giovedì 19 agosto 2010

Del "senso dello Stato" [da Senza Soste]

Cossiga, quando la sovranità
non appartiene al popolo

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È buffo che nei necrologi bipartisan dedicati a Cossiga si metta in evidenza soprattutto il suo senso dello Stato. Perché Cossiga, a differenza di tanti che oggi lo commemorano, non si è mai posto il problema di nascondere il suo disprezzo per lo Stato di diritto e ha sempre rivendicato apertamente il suo ruolo in quelle strategie occulte ed “eversive” (tecnicamente parlando) che dalla Liberazione in poi hanno costituito la vera struttura portante della Prima e della Seconda Repubblica ...

Strategie con un obiettivo chiaro e semplice: quello di impedire che in Italia la volontà popolare potesse mettere in pericolo gli equilibri politici voluti dai veri padroni del Paese e detentori della sovranità reale.

A Cossiga va dunque riconosciuto almeno un merito: quello di aver mostrato con chiarezza che nelle cosiddette democrazie occidentali i diritti civili e politici sono solo un simulacro che copre i reali rapporti di forza: “la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi”, scriveva Michel Foucault capovolgendo il famoso motto di Clausewitz.

I fatti di cui Cossiga è stato protagonista sono notissimi ...

leggi l'articolo completo in Senza Soste

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martedì 10 agosto 2010

Marx lo scienziato impaziente di rivoltare il mondo



Marx lo scienziato impaziente
di rivoltare il mondo

Tonino Bucci, per Liberazione, 20.07.2010





Nicolao Merker, Karl Marx Vita e opere
Laterza, 2010

«Un tipaccio nero imperversa pieno di furore, come se volesse afferrare l’ampia volta celeste e tirarla sulla Terra». Cimentandosi con un poemetto satirico Friedrich Engels tratteggiava con questi rapidi, ma efficaci versi un giovane studente di filosofia, uno dei tanti hegeliani di sinistra che allora –siamo all’incirca nel 1841 – circolavano per l’università di Berlino, capitale di una Prussia autocratica e in pieno clima di Restaurazione. Il nome di quello studente era Karl Marx. Tra lui ed Engels – rampollo di una famiglia di industriali tessili, arrivato nella capitale prussiana per il servizio militare – non si era ancora stabilito il celebre sodalizio di amicizia e di idee che sarebbe durato una vita. Eppure quelle parole dettate da un innocente esercizio d’ironia non si sarebbero rivelate del tutto fuori luogo. Una certa brama di rivoltare il mondo, un certo titanismo di derivazione romantica, quel giovane studente li avrebbe mantenuti anche negli anni a venire della sua esistenza.
Del resto, intere generazioni di lettori e studiosi marxisti hanno ritenuto di dover distinguere tra un Marx scienziato e un Marx politico: l’uno, autore di sobrie analisi economiche, meticoloso fino all’eccesso, ossessivo nella raccolta di fonti e documenti; l’altro, impetuoso e impaziente di passare ai fatti, frettoloso di vedere nella propria epoca i segni premonitori della nuova società post-borghese al punto da scorgere in ogni insurrezione l’inizio della rivoluzione proletaria. Il più delle volte, questa distinzione ha avuto la funzione di far giocare un Marx contro l’altro, con l’implicito presupposto che un pensiero possa farsi scienza solo a condizione di tener lontana ogni commistione con la politica. Non è il caso, questo, della nuova biografia su Marx – era da tanto che non se ne vedevano qui in Italia a differenza che in altri paesi – appena uscita in libreria a firma di Nicolao Merker, Karl Marx. Vita e opere (edizioni Laterza, pp. 268, euro 18). Di primo acchito si potrebbe restare sorpresi che a distanza di quasi centotrenta anni dalla morte (avvenuta l’11 gennaio 1883) ci sia ancora di che scrivere sulla vita di Marx. Dalla fine dell’Ottocento in poi il suo nome è circolato nei movimenti operai di ogni paese del mondo. Sindacati, partiti, interi Stati si sono appropriati a torto o a ragione di Marx, cercando nel suo pensiero una fonte di legittimazione. Una quantità indescrivibile di pubblicazioni si è accumulata nel tempo, gran parte delle quali però dedicate alla dottrina. «Molto minore fortuna – scrive Merker – ha avuto l’interesse per l’uomo. Le buone biografie di Karl si sono sempre contate sulle punte delle dita», mentre «i “teorici del marxismo” (o chi presumeva si esserlo, o comunque si occupava del Marx della “teoria”) erano moltitudine». Marx, questo sconosciuto, poteva dire lo storico Maximilien Rubel, quando ben altra era la circolazione del suo nome, a maggior ragione lo si può dire all’inizio del XXI secolo. «Oggi spesso, riguardo alle cose attendibili su di lui, Marx sembra diventato un parente dell’uomo di Neanderthal». Non che manchino lavori attendibili, Merker ne cita alcuni: ad esempio il Karl Marx. Storia della sua vita del 1918, a firma del socialdemocratico Franz Mehring, il primo ad essere «sganciato da limiti tattici di partito» e ad aver consultato documenti inediti, soprattutto il carteggio con Engels, seguito da Blumenberg, Nikolajevsky e Maenchen-Helfen, Rubel, Friedenthal, fino a Berlin e McLellan, tutti ormai diventati a modo loro dei “classici”.
Una biografia non è solo una collezione di fatti privati o una ricerca di aneddoti che ancora attendono d’essere raccontati da qualcuno. Né, peggio ancora, una “psicografia”, un viaggio senza capo né coda, senza metodo, nella psicologia e nel carattere dell’uomo Marx. Non è tutto il privato di Marx che conta, ma quelle vicende che nella sua biografia e nei suoi scritti spiccano come segni evidenziali. Che Marx abbia fatto un figlio con la domestica di casa o che sia stato eterno debitore di denaro all’amico Engels sono tratti casuali. Altri eventi della sua vita, invece, testimoniano di come le teorie marxiane nascano e si sviluppino come risposta originale alle grandi sollecitazioni culturali della sua epoca.
