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domenica 8 giugno 2008

Étienne Balibar: «Gli immigrati capri espiatori»

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L'Europa dell'apartheid

Étienne Balibar:
«Gli immigrati capri espiatori»


«Si è cittadini europei per diritto genealogico. Gli immigrati, ventottesima nazione fantasma, sono degli esclusi. Il razzismo è specchio dell'ostilità tra europei. Le colpe del nazionalismo di sinistra»


di Teresa Pullano, il manifesto, 6 giugno 2008



È pessimista sull'avanzata delle destre, anche estreme, in Europa. E sul fatto che i cittadini dell'Unione desiderino realmente la democrazia. Ma si affida a Gramsci per dire che in questo momento bisogna avere l'ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione. Confessa che oggi non direbbe no ad un referendum sulla Costituzione europea. E pensa che nei confronti degli immigrati, il «ventottesimo stato dell'Ue», esista una vera e propria «apartheid europea», in cui il razzismo rispecchia i conflitti interni tra gli stessi cittadini comunitari. Conflitti dei quali i migranti rappresentano solo il capro espiatorio. Incontriamo Étienne Ballibar, filosofo della politica e intellettuale critico della costruzione europea, di passaggio a Roma per alcune conferenze proprio mentre divampa in Italia un clima xenofobo e razzista.

In Italia ha vinto la Lega sulla base della difesa del territorio, perfino i movimenti pensano di ripartire dallo stesso principio, sia pur declinato in maniera opposta. Forse che in Europa il principio del territorio si sta sostituendo a quello di nazione?
Quello del territorio è un concetto plastico che non ha un referente univoco.Leggevo qualche giorno fa un editoriale del manifesto sulle violenze al Pigneto: si faceva una critica, giustificata ma che non offre una soluzione immediata, del modo in cui tende a svilupparsi un mito del microterritorio che fa sì che gli abitanti di un quartiere o di una regione si percepiscano come difensori di uno spazio minacciato da cui espellere tutti gli stranieri. È la prova che la nozione di territorio può funzionare a vari livelli. Nelle periferie francesi le guerre tra bande di giovani proletari immigrati, disoccupati e non scolarizzati sono anch'esse dei fenomeni di difesa del territorio nel senso fantasmatico del termine. È a questo livello che bisogna proporsi non solo una critica della nozione di territorio, ma una vera politica d'apertura o di deterritorializzazione dell'appartenenza comunitaria. La sacralizzazione dei piccoli territori può essere molto violenta ma è limitata. Ciò che preoccupa è la generalizzazione di questi fenomeni su una scala più ampia. Si è verificato con il fascismo, che era una trasformazione immaginaria del territorio nazionale in proprietà di un popolo o di una razza. Ci sarebbero delle conseguenze disastrose se questo fenomeno si sviluppasse nell'insieme dell'Europa, in particolar modo su base culturale, come sembra suggerire Benedetto XVI, quando sostiene che essa è un territorio cristiano e di conseguenza i musulmani sono dei corpi estranei.

Possiamo dunque concludere che il principio di territorialità può essere la base di una cittadinanza europea?
La costruzione europea ha una base territoriale per definizione, ma a seconda se la concepiamo come fissa o evolutiva, come chiusa o aperta, si apre una direzione storica diversa. Oggi il territorio non è la base della cittadinanza europea, ma dovrebbe diventarlo. Quella che definisco come una vera e propria «apartheid europea» è data dal fatto che è cittadino europeo solo chi ha la nazionalità di uno degli Stati membri. Gli immigrati stabilitisi da una o più generazioni sul suolo europeo sono la ventottesima nazione fantasma dell'Ue e costituiscono circa un ottavo della sua popolazione. Non sono semplicemente persone che in Francia non sono francesi, in Germania non sono tedeschi o in Italia non sono italiani. È a livello dell'intera Europa che gli immigrati sono degli esclusi, a maggior ragione con la libera circolazione all'interno delle frontiere europee. L'allargamento dell'Unione europea produce forme qualitativamente nuove d'esclusione. Il diritto alla cittadinanza europea non è territoriale: è genealogico. Nella maggior parte degli stati membri la nazionalità si acquisisce con lo jus soli, ma a livello dell'insieme dell'Europa la cittadinanza è genealogica nel senso dell'appartenenza originaria alla nazione. Questo evoca dei ricordi e pone problemi inevitabili. Ci sono delle analogie tra lo sviluppo di quest'esclusione e il fatto che nella storia ci sono state e ci sono sempre, almeno a livello simbolico, delle popolazioni transnazionali trattate come nemici interni o corpi estranei alla civiltà europea. È stato il caso degli ebrei; oggi non lo è più. Rimane il caso dei rom. Il fenomeno di cui parlo è tuttavia molto più vasto.

