Scritti critici. Saggi, articoli e recensioni di filosofia, politica e storia del presente
lunedì 28 maggio 2012
Balibar, Löwy, Varikas: L'avvenire dell'Europa si gioca in Grecia
domenica 27 maggio 2012
da Guy Debord, La société du spectacle
sabato 25 febbraio 2012
Salviamo la Grecia dai suoi salvatori: un appello agli intellettuali europei
Alain Badiou, Jean-Christophe Bailly, Étienne Balibar, Claire Denis, Jean-Luc Nancy, Jacques Ranciere, Avital Ronell. Salviamo la Grecia dai suoi salvatori: Un appello agli intellettuali europei. la Repubblica.it. February 22, 2012.
Traduzione in Italiano di Vicky Skoumbi, Dimitris Vergetis, Michel Surya
rispettivamente redattrice e direttore della rivista Aletheia di Atene e direttore della rivista Lignes, Parigi.
venerdì 25 novembre 2011
" Una sovranità chiamata debito" - di: Étienne Balibar
Le peripezie elettorali (quelle che forse ci saranno anche in Francia tra sei mesi) non richiedono grandi commenti. Abbiamo capito che gli elettori giudicano i loro governi responsabili dell’insicurezza crescente nella quale vive oggi la maggioranza dei cittadini dei nostri paesi e non si fanno troppe illusioni sui loro successori. Bisogna però contestualizzare: dopo Berlusconi, si può capire che Mario Monti, almeno in questo momento, batta ogni record di popolarità. Il problema più serio riguarda però la svolta istituzionale. La congiuntura delle dimissioni avvenuta sotto la pressione dei mercati che fanno alzare o diminuire i tassi di interesse sul debito, l’affermazione del «direttorio» franco-tedesco nell’Unione Europea, e l’intronizzazione dei «tecnici» legati alla finanza internazionale, consigliati o sorvegliati dall’Fmi, non può evitare di provocare dibattiti, emozioni, inquietudini e giustificazioni.
Una strategia preventiva
Uno dei temi più frequenti è quello della «dittatura commissaria» che sospende la democrazia al fine di rifondarne la stessa possibilità, nozione definita da Jean Bodin all’alba dello Stato moderno e più tardi teorizzata da Carl Schmitt. Oggi i «commissari» non possono essere militari oppure giuristi, ma sono economisti. È quello che ha scritto l’editorialista de Le Figaro il 15 novembre scorso: «Il perimetro e la durata del mandato (di Monti e di Papademos) devono essere sufficientemente estesi per garantirgli l’efficacia. Ma entrambi devono essere limitati per assicurare, nelle migliori condizioni, il ritorno alla legittimità democratica. Non è concepibile pensare di fare l’Europa sulle spalle dei popoli».
A questa citazione, io ne preferisco un’altra: quello di una rivoluzione dall’alto che, sotto la frusta della necessità (il crollo annunciato della moneta unica), starebbe tentando i dirigenti delle nazioni dominanti e la «tecnostruttura» di Bruxelles e di Francoforte. Sappiamo che questa nozione, inventata da Bismarck, indica un cambiamento della struttura della «costituzione materiale», e quindi degli equilibri di potere tra la società e lo Stato, l’economia e la politica, ed è il risultato di una strategia preventiva delle classi dirigenti. Non è questo che sta accadendo con la neutralizzazione della democrazia parlamentare, l’istituzionalizzazione dei controlli sul bilancio e sulla fiscalità da parte dell’Unione Europea, la sacralizzazione degli interessi bancari in nome dell’ortodossia neo-liberista? Queste trasformazioni sono senz’altro in gestazione da molto tempo, ma esse non erano mai state rivendicate nei termini di una nuova configurazione del potere politico. Wolfgang Schäuble non ha quindi torto quando presenta come una «vera rivoluzione» l’elezione del Presidente del Consiglio Europeo a suffragio universale che conferirebbe al nuovo edificio un alone di democrazia. Salvo che questa rivoluzione è già in corso o, perlomeno, è già stata abbozzata.
martedì 22 novembre 2011
E. Balibar - Union européenne : la révolution par en haut ?
Étienne Balibar
domenica 16 ottobre 2011
I veri moderati - Roma 15 ottobre 2011
venerdì 14 gennaio 2011
Solidarietà con il popolo tunisino e algerino Contro il neo-colonialismo e la dittatura. Presidio: BO sabato 15 gennaio piazza Nettuno
In questi giorni il popolo tunisino e algerino si stanno ribellando contro i propri regimi. In Tunisia, come in Algeria, ci si ribella contro l'aumento dei prezzi degli alimentari, la mancanza di case e la disoccupazione; una povertà che è il frutto dell'espropriazione e dello sfruttamento dell'imperialismo e delle borghesie asservite di quei paesi. Non a caso UE ed Usa sostengono questi regimi spacciandoli per "stati democratici".