Fin dalle avventure giovanili all’università – prima a Bonn, poi a Berlino dove finirà a studiare filosofia contro la volontà paterna di fame un laureato in giurisprudenza – per proseguire nelle prime esperienze di giornalista politico alla Gazzetta Renana, sotto il segno di un democraticismo radicale, Merker restituisce l’immagine di un Marx assillato dall’idea di fare della filosofia una scienza rigorosa dei fatti, al punto da scrivere: «Desideriamo costruire esclusivamente su dati di fatto e ci sforziamo, per quanto è in noi, di sollevare solo i fatti a una significazione generale». Anche la resa dei conti con Hegel, della cui filosofia Marx è negli anni universitari un seguace, avviene in nome della ricerca di una scienza dei fatti che non andasse a discapito dei fatti medesimi. Di una scienza capace di leggere i fatti non attraverso interpretazioni costruite indipendentemente dai dati e, successivamente, a questi sovrapposte. «Marx rintracciò i difetti di Hegel partendo dal modo in cui il filosofo aveva mediato i fatti, ossia il molteplice concreto. Dall’incapacità hegeliana e idealistica in genere di spiegare i fatti, Marx concluse che le deduzioni speculative, mancano di funzionalità conoscitiva». La filosofia hegeliana aveva trattato l’uomo reale, i fenomeni della vita reale, la società e lo Stato come estrinsecazioni dell’Idea, come tappe di una narrazione logica: a prezzo, però, di dover “riempire” l’Idea, forma vuota, «con contenuti empirici senza però filtrarli attraverso un’adeguata analisi critica». Anche il Marx talvolta più attaccato dai suoi critici, quello autore nel 1846 – assieme a Engels – dell’Ideologia tedesca, un manoscritto che uscì in edizione postuma solo nel 1932, è a giudizio di Merker un Marx impegnato in una lotta senza quartiere contro le distorsioni ideologiche della realtà. Dove altri interpreti marxisti hanno visto all’opera un materialismo esasperato, un’esaltazione dell’homo faber e dell’attività materiale a discapito della teoria – liquidata a semplice riflesso capovolto della realtà – Merker descrive Marx ed Engels come due autori tutt’altro che inconsapevoli dell’importanza delle ideologie nella storia, tutt’altro che ignari della «complessità delle griglie attraverso cui la realtà giunge alla coscienza». C’è da tener presente che la ricerca di una conoscenza scientifica della realtà va di pari passo con la polemica contro quelle che a Marx ed Engels, nel panorama dei giovani hegeliani di sinistra appaiono fantasie individuali, fughe nell’individualismo anarchico se non recrudescenze irrazionalistiche. Del resto, il materialismo cui i due approdano, è ormai un congegno più raffinato di quel che si pensi. «La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva – scrive Marx nelle Tesi su Feuerbach – non è questione teoretica bensì una questione pratica», essendo nella prassi che «l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere del suo pensiero».
Non distorcere la realtà, non anteporre i propri desideri allo studio scientifico dei fatti, non limitarsi a denunce moralistiche diventa il leit motiv nella polemica di Marx contro i socialisti utopisti conosciuti nell’esilio in Francia, primo fra tutti Proudhon. Nonostante il fallimento delle rivoluzioni democratiche del 1848, nonostante i patimenti e la miseria che l’esule Marx conosce negli oltre due decenni di soggiorno a Londra, questo richiamo a una conoscenza scientifica e a un metodo rigoroso non verrà mai meno. È però, questo, il nodo sul quale si è innestata la leggenda di un Marx affetto da economicismo, che si concentra nello studio dell’economia capitalistica, disinteressandosi del tutto della politica e di ciò che accade al di fuori della fabbrica. Emerge, invece, un autore consapevole della differenza tra il momento puramente economico, di quando, ad esempio, si cerca di «costringere i singoli capitalisti in singole fabbriche o anche in singole officine tramite scioperi ecc. a concedere una diminuzione dell’orario di lavoro», e il movimento politico «per la conquista di una legge per le otto ore». Anche se più rarefatto rispetto allo “scienziato”, il Marx politico emerge in momenti cruciali, per esempio quando sotto la pressione degli eventi si accinge a riconoscere nella Comune di Parigi del 1871, nata da un’insurrezione, il primo esempio di governo della classe operaia. Così come non mancano gli accenni a una teoria dello Stato, per quanto frammentata in scritti di varia natura. Però è proprio nelle riflessioni politiche che emerge un dissidio interiore di Marx, per un verso incline da scienziato a parlare di strutture e tempi lunghi, per nulla disposto a lanciarsi da futurologo in ricette per la società futura; e dall’altra però disposto in certi passaggi epocali a scommettere sull’accelerazione della storia, come se la rivoluzione proletaria fosse dietro l’angolo, anche quando, come nel caso dei comunardi parigini, mancava del tutto una classe operaia capace di agire su scala nazionale. «In Marx l’utopia, in realtà, non stava in primo piano. Negli accenti utopici, quando c’erano, si esprimeva il desiderio che le teorie dell’emancipazione si avverassero in un futuro ancora visibile; e venivano quasi regolarmente bloccati non appena subentravano la analisi scientifiche».
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venerdì 6 agosto 2010

