandi del passato in una galleria di nobili antenati, un “mucchio indifferenziato e sacrale di roba di valore, che è il passato della patria” (F. Jesi, “Cultura di destra”), banalizzando la storia come natura e occultando i conflitti sociali che la percorrono.

Si tratta di un’operazione ripresa alla fine degli anni Novanta proprio dalla cultura berlusconiana e ora riproposta anche dai programmi scolastici del ministro Gelmini allorché esaltano gli scrittori italiani come momenti dell’“identità nazionale” e persino la tragedia greca come fondamento dell’“identità occidentale” (la rivolta di Antigone contro il potere potrà allora serenamente giustificare i crimini di guerra in Iraq, Afghanistan, ecc.). Del resto, fin dalla “discesa in campo” del 1994, Berlusconi ha insistito sul fatto che “la sinistra divide” e “la destra unisce”: un bel fascio “indifferenziato e sacrale”...

Seguono quattro saggi che prendono in esame “il razzismo nella narrativa dell’Italia fascista” e ne indagano anche le origini otto-novecentesche, nella convinzione che il razzismo sia un lento accumulo di immagini, luoghi comuni, schemi mentali, che fanno apparire “naturali” le classificazioni discriminatorie su cui si fonda l’esclusione e la violenza razzista.

Lo stereotipo dell’inferiore (l’africano) e quello dell’estraneo a ogni patria (l’ebreo) non sono dunque prodotti della legislazione coloniale fascista e delle leggi razziali del ’38, ma si producono a partire da “bacini di credenza” di lunga durata, da un “serbatoio di dispositivi retorici”, da un “giacimento di stereotipi, narrazioni, percezioni, assiologie, teorie scientifiche o pseudoscientifiche passibili di essere attualizzate, riprese e rifunzionalizzate”. Ciò implica due conseguenze che negli anni Novanta non erano affatto ovvie: 1) le procedure della “credenza” razzista dapprima diffondono una paura generica del “nemico immaginario” e poi identificano i tratti specifici, legali del soggetto da escludere, espellere, negare; 2) il “giacimento” sociale del razzismo (e sessismo) italiano, mai analizzato, mai sottoposto a critiche, resta un’energia distruttiva ancora potenzialmente funzionante e non meno aggressiva di quella del primo Novecento.

Perciò, scrive Bonavita, dinanzi all’immaginario razzista e alle politiche identitarie la prima necessità è quella della scomposizione storica e critica: “Il primo compito di chi analizza icone politiche di questo tipo consiste quindi nel compiere il processo inverso, ovvero nella decifrazione delle stratificazioni storiche accumulate dalla cultura e dalla ideologia proprio nei luoghi dove il razzista vuole mostrare all’opera la nuda natura. Solo così si può comprendere che [...] sta in realtà manipolando materiali culturali per ridisegnare i confini tra il «puro» e l’«impuro» e reinventare una nuova identità collettiva” (p. 82).

Come dimostra anche il romanzo coloniale e antisemita dell’epoca fascista, nel pensiero razzista tutto è appiattito su un “sistema di opposizioni” pseudonaturalistiche (appunto: “puro-impuro”) che struttura “l’intero campo dell’immaginario”: la costruzione autoritaria dell’identità implica sempre una “negazione dell’altro” e, per combatterla, si tratta di mostrare l’eterogeneità storica di ogni presunta “tradizione” unitaria e “credenza” indiscussa.

Resta l’esigenza di capire l’esplodere delle pratiche del razzismo di Stato in determinate fasi storiche: perché i lenti accumuli del razzismo diffuso si fanno a un tratto leggi discriminatorie e violente, si traducono in rastrellamenti di polizia, lager, deportazioni? Nell’analizzare la letteratura fascista, Bonavita offre due risposte simili e sovrapponibili.

Da una parte, fin dalla metà degli anni Venti la martellante campagna fascista per costruire l’“uomo nuovo” aveva bisogno di “controtipi” propagandistici: figure semplificate che additassero comportamenti negativi o “inferiori” attribuiti ora all’africano (scarso senso della famiglia, dell’onore, della parola data, ecc.), ora all’ebreo (rapacità economica, egoismo, ateismo, antipatriottismo, ecc.).