Questo è evidenziato - oltre che dalla reazione stragista del regime - dalla preoccupazione con cui seguono lo sviluppo degli avvenimenti le potenze occidentali; in primo luogo l’Italia di cui Ben Alì è stato storicamente uno strumento e partner economico, a partire dalla sua presa del potere nel 1987 con un colpo di stato, organizzato in diretto collegamento con i servizi segreti italiani e l’allora Primo ministro Craxi morto latitante in Tunisia per sfuggire alle condanne emesse contro di lui dalla magistratura italiana.
Lo scontro, in Tunisia, ha ormai raggiunto drammatici livelli: circa 70 morti tra i manifestanti, arresti selezionati di comunisti e sindacalisti. Il criminale regime fantoccio del sanguinario Ben Alì sta mostrando il suo vero volto..
Dopo anni di emigrazione da quei paesi l’Europa chiude le porte della speranza per migliaia di giovani negandogli un futuro diverso. Affamati dai propri governi, schiavi nei paesi di immigrazione, il popolo ha deciso che è giunta l’ora di cambiare.
La lotta dei giovani, dei disoccupati, dei lavoratori maghrebini, le loro rivendicazioni sono le nostre, in Maghreb cosi come in Italia.
Sabato 15 gennaio
Piazza Nettuno Bologna
Aderiscono:
Coordinamento Migranti di Castel Maggiore
Giovani Comunisti
il popolo viola
Partito della Rifondazione Comunista
Rete dei Comunisti
Sinistra Critica
USB-Immigrati
mercoledì 5 gennaio 2011
"Scomodare Marx": la Fiat, le tendenze storiche che muovono il capitalismo del nostro tempo
Nel corso del suo sviluppo, dunque, il capitalismo riduce costantemente la quota di lavoro per unità di prodotto, cercando di sfuggire alla caduta tendenziale del saggio di profitto e di sostenere la competizione. Quella competizione che oggi esso stesso si fa delocalizzando parte delle sue imprese nei paesi a bassi salari. Ma il capitale che espelle lavoro cerca di sfruttare più intensivamente quello che impiega, perché più ridotta diventa nel frattempo la quota da cui può estrarre plusvalore. André Gorz ha riassunto lapidariamente questa attuale contraddizione del capitale in cui i lavoratori vengono stritolati: «più la quantità di lavoro per una produzione data diminuisce, più il valore prodotto per lavoratore – la sua produttività – deve aumentare affinché la massa del profitto realizzabile non diminuisca. Si ha dunque questo apparente paradosso per cui più la produttività aumenta, più è necessario che aumenti ancora per evitare che il volume del profitto diminuisca.
La corsa alla produttività tende così ad accelerarsi, gli impiegati effettivi a essere ridotti, la pressione sul personale a inasprirsi, il livello e la massa dei salariati a diminuire». E in questa morsa oggi, letteralmente, si soffoca. Chi ha la pazienza di leggersi la grande inchiesta della Fiom del 2008, condotta su un questionario cui hanno risposto 100 mila lavoratrici e lavoratori, può farsene un'idea.
giovedì 27 maggio 2010
Étienne Balibar - Europa: crisi o fine?
Étienne Balibar
Europa: crisi o fine?