Carlo Lucarelli: La verità su Ventura


La verità su Ventura


Lasciamo stare i morti, ma qu
alche puntualizzazione forse va fatta comunque. Quasi tutti i giornali - compreso questo - nel dare la notizia della morte di Giovanni Ventura, uno dei protagonisti di alcuni dei cosiddetti “misteri italiani” a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, hanno riassunto la vicenda più o meno con le stesse parole: venne condannato e poi assolto per la strage di piazza Fontana a Milano e ritenuto responsabile per una serie di attentati. Negli articoli, poi, seguivano notizie più complete, ma sotto il titolo, più o meno, ho quasi sempre letto questo.
Assolto.
Ecco, non è che non sia vero, e non voglio neanche fare il maestrino pedante, ma c’è qualcosa di più. Giovanni Ventura è stato sì definitivamente assolto, nel 1987, assieme a Franco Freda, per la strage di Piazza Fontana. Ma la sentenza che ha chiuso più avanti, nel 2005, un altro filone del processo ha riconosciuto come sufficentemente provate le loro responsabilità nella strage. Solo che, essendo già stati assolti nell’altro processo non possono più essere processati per quel reato. Dire che Giovanni Ventura è stato assolto è un po’ come dire che è stato assolto Andreotti: è vero ma le cose sono un po’ più complesse. E infamanti.
Questo, ripeto, non per pedanteria o per particolare odio verso il fu signor Ventura, ma per ribattere che nei processi ai fattacci del nostro recente passato ci sono un sacco di fatti accertati, di dinamiche acclarate e di meccanismi rivelati che vanno oltre il semplice dispositivo della sentenza: assolto o condannato.
C’è un sacco di verità, in quei processi. Sintetizzarla nel breve spazio del riassunto sotto un titolo non è facile, è vero, ma non per questo possiamo trascurarla.