Così oggi, allo stesso modo, la necessità di ricomporre la famiglia tradizionale proietta le condotte predatorie e violente di mariti e fidanzati su tipi etnicamente caratterizzati: il “rumeno”, lo “straniero”, ecc. L’acutizzarsi delle pratiche razziste corrisponde a un programma di pedagogia sociale che deve occultare le contraddizioni e le diseguaglianze reali.

Ma il libro non offre solo un esame dei “controtipi” razziali. Per capire la seconda risposta, prendiamo un caso esemplare illustrato nel volume: quello di Giovanni Papini (1881-1956), da giovane incendiario anticlericale e nichilista, poi dal 1921 reazionario neocattolico e fascista.

Nel 1921 Papini pubblicava un best-seller intitolato “Storia di Cristo” riprendendo, con toni di accesa violenza verbale, la leggenda dell’“Ebreo errante” dedito solo ad accumulare “l’oro che cade dall’orifizio escrementizio di Satana”. In opere successive, dal “Dizionario dell’omo salvatico” del ’23 fino a “Gog” e alla “Leggenda del Gran Rabbino” del ’31, Papini si scagliava ossessivamente contro “negri”, “comunisti” e “giudei”, ritraendo questi ultimi come un misto di avidità, affarismo, lerciume, sadismo, depravazione: e sono testi che verranno riciclati dalla propaganda fascista per dar slancio operativo alle leggi razziali del ’38.

Eppure proprio il giovane Papini, nel lontano 1906, aveva fatto l’elogio del “vagabondaggio” e della “diversità” paragonandosi persino a un “Ebreo errante” della cultura: “l’amore della diversità, l’amore del cambiamento”, “i nostri viaggi di Ebrei erranti della cultura”, scriveva. Vi è nel razzismo un tentativo autoritario e malato di negare una parte di sé: l’apertura all’altro, la solidarietà, la conoscenza, l’eros: “attaccare l’Altro”, scrive Bonavita, “per rinnegare una parte di sé”.

Il razzismo è sempre una forza anche autodistruttiva che giunge infine a una grande, tragica festa di morte. Per combatterlo efficacemente, occorre anzitutto mostrare quanto gli “spettri dell’altro” siano il rito sacrificale e lugubre di un disciplinamento oppressivo delle identità.


Sancho Panza
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giovedì 16 aprile 2009

Bologna: un reprint della propaganda fascista e razzista


Riprendo integralmente un articolo da
Repubblica.

Lo pubblico così come l'ho trovato.
Non saprei commentare.

Comune nella bufera, manifesto fascista per un convegno sulla violenza contro le donne

Il Comune di Bologna promuove via email un convegno sulla violenza alle donne e per farlo usa una immagine d'epoca che risale al periodo del Fascismo. Proteste ai centralini di Palazzo d'Accursio. L'assessore Milli Virgilio si scusa: "E' stato un equivoco"

[di Carlo Gulotta]





Sulla locandina che accompagna un seminario organizzato dal Comune e dalla Casa delle Donne, sul tema «Femminicidi, ginocidi e violenze sulle donne», c'è un'immagine forte. E' un manifesto che risale al Ventennio fascista e che raffigura un uomo dalla pelle scura che aggredisce una donna con la scritta «Difendila, potrebbe essere tua moglie, tua sorella, tua figlia». E in città scoppia la bufera: intasata dalle proteste la posta elettronica del vicesindaco Giuseppe Paruolo e l'associazione Orlando, che gestisce il Centro delle Donne, dice che «se il messaggio è stato frainteso, vuol dire che è un messaggio sbagliato e bisogna ritirarlo». Critiche anche in seno al Pd: per i due consiglieri comunali Emilio Lonardo e Leonardo Barcelò quella «è una locandina razzista, il Comune tolga il patrocinio», e lancia accuse persino l'Ordine dei Giornalisti. L'assessore alla Scuola e alle Politiche delle Differenze Milli Virgilio, che quel manifesto l'ha scelto per illustrare il seminario di domani alle 16,30 in Santa Cristina, è costretta a una mezza marcia indietro.