In poche settimane, abbiamo assistito alla rivelazione da parte del primo ministro Papandreu del debito «reale» della Grecia, manipolato dal suo predecessore con l'aiuto di Goldmann Sachs; all'annuncio della possibilità che il suo Paese non ce la faccia a pagare i nuovi interessi sul debito, brutalmente moltiplicati; all'imposizione alla Grecia di un piano di austerità selvaggio, come contropartita del prestito europeo. Poi l'«abbassamento del voto» della Spagna e del Portogallo, la minaccia dell'implosione dell'euro, la creazione di un fondo di aiuto europeo di 750 miliardi (su richiesta, in particolare, degli Stati uniti). Infine, la decisione della Bce, in contraddizione con il suo statuto, di acquisire delle obbligazioni statali, e l'adozione di politiche di rigore in una decina di paesi. Ce n'est qu'un début, non è che l'inizio, poiché questi nuovi episodi di una crisi apertasi due anni fa con il crollo dei crediti immobiliari statunitensi ne prefigurano altri. Dimostrano che il rischio di crac persiste o addirittura aumenta, alimentato da una massa enorme di titoli «spazzatura», accumulata nel corso del decennio precedente grazie ai consumi a credito, alla trasformazione dei titoli dubbiosi e dei credit default swaps in prodotti finanziari, oggetto di speculazione a breve. Il tormentone dei crediti dubbiosi continua, e gli stati sono in affanno. La speculazione investe ormai le monete e il debito pubblico. L'euro rappresenta oggi l'anello debole di questa catena, e trascina l'Europa. Le conseguenze saranno devastanti.
I greci hanno ragione a rivoltarsi
Prima conseguenza della crisi e della «medicina» che le è stata applicata: la rabbia della popolazione greca. Hanno torto a rifiutare di assumersi le proprie responsabilità? Hanno ragione a denunciare una «punizione collettiva»? Indipendentemente dalle provocazioni criminali che l'hanno viziata, questa rabbia si giustifica per almeno tre motivi. L'imposizione dell'austerità è stata accompagnata da una stigmatizzazione delirante del popolo greco, considerato colpevole per la corruzione e le menzogne della sua classe politica, di cui (qui come altrove) approfittano ampiamente i più ricchi (in particolare sotto la forma dell'evasione fiscale). L'austerità, ancora una volta, è stata imposta rovesciando gli impegni elettorali del governo, al di fuori di qualsiasi dibattito democratico. Infine, abbiamo visto l'Europa applicare al suo interno non delle procedure di solidarietà, ma le regole leonine del Fondo monetario internazionale, che mirano a proteggere i crediti delle banche, mentre annunciano una prevedibile recessione senza fine per il paese. Gli economisti, su queste basi, concordano nel pronosticare un default certo del tesoro greco, un contagio della crisi e un'esplosione del tasso di disoccupazione, soprattutto se le stesse regole verranno applicate ad altri paesi virtualmente in fallimento stando alle «notazioni» del mercato, come reclamano ad alta voce i difensori dell'«ortodossia».
Una politica che occulta il suo volto
Nel «salvataggio» della moneta comune, di cui i greci sono stati le prime vittime (ma non saranno gli ultimi), le modalità che hanno prevalso finora (imposte, in particolare, dalla Germania) hanno messo in primo piano, come priorità, la generalizzazione del «rigore» di bilancio (inscritto nei trattati fondatori, ma nei fatti mai veramente applicato) e, ma solo in secondo luogo,la necessità di una «regolazione» - molto moderata - della speculazione e della libertà degli hedge funds (già evocata dopo la crisi dei subprimes e dei fallimenti bancari del 2008). Gli economisti neo-keynesiani aggiungono a queste esigenze dei passi avanti verso il «governo economico» europeo (in particolare l'unificazione delle politiche fiscali), o dei piani di investimento elaborati in comune: senza questo, affermano, l'esistenza stessa della moneta unica si rivelerà impossibile.
Si tratta, evidentemente, di proposte assolutamente politiche (e non tecniche). Sono alternative che i cittadini dovrebbero dibattere, poiché le conseguenze di queste scelte saranno irreversibili per la collettività. Ma il dibattito è falsato dalla dissimulazione di tre dati essenziali:
- la difesa di una moneta e la sua utilizzazione congiunturale (sostegno, svalutazione) comportano sia un assoggettamento delle politiche economiche e sociali all'onnipotenza dei mercati finanziari (con le loro «notazioni» che si auto-realizzano e i loro «verdetti» che non lasciano spazio a nessun appello), sia una crescita della capacità degli stati (e, più in generale, della potenza pubblica) a limitarne l'instabilità e a privilegiare gli interessi a lungo termine sui profitti speculativi. Una strada o un'altra, tertium non datur.