Oggi in Europa non si sentono istanze di partecipazione dal basso a livello comunitario, mentre nei singoli stati le istanze di partecipazione si esprimono in un linguaggio nazionalistico e identitario. Che rapporto vede fra queste due tendenze?
La domanda di partecipazione a livello locale e la domanda di controllo popolare a livello nazionale e sovranazionale non si escludono. Forse c'è bisogno di un'accelerazione delle cose perché i cittadini ne prendano coscienza. La responsabilità di questa situazione è da attribuire alle istanze intermedie, come i partiti politici, che oggi sono drammaticamente assenti e ci si dovrebbe chiedere il perché. Secondo Gramsci, le istanze intermedie sono la trama statale del funzionamento della società civile e, reciprocamente, i conflitti della società civile si traspongono nella struttura dello stato. Le costituzioni nate dalla resistenza in Francia e in Italia infatti affidano ai partiti il ruolo di costituire l'opinione pubblica. Dove sono oggi i partiti politici in Europa?

La legittimità degli Stati nazionali e quella dell'Unione europea secondo lei vanno di pari passo?
Il momento attuale è caratterizzato, in modo preoccupante, da una perdita di legittimità democratica degli Stati nazione e da una diminuzione della legittimità del progetto politico europeo. Non si tratta di assumere una posizione di difesa della sovranità nazionale, al contrario. Io adotto la definizione di legittimità di Max Weber, che mi pare vicina al concetto foucaultiano di potere: una nozione pragmatica e realista che si articola in termini di probabilità, d'obbedienza al potere pubblico e dunque d'efficacia di questo stesso potere. Da questo punto di vista, non possiamo ritornare indietro rispetto a quel poco di struttura politica che esiste su scala europea, ma siamo obbligati a progredire. Ne consegue che la legittimità delle istituzioni europee è diventata una condizione di legittimità delle istituzioni nazionali stesse. Non tarderemo a vedere concretamente gli effetti di questa relazione, che si manifesteranno con forza man mano che le difficoltà economiche e sociali legate agli choc petroliferi si ripercuoteranno in Europa. Solo delle politiche europee comuni hanno una minima possibilità di essere efficaci di fronte a questo tipo di situazione, ma devono essere approvate dai cittadini degli Stati nazionali, che rimangono la fonte ultima di legittimità.