Carlo Lucarelli, l'Unità, 6 agosto 2010
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vedi anche:
il manifesto, Militant , Staffetta I e II

domenica 1 agosto 2010

Franco Bergoglio: jazz-filosofia [su "L'identità incompiuta"]


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Davide Sparti
L'identità incompiuta.
Paradossi dell'improvvisazione musicale
Il Mulino, 2010



Proseguendo un lavoro iniziato qualche anno addietro con Suoni inauditi L'improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana (2005) Davide Sparti, professore associato nella Facoltà di Lettere e filosofia dell'Università di Siena, torna a occuparsi di jazz coniugando i termini di questo affascinante mondo con le scienze sociali e la filosofia. Sparti aveva già affrontato alcuni nodi legati alla pratica dell'improvvisazione nel libro sopra citato e nel successivo Il corpo sonoro. Oralità e scrittura nel jazz (2007). Ora la cartina tornasole utilizzata per studiare l'improvvisazione è quella, fortemente innovativa in ambito jazz, dell'identità.
Spunto iniziale di questa analisi un paradosso sapientemente illustrato dallo scrittore Ralph Ellison, ripreso più volte nel corso del saggio: "Esiste (…) una contraddizione crudele implicita nella stessa forma artistica (il jazz): il jazzista deve perdere la sua identità anche mentre la trova". Il jazzista che improvvisa corre ben due rischi, ci avverte Sparti: in primo luogo quello di fallire, di non trovare l'originalità, ma esiste anche il pericolo di smarrirsi nel tentativo di esplorare territori incontaminati e di non trovare il filo conduttore per tornare a casa dopo il solo.
Sono considerazioni iniziali di un testo tutto da scoprire che sviscera questi "paradossi" dell'improvvisazione. Operazione non banale, poiché come ci segnala l'autore: "Chi pratica l'improvvisazione non ha necessariamente bisogno di elaborare un concetto di improvvisazione (perché dovrebbe, dato che tale impresa concettuale non garantisce un guadagno estetico?)". Se i musicisti possono permettersi una prassi senza una teoria (che non sia quella musicale in senso stretto, ovviamente) è altrettanto evidente che un discorso su questo tema presenta aspetti tanto fertili da interessare finalmente anche i filosofi, i sociologi, i semiologi e tutti coloro che a vario titolo si sentono attrezzati con i mezzi adatti a coniugare queste discipline al jazz.
Dopo questo denso preambolo il lavoro si dipana lungo i binari di una speculazione scientifica sul tema del identità personale condotto adottando riferimenti alti (Arendt, Pizzorno, Goffman) e facendoli interagire con esempi, prassi, affermazioni tratte dal mondo del jazz. Proprio da questo primo capitolo è tratta una deliziosa testimonianza di Miles Davis, quasi una programmatica dichiarazione d'intenti artistica: "Talvolta devi suonare a lungo prima di riuscire a suonare come te stesso".
Nel saggio sono tante le citazioni di jazzisti quali Joe Henderson, Max Roach, Charles Mingus e di molti altri, scelte con cura a illustrare - con esempi presi, per così dire, sul campo - quanto siano complessi i discorsi che si possono costruire attorno all'improvvisazione e le riflessioni che ne scaturiscono. Questo perché nell'improvvisazione si possono leggere spinte all'eccesso le tensioni che l'artista deve affrontare, stretto fra la spinta a trasformarsi per essere originale e la necessità di definirsi per essere riconoscibile al pubblico e forse anche a se stesso. Le figure che secondo l'autore meglio si prestano a suffragare questa analisi sono due: quella di John Coltrane, che riceve una attenzione particolare e la Arkestra di Sun Ra, paradigma dei problemi dell'identità relativi a un collettivo musicale (e insieme esistenziale) rimasto insieme per decenni sotto la guida di un leader carismatico.
Con il terzo capitolo, dedicato all'improvvisazione e al versante filosofico del tema che riguarda l'identità, il libro tocca davvero questioni nuove. I contributi intellettuali di Michel Foucault e Hannah Arendt sull'agire umano vengono messi in relazione all'improvvisazione jazzistica.