- con la scusa di una relativa armonizzazione delle istituzioni e di una garanzia di alcuni diritti fondamentali, la costruzione europea, nella sua forma attuale, con le forze che l'orientano, non ha smesso di favorire la divergenza delle economie nazionali, che in teoria avrebbe invece dovuto ravvicinare all'interno di una zona di prosperità condivisa: alcune economie ne dominano altre, sia in termini di parti di mercato, sia in termini di concentrazione bancaria, sia trasformandole in fornitori in subappalto. Gli interessi delle nazioni, se non quelli dei popoli, diventano contraddittori.
- il terzo pilastro di una politica keynesiana generatrice di fiducia, oltre la moneta e il fisco, cioè la politica sociale, la ricerca della piena occupazione e la crescita della domanda attraverso il consumo popolare, viene sistematicamente passato sotto silenzio, anche dai riformatori. E sicuramente viene fatto apposta.
Dove va la globalizzazione?
A cosa serve, d'altronde, riflettere e discutere sull'avvenire dell'Europa e della sua moneta (dalla quale alcuni grandi paesi si tengono alla larga: Gran Bretagna, Polonia, Svezia), se non si tiene conto delle tendenze reali della globalizzazione? Se la gestione politica della crisi finanziaria resta fuori portata per le popolazioni e i governi implicati, l'effetto sarà una formidabile accelerazione dei processi in corso. Di che cosa si tratta? In primo luogo, del passaggio da una forma di concorrenza a un'altra: dai capitalismi produttivi ai territori nazionali, dove ognuno, a colpi di esenzioni fiscali e di abbassamento del valore lavoro, tenta di attirare più capitali fluttuanti del vicino. E' più che evidente che l'avvenire politico, sociale e culturale dell'Europa in generale - e di ogni paese in particolare - dipende dal fatto di sapere se l'Europa costituisce un meccanismo di solidarietà e di difesa collettiva delle popolazioni contro il «rischio sistemico», oppure se, al contrario (con l'appoggio di alcuni stati, momentaneamente dominanti, e delle loro opinioni pubbliche) si tratta di un quadro giuridico per intensificare la concorrenza tra gli stati membri e tra i cittadini.
Inoltre, si tratta, più generalmente, del modo in cui la mondializzazione sta sconvolgendo la divisione del lavoro e la ripartizione dell'occupazione nel mondo: in questa ristrutturazione che sovverte nord e sud, ovest e est, una nuova crescita delle ineguaglianze e dell'esclusione in Europa, l'annientamento della classe media, la diminuzione dei lavori qualificati e delle attività produttive «non protette», dei diritti sociali, delle industrie culturali e dei servizi pubblici universali, sono per così dire già programmati. Le resistenze all'integrazione politica, con la scusa di difendere la sovranità nazionale, non possono che aggravare gli effetti nella maggior parte delle nazioni e precipitare il ritorno (già ben avviato) degli antagonismi etnici che l'Europa aveva preteso di oltrepassare definitivamente al suo interno. Ma inversamente è chiaro che non ci sarà un'integrazione europea «dall'alto», in virtù di un'ingiunzione burocratica, senza un progresso democratico in ogni paese e in tutto il continente.
Populismo: pericolo o risorsa?
E' la fine dell'Unione europea, di questa costruzione la cui storia era cominciata 50 anni fa sulla base di una vecchia utopia, ma le cui promesse non sarebbero state mantenute? Non bisogna aver paura di dirlo: sì, ineluttabilmente, a una più o meno breve scadenza e non senza qualche prevedibile violenta scossa, l'Europa è morta come progetto politico, a meno che non riesca a rifondarsi su nuove basi. Un'implosione abbandonerebbe ancora di più i popoli che la compongono oggi alle incertezze della globalizzazione, come sugheri in un torrente. Una rifondazione non garantisce nulla, ma dà qualche possibilità di esercitare una forza geopolitica, a proprio vantaggio e per quello degli altri, a condizione di osare affrontare le immense sfide di un federalismo di nuovo tipo. Si tratta della potenza pubblica comunitaria (distinta sia dallo stato che da una semplice «governance» di politici ed esperti), di eguaglianza tra le nazioni (il contrario dei nazionalismi reattivi, sia quello dei «forti» che quello dei «deboli») e di rinnovamento della democrazia nello spazio europeo (il contrario della «de-democratizzazione» attuale, favorita dal neo-liberismo e dallo «statalismo senza stato» delle amministrazioni europee, colonizzate dalla casta burocratica, che sono anche per buona parte all'origine della corruzione pubblica).