Intanto in Europa assistiamo a una crescita delle destre, anche quelle più estreme. Perché, secondo lei?
In questo momento sono pessimista e mi riconosco nella massima di Gramsci dell'ottimismo della volontà e pessimismo della ragione. Per principio le situazioni difficili sono quelle in cui bisogna immaginare delle soluzioni e delle forme d'azione collettiva e non lasciarsi andare a seguire la tendenza naturale delle cose. I sistemi politici relativamente democratici nei quali viviamo o abbiamo vissuto sono in questo momento gravemente minacciati ed indeboliti. Ai miei occhi, i problemi del nazionalismo e dell'avanzamento della destra non coincidono. Tra le due correnti ideologiche ci sono delle interferenze molto forti, ma esse non si riducono l'una all'altra. Il nazionalismo nei vari Paesi europei non è monopolio della destra. Faccio parte - lo devo confessare, ma i lettori del manifesto lo sanno - delle persone che tre anni fa in Francia hanno votato «no» al referendum sulla costituzione europea. Ho creduto di farlo per ragioni che non erano né di destra né nazionaliste. Sono oggi costretto a constatare che questa scommessa è stata persa e che l'aspetto transnazionale e il richiamo a un federalismo europeo sono stati completamente neutralizzati da una dominante nazionalista a sinistra, o meglio nella vecchia sinistra. Ciò che è inquietante è la convergenza del nazionalismo di destra e del nazionalismo di sinistra. I suoi effetti si fanno sentire a livello dei governi nella forma di un sabotaggio permanente delle politiche europee comuni. Ma la convergenza tra le due forme di nazionalismo a livello dell'opinione pubblica e dell'ethos delle classi popolari in Europa è ancora più preoccupante. Meno gli stati nazionali sono capaci di rispondere alle sfide economiche, sociali e culturali del mondo contemporaneo, più i discorsi populisti e nazionalisti fanno presa su una parte delle classi popolari in Europa. Bisogna interrogarsi sulle cause strutturali di questa situazione, non ci si può accontentare del discorso elitista dell'ignoranza del popolo. Di certo è una situazione molto pericolosa per il futuro della democrazia in Europa, senza parlare delle conseguenze sullo sviluppo del razzismo.

Lei parla di un nazionalismo di sinistra. Si può dire che la sinistra oggi pensi da un lato lo spazio mondiale e dall'altro quello nazionale, e sia perciò incapace di vedere quello europeo come uno spazio eterogeneo rispetto agli altri due? È forse un lascito dell'internazionalismo di Marx?
Calandoci nell'epoca in cui Marx ha scritto, potremmo dire esattamente il contrario. Il pensiero di Marx era legato a un momento rivoluzionario che investiva l'Europa intera. Rileggendo gli articoli di Marx del 1848, vediamo che il nazionalismo democratico si allea con il socialismo e le prime forme di lotta di classe. In quel momento Marx e Engels hanno probabilmente pensato che una repubblica democratica europea o un'alleanza di repubbliche democratiche europee era al contempo la forma nella quale si preparava o poteva realizzarsi il superamento del capitalismo. Oggi la situazione è diversa e il senso di parole come nazionalismo si è ribaltato. È vero che certe forme di anticapitalismo teorico, che pescano in parte nell'eredità di Marx e che io non disprezzo ma trovo un po' arcaiche ed unilaterali, trascurano il problema della politica europea. La prospettiva altermondialista ha tuttavia il vantaggio di affermare che pensare l'Europa come uno spazio chiuso è illusorio. Al contempo, le costituzioni democratiche sono radicate nella risoluzione dei conflitti storici passati. Costruire uno spazio politico europeo è importante perché dobbiamo ricomporre il nostro passato a livello continentale: una cultura politica comune deve emergere dalle differenze culturali e storiche dell'Europa. Vi è un legame profondo tra la mancata rielaborazione del nostro passato e l'immigrazione. Gli immigrati sono i capri espiatori dell'ostilità fra gli europei. E' la loro stessa incapacità di pensarsi come un'unità che impedisce agli europei di trattare il problema dell'immigrazione in termini progressisti. I francesi non vi diranno mai che detestano i tedeschi o gli inglesi che non possono sopportare l'idea di formare un popolo comune con gli spagnoli, però questa diffidenza non è stata superata, anzi si è rafforzata con l'allargamento dell'Europa ad Est.