«Un errore? Non dico questo, ma se dovessi rifare daccapo, credo che ci ripenserei. Ma l'ho fatto in buona fede, per dimostrare che in sessant'anni purtroppo niente è cambiato: tutte le novità legislative sono intitolate alla sicurezza pubblica, ma in sostanza sono riservate ai migranti e alle restrizioni nei loro confronti». L'invito con la locandina "razzista" è stato spedito a centinaia di soggetti, istituzioni, associazioni e singoli. Virgilio parla di un «equivoco», e oggi scriverà una mail al Centro delle donne e a tutti quelli che hanno protestato per spiegare le sue ragioni. Anche all'ex presidente della Consulta degli immigrati. «Quel manifesto — sta scritto nel messaggio del Centro delle donne — è edito dal Nucleo Propaganda fascista del 1944 e quel che fa riflettere è che purtroppo questo "reperto storico" è tornato oggi tremendamente attuale. Per realizzare l'obiettivo di tutelare le "nostre" donne è stato scelto l'approccio contro il migrante, cioè contro il "differente", costruito come "il nemico". Bisogna rimediare ad un errore di comunicazione». Paruolo, sulla richiesta di negare il patrocinio del Comune, è prudente. «Aspettiamo, prima di trarre delle conclusioni. Ma confermo che mi è arrivata la mail di un rappresentante della Consulta degli immigrati. Non era affatto contento».

martedì 24 marzo 2009

Il Pantheon della destra repubblicana (di G. Santomassimo)

IL PANTHEON DELLA DESTRA REPUBBLICANA
Il fascismo rimesso in parentesi dal «Partito degli Italiani»*



di Gianpasquale Santomassimo



Fra i tre fascismi che sono al governo (il fascismo storico dei missini, il fascismo «naturale» e qualunquista degli elettori di Berlusconi, il fascismo razzista e xenofobo della Lega) soltanto il primo ha avviato da tempo - e inevitabilmente - una evoluzione e un ripensamento, che lo conducono oggi a celebrare, con lo scioglimento nel Pdl, il compiersi di una proposta politica che si lascia «alle spalle il Novecento con le sue ideologie totalitarie».
Più ancora che l'evoluzione del partito in sé, che è apparso sospeso e lacerato a mezza via tra innovazioni accettate e richiami identitari riaffioranti, ha colpito negli ultimi anni l'accelerazione del percorso personale di Gianfranco Fini, che ha teso a presentarsi come interprete di una nuova destra «moderna» e repubblicana, sempre più distante dal punto di partenza e sempre più vicina al modello di una destra europea incarnata dall'esperienza gaullista più che dalla tradizione democristiana.
Su cosa sia oggi la cultura del partito che si scioglie si sono interrogati i giornali, in tono tra il divertito e il serioso. Va detto però che molti osservatori si sono abbandonati a un assemblaggio inevitabilmente pittoresco tra dichiarazioni ufficiali, bancarelle di libri in esposizione nei congressi, «rivalutazioni» ardite di un organo negli ultimi tempi molto immaginifico quale il Secolo d'Italia. Viene fuori così un quadro dove Julius Evola si mescola a Vasco Rossi e nell'ombra sogghigna Wil Coyote. Prendiamo però la cosa sul serio, come è giusto fare, e atteniamoci al documento ufficiale, che come tutti i documenti va analizzato attentamente, di là del suo valore intrinseco.

giovedì 12 febbraio 2009

La cosmopoli di Gramsci (di Giorgio Baratta)