Da tempo avremmo dovuto ammettere questo fatto evidente: non ci saranno passi avanti verso il federalismo, in effetti oggi auspicabile, senza un passo avanti della democrazia al di là delle forme esistenti, in particolare con una intensificazione dell'intervento popolare nelle istituzioni sovranazionali. Significa che, per rovesciare il corso della storia, scuotere le abitudini di una costruzione ormai senza fiato, ci sia bisogno oggi di qualcosa che può essere definito un populismo europeo, un movimento convergente delle masse o un'insurrezione pacifica, attraverso la quale venga espressa contemporaneamente la rabbia delle vittime della crisi contro coloro che ne approfittano (o la alimentano) e l'esigenza di un controllo «dal basso» sugli scambi tra finanza, mercati e politica degli stati? Sì, senza dubbio, perché non c'è altro nome per definire la politicizzazione del popolo, ma a condizione - se si vogliono scongiurare altre catastrofi - che vengano istituiti seri controlli costituzionali e che rinascano delle forze politiche su scala europea, in grado di far prevalere all'interno di questo populismo «post-nazionale» una cultura, un immaginario e degli ideali democratici intransigenti. C'è un rischio, ma è minore di quello di lasciare libero corso ai diversi nazionalismi.
Dov'è la sinistra europea?
Queste forze costituiscono ciò che tradizionalmente, nel continente, era chiamata la sinistra. Ma anch'essa è in stato di fallimento politico: a livello nazionale e internazionale. Nello spazio che ormai conta, che attraversa le frontiere, ha perso qualsiasi capacità di rappresentazione delle lotte sociali o di organizzazione di movimenti di emancipazione, in maggioranza si è allineata ai dogmi e ai ragionamenti del neo-liberismo. Di conseguenza, si è disintegrata dal punto di vista ideologico. Coloro che la incarnano sono soltanto gli spettatori e, in mancanza di seguito popolare, i commentatori impotenti di una crisi contro la quale non propongono nessuna risposta collettiva: niente dopo lo choc finanziario del 2008, niente dopo l'imposizione alla Grecia delle ricette dell'Fmi (peraltro vigorosamente denunciate in altri luoghi e in altri tempi), niente per «salvare l'euro» altrimenti che pesando sulle spalle dei lavoratori e dei consumatori, niente per rilanciare il dibattito sulle possibilità e gli obiettivi dell'Europa solidale.
Cosa succederà, in queste condizioni, quando entreremo nelle nuove fasi della crisi, che devono ancora intervenire? Quando le politiche nazionali sempre più securitarie si svuoteranno del loro contenuto (o del loro alibi) sociale? Ci saranno dei movimenti di protesta, senza dubbio, ma isolati, che potranno venire deviati verso la violenza o recuperati dalla xenofobia e il razzismo già galoppanti, destinati a produrre ancora maggiore impotenza e più disperazione. Tuttavia, la destra capitalista e nazionalista, benché non resti inattiva, è potenzialmente divisa tra strategie contraddittorie: lo si è visto a proposito dei deficit e dei piani di rilancio economico, lo vedremo ancora di più quando l'esistenza delle istituzioni europee sarà in gioco (come prefigura, probabilmente, l'evoluzione britannica). Ci sarebbe qui un'occasione da sfruttare, la possibilità di agire. Delineare e dibattere su ciò che potrebbe essere, su ciò che dovrebbe essere una politica anti-crisi su scala europea, democraticamente definita, che cammini sulle due gambe (del governo economico e della politica sociale), capace di eliminare la corruzione e di ridurre le ineguaglianze che l'alimentano, di ristrutturare il debito e di promuovere gli obiettivi comuni che giustificano i trasferimenti tra nazioni solidali le une con le altre. Sarebbe questa la funzione degli intellettuali progressisti europei, sia che si definiscano rivoluzionari o progressisti. Non ci sono scuse per tirarsi indietro.