La Costituzione europea è stata affossata, ma in parte viene recuperata con il Trattato di Lisbona. Come giudica la strategia dei leader politici europei di procedere comunque, nonostante il rifiuto dei cittadini dell'Unione?
Non m'interessa, dubito che gli stessi leader europei ci credano loro stessi. Possiamo invece tornare sulla questione del rifiuto del Trattato europeo. I casi francese ed olandese, come ha scritto Helmut Schmidt su Die Zeit, non erano isolati. Il malessere era generale. Questo malessere resta da interpretare e analizzare ed è sempre d'attualità. All'epoca ho difeso la posizione un po' troppo idealista, che oggi non sosterrei più allo stesso modo, secondo la quale la Costituzione europea non era abbastanza democratica. Pensavo che essa non presentasse una prospettiva sufficientemente chiara di progresso generale della democrazia per l'insieme del continente. Tendevo dunque a considerare che la sola possibilità, molto fragile, per l'Europa di diventare uno spazio politico nuovo e superiore al vecchio sistema degli stati-nazione e delle alleanze nazionali, era di apparire come un momento di creazione democratica. Continuo a pensarlo, ma c'è qualcosa d'idealista in questo modo di vedere le cose che la realtà attuale ci obbliga a guardare in faccia. L'idealismo consiste nell'immaginare che le masse vogliano la democrazia, mentre purtroppo siamo in un periodo molto difficile e conflittuale. Ci sforziamo di aprire nuovamente delle prospettive democratiche a livello transnazionale, però allo stesso tempo dobbiamo provare a trovare i mezzi di resistere passo per passo all'avanzata del populismo e del nazionalismo nei paesi europei.


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E. Balibar - I. Wallerstein: Razza nazione classe

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martedì 1 maggio 2007

G : Gramsci, Antonio (aggiornamento)

E n c i c l o p e d i a
d e l l a
n e o l i n g u a

G
Gramsci, Antonio

1917
“Odio gli indifferenti: Credo come Federico Hebbel che 'vivere vuol dire essere partigiani'. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti."

Da: La città futura, numero unico, interamente redatto da Gramsci, pubblicato dalla Federazione giovanile socialista piemontese, Torino, 11 febbraio 1917.
[versione originale, o arcaica. Lingua: italiano, inizi XX secolo]

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2007
"La figura di Gramsci trascende i limiti di parte"

''L'Italia rende omaggio a Gramsci, una delle più alte figure della sua storia intellettuale. Dette valori in contributo di pensiero che per la ricchezza e profondità dei suoi presupposti e per la modernità dei suoi svolgimenti e delle sue anticipazioni, è giunto a trascendere non solo ogni limite di parte, ma i confini della stessa vicenda storica di cui era figlio: la vicenda del comunismo italiano e internazionale".
[versione revisionata e corretta. Lingua: napolitano, inizi XXI secolo]

sabato 28 aprile 2007

Antonio Gramsci, 27 aprile 1937 - 2007




"Istruitevi

perché
avremo bisogno
di
tutta
la vostra
intelligenza.

Agitatevi
perché
avremo bisogno
di
tutto
il vostro
entusiasmo.

Organizzatevi
perché
avremo bisogno
di
tutta
la vostra
forza."

venerdì 2 febbraio 2007

Foucault, Marx, marxismi

Il convegno di Bologna del 24 novembre 2005


Qual è stata l’incidenza di Marx e dei marxismi (il plurale è, per noi, d’obbligo) nella formazione di Foucault e nel percorso delle sue ricerche? E quanto il pensiero foucaultiano ha segnato lo sviluppo del marxismo occidentale?
Il convegno "Foucault, Marx , marxismi", organizzato dal Dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna presso la Scuola Superiore di Studi Umanistici, ha cercato di rispondere a questi interrogativi attraverso il confronto tra una pluralità di interventi accomunati dall’esigenza di dar corpo e determinazioni alla complessità di questi rapporti, spesso riconosciuta almeno in linea di principio, ma – in particolare in Italia – raramente esplorata nelle sue molteplici articolazioni.