La cosmopoli di Gramsci
antidoto al leghismodi Giorgio Baratta *


Il crollo del socialismo reale e il rigonfio dell'americanismo, la violenza arrogante dell'era Bush e il trionfo dei fondamentalismi che mette in crisi le acquisizioni del postcolonialismo, la globalizzazione economica e mediatico-culturale, ora la crisi, hanno determinato e determinano in varie parti del mondo il risveglio di interesse per il pensiero di Gramsci.
In un senso paradossale, ma non peregrino, il suo modo-metodo di pensare appare per alcuni versi più attuale oggi rispetto al periodo nel quale egli scriveva.
La sostanza internazionale del pensiero di Gramsci e, insieme, il motus - crescendo regionale-nazionale-continentale-mondiale che essa sprigiona, sono la ragione della sua fortuna oggi, diversa da quella di ieri.
Il focus sta nella consapevolezza della mondializzazione della politica a dominanza americana, a fronte della certezza che la filosofia della prassi, animata da un autentico «filosofo democratico» o «pensatore collettivo», delinea o può delineare un orizzonte pratico-teorico nel quale morendo, come muore, il "vecchio", si profila all'orizzonte il "nuovo", anche se per ora, come Gramsci scrive nel Quaderno 3, «non può nascere».
Che cosa fosse e cosa potrà essere questo "nuovo", è il suo, e nostro, sogno di una cosa.
Nel Quaderno 1 Gramsci rivendica, differenziandosi da Lenin e dalla linea di pensiero dell'Internazionale, la fioritura di una nuova fase del capitalismo, che si annuncia attraverso il primato economico e politico degli Stati Uniti e l'egemonia americana/americanista. In questo contesto egli ripropone la questione meridionale - affrontata a livello tutto italiano nelle Tesi del 1926 - in una dimensione internazionale, rispetto alla quale l'emblematico, per l'Italia e l'Europa «mistero di Napoli», si ricollega a tutti i Sud del mondo, in particolare a quei Paesi asiatici, come «l'India e la Cina», ove si presentano il «ristagno della storia e l'impotenza politico-militare». Tuttavia già nel Quaderno 2 Gramsci lumeggia un possibile transito: «Se la Cina e l'India diventassero nazioni moderne, con grandi masse di produzione industriale» e «si sposterà l'asse della politica mondiale dall'Atlantico al Pacifico», che cosa accadrà?
Si capisce bene la prudenza politico-programmatica di Gramsci in un «mondo grande e terribile» che risulta, «specialmente per chi è in carcere, sempre più incomprensibile».
Un punto fermo è l'insistenza, anche metaforica ed espressiva, di Gramsci sulla categoria "mondo", spia della centralità del cosmopolitismo=nuovo internazionalismo nel ritmo del suo pensiero.
Gli studi geo-politici e culturali (ad es. di Boothman, che interverrà sull'Islam a Cagliari) hanno avviato la «filologia vivente» di questa dimensione. Banco di prova di un «moderno cosmopolitismo», a partire dal «vecchio centro», in via di sfaldamento, è, per un verso, la «crisi italiana», per altro la questione europea. Di qui la singolare e problematica, ma efficace espressione: «una nuova cosmopoli europea e mondiale».
A che cosa pensa Gramsci?
Nel Quaderno 9 leggiamo: «Nel Risorgimento, Mazzini-Gioberti cercano di creare il mito di una missione dell'Italia rinata in una nuova Cosmopoli europea e mondiale, ma è un mito puramente verbale e cartaceo».
A fronte di questo cosmopolitismo «tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi meccanici del passato», che aspira a modernizzarsi coniugandosi, sia pure da posizioni arretrate, con l'«uomo-capitale», Gramsci ribadisce che «l'espansione italiana è dell'uomo-lavoro non dell'uomo-capitale. Il cosmopolitismo italiano non può non diventare internazionalismo. Non il cittadino del mondo, in quanto civis romanus o cattolico, ma in quanto lavoratore e produttore di civiltà». E' cieco chi non veda in questo passo lungi-mirante un modello passato del ricongiungimento, che il presente quadro politico italiano ci offre, tra le godurie mediatiche dell'«uomo capitale» e i rigurgiti clerical-fascisti di «ricordi meccanici del passato».
Quel che stona con l'oggi è evidentemente la pars costruens , che manca, cioè l'italiano uomo-lavoro produttore di civiltà