Ferruccio Gambino: il cuore di tenebra del capitale, la crisi di di sistema
Crisi di sistema
Per trovare un disastro simile occorre guardare alla Grande Depressione del 1929-38. E’ facile esagerare l’importanza degli avvenimenti correnti rispetto a quelli del passato, ma questo rovescio è colossale, comunque lo si misuri. Non basterà qualche rettifica per mettere in sesto un quadro sociale – prima ancora che economico – sconquassato.
Molti ammettono che questa crisi è sì di sistema, ma poi la spiegano a piccole dosi ansiolitiche. In realtà è crisi di sistema perché tocca in profondità i rapporti sociali in tutti i paesi investiti dalla globalizzazione. Per coloro che sono dalla parte delle lavoratrici e dei lavoratori, il dato saliente è la crisi dei rapporti sociali, ben prima di qualsiasi sboom finanziario. Già all’inizio degli anni ‘70, Stan Weir, un protagonista e osservatore delle relazioni lavorative negli Usa avvertiva la diffusa resistenza a condizioni di lavoro in via di deterioramento: “…grandi numeri di operai industriali non sono più disposti a tollerare le condizioni nelle quali si vuole che producano i beni e i servizi che… mantengono in vita questa società”.
Tuttavia il peggio doveva ancora arrivare ...
lunedì 24 maggio 2010
Étienne Balibar - Europe: crise et fin?
Étienne Balibar
Europe: crise et fin ?
- La crise ne fait que commencer.
- Les Grecs ont raison de se révolter.
- La politique qui ne dit pas son nom.
Ce sont là, à l’évidence, des propositions intégralement politiques (et non pas techniques). Elles s’inscrivent dans des alternatives à débattre par les citoyens, car leurs conséquences seront irréversibles pour la collectivité. Or le débat est biaisé par la dissimulation de trois données essentielles :
- la défense d’une monnaie et son utilisation conjoncturelle (soutien, dévalorisation) entraînent soit un assujettissement des politiques économiques et sociales à la toute-puissance des marchés financiers (avec leurs « notations » autoréalisatrices et leurs « verdicts » prétendument sans appel), soit un accroissement de la capacité des Etats (et plus généralement de la puissance publique) à limiter leur instabilité et à privilégier les intérêts à long terme sur les profits spéculatifs. C’est l’un ou c’est l’autre.
- sous couvert d’une harmonisation relative des institutions et d’une garantie de certains droits fondamentaux, la construction européenne dans sa forme actuelle, avec les forces qui l’orientent, n’a cessé de favoriser la divergence des économies nationales, qu’elle devait théoriquement rapprocher au sein d’une zone de prospérité partagée : certaines dominent les autres, soit en termes de parts de marché, soit en termes de concentration bancaire, soit en les transformant en sous-traitants. Les intérêts des nations, sinon des peuples, deviennent contradictoires.
- le troisième pilier d’une politique keynésienne génératrice de confiance, en plus de la monnaie et de la fiscalité, à savoir la politique sociale, la recherche du plein emploi et l’élargissement de la demande par la consommation populaire, est systématiquement passé sous silence, même par les réformateurs. Sans doute à dessein.
- A quoi tend la mondialisation ?
- Nationalisme, populisme, démocratie : où le danger ? où le recours ?
Depuis longtemps, on aurait du admettre cette évidence : il n’y aura pas d’avancée vers le fédéralisme qu’on nous réclame aujourd’hui et qui est en effet souhaitable, sans une avancée de la démocratie au-delà de ses formes existantes, et notamment une intensification de l’intervention populaire dans les institutions supranationales. Est-ce à dire que, pour renverser le cours de l’histoire, secouer les habitudes d’une construction à bout de souffle, il faille maintenant quelque chose comme un populisme européen, un mouvement convergent des masses ou une insurrection pacifique, où s’exprime à la fois la colère des victimes de la crise contre ceux qui en profitent (voire l’entretiennent), et l’exigence d’un contrôle « par en bas » des tractations entre finance, marchés, et politique des États ? Oui sans doute, car il n’y a pas d’autre nom pour la politisation du peuple, mais à la condition – si l’on veut conjurer d’autres catastrophes - que de sérieux contrôles constitutionnels soient institués, et que des forces politiques renaissent à l’échelon européen, qui fassent prévaloir au sein de ce populisme « post-national » une culture, un imaginaire et des idéaux démocratiques intransigeants. Il y a un risque, mais il est moindre que celui du libre cours laissé aux divers nationalismes.