Manlio Iofrida ha esplorato uno dei periodi più trascurati dalla letteratura critica: il Foucault che, all’inizio degli anni ’50, si iscrive al PCF, e le cui posizioni filosofiche oscillano tra due poli : la psicologia esistenziale di Biswanger (di filiazione heideggeriana) e un marxismo ortodosso in cui trovano spazio elementi di osservanza sovietica (in particolare Pavlov). Due poli rappresentati da due opere del ’54: l’Introduzione a Malattia mentale ed esistenza di Biswanger e Maladie mentale et personnalité. Affrontando il nodo della coesistenza di questi poli, Iofrida ha messo in luce un retroterra comune, che attraversa molteplici marxismi dell’epoca: dalle ascendenze surrealiste, all’opera di Bataille e del Blanchot del dopoguerra, al poeta e resistente René Char; una “nebulosa” in cui diversi orientamenti legati a Marx intersecano riferimenti a Nietzsche e Heidegger. Iofrida ha poi riesaminato le questioni poste dal saggio di Pierre Macherey (in Critique, n. 471-472, 1986) sulle trasformazioni che, con la riedizione del ’64, Foucault ha apportato al testo della Maladie del ’54, e ha esplicitato un unico punto di dissenso da Macherey: nel ’64 Foucault non avrebbe sostituito Marx con Heidegger; quanto piuttosto sostituito a un marxismo di osservanza sovietica un marxismo “nietzscheano-heideggeriano”. Non un cancellazione di Marx, ma l’esordio di un diverso rapporto con Marx, non più soggetto all’ortodossia.

Partendo dal corso del 1976 (Bisogna difendere la società), Guglielmo Forni Rosa ha notato che i riferimenti di Foucault al marxismo non sono omogenei e sono riferibili a diversi marxismi. Foucault distingue il riconoscimento dell’importanza di Marx dalla critica del marxismo come istituzione ancorata ad apparati di potere (partito, Stato). In questo senso, il rifiuto del marxismo come scienza potrebbe essere inteso non tanto come contestazione della legittimità del marxismo a comparire tra le scienze sociali del XIX secolo, ma come critica degli effetti di potere propri a un discorso scientifico. Un punto di forte prossimità a Marx è la concezione foucaultiana dell’individuo come prodotto storico e sociale e non come un dato naturale, sottolineata nel ’76 dall’opposizione “barbaro”/“selvaggio”. Nel rifiuto della dialettica quale forma di pacificazione di un sapere storico-politico “bellicoso”, prevale l’impossibilità di una “uscita dalla storia” in termini di conciliazione.

Sviluppando una lettura del corso del ’76 che ne privilegia le dimensione autoreferenziale (Foucault problematizza riflessivamente la griglia della “battaglia perpetua” che percorre i suoi testi degli ani ’70), Rudy M. Leonelli – con una rielaborazione delle tesi proposte in un saggio pubblicato in Altreragioni (n. 9, 1999) – ha sottolineato che l’intensificazione della lettura interna conduce paradossalmente al suo oltrepassamento, aprendo il problema cruciale del rapporto con Marx, inteso come condizione storica di esistenza della ricerca foucaultiana. L’analisi di questo rapporto è ostacolata tanto dal “gioco” di Foucault che usa frequentemente Marx senza citarlo, quanto a diverse imprecisioni nelle citazioni. Il caso più importante è quello della conferenza del 1976 “Le maglie del potere”, in cui Foucault indica luoghi del Capitale come un punto di riferimento per un’uscita dalla concezione giuridica del potere. Con il riferimento (erroneo) al II libro del Capitale, Foucault si riferisce in realtà a brani del tomo 2 del primo libro, (IV sezione). Solo se si individua il Marx al quale si riferisce Foucault, diviene possibile leggere l’analisi delle tecnologie del potere in termini produttivi come una generalizzazione delle analisi marxiane.