Particolarmente interessante è l'uso di Foucault. Un autore, come ha scritto Rudy M. Leonelli presentando gli atti di un convegno dedicato al rapporto Foucault-Marx, passato dall'ostracismo durato fino agli anni Ottanta all'odierna assimilazione culturale "senza traumi". Eppure, continua Leonelli, il tratto che possiamo individuare come distintivo della sua opera si situa nella sospensione, la rottura delle nostre evidenze, il turbamento e la trasformazione simultanea del modo in cui ci rapportiamo al "nostro" passato e a questo presente [1].
Uno dei concetti di Foucault che caratterizzano questa rottura delle evidenze di cui parla Leonelli viene utilizzata da Sparti per interpretare alcuni degli aspetti meno indagati del campo dell'improvvisazione e che pure ne costituiscono una specificità. Quale rapporto si viene a creare tra l'improvvisatore che durante il solo si mette in gioco, spesso in profondità, e la sua identità? Il sé per Foucault non rappresenterebbe un nucleo sepolto da liberare ma un materiale da trasformare con la pratica.
L'altro concetto, collegato, prende in considerazioni quelle procedure attività che l'uomo compie su stesso, sul proprio modo d'essere sulla propria condotta per migliorarsi, per raggiungere un certo stato di purezza, saggezza o felicità (tecnologie del sé). Molto opportunamente a questo proposito Sparti cita a più riprese l'esempio e le parole di Sonnny Rollins, maestro riconosciuto dell'improvvisazione. Nel corso di una performance prima fai le cose previste poi te ne dimentichi. Così per Sonny Rollins, con una affermazione che per Sparti riecheggia tesi riconducibili a Nietzsche e riportano, in ambito squisitamente jazzistico, all'iniziale affermazione di Ralph Ellison.
La collezione di tecniche adottate dagli improvvisatori per forzarsi all'originalità durante la loro attività quotidiana viene rappresentata da un congruo numero di citazioni che costituiscono un compendio di saggezza zen-jazz. Mi sono tolto di mezzo, dice Jim Hall, come ad intendere di fare un passo indietro e osservare l'assolo che si svolge quasi da sé. Altri musicisti teorizzano l'uso di strumenti diversi da quelli usuali per poter esprimere una voce diversa e non ristagnare nella memoria anche fisica e gestuale che si attiva quando si imbraccia il proprio. Il caso emblematico è OrnetteColeman che posa il sax per imbracciare la tromba (e il violino, aggiungo io) per ottenere effetti stranianti, ma anche innovativi e diversi da quelli considerati "normali". Forse la miglior formulazione teorica di questa disposizione d'animo verso l'improvvisazione l'ha pero concisamente fornita Sun Ra: suona le cose che non sai!
Sviscerati questi aspetti dell'estetica jazz in rapporto all'improvvisazione all'identità del musicista come singolo, il libro vira nuovamente verso gli aspetti sociali. La conclusione mette quindi in luce come la faticosa pratica dell'improvvisazione nel jazz sia un fenomenale dispositivo identitario, almeno per la comunità afroamericana. L'improvvisazione è, appunto, la ripetizione simbolica di un atto fondatore di una comunità che non rimanda ad un'origine ma è segnata dalla perdita comune, di cui si fa esperienza e che ritorna in forma esteticamente sublimata. Collegandosi in una visione quasi psicanalitica alla vicenda della diaspora degli schiavi neri, trascinati a forza dalle coste dell'Africa al nuovo mondo, sfruttando la potenzialità delle recenti teorie sull'importanza di un "Atlantico Nero", triplice luogo geografico, storico e simbolico, Sparti ci fornisce una chiave filosofica originale nel leggere questa musica. Verrebbe da dire, sfruttando titolo e leit-motifs del saggio, che nel jazz l'improvvisazione rappresenta questa identità perduta; identità che, proprio nella sua genetica incompiutezza, alla fine riesce a ritrovarsi.


Franco Bergoglio per Jazzitalia
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NOTE:
[1] Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, a cura di Rudy M. Leonelli, Roma, Bulzoni editore, 2010, p. 9. Di questa recente pubblicazione segnalo, tra gli interventi, oltre alla premessa citata e al saggio di Leonelli, una bella intervista al filosofo Étienne Balibar.
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