Dalla Sardegna all'Italia, all'Europa, al mondo: «l'unificazione del genere umano» - analiticamente la ripresa di ciò che Marx una volta chiamò il «comunismo del capitale», progettualmente la trasformazione del senso comune in comunismo socialista - è un leit-motiv nascosto, a volte affiorante, nelle pieghe di tutti i Quaderni.
Abbiamo parlato dell'Italia. Guardiamo all'Europa, anche qui nella tensione passato-presente. L'"europeismo" di Gramsci è una convinzione fortissima.
Dal quaderno 6: «Esiste oggi una coscienza culturale europea ed esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra x anni questa unione sarà realizzata la parola "nazionalismo" avrà lo stesso valore archeologico che l'attuale "municipalismo"».Il punto delicato, oggi in questione, è il nesso che Gramsci stabiliva tra Europa e Nuova Cosmopoli.
Si registra un paradosso: mai come oggi l'unione europea è apparsa tanto fragile e politicamente inconsistente; mai come oggi, tuttavia, la ricerca di un'alternativa al "nuovo ordine mondiale" "di marca americana" dimostra un bisogno urgente di iniziativa dell'Europa - "potenza di mediazione" - congeniale a quella che Gramsci chiamava «una moderna forma di cosmopolitismo».
La gramsciana dialettica del contrappunto tra forme plurime di appartenenza e comunanza degli individui, ha rappresentato e rappresenta una grande sfida contro la tragica mania identitaria che ha in gran parte caratterizzato, in difetto di prospettive concretamente internazionaliste, la storia del Novecento e di questo inizio di secolo.
Così Gramsci ha potuto ragionare sul valore politico del suo ancoramento alle proprie radici in Sardegna e insieme ha esplicitato l'esigenza di una radicale fuoriuscita dal suo originario «triplice o quadruplice provincialismo» al fine di abbracciare una coscienza, più che nazionale, "europea": coscienza difficile, che non può, né deve chiudersi in se stessa, in un'epoca, come si dice nel Quaderno 2, nella quale «l'Europa ha perduto la sua importanza e la politica mondiale dipende da Londra, Washington, Mosca, Tokyo più che dal continente».
Il nostro Convegno affronta Gramsci e la "sua" Europa fuori dell'Europa: tematizza la presenza dell'Asia e dell'Africa nel suo pensiero, e insieme l'attualità di esso in questi continenti. Sono noti i processi di studio e di uso produttivo di Gramsci in Asia, come dimostrano i Subaltern Studies fondati da Guha in India.
E l'Africa? Il Convegno è una promessa, quale tematizzazione di un argomento certo secondario, ma non irrilevante nei Quaderni. Uno studioso della letteratura senegalese immaturamente scomparso, Werner Glinga, delineò, in una magistrale analisi nel Convegno romano del Cipec del 1987, nel quale fu concepita la IGS, il "triangolo della schiavitù" tra Africa, Europa, America, che Gramsci aveva tenuto presente. Il grande intellettuale nero Cornel West - allora consulente di Jesse Jackson, candidato alternativo a Reagan per la presidenza degli Stati Uniti, così come quest'anno è stato un promotore della candidatura di Obama - mise in guardia, in una videorelazione a quello stesso convegno, dall'uso dell'apocope "afro-americano", sottolinando la necessità, financo linguistica, di lasciare spazio all'eredità africana della nazione americano-statunitense. Certo ancora non sappiamo in che cosa consisterà quella che già che viene chiamata l'era Obama.
Siamo solo agli albori. Tendenzialmente i suoi compiti si possono caratterizzare con l'articolazione: riforma economica, rivoluzione simbolica, mutamento dello scenario internazionale (per non parlare di ecologia): momenti diversi - difficile dire se solidali o in contrasto tra loro - di una medesima problematica, estremamente complessa.
Come si presenterà il volto dell'America e dell'americanismo con Obama?
Che cosa dirà Gramsci?

Giorgio Baratta
* Relazione di apertura del convegno "Gramsci in Asia e in Africa", organizzato dal dipartimento di studi storico-politico internazionali dell'università di Cagliari giovedì e venerdì presso l'aula magna della facoltà di Scienze politiche (via di Sant'Ignazio 78). Sarà presentato anche il videosaggio di Giorgio Baratta e Massimiliano Bomba "Terra Gramsci".

[da Liberazione,10/02/2009]

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