Stefano Catucci ha ricordato che la rilevanza politica di Foucault si è affermata a partire dalle frasi del 1966 (Le parole e le cose) che contestavano la rottura epistemica di Marx in rapporto all’economia politica ricardiana. In seguito Foucault ha cercato non tanto di “ritrattare” questa tesi, ma di circoscriverne la portata, sottolineando la rottura imprescindibile costituita dagli scritti storici di Marx. Alla radice della critica foucaultiana del marxismo, stanno in primo luogo i deludenti esiti dell’esperienza sovietica. Il Foucault più recente, nel corso del 1978, Sicurezza, territorio, popolazione, ha individuato la deficienza fondamentale della cultura socialista nell’assenza di un’autonoma concezione della “governamentalità” – che si è manifestata nella riduzione delle esperienze di governo socialista nell’alternativa tra la subalternità al liberalismo (il socialismo come “antidoto” o “correttore” di quest’ultimo) e lo stato di polizia. Il fatto che la valutazione delle esperienze di socialismo al potere sia stata generalmente posta in termini di fedeltà ad un testo, è al tempo stesso l’indice della mancanza di una concezione autonoma, e un modo di evitare il problema attraverso l’esegesi accademica del testo, verso la quale Foucault ha costantemente mantenuto un atteggiamento critico.

Marco Enrico Giacomelli – riprendendo le tesi che ha proposto in un saggio pubblicato nel numero monografico “Marx et Foucault” di Actuel Marx (n. 36, 2004) – ha evidenziato diverse corrispondenze tra le ricerche dell’operaismo italiano e le genealogie di Foucault. L’inchiesta sul cremonese di Montaldi (1956) inaugura un atteggiamento “partecipante”, in opposizione alla pretesa “neutralità” del ricercatore. Consci dell’obsolescenza degli schemi interpretativi del movimento operaio, gli operaisti privilegiano il terreno dell’inchiesta, poi tradotto nel concetto di conricerca (elaborato da Guiducci, e sviluppato da Alquati). Esperienze accomunabili a Foucault per il primato della pratica, il riferimento al sottoproletariato e la percezione del carattere disseminato del potere (il tema della società-fabbrica nell’operaismo). In rapporto all’attualità, Giacomelli sottolinea la fecondità della pratica dell’inchiesta, oltre i limiti delle impostazioni che, insistendo unilateralmente sul passaggio “epocale” al lavoro immateriale, sottovalutano le dimensioni del comando capitalistico.

Alberto Burgio ha affermato la possibilità di leggere tanto Marx quanto Foucault come due diverse imprese fondamentalmente critiche: è nel segno della critica che può collocarsi il rapporto tra i due. L’esigenza di staccarsi dalla vulgata che vuole un Foucault senza (o contro) Marx, deve farci chiedere da dove proviene: in primo luogo da Foucault stesso che, contestando il ricorso rituale e intimidatorio a Marx, usa Marx senza citarlo, e spesso laddove Marx è per lui più importante. Identificare questo Marx non citato è decisivo in quanto ci permette non solo di capire meglio Foucault e il suo rapporto con Marx, ma anche Marx stesso. Foucault ha ricordato l’importanza di Marx per lo sviluppo del concetto produttivo di potere, riguardo sia al potere disciplinare che alla storia della sessualità. La derivazione marxiana è esplicita, così come è decisivo il ruolo dei rapporti capitalistici. Contro le ricorrenti letture economicistiche di Marx, Foucault ci ricorda che Marx è un eccezionale analista dei rapporti di potere. Di più, Foucault mette in campo un concetto di egemonia che rinvia chiaramente a Gramsci. Ma, precisate queste vicinanze, resta il limite dell’analisi molecolare del potere che, secondo Burgio, non riesce a rendere conto delle crescenti divaricazioni e gerarchizzazioni.

rudy m. leonelli, novembre 2005

Una versione abbreviata di questo resoconto è stata pubblicata dal quotidiano Liberazione, 26 novembre 2005, p. 3, con il titolo:
Foucault, contro Marx. Anzi con...
 
(ripubblicato dalla Rassegna stampa de l'ernesto, da Essere comunisti, dalla rassegna sull'operaismo curata dal sito Prc Pescara)

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