- La Gauche en Europe ? quelle « gauche » ?
(21 mai 2010)
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trad. it. : Europa. crisi o fine?
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sabato 5 dicembre 2009
antifascismo oggi
«Al di là dei fatti, serve una riflessione complessiva su cosa significa essere antifascisti oggi. E la prima interpretazione da cui bisogna culturalmente distaccarsi è che l’antifascismo sia una pratica che appartiene solo ad un’avanguardia che si reputa tale. L’antifascismo è una pratica quotidiana che ha successo laddove l’antifascista con la sua presenza nei quartieri, nelle lotte per la casa, il lavoro, la salute riesce a creare un tessuto politico e sociale coeso che sappia respingere la presenza fascista in modo automatico senza bisogno che ciò sia ogni volta onere o responsabilità di un gruppo ristretto di militanti. I fascisti portano violenza e intolleranza e rappresentano forze fresche al servizio dei potenti nei momenti di maggiore crisi o di conflittualità sociale. E’ un dato storico e politico che deve sempre essere chiaro».
[un brano che condivido, tratto da un articolo su Senza Soste]
giovedì 13 agosto 2009
Razzismo di Stato: un attacco neufeudale
di Alberto Burgio
Ormai è chiaro a tutti che la Lega guida il governo con mano sicura e chiarezza d’intenti. Varato (complice l’«opposizione») il federalismo fiscale, incassato il reato di immigrazione clandestina e istituite le ronde, è tornata al primo amore: la disunità d’Italia, il dagli al terrone parassita. Ieri la metafora gentile era il tricolore nel cesso. Oggi sono l’esame di dialetto, la purezza anagrafica dei dirigenti scolastici, il boicottaggio dell’anniversario della prima Unità. E le gabbie salariali, alle quali i nostri capitani d’industria e lo statista di palazzo Chigi hanno subito concesso il benestare. Il punto è sempre quello: sancire la superiorità dei padani e la non redimibile inferiorità dei sudici, parenti ai migranti.
mercoledì 18 marzo 2009
La primavera delle culture antifasciste: 5 giorni di incontri alle Caserme Rosse
Il Festival Sociale che si svolgerà a Bologna dal 29 maggio al 2 giugno, avrà come sede principale il Parco delle Caserme Rosse. Pubblico di seguito ampi brani del testo della convocazione, risultato (probabilmente provvisorio) di un diffuso reticolo di incontri, scambi, riunioni etc. che cooperano alla formazione e trasformazione dell'iniziativa.
La reazione della società civile diventa più difficile e complessa e, certamente, molte delle forme note dell’attivismo e della contestazione antifascista risultano superate dall’evolversi del panorama sociale. Diventa forte il bisogno di confrontare percorsi e condividere risorse e saperi con tutti coloro che sentono la necessita di opporsi ad una delle peggiori derive razziste, xenofobe e sessiste della politica e della società italiana. Portiamo nel cuore e nella mente l’impegno e il sacrificio di ieri dei nostri partigiani, i valori di giustizia sociale, di libertà ed eguaglianza che hanno animato la loro resistenza. Da qui il desiderio di rispondere, con le armi della cultura e della critica, alla violenza predicata e praticata... Sentiamo forte la necessità di non rimanere in silenzio in un clima generale di smobilitazione dei valori della Resistenza, dei diritti fondamentali dell’uomo e delle stesse basi della convivenza civile...
invitiamo fin da ora singoli, gruppi, associazioni e movimenti a collaborare alla costruzione di questo festival sociale. Un grande momento di condivisione per socializzare percorsi, condividere e confrontare idee, proposte e risorse; l’occasione per sperimentare nuovi linguaggi e ridisegnare immaginari collettivi; per stimolare la nascita di nuove relazioni e dotarci di una “scatola degli attrezzi” per analizzare e agire nei confronti del fascismo che minaccia il nostro tempo...
Vogliamo sperimentare un metodo nuovo già nella costruzione dell’evento, decentrato e partecipato, aperto ai contributi di quanti si riconoscono nella cultura e nei valori dell’Antifascismo...
A 65 ANNI DALLE PRIME DEPORTAZIONI
DA
CASERME ROSSE
Il lager nazifascista di Bologna